Aldo G - Storia In Rete

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Processo a Badoglio - Le ragioni dell’accusa
E’ da condannare:
fu cinico e incapace
Pietro Badoglio: su un uomo solo gravano la responsabilità dei due maggiori disastri italiani del XX
secolo: la rotta di Caporetto nel 1917 e il pasticciato armistizio dell’8 settembre 1943. Non
processato in vita, ora il maresciallo d’Italia è stato sottoposto ad un giudizio storico lo scorso 10
agosto a San Mauro Pascoli. Accusa e difesa sono state affidate a due firme del nostro giornale.
Aldo Ricci e Aldo Mola. Ecco, per prime, le ragioni dell’accusa…
di Aldo G. Ricci
Compito di questo articolo è formulare l’accusa, sul piano storico, nei confronti di Pietro Badoglio
(1871–1956), maresciallo d’Italia, senatore del regno, capo del governo che sostituì Mussolini e
firmò la resa agli alleati, facendo però vivere all’Italia la tragedia dell’8 settembre, qualcosa che
ancora oggi, ripensandola ha dell’incredibile. Il caso Badoglio è semplice: è l’uomo sbagliato al
posto sbagliato nel momento sbagliato. Non sempre, ma almeno in due casi decisivi per la sorte del
nostro Paese: la notte di Caporetto e i 45 giorni successivi al 25 luglio, che portano dritti all’8
settembre. In particolare in due notti consecutive Badoglio si dimostrò tragicamente inadeguato: la
notte tra il 7 e l’8 settembre ‘43, quando, come si vedrà si raggiunse la farsa, e a quella tra l’8 e il 9
sempre del settembre 1943, quando il trasferimento del governo al Sud assunse i caratteri di un ‘si
salvi chi può’. In entrambi i casi, come è stato scritto, Badoglio andò a dormire. E quando si
svegliò, all’alba del 9 settembre, fu solo per andarsene, lasciando mezzo governo all’oscuro e le
forze armate senza ordini. E questo per un uomo che aveva responsabilità da cui dipendevano le
vite di decine o centinaia di migliaia di uomini, oltre che dell’intero paese, è una colpa gravissima.
Badoglio si è dimostrato uomo adatto ad affrontare situazioni normali, quando aveva tempo e
mezzi a disposizione e poteva fare sfoggio della sua precisione burocratica. Ma nelle circostanze
eccezionali ha fallito, cercando sempre di addossare ad altri le sue responsabilità. Inoltre si è
dimostrato più volte un opportunista, pronto a voltare le spalle a chi si era impegnato per lui. Fu
così nella Prima guerra mondiale con il generale Luigi Capello, al quale doveva la sua carriera
fulminea e al quale voltò le spalle dopo Caporetto, nonostante le proprie pesanti responsabilità. Una
commissione parlamentare dimostrò, dopo la guerra, che le artiglierie, sotto il comando di
Badoglio, non avevano effettuato il dovuto tiro di sbarramento nella notte del 24 ottobre 1917,
facilitando così l’avanzata del nemico e l’accerchiamento delle truppe italiane. Inoltre le artiglierie
non vennero spostate in posizione idonea. Nella notte decisiva il generale dormiva e raggiunse la
posizione che gli spettava solo a disastro consumato. Lo stesso opportunismo Badoglio lo dimostrò
nei confronti del Fascismo. Dopo una iniziale opposizione, perché lo riteneva destinato alla
sconfitta, si accostò al Fascismo nel momento in cui era ormai chiaro il cammino verso la dittatura.
Infatti, proprio dopo il delitto Matteotti, nel giugno 1924, inviò un telegramma di solidarietà a
Mussolini. Di lì cominciò la sua carriera in Africa, prima in Cirenaica, poi in Etiopia.
Ma è alla vigilia della Seconda guerra mondiale che il suo opportunismo torna a colpire. Nonostante
conoscesse l’impreparazione dell’Esercito – anche per l’accentramento di cariche strategiche nelle
sue mani – da Capo di Stato Maggiore generale delle Forze Armate, nel consiglio di guerra del 29
maggio 1940, non sollevò alcuna obiezione. Allo stesso modo non si oppose alla disastrosa
campagna di Grecia, salvo dimettersi quando vide che le cose andavano male (dicembre 1940).
Visse in riserva i mesi successivi fino all’appuntamento del 25 luglio 1943, quando fu chiamato dal
re (e mai decisione fu più infausta) a presiedere il governo dopo la caduta di Mussolini. Era
l’appuntamento più difficile ed egli si dimostrò completamente inadeguato sul piano strategico. La
formula “la guerra continua”, suggerita da Vittorio Emanuele Orlando (che dopo la guerra cercò di
scusarsi dicendo che essa sottintendeva un’altra strategia) e fatta propria da Badoglio, era la più
ambigua possibile sia verso i tedeschi che verso gli alleati. Il rifiuto di avere contatti con gli
antifascisti portò a una repressione violenta delle manifestazioni con molti morti. I tedeschi
poterono far affluire senza difficoltà truppe in Italia, mentre, dopo la caduta di Mussolini, avevano
pensato di fissare la linea difensiva al Brennero, ritenendo l’Italia indifendibile. I contatti con gli
Alleati furono tardivi e ambigui, privi di qualunque strategia globale. Il governo diede per scontato
un loro sbarco a nord di Roma che nessuno però aveva promesso. Si tenne una linea incerta fino
all’ultimo: secondo i patetici machiavellismi dei pochi consiglieri con cui Badoglio parlava, si
sperava di poter annunciare l’armistizio all’ultimo, se gli Alleati fossero sbarcati in forze, o di
sconfessarlo in caso contrario, come si vedrà più avanti nel famoso consiglio della Corona dell’8
settembre. Anche dopo la firma del cosiddetto armistizio breve, a Cassibile, da parte del generale
Castellano, il 3 settembre, quello che sconcerta è l’assoluta impreparazione in cui fu lasciato
l’Esercito per non insospettire i tedeschi, che invece ne sapevano molto di più. I maggiori
responsabili delle Forze Armate, Vittorio Ambrosio e Mario Roatta, si adeguarono passivamente e
con compiacenza a questa commedia. Il culmine si raggiunse nella notte tra il 7 e l’8 settembre,
quando due alti ufficiali americani, venuti a Roma clandestinamente per organizzare lo sbarco di
una divisione aviotrasportata, si trovarono di fronte un Badoglio in vestaglia che dichiarò necessario
annullare l’operazione perché non aveva il controllo dell’aeroporto promesso. Allo stesso modo
svanì la difesa di Roma, dove gli italiani erano in un rapporto di 3 a 1 rispetto ai tedeschi, i quali
avevano già avviato le operazioni per evacuare la città, ma cambiarono idea di fronte al
rovesciamento della situazione: allontanamento del governo e paralisi o addirittura ripiegamento
delle unità italiane (quest’ultimo per ragioni mai spiegate fino in fondo).
Un altro equivoco su cui giocò Badoglio, basando la sua impossibile difesa, ma smascherato dai
documenti, è la data in cui avrebbe dovuto essere annunciato l’armistizio dagli Alleati, che egli
dichiarò non dovesse essere prima del 12. In realtà il governo sapeva perfettamente che l’8 era la
data più probabile, se non addirittura certa. Una prova certa si trova nelle carte della Presidenza del
consiglio. C’è un documento, infatti, preparato in anticipo, come si usa, con l’ordine del giorno di
una riunione del governo prevista per il 9 mattina. Il testo si apre con l’annuncio che avrebbe fatto
Badoglio in quella riunione della situazione che si era creata in seguito all’armistizio firmato. Parole
testuali che chiudono almeno il capitolo della data prevista e della accuse agli Alleati di averla
anticipata. Invece l’8 ci fu una riunione del cosiddetto Consiglio della Corona, in cui si discusse
l’opportunità di sconfessare addirittura l’armistizio, e solo dopo molte resistenze, per l’insistenza
del maggiore Marchesi (già presente a Cassibile) prevalse la decisione di riconoscerlo, inviando
Badoglio a darne l’annuncio alla radio. Anche in quel caso si giocò sull’ambiguità, dicendo che le
truppe italiane avrebbero reagito a qualunque gesto ostile, scegliendo quindi una strategia passiva e
non una linea decisa, che avrebbe consentito in molti casi di prendere l’iniziativa. Si sperava ancora
che i tedeschi si ritirassero senza danni. Si arriva così alla notte tra l’8 e il 9 settembre, quando
Badoglio, la famiglia reale e i soli ministri militari lasciarono Roma per Brindisi, lasciandosi alle
spalle tre quarti del governo ignaro e tutto l’apparato militare e amministrativo nella capitale, nel
paese e nei territori di guerra senza ordini. Il rimpallo di responsabilità tra Badoglio, Roatta e
Ambrosio per non aver emanato se non ai comandi d’Armata la famosa “Memoria op 44” che
avrebbe messo le singole unità e reparti dell’Esercito in condizioni di reagire e prendere l’iniziativa,
portò alla dissoluzione di gran parte delle Forze Armate, nonostante i molti spontanei episodi di
eroica resistenza. Anche dove erano in grande superiorità gli italiani furono schiacciati dalla
decisione e dalla chiarezza strategica dei tedeschi. L’espressione “tutti a casa”, tristemente famosa,
fotografa la situazione di una Nazione abbandonata a se stessa.
In discussione non è il problema della necessità di salvare il governo e la Corona. E’ l’ambiguità di
condotta dei 45 giorni; è la presunta furbizia che non vale nelle grandi crisi; è la criminale
superficialità di abbandonare al proprio destino centinaia di migliaia di militari senza dare neppure
la possibilità di difendere il proprio onore e la propria vita. Senza sapere quello che accade intorno e
senza dire quello che il paese vuole sia detto. E’ così che muore la Patria . E’ così che qualcuno
dovrà poi porsi il problema di ridarle vita. Ma non è finita. Il dissolvimento quasi totale delle Forze
Armate, la loro mancata reazione, salvo eccezioni, convinse gli Alleati della scarsa utilità del
cambiamento di fronte italiano e li indusse poi a fare un uso limitato delle unità che si ricostituirono
al sud, servendosene per lo più come ausiliari, ancorché con egregi risultati. Dove furono impiegati
(Monte Lungo, Monte Marrone) si comportarono con eroismo, ma questo fu un loro merito, non
certo del governo. Va anche ricordata la firma del cosiddetto “lungo armistizio”, che Badoglio siglò
personalmente su una nave alleata il 29 settembre alla presenza di Eisenhower. I 21 punti, durissimi,
del testo, che toglievano all’Italia qualunque sovranità a tempo illimitato erano la massima
punizione e vergogna per il Paese, tanto è vero che i capi alleati pensavano che non sarebbero stati
accettati, come rivelano i documenti del tempo. Ma poi arrivò una informativa di Mac Millan
secondo cui Badoglio avrebbe firmato senza fare storie e allora si decise di andare avanti e l’Italia,
per mano di Badoglio, firmò condizioni così vergognose che dovettero essere tenute nascoste
all’opinione pubblica italiana fino al dopoguerra.
Trasferito il governo da Brindisi a Salerno, gli Alleati tornarono alla carica per ottenere le
dimissioni di Vittorio Emanuele III, già chieste in precedenza. Poi si accontentarono della
luogotenenza al principe ereditario Umberto di Savoia e la imposero a Ravello con modi
militareschi, per mano del generale Mac Farlane. Senza entrare nel merito delle responsabilità di
Vittorio Emanuele III, va detto che in quell’occasione Badoglio, che gli doveva molto, lo lasciò in
pasto agli Alleati senza tentare la minima difesa di quello che era comunque il Capo dello Stato. Ma
ormai il suo tempo era finito e dopo la liberazione di Roma si pensò anche alla possibilità di
sottoporlo all’Alto Commissariato per le sanzioni contro il Fascismo per le sue infinite
responsabilità durante il Regime. Ma le ragioni della politica suggerirono di soprassedere, perché
era comunque il firmatario degli accordi con gli Alleati. Quelle ragioni, però, sono ormai venute
meno e la Storia può pronunciare il suo verdetto di colpevolezza verso un personaggio che fu al
centro, con responsabilità dirette e di vertice, del più grande e vergognoso disastro della storia
dell’Italia unita. L’8 settembre non ha precedenti nella storia nazionale e anche nella storia degli
altri paesi non si trovano casi paragonabili. Per Badoglio non può esservi quindi che una condanna
storica senza attenuanti.
Aldo G. Ricci
Processo a Badoglio - Le ragioni della difesa
E’ da assolvere: portò
l’Italia dalla parte giusta
Nell’estate 1943 Badoglio fece un lavoro sporco ma necessario. L’Italia era stretta in una
morsa terribile e per tirarla fuori dai guai bisognava badare al sodo, a qualunque costo.
Mettendo in conto, comunque, lutti, umiliazioni e perdite d’ogni genere. E anche molta
irriconoscenza. Ecco le ragioni della difesa appassionata di un uomo difficile da difendere.
Anche se spesso, come a Caporetto, si trovò circondato da persone non migliori di lui…
di Aldo A. Mola
Lo storico non ha né ideologie, né nutre sentimenti. Non cerca la verità. Per invitare a esprimere un
giudizio storico su Pietro Badoglio, mi attengo ai fatti. Dal settembre 1943, cioè da 66 anni, l’Italia
è “iscritta” tra i Paesi democratici. Tra il 1943 e il 1945 è stata teatro di tre guerre (tra angloamericani e tedeschi; tra Alleati e Repubblica Sociale Italiana; tra le istituzioni – sia del Regno
d’Italia sia della Repubblica Sociale – e chi ne voleva l’azzeramento e il sovvertimento totale della
società con l’aiuto dell’Armata Rossa). Da quel biennio tragico l’Italia è uscita con l’avvio e
l’affermazione del metodo democratico. L’avvento della democrazia odierna – sempre meglio di un
regime malgrado tutti i suoi difetti – è dovuto alla scelta di Vittorio Emanuele III di revocare
l’incarico di governo a Benito Mussolini ed all’azione del nuovo presidente del consiglio, Pietro
Badoglio.
Dalla primavera 1943 fu chiaro che per l’Italia la guerra era perduta. Il difficile era uscirne, perché
nella Conferenza di Casablanca, su richiesta di Stalin, gli Alleati (USA, Regno Unito e URSS)
decisero che il nemico doveva arrendersi “senza condizioni”: niente armistizi, né trattative. Resa
totale quindi. Accettare o farsi annientare, come accadde alla Germania e al Giappone convinto ad
arrendersi con due bombe atomiche. Dal 1942 il ministero degli Esteri britannico aveva messo a
punto il progetto di spartizione dell’Italia tra Francia, Jugoslavia, Grecia e Inghilterra con Roma
“libera” sotto una sorta di presidenza del papa. Come accadde per la Germania, la cui divisione è
durata mezzo secolo e comportò cinquant’anni di dominio dell’Unione Sovietica sulla Germania
“democratica”, come sull’intera Europa Orientale, cioè sugli Stati che direttamente o indirettamente
Mosca considerava terra di conquista. A Casablanca, Stalin informò gli anglo-americani che a
guerra finita avrebbe deportato quattro milioni di tedeschi nell’URSS come manodopera servile per
riparare le rovine della guerra e avrebbe ammazzato 50 mila ufficiali e dirigenti germanici. Le
Fosse di Katyn dicono che manteneva la parola, come del resto aveva fatto con i leninisti, i trozkisti,
il maresciallo Tucacevskij e altri ostacoli incontrati per via. Dopo l’invasione della Sicilia (luglio
1943), l’obiettivo dell’Italia, inerme sotto i bombardamenti anglo-americani, non fu dunque la resa,
ma ottenere di potersi arrendere. Non fu di inginocchiarsi ma di ottenere di essere giudicata
abbastanza prona. E’ quanto accade quando si perde una guerra. Chi non lo ricorda si legga la sorte
di Perseo, Giugurta, Vercigentorige e mille altri re e popoli. L’alternativa alla contrizione totale
(comprensiva di consegna dei gerarchi ai vincitori per un processo e una punizione esemplari,
come poi accadde a Norimberga e in Giappone) era l’annientamento.
Pietro Badoglio venne nominato successore del “Cavalier Mussolini” con tre compiti: voltare
pagina col regime personale del Duce (la “dittatura fascista”, cioè un regime condiviso da decine di
milioni di italiani), garantire l’ordine pubblico, ottenere che le fosse concessa la resa. Per un Paese
in divisa dal 1915, per un Paese in guerra da tre anni, per un Paese che lo sarebbe stato ancora a
lungo (“la guerra continua”) occorreva un militare. Pietro Badoglio, duca di Addis Abeba, vicerè
d’Etiopia, Comandante Supremo, il Maresciallo che aveva fatto sapere agli inglesi di non ritenersi
più vincolato a Casa Savoia, era l’uomo giusto al posto giusto, sia dal punto di vista del re, che
sapeva tutto, sia da quello degli anglo-americani, sia da parte della miriade di fascisti che dovevano
dimenticare e far dimenticare alla svelta il proprio passato. Washington irrideva Vittorio Emanuele
III. Churchill, già ammiratore di Mussolini, dichiarò che agl’inglesi non importava che nel crollo
del regime mussoliniano l’intera società italiana si sfasciasse. Il loro obiettivo era cancellare per
sempre l’Italia dal novero delle aspiranti grandi potenze (almeno mediterranee ed europee).
Badoglio aveva i titoli e i requisiti personali per affrontare il compito. Quali alternative vi erano?
Non un gerarca. I gerarchi non avevano mai accolto le sollecitazioni ad arginare Mussolini lanciate
dal re sin dal 1938-39. Si decisero a chiedere la restituzione dei poteri statutari al re solo dopo il
bombardamento su Roma. Il maresciallo Caviglia? Che cosa offriva di più e di meglio oltre alla sua
acredine contro Badoglio? Un grado massonico in più? Quale?
Dunque Badoglio fu necessario per un’Italia che dal 26 luglio vide irrompere divisioni germaniche
“in assetto di guerra” per “difenderla” (in realtà ad occuparla) mentre Hitler (ormai è notissimo)
intendeva arrestare la famiglia reale e il nuovo governo. Nel settembre 1943 dovette accontentarsi
di Mafalda di Savoia-Assia, deportata in un campo di concentramento germanico, ove morì [a causa
di un bombardamento alleato NdR]. Per uscirne non vi erano alternative: mano ferma sull’ordine
pubblico (come in tutti i Paesi in guerra: mai avvenuti scioperi manifestazioni antigovernative in
Gran Bretagna o nell’URSS nel 1940-1945), prevenzione contro possibili riscosse fasciste (non si
registrarono proteste a sostegno del ritorno di Mussolini al potere) e serrate trattative segrete con
sfilarsi da quella che Mussolini aveva concepito come guerra lampo, da chiudere in poche settimane
(lo stesso errore del 1915), e come guerra parallela, cioè da condurre se e sino a quando rispondesse
ai veri interessi dell’Italia: niente guerra di Grecia, dunque, né contro l’URSS né, meno ancora, la
dichiarazione di guerra contro gli USA, un ginepraio dal quale bisognava venir fuori.
Badoglio non ereditò trattative in corso. Anzi, sino alla vigilia della revoca da primo ministro
Mussolini aveva incontrato Hitler senza porre la assoluta necessità per l’Italia di uscire da un
conflitto nel quale era entrata senza preparazione bellica adeguata né mezzi idonei allo sforzo
richiesto. Badoglio dovette inventare tutto, con uomini nuovi, non sempre esperti, in un mare di
difficoltà. Doveva vincere la diffidenza del nemico mentre aveva in casa un alleato che sapeva quasi
tutto di quanto stava accadendo e si preparava al voltafaccia. La guerra non era mai stata
“ideologica”; si svolgeva sul filo degli interessi preminenti e permanenti degli Stati e dei loro
popoli. Talvolta viene ricordato che il re e Badoglio assicurarono l’ambasciatore nipponico che
sarebbero rimasti fedeli alle alleanze. Ma forse che il Giappone era in guerra contro l’URSS? I capi
di Stato e di governo hanno il diritto di mentire per salvare il proprio popolo. I generali hanno
diritto di fare quanto necessario per la vittoria. E’ la legge degli Stati e delle guerre. E’ la Storia.
Dunque, Badoglio doveva anzitutto far accettare l’Italia come Paese sconfitto, ma “dalla parte
giusta”, prima che arrivasse il peggio. In soli quaranta giorni (25 luglio-3 settembre) ci riuscì.
Poteva fare di più e di meglio? Forse sì. Però quaranta giorni passano in fretta... Non abbiamo la
controprova. Pensiamo a quanto impiegarono i tedeschi ad arrendersi, anche a Berlino invasa e
Hitler morto. Il re e il suo primo ministro ottennero il risultato fondamentale: scongiurare la
debellatio, la dichiarazione che l’Italia non esisteva più, non aveva più né un sovrano né un governo
e che era solo terra di occupazione, come centinaia di altre volte accadde per Paesi sconfitti. Con la
firma della resa senza condizioni a Cassibile, confermata a Malta, lo Stato fu salvo. La resa impose
condizioni durissime, da addebitare non a Badoglio ma a chi per troppi anni aveva illuso gl’italiani
col mito degli otto milioni di baionette, mettendoli in divisa da figli della lupa in poi, coi gerarchi
costretti a fare il salto nel cerchio di fuoco e baggianate da circo. Roma non poteva affatto essere
difesa se non a prezzo di farne il campo di una battaglia devastante, sicuramente vinta dai
germanici, che, a differenza degli italiani, erano decisi a battersi perché sapevano perché lo
facevano, avevano motivo di farlo. A quel punto Roma sarebbe stata annientata dai bombardamenti,
con tanto di Città del Vaticano. Il cui sovrano, Pio XII, fu tra quanti più fermamente sollecitarono il
governo a spostarsi altrove. Il re e il governo non andarono su una nave “alleata” (territorio
nemico), come proposto dagli anglo-americani, ma in Puglia, libera da tedeschi e da vincitori.
Salvaguardarono la continuità dello Stato.
In quei quaranta giorni, come ricorda Bonomi nel diario, gli autoconvocati capi dei partiti
democratici (peraltro non organizzati affatto) decisero di non collaborare col governo per scaricare
sulla Corona il passivo della guerra. Miravano a far dimenticare le loro responsabilità nella
destabilizzazione politica dell’Italia tra il 1918 e il 1922. Ricordiamo in sintesi: il 31 ottobre 1922
Mussolini formò un governo formato e sorretto da fascisti, nazionalisti, popolari (cioè i cattolici),
liberali, democratici, demosociali e di qualche socialista ammiratore dell’ex compagno di partito
Benito. Nel settembre-ottobre 1922 gli unici ad aver messo a punto un piano per fermare la Marcia
su Roma furono i militari, come ricorda il documentato Emanuele Pugliese in “Io difendo
l’esercito”. L’unico a chiedere la convocazione del Parlamento per riportare la crisi nell’alveo
costituzionale non furono né il socialista Turati, né i comunisti (i quali speravano nel crollo del
Parlamento, istituzione della borghesia) bensì il solo Vittorio Emanuele III. Badoglio non ebbe
alcuna responsabilità nell’avvento di un governo che fu approvato a straripante maggioranza da
Camera e Senato. Nel settembre 1943 il re sapeva. Badoglio sapeva. Conoscevano le facce dei
ministri che vararono defascistizzazione ed epurazione, come Casati che era stato supremo
magistrato in epoca fascista e approntò la legge che prevedeva la pena di morte per i gerarchi, per
chi aveva voluto e fatto proseguire la guerra il 10 giugno 1940 applaudita da milioni e milioni di
cittadini di tutti i ceti. Vittorio Emanuele III e il Maresciallo erano scomodi. Il CLN inizio ottobre
1943 disconobbe il governo. Nel gennaio 1944 il congresso dei radunato a Bari chiese
veementemente l’abdicazione del re. Si sbracciò anche Benedetto Croce che aveva votato a favore
di Mussolini anche dopo l’assassinio di Matteotti, perché all’epoca vedeva bene che non vi erano
alternative. Il 13 ottobre 1943 il governo Badoglio dichiarò guerra alla Germania. Nel marzo 1944
venne riconosciuto dall’URSS. Rientrato in Italia Togliatti annunciò la “svolta partecipazionistica”
che spiazzò il partito d’azione, pronto a collaborare con la Corona. L’8 giugno ai rappresentanti del
comitato di liberazione che al Gran Hotel di Roma gli negarono la conferma a capo del governo
Badoglio ricordò gelido che se non fosse stato per lui essi non sarebbero stati lì seduti. Non si
attendeva gratitudine né altro. Era un militare e, come disse di sé Rodolfo Graziani, che comandò le
Forze Armate della Repubblica Sociale, aveva “servito la Patria”: per di più mettendola al sicuro a
Occidente e avviando il processo di democratizzazione che data dal “governo dei sottosegretari” e
divenne maturo con il suo secondo governo, dall’aprile 1944, comprensivo di tutti i partiti del CLN.
Poco qui importa tornare sulla vicenda di Caporetto (24 ottobre 1917) che registrò una gravissima
ma temporanea crisi di tanta parte dell’apparato militare. Da un mese il comandante della 2a
Armata, Luigi Capello, fingeva di attenersi alle disposizioni di Cadorna e Cadorna fingeva di non
vedere che Capello fingeva. Badoglio s’illuse di annientare gli austro-germanici dopo averli fatti
entrare nella valle di Tolmino. Nessuno capì quanto stava accadendo. Cadorna venne informato
della rotta solo la sera del 24. Capello, malato, era assente, Badoglio fece registrare un vuoto. Non
fu il migliore, ma neppure il peggiore. Poi Badoglio fu con Diaz l’artefice della riscossa, della
vittoria nella battaglia del Solstizio e di quella di Vittorio Veneto. In guerra ci si batte. Si vincono e
si perdono battaglie. Conta la vittoria finale. A volte le guerre durano decenni, L’Italia vinse il 4
novembre 1918. Altrettanto va detto del maggio 1945 quando in Italia le armi tacquero. Badoglio
ebbe anche l’audacia di consigliare a Vittorio Emanuele III di abdicare e di passare la Corona non
al figlio ma al nipote, un bambino di otto anni che sarebbe cresciuto all’ombra di una reggenza
tutelata dagli anglo-americani. Non venne ascoltato. Venne sospettato di non scarsa lealtà. Gli
anglo-americani allora si tennero le mani libere nei confronti della Corona. Il re fu costretto a farsi
da parte, il Luogotenente Umberto venne affossato con l’intervista in cui disse che tanti erano i
responsabili del Fascismo.
Gli italiani rimasero in quarantena ma, ciò che conta, non persero né l’unità almeno del territorio
metropolitano (pur “sforbiciato” a ovest e duramente a est) grazie al re e a Badoglio o, quanto
meno, a ciò che essi rappresentavano. I vincitori erano i primi a ricordare che De Gasperi aveva
votato a favore del governo Mussolini così come tutti sapevano bene i trascorsi di Togliatti e Nenni.
Badoglio nella bufera, dunque. Come l’Italia della prima metà del Novecento. Quando si avranno
più documenti a disposizione si potrà darne un giudizio non definitivo ma più equilibrato. Sin d’ora
però si può dire che non fu il più colpevole dei militari né dei capi di governo. Gli dobbiamo di aver
perso dalla parte meno dolorosa. Il che nella storia è molto. Provare a stare a Praga, Budapest o
Varsavia tra il 1945 e il 1990 per crederci. Un’ultima considerazione s’impone. Badoglio si formò
nell’artiglieria “di terra”, l’arma che educa a dare e ricevere la morte da lontano, organizza e a
impiega la massa di fuoco, a rimanere freddi qualunque cosa accada. Non ha i flutti né i cieli
all’intorno. E’ terragna. Tetra. Risolve. Senza emozioni.
Aldo A. Mola
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