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DOMANDA: perché la Chiesa cattolica sostiene la perpetua verginità di Maria? non è disumano
pretendere che, dopo la nascita di Gesù, Giuseppe e Maria, giovani e innamorati, non potessero avere
rapporti coniugali?
RISPOSTA.
La questione è complessa. E’ noto che la base delle convinzioni e dei dogmi di fede è costituita, nella
Chiesa cattolica, da Bibbia e Tradizione. (cfr. concilio Vatic.II, Costituzione dogmatica “Dei Verbum”)
§§§ LA SCRITTURA §§§
Circa la verginità di Maria dopo il parto, la Scrittura tace: né l’afferma né la nega.
C’è tuttavia, fin dall’antichità cristiana, un’obiezione classica, quella relativa ai “fratelli di Gesù”,
menzionati sia nei vangeli che negli Atti degli Apostoli. La risposta è duplice.
A - L’opinione più diffusa (quella sempre difesa dal Magistero della Chiesa) vede in essi dei parenti di
Gesù in senso largo(ad esempio dei cugini). E’ noto infatti che la parola “fratello”in ebraico e aramaico (e
anche il vocabolo greco che lo traduce nel Nuovo Testamento) non corrisponde al nostro significato, ma
può designare una persona diversa dal “fratello di sangue”: un correligionario, un vicino, un membro
della parentela del clan, un congiunto.
B - Altri (come i dissidenti della cristianità antica e gran parte delle confessioni protestanti) stimano
invece che si tratti di veri e propri fratelli del Signore, figli di Maria.
Vediamo le rispettive motivazioni.
A – Se alcuni autori del N.T. parlano di “fratelli e sorelle” di Gesù, mai però li presentano come
“figli di Maria.” Della Vergine si dice solo che è “madre di Gesù”.
Inoltre è noto che nei testi semitici o di influenza semitica l’accezione dei termini “fratello” e “sorella” è
assai più larga che nelle nostre lingue moderne. Siccome l’ebraico e l’aramaico non hanno un termine
specifico per esprimere l’idea di “cugino-nipote-cognato”, non di rado si ricorreva alla parola “fratello”
(vari esempi sono riportati nel Dizionario di Mariologia, ed.S. Paolo, pag.1305)
B – Se quanto detto sopra circa il significato di fratello vale per la lingua ebraica, non vale per
quella greca, che contempla la parola “anèpsios” = cugino. (cfr. ad esempio Col.4,10: Marco è
cugino di Barnaba). Quindi gli autori del N.T. avrebbero usato lo stesso termine, se i fratelli del
Signore non fossero stati veramente tali.
Ma l’obiezione non è stringente, visto che i Settanta (autori della traduzione greca dell’Antico
Testamento), pur conoscendo entrambe le lingue, hanno sempre tradotto servilmente con “fratello”
l’originale ebraico anche là dove il termine “fratello”indica un rapporto di parentela assai più largo.
Inoltre, per comprovare che i fratelli di Gesù sono figli di Maria, si chiamano in causa due passi
evangelici:
Mt.1,25: (traduz. letterale)“Giuseppe non si accostò a lei, fino a che non diede alla luce il figlio che egli
chiamò Gesù
e Lc.2,7: “Maria diede alla luce il figlio primogenito”.
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Quanto al primo passo, occorre dire che Matteo si interessa principalmente a quanto precede la nascita di
Gesù e alla sua connessione con Isaia 7,14 (“la vergine partorirà un figlio”)e nulla dice riguardo ad
eventuali rapporti coniugali successivi; quindi il passo, per sé, non implica la verginità dopo il parto, ma
neppure la esclude. Questo perché la congiunzione temporale “finchè” in ebraico e in greco non implica
necessariamente un cambiamento di situazione per il tempo successivo.
Veniamo al passo di Luca. Se Gesù era il primogenito di Maria, ragionano alcuni, vuol dire che non era
l’unico figlio. Però dalla letteratura ebraica si conoscono vari esempi in cui un figlio primogenito è anche
unigenito.
§§§ LA TRADIZIONE §§§
Quanto detto finora vale sul piano della Scrittura. Ma – come dice la “Dei Verbum” (documento del
concilio Vaticano II sulla divina rivelazione) al n.7 - “Dio…..ha disposto che quanto egli aveva rivelato
per la salvezza di tutti i popoli venisse trasmesso a tutte le generazioni. Perciò Gesù Cristo ……..diede
l’incarico agli apostoli che il vangelo……. fosse predicato a tutti……e affinchè il vangelo si conservasse
sempre integro e vivo nella Chiesa, gli apostoli lasciarono come successori i vescovi, affidando loro il
proprio compito di magistero (=insegnamento). Questa sacra tradizione dunque e la Sacra Scrittura
dell’uno e dell’altro Testamento sono come uno specchio nel quale la Chiesa pellegrinando sulla
terra contempla Dio, dal quale tutto riceve.”
E poi al n.10: “La funzione di interpretare autenticamente la parola di Dio, scritta o trasmessa, è stata
affidata al solo magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo.”
E ancora al n.12: “per ricavare con esattezza il senso dei testi sacri, si deve badare con non minore
diligenza al contenuto e all’unità di tutta la Scrittura, tenuto debito conto della viva Tradizione di tutta la
Chiesa e dell’analogia della fede”
Quando si dice che la Bibbia contiene la verità da credere e le norme per vivere, non si deve pensare che
basti aprirla e leggere perché tutto sia chiaro. Già la 2° Lettera di Pietro lamentava che qualcuno
comprendesse a modo suo le lettere di Paolo, che contengono cose difficili, e ne stravolgesse il senso per
la propria perdizione (2° Pt.3,15-16). La stessa lettera avverte anche che la retta interpretazione della
Scrittura non è una faccenda privata. (2° Pt.1,20-21)
La Bibbia, formatasi nel popolo di Dio e per il popolo di Dio, può essere interpretata e compresa
correttamente solo vivendo all’interno di questo popolo di Dio, insieme a coloro che nella Chiesa hanno
la missione di insegnare e guidare questo popolo verso Dio e la salvezza.
Fatte tutte queste considerazioni, come si prosegue dunque, dopo l’esegesi del testo?
Anzitutto si considera la Tradizione, che possiamo così definire: tutto l’insieme della rivelazione
divina (dottrina – sacramenti – istituzioni), di cui la Bibbia è un aspetto, ma non l’unico, che la
Chiesa ha il compito di trasmettere a tutte le generazioni. Questa tradizione si dice “divina”, se
risale espressamente a Gesù Cristo; “apostolica”, se risale agli apostoli.
In senso stretto, Tradizione è quella parte della Parola di Dio (= la Rivelazione)che non è stata raccolta
per iscritto nei libri ispirati, ma fu trasmessa a voce dagli apostoli e dai loro successori (i Vescovi) alle
generazioni posteriori fino a noi.
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Ora, dall’inizio del II° secolo (come si vede dal racconto contenuto nel testo apocrifo “Protoevangelo di
Giacomo”) c’era già una tradizione circolante che i “fratelli” di Gesù non erano figli di Maria.Nel
racconto citato Giuseppe è un uomo anziano e vedovo con figli, quando sposa Maria, la quale, alla morte
del marito, avrebbe poi allevato quei ragazzi come suoi. Il “Protoevangelo di Giacomo” non è certo una
fonte storica affidabile, ma offre il dato di una “tradizione” che circolava in un periodo molto antico.
Inoltre di fatto l’approccio alla Scrittura che preferiva fare dei “fratelli e sorelle” i cugini di Gesù divenne
il punto di vista quasi universale della Chiesa occidentale, ragion per cui è familiare ai cattolici romani.
La difesa della tesi contraria risale a dopo la Riforma protestante. Essa si basava su un approccio
puramente letterale al Nuovo Testamento, dietro il quale tuttavia c’era un’altra questione: una lotta sul
valore dello stile di vita rispettivamente del matrimonio e del celibato.
Molti protestanti, che affermavano che Maria ebbe altri figli oltre a Gesù, stavano implicitamente
criticando il fatto che i preti cattolici non si sposavano e non avevano famiglia.
Molti cattolici, dall’altro lato, che argomentavano a favore della permanente verginità di Maria,
implicitamente stavano difendendo il valore del celibato, e pertanto esaltavano il celibato sacerdotale e
religioso.
C’è anche da osservare che l’insegnamento sulla verginità di Maria non è solo “cattolico”, ma è sostenuto
più largamente. Le Chiese ortodosse ed orientali, come anche molti “alti” anglicani/episcopaliani
condividono il punto di vista che Maria rimase vergine. Lutero, Calvino e Zwingli usarono tutti il termine
“sempre vergine”, un’antica designazione di Maria, senza obiezione.
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Concludendo, i cattolici romani risolvono la questione lasciata insoluta dalla Bibbia alla luce della
dottrina e addirittura del dogma stabilito dalla Chiesa, fondato anche su elementi della Tradizione (vedi
APPENDICE) che così recita:
“La santa e semprevergine e immacolata Maria ha concepito dallo Spirito Santo senza seme e
partorito senza corruzione, permanendo anche dopo il parto la sua indissolubile verginità, lo stesso
Dio Verbo, nato dal Padre prima di tutti i secoli”
Abbiamo esposto i dati della Scrittura e della Tradizione. E’ il caso però di approfondire il senso della
verginità dopo il parto di Maria, che continua a suscitare obiezioni.
§§§§§§§§§
E’ la stessa maternità divina di Maria (professata unanimemente dal Nuovo Testamento) che ci mette
indirettamente sulla via per intuire come mai la Vergine, dopo Gesù non ebbe altri figli.
Riguardo a Lia (moglie di Giacobbe), che dopo aver generato il quartogenito Giuda cessò di avere figli,
osserva Filone d’Alessandria (morto nel 45 d.Cr.): Giuda (che significa “lodare Dio”) è il vertice della
perfezione. Inneggiare al Padre di tutte le cose è il migliore e il più compìto dei frutti che mai siano usciti
dal grembo di una gestante. Per questo, dopo Giuda, fu posto un termine alla sua figliolanza: la sua
potenza generativa era ormai sterile, poiché in lei era fiorito il frutto perfetto, Giuda, l’azione di grazie.
Analogamente Maria, divenendo dimora vivente del Verbo incarnato, che – essendo Dio – era l’Assoluto
e la Perfezione, non sapeva più a cosa volgersi, avendo toccato la punta massima della perfezione. In virtù
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della sua maternità divina, Maria fu così ripiena di Dio nel corpo e nello spirito, che la sua esistenza
raggiunse la finalità suprema. Gesù esaudì in pienezza le sue attese di creatura. Quel Figlio (la sua
persona, la sua opera, il servizio a lui reso nella fede) era il Tutto per Maria, come il Padre lo era
per Gesù.
(fonte: Nuovo Dizionario di Mariologia, a cura di Stefano de Fiores e Salvatore Meo, S.Paolo ed.)
APPENDICE
Che cos’è un dogma?
Il termine viene dal greco “dogma”che significa “dottrina comunemente accettata, decreto,
norma, prescrizione”; in Atti 16,4 esso indica le disposizioni e decisioni del Concilio di
Gerusalemme. Oggi si definisce “dogma” una dottrina nella quale la Chiesa propone in maniera
definitiva una verità rivelata, in una forma che obbliga il popolo cristiano nella sua totalità, in modo che
la sua negazione è respinta come un’eresia e condannata con anatema, cioè con scomunica solenne.
Potremmo paragonare i dogmi a una sosta che la Chiesa compie nel suo cammino: i concili o il Papa
guardano alle verità trasmesse dalla Bibbia e ne presentano alcune impegnando la propria autorità, per
porre fine a una controversia o per la loro importanza nella vita dei fedeli. I dogmi sono vincolanti e
irreformabili.
Il dogma, o definizione dogmatica, può essere proposto:
a) in una dichiarazione solenne, fatta durante un concilio ecumenico (che raccoglie tutti i Vescovi
attorno al Papa) o per mezzo di una definizione del Papa, che parla “ex cathedra”, cioè dalla sua
sede di Vescovo di Roma, in unione e in accordo con tutti i Vescovi; si tratta allora di un “dogma
di fede definita”, pronunciato dal Magistero solenne
b) attraverso l’insegnamento ordinario e universale della Chiesa, così come si
esprime ad esempio nella liturgia; si tratta allora di un “dogma di fede” (non
“definita”), perché non è mai stato dichiarato ufficialmente.
Inoltre si parla di “storia” dei dogmi. Difficilmente essi nascono di punto in bianco, in un momento
isolato della storia della Chiesa, o dalla “pensata” di un Papa.
I dogmi sono il frutto di lunghi periodi, magari anche di secoli, di riflessione, di ricerca, di vita
ecclesiale. Tale sviluppo si realizza per l’influsso di vari elementi:
-
le eresie, che sorgono nell’interpretazione del dato rivelato; essendo “errori” di fede, la Chiesa li
combatte contrapponendovi appunto delle “verità di fede” più chiaramente definite
i nuovi interrogativi che sorgono in un determinato momento della vita della Chiesa
-
la pietà dei fedeli
-
la riflessione dei teologi, il cui compito è approfondire la conoscenza della Parola di Dio
-
l’apporto del “sensus fidei” o “fidelium”: è la capacità donata dallo Spirito Santo al credente
di percepire quasi istintivamente il contenuto della fede e la conformità o meno con esso di
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determinate dottrine e forme di vita, questo ovviamente in relazione all’intensità di fede del
singolo. Il Magistero deve saperlo interpretare e anche riferirsi
ad esso nello svolgere il suo compito; perciò il “senso dei fedeli” può avere un ruolo
notevole nello sviluppo del dogma
-
la necessità di riesprimere, in un linguaggio moderno, adatto ai tempi, l’eterna novità del
Vangelo. La Chiesa infatti, con la sua autorità autentica e infallibile, esplicita, chiarifica e incarna
il Vangelo nell’oggi della storia.
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Alla nascita di un dogma contribuisce in modo basilare pure la Tradizione della Chiesa, e anche qui
abbiamo molteplici testimonianze:
- nelle prime professioni di fede, ad esempio nel cosiddetto Simbolo degli Apostoli, professione di
fede usata a Roma nella celebrazione del Battesimo fin dagli inizi del II° secolo e nel “Credo” del
Concilio di Nicea (325 d.Cr.): “Fu concepito di Spirito Santo e nacque da Maria Vergine”. Nel
Simbolo Costantinopolitano, citato da L.G. 52, leggiamo: ”Egli per noi uomini e per la nostra
salvezza discese dal cielo e si incarnò per opera dello Spirito Santo da Maria Vergine”
- negli scritti dei Padri della Chiesa, a partire da Ignazio di Antiochia (inizio II° sec. d.Cr.) che nella
Lettera agli Smirnesi scrive: “Gesù è nato veramente da una Vergine” (contrapponendo il
“veramente” agli gnostici, che dicevano che Gesù era nato “attraverso” Maria) per arrivare a
Ireneo, Origene e altri.
All’inizio del V° secolo Epifanio si chiede: “Quando mai uno ha osato pronunciare il nome di Maria,
senza subito aggiungervi, se interrogato, la Vergine “? E in seguito si approfondisce la questione sul
piano teologico, fino ad affermare, con svariate motivazioni, la perpetua verginità di Maria, prima,
durante e dopo il parto. Così nel corso del Concilio Costantinopolitano II° (553 d.Cr.) viene introdotto
nella professione di fede un esplicito riferimento alla perpetua verginità di Maria. E sarà con il successivo
Concilio Lateranense (649 d.Cr.) che essa diventa “verità di fede definita”.
(tratto da “Maria di Nazareth, la Madre del Signore”, dispensa di Ileana Mortari)
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