Contro questo stato sociale di lanfranco caminiti Lo stato sociale per come si è configurato in Italia – non solo i debiti pubblici degli Stati sono incomparabili tra loro, ma lo stesso vale per ciascun stato sociale – è stato il modo con cui si è trovato un equilibrio e un compromesso tra istanze sociali fortissime e conflittuali e il tentativo di placarle e tenerle sotto controllo. Questo è accaduto negli anni Sessanta e Settanta. Siamo, tutti, figli di quel benedetto/maledetto ciclo di lotte e di quello scontro. Un enorme flusso di domanda di cose innovative e incentivanti, buone, in cui si annidavano nicchie di parassitismo particolare. Lo “spreco di denaro pubblico”, ovvero la spesa pubblica, è stato il modo specifico della modernizzazione italiana, il modo in cui la civilizzazione ha accompagnato l’industrializzazione. Ma sconfitte le lotte, finito il ciclo del protagonismo di uno dei due attori dello scontro – ovvero il modo di espandere la domanda in termini sociali – la spesa pubblica è diventata il modo con cui la politica ha costruito e gestito il proprio consenso e le proprie clientele. La politica, qualunque politica, ha vissuto e vive di spesa pubblica, di spreco. Non più modernizzazione e incentivazione, ma un enorme flusso di offerta di parassitismo generale, la spesa corrente, in cui si trovano ancora nicchie di cose buone. La crisi della rappresentanza politica, che poi è la crisi “democratica” della rappresentanza politica – e i suoi corollari: la professionalizzazione, l’amministrativizzazione da un lato, e il populismo, l’antipolitica dall’altro –, ha tutta qui, nei modi della spesa pubblica, la sua radice. La crisi sta acuendo questa contraddizione. I tagli centrali si riversano sui trasferimenti ovvero sulla spesa pubblica decentrata combinando disastri. Da governatori regionali, il lombardo Formigoni strepita contro come il toscano Rossi, il napoletano Caldoro come il pugliese Vendola, il sardo Cappellacci come il lucano De Filippo. Nei tagli, cadono i parassitismi e le cose buone [le poche cose buone]. Ma anche un politico attento e trasparente sa che non può controllare tutto, sa che promuovendo le cose buone – per dire, al Nord è successo coi bypass coronarici, al Sud con le protesi – ci sarà sempre in agguato una filiera di parassiti. Gli interventi “mirati” sono chiacchiere da tavolo di ingegneria sociale; quando ti muovi sul territorio devi far camminare flussi, se vuoi costruire consenso e partecipazione: senza piccioli non si canta messa. E qui interviene la magistratura coi suoi scandali. Se la magistratura potesse spulciare tutti gli atti di tutti i flussi finanziari regionali e centrali manderebbe in galera buona parte del paese. Ne metti in galera uno e ne spuntano dieci, ne metti in galera dieci – parlano, i tangentisti, chiamano in correo – e ne spuntano cento. E non è una cosa “dell’alto”, è una cosa pure “del basso”. Aboliamo la maternità, l’indennità di disoccupazione e quant’altro perché ci sono migliaia, centinaia di migliaia, di furbacchioni che ne approfittano? Ma le considerazioni sul “carattere” degli italiani – così facciamo tutti, siamo disonesti nell’anima e nel sangue – sono odiose e sciocche: è un meccanismo che piuttosto è diventato infernale. È vero, anche altrove ci sono scandali ma non nella dimensione italiana, non come “sistema”. Ma altrove nessuno ha avuto il ciclo di lotte degli anni Settanta, non la Germania, non la Francia, non l’Inghilterra, non la Spagna, non la Grecia. È nella “storicità”, nella maniera specifica italiana, che vanno trovate le origini delle cose. Che questo “sistema” sia arrivato al capolinea è evidente a tutti. Se devo dire la verità e per miracolo ne avessi l’opportunità, io per primo taglierei a fondo la spesa pubblica, che è l’albero su cui sta appollaiato il consenso berlusconiano, gli statalisti aennini del pubblico impiego nullafacente e il parassitismo leghista. Il federalismo fiscale padano è, in sostanza, il rovesciamento della Cassa del Mezzogiorno: la «linea della palma», di cui parlava Sciascia, è finalmente arrivata a Sondrio. Ma su quell’albero ci stanno pure appollaiate l’afasia e l’accidia della sinistra. Il piccolo problema che abbiamo è che non c’è un nuovo Piano sociale, e non c’è un soggetto conflittuale portatore di nuovi bisogni, diritti e garanzie in grado di farsi “leva” di un nuovo Piano sociale: la realtà è che si resta fuori dallo stato sociale – assistenza sanitaria, protezione dai rischi del lavoro, pensione – ormai a milioni, tutto il lavoro non contrattualizzato in modo indeterminato e tutti quelli che sono poveri, marginali davvero e che aumentano. La realtà è che noi avremmo bisogno di più stato sociale, non meno; basta paragonarci con altri paesi dell’Europa per vedere come stiamo messi male. Ma da noi stato sociale e spesa pubblica si sono perversamente intrecciati. Gli unici che si fanno sentire – poco – sono i pensionati della Cgil, gli operai iscritti ai sindacati e il pubblico impiego di Cisl e Uil. Categorie, insomma, che difendono una spesa pubblica cui hanno diritto ma che nello stesso tempo alimenta ciò che li massacra. La sinistra quindi o difende dai tagli la spesa pubblica o vagheggia più spesa pubblica, dicendo che bisogna colpire il parassitismo – il che è impossibile in questo stato dei conflitti, in questo assetto delle cose. Ma il punto è: chi dovrebbe finanziare il commendevole aumento della spesa pubblica? La sinistra dice: colpire di più l’evasione. Tremonti sarebbe andato cauto, il che peraltro è vero ma è anche, diciamola tutta, ragionevole. Come si fa a mettere in bilancio una consistente voce “virtuale”? Tanto vale dire subito che quei soldi al dunque non ci saranno in cassa – hai voglia a inventare redditometri –, e che aumenterà la forbice tra Pil e deficit, oppure che stamperemo più moneta col rischio di inflazione, cioè che cadano i valori dei titoli pubblici. Più asili, più scuole, più ticket, più case, fantastico: chi paga? Pantalone? La sinistra più farfallona dice: vabbè, ci sarà più parassitismo però ci sarà più stato sociale. Anzi, controlliamo di più il parassitismo – rafforziamoli, i magistrati, la Guardia di Finanza, gli ispettori – e noi virtuosamente avvantaggeremo gli strati sociali. Non funzionano più così le cose, proprio per niente. La sinistra più accorta dice: più fiscalità, spostiamo il carico su chi ha di più. Ma senza un “patto sociale” cogente, non aumenta così l’evasione, non si portano via dall’Italia più soldi? Mettiamo l’esercito alle frontiere? E poi, diciamola tutta, perché se guadagno di più dovrei pagare di più per mantenere milioni di girapollici? Che facciamo, aspettiamo, fra dieci anni, le prossime liste di evasori dal Lussemburgo, dalla Svizzera, dalle Bermuda o da chissadove, per fargli uno scudo fiscale? Puniamo la rendita, si dice. Certo, ma la rendita non è la manomorta ecclesiale, c’è rendita e rendita. C’è una rendita produttiva, non tutti sono rentier. Il male di tutto sta nella proprietà, si dice. Nientepopodimeno. Meno ipocrisia, è dall’esplodere della domanda sociale che gli operai corrono verso una sola cosa, diventare proprietari. E a questo serviva la spesa pubblica, la crescita di domanda e consumi, a tenerli buoni. I capoccia hanno dato l’esempio. Che facciamo ora, nascondiamo le liste delle dichiarazioni fiscali e catastali “di sinistra” per impedire che diventino articoli di Vittorio Feltri? Lo stato sociale di Bismarck prima e Beveridge poi assisteva dai rischi del lavoro e curava dalla miseria: fece breccia nel cuore di pietra del protestantesimo lavorista per le condizioni inammissibili di povertà e degrado che lo sviluppo industriale comportava. Il sistema keynesiano di «scavare buche e poi riempirle» per dare una qualunque occupazione si è tradotto nel tempo in una nullafacenza assistita. Qui, ora, si tratta di cialtroni pasciuti. Cialtroni pasciuti, peraltro, che non hanno fatto un cazzo durante il ciclo delle lotte – che non è stato rose e fiori, e fischietti e bandierine – e si sono goduti i risultati. Io dico: andiamo oltre la spesa pubblica. È diventata il nostro mostro, il nostro nemico. Il nostro, non del liberismo. Perché alimenta la destra. E la conservazione. Perché non solo è ingiusta ma è contro ogni idea di diritti, perché non solo è illiberale ma è contro ogni idea di libertà. La risposta non sta nel mercato e nella privatizzazione, certo. Chi sostiene questo non ha ragione, ha torto marcio. Per vent’anni hanno avuto mano libera e combinato disastri ovunque. La risposta sta nella costruzione di una domanda sociale “comune” – che è proprio l’opposto di “pubblica” – che possa essere finanziata altrimenti che coi titoli di Stato, un carico fiscale abnorme o l’immissione di massa monetaria. Come? Vorrei ne parlassimo, vorrei parlassimo di questo. A me la traccia sembra quella di andare verso la globalizzazione finanziaria, e non contro. Questo governo ha una paura fottuta: il primo provvedimento dei tagli alla spesa pubblica è stato quello di escluderne i poliziotti. Servono i poliziotti, hai visto mai. Il secondo provvedimento è stato quello di stanziare un fondo speciale per i disoccupati napoletani. Meglio tenerli buoni, hai visto mai bruciassero qualche cassonetto. E poi ritocchi di qua e di là: un pasticciaccio. Ma a quanto pare dai sondaggi, il governo non avrebbe tanto motivo di tenere paura: la maggioranza è disposta ai sacrifici. Anche in Grecia è accaduto, la maggioranza ha sostenuto il piano drastico del governo. Chi ha davvero paura è la maggioranza. Che alternativa c’è al piano di tagli che ormai appaiono irrinunciabili e il minore dei mali? Se le cose stanno così, il conflitto sulla spesa pubblica non porta lontano. Nicotera, 31 maggio 2010