Convegno “L’etica tra natura e storicità”. Macerata, 28-29 ottobre 2009. Francesco Totaro Etica, natura, artificio 1. Le intenzioni di questa riflessione In questa relazione vorrei rendere conto delle complicazioni che per l’etica derivano dal riferimento alla natura e all’artificio. In prima approssimazione, intenderò l’etica come l’insieme dei valori e delle norme che dovrebbero permettere alle persone di orientarsi a una vita buona e, quindi, alla manifestazione la migliore possibile delle loro capacità, dei loro bisogni e dei loro desideri. Si comprende facilmente che l’etica è un’impresa propriamente umana, sebbene coinvolga altri ambiti, da quello animale a quello ambientale. Per questi motivi intenderò la natura secondo lo spessore concettuale che la nozione assume quando riguarda l’umano. Per l’umano, come cercherò di evidenziare, la natura è un punto di partenza e un punto d’arrivo, è cioè un concetto ‘vettoriale’, che indica una dotazione di base, un percorso che grazie a essa si può compiere e un compimento auspicabile. Pertanto la natura, in quanto umana, si potrebbe dire che è sempre più che natura. Il carattere estatico della natura umana permette di introdurre la nozione di artificio. L’artificio è già nel farsi o nel manifestarsi della natura umana, che è impensabile senza di esso, se non per sottrazione di una dimensione che da sempre le appartiene e si esprime già nell’intenzionalità della mano e, con essa, dell’intera corporeità. L’umano è al tempo stesso natura e artificio. E’ il caso di aggiungere che la distinzione tra natura e artificio viene colta sempre all’interno di una cultura. La cultura è infatti il concreto che ricomprende al suo interno la natura e l’artificio e ne traccia di volta in volta le mobili frontiere. Perciò, per così dire, natura e artificio sono astrazioni ritagliate all’interno del loro contenitore concreto che è la cultura. Pertanto non c’è nessuno che possa presumere un collegamento diretto e originario con la natura e, grazie a esso, sia in grado di individuare il solco che la divide 1 dall’artificio. Aggiungerei che, per questo motivo, ritengo eccessivo il timore che, partendo dalla sfera della cultura, si cada in un irreparabile relativismo. Indubbiamente le culture, per quanto il loro raggio sia esteso, sono sempre particolari. Ma non per questo non sono in grado di proporre, a partire dalla loro particolarità, significati, valori e norme che possano essere tradotti in altri ambiti culturali. Gli universali non sono mai già dati, ma sono piuttosto il risultato di un processo più o meno lungo di universalizzazione. L’importante è che l’universalizzazione non avvenga a senso unico ma sia disponibile per ogni interlocutore della scena culturale mondiale, cioè di quella sovracultura nella quale le diverse culture oggi convivono e si confrontano. Allora, dovremmo uscire dalla contrapposizione speciosa di natura e cultura (alla quale si finisce poi per attribuire l’artificio). Siamo tutti figli di una cultura. Ciò che conta è capire se, nella cultura e non fuori di essa, si possa affermare qualcosa che valga assiologicamente e normativamente anche oltre il perimetro di partenza. Cultura non è necessariamente culturalismo deteriore. Questa avvertenza ci consente di andare a vedere, in una ricostruzione genetica, come le idee di natura e artificio si sono espresse e sviluppate nell’ambito del pensiero occidentale e se la loro declinazione sia tale da far luce sull’esperienza umana come può essere analogicamente – se non identicamente – condivisa anche oltre tale pensiero. L’unico presupposto di questo modo di procedere è l’attribuzione a ogni portatore di umanità di una ricerca di senso per la quale ne va del proprio vissuto e delle coordinate grazie alle quali esso può raggiungere la migliore fioritura possibile. 2. Ciò che è e ciò per cui Nel ripensamento del concetto di natura1, un ripensamento guidato dall’intento di uscire da cristallizzazioni definitorie inadeguate, si rimarca la distinzione tra la natura Cfr. tra gli altri A. Da Re, Percorsi di etica, Il Poligrafo, Padova 2007, pp. 35-54; F. Viola, L’universalità dei diritti umani: un’analisi concettuale, in F. Botturi-F. Totaro, Universalismo ed etica pubblica, “Annuario di etica”, 3, Vita e Pensiero, Milano 2006, pp. 155-187; Idem (con M. Mangini), Diritto naturale e liberalismo, Giappichelli, Torino 2009. La riflessione di Viola ha alle spalle J. Finnis, Natural Law and Natural Rights, Oxford University Press, Oxford 1992, 1 2 come fatto e la natura come essenza. La natura come fatto è il ciò che è. La natura come essenza è il ciò per cui o, meglio, è il ciò per cui in ciò che è. La ripresa di tale distinzione, che rinvia alla visione aristotelica della physis, è guidata dalla giusta preoccupazione di ripensare in modo dinamico il concetto di natura, sottraendolo anche alla staticità che deriverebbe dal suo appiattimento su un registro ristrettamente fattuale-biologico. Bisogna dire subito che questa dinamicizzazione è credibile a patto che l’essenza si configuri come apertura a un telos di compimenti possibili, a partire da ciò che è già dato, e non come una struttura assolutamente indeformabile. Altrimenti l’essenza si risolverebbe essa stessa nell’ordine di quella fattualità che intende invece superare. Occorre inoltre riconoscere che proprio la ricerca svolta in campo biologico ha avuto non pochi meriti – e ne avrà forse sempre di più in futuro – nella fluidificazione di rappresentazioni fissiste della natura. Anche grazie ad essa non possiamo riproporre oggi un essenzialismo preordinato astrattamente rispetto alla mobilità che risulta dallo studio sempre in progress dei fatti. La distinzione tra natura fattuale e natura essenziale, che a tutta prima appare descrittiva, ha già in sé implicazioni speculative consistenti. Indica infatti una condizione ontologica segnata dalla finitezza e dal limite. Se ci fosse una sintesi perfetta tra ciò che è e ciò per cui, ogni distanza tra fatto ed essenza verrebbe meno. Ci troveremmo, a ben vedere, nella perfetta e compiuta coincidenza di esistenza ed essenza, cioè nella condizione del divino. E’ la disequazione di esistenza ed essenza (e non importa stabilire qui se la prima preceda la seconda o viceversa) a fare in modo che ciò che è sia sempre in un rapporto di divaricazione con ciò per cui. Questa medesima divaricazione rende inquieto il ciò che è, mettendolo in tensione incessante con il ciò per cui. 3. Lo spazio dell’artificio tr. it. di F. Di Blasi con Introduzione di F. Viola, Legge naturale e diritti naturali, Giappichelli, Torino 1996. Vedi pure G. Azzoni, Lex aeterna e lex naturalis: attualità di una distinzione concettuale, in F. Di Blasi-P. Heritier, La vitalità del diritto naturale, Phronesis, Palermo 2008, pp. 159-209; A. Campodonico, Radicalismo liberale e riscoperta della natura umana, in F. Botturi (a cura di), Soggetto e libertà nella condizione postmoderna, Vita e Pensiero, Milano 2003, pp. 17-40; R. Mordacci, Una introduzione alle teorie morali. Confronto con la bioetica, Feltrinelli, Milano 2003. 3 Allora, la distinzione tra natura come fatto e natura come essenza, lungi dal rappresentare la risoluzione di un problema, apre piuttosto il campo del ‘dispiegamento’ del problema stesso. Infatti, è in quella distinzione che si istituisce la struttura problematica del concetto di natura. La non coincidenza di essere o essente (natura come fatto) e dover essere (natura come essenza), è la premessa fondamentale di ciò che consideriamo come artificio. L’artificio, nella sua struttura costitutiva, è l’intervento sulla natura come fatto in vista della natura come essenza o, in altre parole, della natura come è in vista della natura come dovrebbe essere. Nella dimensione dell’artificiale la natura così come è viene destabilizzata in vista della nostra idea di natura. Noi abbiamo metabolizzato questo intervento destabilizzante con il concetto di seconda natura, quasi a voler sottolineare la continuità nella discontinuità. In realtà, il concetto di seconda natura è un modo per dire che è la cultura la natura propria dell’umano. Con questa affermazione si vuol dire che l’umano – più che qualsiasi altro animale – è predisposto a vivere come essere culturale, quale che sia poi la giustificazione antropologica di tale predisposizione: la condizione deficitaria rispetto all’animalità2 oppure, al contrario, la vocazione trasformatrice insita già nella plasticità funzionale della mano3 4. La simbiosi di naturale e artificiale 2 Cfr. le note posizioni di Arnold Gehlen e seguaci, fino a Umberto Galimberti, il quale, peraltro, risolve la cultura nella tecnica come essenza dell’uomo, poiché è grazie alla tecnica che l’uomo raggiunge «culturalmente» la selettività e stabilità che l’animale possiede «per natura» (v. specialmente Psiche e techne. L’uomo nell’età delle tecnica, Feltrinelli, Milano 1999, p. 34). 3 Cfr. per es. Heinrich Popitz, Der Aufbruch zur artifiziellen Gesellschaft, Mohr (Paul Siebeck), Tübingen 1995, tr.it. di G. Auletta con Prefazione di F. Ferrarotti, Verso una società artificiale (1995),Editori Riuniti, Roma 1996 e altri, tra i quali gli attuali sostenitori dell’antropologia post-umana, che molto si giovano della ricca riflessione di Roberto Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2002. Quest’ultimo non intende rinunciare alla «natura umana», bensì metterne a fuoco la «ridondanza» rispetto al modello «totalmente autocontenuto e autoreferenziale» della sua definizione; della ridondanza antropologica è costitutiva «la tendenza a realizzare ponti coniugativi con l’alterità non-umana» (ibi, pp. 46-47). Sul nesso tra mano e linguaggio cfr. M.C. Corballis, Dalla mano alla bocca. Le origini del linguaggio, Raffaello Cortina, Milano 2008. 4 Con l’artificio la fattualità della natura viene modificata4 a vantaggio di ciò che la natura dovrebbe essere. L’intervento dell’artificio, in quanto considerato come elemento di connessione tra natura come fatto e natura come essenza, non ha comportato problemi morali di natura radicale. Anzi, il ricorso all’artificio è andato al di là del suo statuto facoltativo ed è diventato moralmente obbligante: esso è doveroso tutte le volte che si ritiene possa sostenere la natura di fatto indebolita o ridotta ai suoi minimi termini. La cosa non manca di aspetti paradossali. E’ diventato infatti moralmente non lecito – per alludere a casi di recente attualità – rinunciare all’uso delle tecnologie artificiali quando è proprio tale uso a garantire la non interruzione della vita naturale. In tal modo diventa “principio non negoziabile” non soltanto la non interruzione del processo vitale ma altresì la non interruzione del trattamento artificiale. La vita “naturale” diventa quella che è resa possibile dal funzionamento dell’artificio e, poiché l’artificio è di fatto “a tempo indeterminato”, anche la vita naturale condivide la sua artificiale indeterminatezza. L’osmosi di vita e artificio diviene indisgiungibile. Alla vita naturale si attribuisce così un diritto “a durare” che solo la tecnologia rende possibile. A meno di non voler attribuire a chicchessia posizioni indifendibili di positivismo biologico estremo o persino di disumanizzante feticismo fisicistico, il fondamento della prescrizione della perseveranza nelle cure ordinarie (è il caso della alimentazione e della idratazione artificiali, cioè mediate da un apparato strumentale) in soccorso all’attività vitale minimale sta nella persuasione di doverosa 4 Su questi processi di cambiamento, e sulle loro incidenze etiche, vedi M. Fimiani-V. Gessa Kuroschka-E. Pulcini, Umano post-umano. Potere, sapere, etica nell’età globale, Editori Riuniti, Roma 2004; nella parte II, I saperi del vivente, contiene tra gli altri contributi di S. Tagliagambe, Mente e cervello. Un rapporto problematico, pp. 157-194 e A. Oliverio, Mito e realtà delle neuroscienze, pp. 137-156, con un confronto stretto con la teoria del «darwinismo neurale» proposta dal biologo Gerald M. Edelman nel volume di ampia risonanza Second Nature. Brain Science and Human Knowledge, Yale University Press, New Haven 2006, tr.it. di S. Frediani, Seconda natura. Scienza del cervello e conoscenza umana, Raffaello Cortina 2007. Di notevole rilievo i contributi agli Atti del LIX Convegno del Centro Studi Filosofici di Gallarate, in P.G. Grassi-A. Aguti (a cura di), La natura dell’uomo. Neuroscienze e filosofia a confronto, Vita e Pensiero, Milano 2008. Per una riflessione di più ampio raggio, ma sempre con riferimento alle sfide della tecnica all’etica, uno scandaglio interessante in L. Tundo Ferente (a cura di), Etica della vita: le nuove frontiere, Dedalo, Bari 2006 e in parecchi contributi, alcuni su aspetti specifici, presenti in C. Vigna-S. Zanardo, Etica di frontiera. Nuove forme del bene e del male, Vita e Pensiero, Milano 2008 (sulla inscindibilità della «dignità umana» dalla sua «naturalità» importante il saggio di R. Spaemann, ‘Naturale’ e ‘innaturale’ sono concetti moralmente rilevanti?, pp. 85-98). 5 inseparabilità del naturale dall’artificio che lo rende possibile nella sua durata. E ciò nonostante il naturale integrato dall’artificio sembri ormai appartenere a un ordine della mera attualità, cioè di una fattualità di cui appare fortemente improbabile la connessione, anche futura, con l’orientamento teleologico che dovrebbe animarla. In tal modo l’intervento dell’artificio non è più integrativo di una natura in condizioni di difficoltà nel recupero delle proprie funzioni, assume piuttosto un ruolo pienamente sostitutivo delle stesse funzioni naturali. Si tratta di un esito che non manca di paradossalità. 5. Artificio e arbitrio In ogni caso, l’artificio finalizzato all’ordine naturale non ha suscitato problemi di illegittimità morale o di caduta nel ‘relativismo’. I problemi sono sorti allorché a comandare l’intervento dell’artificio non è stata l’idea di ciò che la natura dovrebbe essere in continuità con ciò che la natura di fatto è, ma piuttosto l’idea di ciò che si vorrebbe che la natura sia o diventi. In questo caso sembra che la natura sia assunta come elemento materiale di una forma dipendente dalla potenza del volere. Quest’ultimo disporrebbe di conoscenze e procedure operative in grado di dare seguito al proprio progetto o, come si insinua, a qualsiasi progetto. Se la natura diventa oggetto di un arbitrio che è legge a se stesso, la volontà di intervento a mezzo dell’artificio non si limita, per così dire, a fare da ponte tra i due profili di natura, ma si ritiene legittimata a mutare il suo pilastro iniziale e il suo pilastro finale, cioè il punto di partenza e il punto di arrivo del processo naturale. Cerchiamo di articolare meglio i caratteri di una posizione nella quale la natura diventa relativa all’atto del volere. In tale posizione, la stessa dimensione fattuale della natura passa attraverso la possibilità che essa sia voluta. Il fatto non voluto o non suscettibile di essere voluto non obbliga alla sua accettazione e può essere quindi legittimamente modificato in modo da essere voluto; nel caso estremo di non convertibilità con il voluto può essere legittimamente rifiutato. 6 Per concludere, in tale contesto, grazie all’artificio, ci si ritiene autorizzati a modificare sia le condizioni iniziali sia le condizioni terminali delle dinamiche di sviluppo della natura. 6. La natura umana come interpretabile Verrebbe ora da chiedersi: quali sono le condizioni di possibilità delle due visioni dell’artificio che sopra abbiamo tracciato? Ci sono anzitutto condizioni che riguardano il rapporto stesso tra l’umano e ciò che può essere considerato come (sua) natura. Possiamo dire che la natura non copre l’intero dell’umano e tanto meno, in quanto voglia costituirsi come legge, copre la irriducibile molteplicità degli atti umani presi nella loro concretezza individuale. Ciò sembra tanto più vero quanto più si va oltre quelli che Tommaso d’Aquino, nella celebre quaestio 94 della Iª-II della Summa Theologiae5, considera i praecepta communissima omnibus nota per raggiungere il terreno dei secundaria praecepta magis propria che riguardano il particulare operabile. Nel campo della ratio practica non è concesso concludere in modo lineare dal generale al particolare, dal momento che «ratio practica negotiatur circa contingentia, in quibus sunt operationes humanae». La cosa, nel medesimo contesto, viene argomentata anche in positivo con riferimento agli atti che possiamo considerare come virtuosi. Questi ultimi, nella loro specificità, non sono tutti derivabili dalla lex naturae: «Multa enim secundum virtutem fiunt, ad quae natura non primo inclinat; sed per rationis inquisitionem ea homines adinvenerunt, quasi utilia ad bene vivendum». Si tratta di atti virtuosi che dipendono dall’esercizio della ragione inventrice dell’artificio (ars adinvenit) in vista delle condizioni di una “vita buona”, dove contano le differenze individuali e dove vale l’applicazione congiunta 5 Sancti Thomae de Aquino Summa Theologiae prima pars secundae partis quaestio XCIV, Textum Leoninum Romae 1892 editum. Sulla specificità della ragione pratica in Tommaso vedi M. Rhonheimer, Thomas von Aquin: das Ewige und das Natürliche (Summa theologiae, I-II q. 90, 91, 94) Einführung, in R. Spaemann-W. Schweidler (a cura di), Ethik - Lehr - und Lesebuch. Texte - Fragen - Antworten, Klett-Cotta, Stuttgart 2007³, pp. 68-76; Id., Praktische Vernunft und Vernünftigkeit der Praxis. Handlungstheorie bei Thomas von Aquin in ihrer Entstehung aus dem Problemkontext der aristotelischen Ethik, Akademie Verlag, Berlin 1994; Id., Natur als Grundlage der Moral. Die personale Struktur des Naturgesetzes bei Thomas von Aquin: eine Auseinandersetzung mit autonomer und teleologischer Ethik, TyroliaVerlag, Innsbruck-Wien 1987, tr. it. di E. Babini, Legge naturale e ragione pratica. Una visione tomista dell’autonomia morale, Armando, Roma 2001. 7 dei principi generali della razionalità pratica e dei criteri di convenienza e proporzione. Qui la virtù degli atti è relativa: «[…] propter diversas hominum conditiones, contingit quod aliqui actus sunt aliquibus virtuosi, tanquam eis proportionati et convenientes, qui tamen sunt aliis vitiosi, tanquam eis non proportionati». In Tommaso la diversità inerente all’espressione della razionalità umana riguarda la sfera della ragione pratica come luogo di realizzazione molteplice e relativa dell’inclinazione “naturale” al bene, la quale è tanto meno codificabile a priori «quanto magis ad propria descenditur» (e non solo, mi pare, a motivo della concupiscenza o dell’influsso di altre passioni). Oggi possiamo dire che una tale opacità (o limite di trasparenza) investe lo stesso concetto di natura a livello di investigazione della sua struttura e di autorappresentazione conoscitiva. Nonostante la biologia molecolare e l’ingegneria genetica tendano ad acquisire e padroneggiare una mappa il più possibile esaustiva della costituzione umana, quest’ultima non viene saturata dalla oggettività scientifica. Infatti, alla analisi oggettivante sfugge l’atto di autorappresentazione conoscitiva e di proiezione operativa che, nel suo concreto esercizio individuale, declassa sempre il contenuto della oggettivazione da fattore causale di tipo deterministico a condizione suscettibile sia di trasgressione sia di integrazione nel contesto relazionale e ambientale. Ciò comporta che la natura non sia inclusiva dell’intera consistenza dell’umano; ogni costituzione oggettiva è sempre mediata da una spontaneità soggettiva in rapporto con altre soggettività. Si può dire che, oltre la natura come insieme delle oggettivazioni scientifiche, sporge una natura come dimensione di intenzionalità spontanea e automotrice, e questa rinvia a una molteplicità di strati teorico-operativi degradanti verso l’ineffabile. Pertanto la natura è per l’umano non solo un explanandum ma altresì un interpretandum o, meglio, un interpretabile. In questo senso il concetto di natura (umana) assume la valenza di un concetto-soglia: è un dato che allude a un passaggio ad altro non iscritto a priori nel suo codice e frutto di una capacità di incremento autonomo o, se si vuole, creativo. 8 7. Physis e normalità Questo giro di considerazioni dovrebbe rendere meno perentorio l’uso apodittico che del concetto di natura si fa e propiziare maggiore disponibilità alle revisioni del suo significato. Occorrerebbe rispettare i due fuochi che sono entrambi coinvolti nella incessante impresa interpretativa della natura umana. Il primo è quello per cui è costante, nell’autoriflessione dell’umano, il riferimento a qualcosa che permane e che, nel permanere, accomuna. Il secondo è quello per cui i resoconti delle espressioni di umanità sono mutevoli sia in relazione al tempo sia in relazione allo spazio, fino alla irriducibilità di ogni singola individualizzazione, che nel dare forma alla propria autointerpretazione diventa principio autonomo di libera declinazione nella conformità e nella difformità rispetto alla natura come insieme delle condizioni già date. E allora la natura propria dell’umano è la capacità di dare forma individuale a ciò che è comune. Ritorna calzante la definizione aristotelica di physis come «principio del movimento e della quiete in una cosa». Sul punto è prezioso il commento di Robert Spaemann: «Fin dall’origine, nella filosofia greca, physis non significa […] la pura oggettività di una materia passiva quanto un essere sussistente, pensato in analogia all’esperienza di sé propria dell’uomo: e cioè nel senso di una distinzione di un essere naturale da tutti gli altri, di un sistema vivente, come si direbbe oggi, da un ambiente, inteso come limitazione attiva, come autoaffermazione e autorealizzazione spontanea. Physis, natura, è secondo Aristotele l’essenza delle cose che hanno il principio, l’inizio del movimento in se stesse. In questo senso physis è certamente un concetto che fin dall’origine serve alla distinzione»6. La natura non viene però annullata dalla logica della individualizzazione. Essa è proponibile come quello zoccolo di normalità basilare delle funzioni umane senza del quale la differenziazione individuale non sarebbe possibile. Garantire per tutti e per ciascuno una tale normalità diventa normativo, sia in rapporto ai diritti e ai doveri dei singoli sia in rapporto alle istituzioni in cui le loro relazioni acquistano possibilità 6 R. Spaemann, ‘Naturale’ e ‘innaturale’…, p. 88. 9 di durata e di permanenza. Sotto questo profilo natura è l’insieme delle funzioni condivise con la specie, da quelle fisiche a quelle mentali senza soluzione di continuità, grazie alle quali si può scrivere una storia individuale nei suoi ritmi di autorelazione e di eterorelazione. 8. Rovesciamento del rapporto tra physis e poiesis La normalità del naturale è però integrata, nell’umano, dalla potenza (Macht) dell’incremento delle condizioni già date. Riprendendo il tema dell’artificio da questo angolo visuale, diciamo che, nello spazio dell’incremento delle condizioni già date, l’artificio si dispiega come il campo dell’operare umano e dei suoi risultati. L’essere umano è infatti comprensibile come dualità indisgiungibile di genesis e di poiesis, (usando liberamente una coppia concettuale che mi viene suggerita da Jean Ladriére7). La genesis è un processo di manifestazione dell’essere secondo principi interni; la poiesis è un processo ontologico che ha il suo principio nella techne di un artefice. L’espansione della tecnica come apparato tecnologico sistematico e pervasivo ha portato a due conseguenze. La prima è che la tecnologia è diventata la via maestra della soddisfazione della normalità del vissuto, fino a rendere marginale la normalità naturale. Ciò dà conto della qualificazione parossistica della nostra civiltà (da Heidegger in giù fino a Severino) come dominata dall’essenza della tecnica. Dominio della tecnica significa che la normalità tecnologica si fa normativa: adeguarsi alle procedure della tecnica non è soltanto un habitus del vivere ma è anche la norma cui il vivere deve adeguarsi, la sua concreta legge morale. La seconda conseguenza è che la poiesis tecnologica si è allargata al punto tale da entrare in circolo con la genesis. La potenza della poiesis può aspirare a farsi potenza generativa, rompendo gli argini che distinguevano la poiesis, pur sempre vincolata all’uso degli elementi generati dalla physis, dalla genesis. La tecnica non ritorna alla J. Ladrière, Sur le rôle de l’idée de nature en éthique, in S. Bateman-Novaes, R. Ogien, Ph. Faro (eds.), Raison pratique et sociologie de l’éthique, CNRS Édition, Paris 2000. 7 10 natura, dopo aver adempiuto al compito di correggerne le deficienze o di esaltarne le prestazioni, ma può essere essa stessa naturans. Allora la domanda: una poiesis naturans è ancora governabile secondo un’idea di permanenza della natura umana, cioè secondo una teleologia essenziale capace di orientarla e di vincolarla, oppure si può rendere irresponsabile nei suoi confronti? E’ questo il senso di una partita che oggi viene giocata anzitutto sul mobile terreno della corporeità umana, e non soltanto nei diversi modi di intervenire (o non intervenire) sulle fasi iniziale e finale della sua manifestazione, ma anche nella gestione dei suoi stati mediani e delle sue prestazioni quotidiane. Il problema, nell’umano tecnologizzato, è capire quale debba essere il rapporto tra la sfera del generare e quella del produrre, dal momento che l’attività poietica può surclassare l’attività generativa fino a un esito di non ritorno. L’attività produttiva, pur inizialmente insediata nell’umano, è in grado di sganciarsi dalla sua matrice originaria e di porsi come attività sibi permissa. Può allora la natura come dinamismo della generazione mantenere il suo controllo normativo sul produrre? Oppure, in una relazione rovesciata, la generazione si riduce a mezzo delle finalità produttive che declassano l’umano a momento provvisorio della operatività produttiva? E con quali credenziali contrastare un tale declassamento? 9. L’etica a rischio Di fronte a questa piega delle cose i concetti etici tradizionali non diventerebbero patetici o illusori? L’esito sarebbe allora non tanto il relativismo etico quanto piuttosto la destrutturazione delle codificazioni etiche dell’esperienza antropologica alle nostre spalle e la condanna all’insignificanza del vocabolario morale. Finora la persuasione che ha guidato l’umanità, e in modo eminente l’umanità occidentale, è stata quella della insuperabilità dell’essere umano nel compimento degli atti che lo riguardano. Considerare kantianamente l’umanità, sia nella propria persona sia nella persona altrui, sempre anche come fine e mai come semplice mezzo è una prescrizione comprensibile soltanto se l’essere umano deve rimanere il terminale di 11 ogni azione e non può diventare il tramite di un essere che è altro dallo stesso essere umano. Dignità della persona, diritti dell’uomo e analoghi concetti “non negoziabili” stanno in piedi soltanto se sostenuti da una tale persuasione. Anche nei messaggi di salvezza religiosa il trascendimento dell’umano è pur sempre per l’umano. E, su un’altra sponda, la figura nietzschiana del superuomo non si risolve nell’annullamento dell’umano, bensì ne propone il potenziamento al fine di sottrarlo all’«orrida casualità» e alla mutilazione di uno sviluppo unilaterale. 10. Una linea di difesa Non basta però additare le conseguenze spiacevoli. L’espansione dell’artificio tecnologico ci porta a chiederci come possa essere giustificata la persuasione di un’eidetica umana intrascendibile (per inciso, una persuasione che è stata condivisa anche dallo storicismo). Michel Foucault aveva parlato dell’umano – allotropo empirico-trascendentale8 – come di un volto disegnato sulla sabbia che può essere cancellato dall’onda incalzante. Con quali credenziali possiamo sostenere una volontà di umanità che non sia nostalgica velleità? Siamo attualmente nella condizione di dover esibire i titoli della nostra capacità di continuare a essere soggetti consapevoli, moralmente responsabili e dotati del discernimento tra il bene da fare e il male da evitare. Nella convinzione che l’umano ereditato sia anche l’umano da perpetuare, possiamo fare riferimento alla tradizione antropologica e individuare delle linee di difesa: a) non tutto ciò che si può fare deve essere fatto; b) i cambiamenti non debbono essere fini a se stessi; c) dobbiamo garantire a chi viene dopo di noi almeno le stesse opportunità di scelta di cui noi abbiamo goduto; d) dobbiamo contrastare la riduzione dell’umano, in ogni uomo, a semplice materiale per un principio formale estrinseco; e) non dobbiamo permettere che alcun individuo umano diventi un puro mezzo per fini che non gli appartengono; f) dobbiamo consentire in ognuno 8 M. Foucault, Les mot set les choses, Gallimard, Paris 1966 ; tr. it. di E. Panaitescu, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1970³, p. 343. 12 l’espressione di ciascuna delle sue facoltà e dell’insieme delle sue facoltà. Il catalogo può continuare. Ma come dare fondamento a queste protezioni antropologiche che ci sono suggerite dall’autocomprensione tradizionale dell’umano? Mettendo tra parentesi l’aggancio al messaggio religioso, ci manteniamo di proposito nello spazio di autonomia della riflessione razionale. E pertanto: la dignità dell’umano nei confronti della riduzione strumentale può essere sostenuta come vincolo e come compito della ragione? 11. Intenzionalità dell’intero e artificialità La questione non si presta a una risposta semplice. Sul piano della descrizione empirica, non solo non è facile riconoscere all’umano una potenza di perpetuazione della sua natura essenziale, ma nemmeno della sua stessa esistenza. Rimanendo nei limiti dell’esperienza, non sembra contraddittoria la prospettiva del venir meno dell’umano. Sia le singole esperienze, sia l’esperienza dell’umano in quanto tale sono esposte a un destino di morte. L’umano è però custode di una intenzionalità radicale che è l’intenzionalità dell’intero9. Ora, nell’orizzonte dell’intero ciò che si lascia mettere a tema come in pari con la sua apertura interale è la positività dell’essere incondizionato10. Incondizionato rispetto a che cosa? Rispetto a ogni possibilità di venir prodotto. L’essere incondizionato è l’essere che si sottrae alla producibilità. Non è il risultato di un agire strumentale ad opera di altri o di altro. Oltre che non essere prodotto, l’essere Una ricca ricognizione sul tema dell’intenzionalità in A. Voltolini-C. Calabi, I problemi dell’intenzionalità, Einaudi, Torino 2009. Impegnati nella proposta di un’antropologia complessiva sono F. Bosio, natura, mente e persona. La sfida dell’intelligenza artificiale, Il Poligrafo, Padova 2006; A. Campodonico, Chi è l’uomo? Un approccio integrale all’antropologia filosofica, Rubbettino, Soneria Mannelli 2007. Importante V. Melchiorre, Essere persona. Natura e struttura, Fondazione Achille e Giulia Boroli, Novara 2007. 10 Di esso è formulazione insuperata la dizione parmenidea, secondo la quale “l’essere non può non essere”. Da questa formulazione incondizionata dell’essere trae luce anche l’affermazione: “lo stesso è pensare e pensare che è”, se il pensare è anzitutto intenzionalità dell’intero che trova saturazione in una positività d’essere senza limiti. Per questo motivo l’intenzionalità interale di Parmenide non abbraccia le determinazioni molteplici. Il guadagno successivo sta proprio nell’aggiungere che l’essere va detto pure delle molteplici determinazioni dell’intero, e ciò nonostante non sia attualmente manifesto il modo di stare delle determinazioni nell’intero, e quindi non appaia la loro concreta appartenenza all’intero. L’essere delle determinazioni, per la loro opacità rispetto all’intero, differisce dall’essere dell’intero. 9 13 incondizionato è quindi improducibile. Ciò non vuol dire che deve essere inteso come staticità e assenza di dinamismo. Se l’essere incondizionato si dà come non producibile dalla potenza produttiva dell’umano o, detto al contrario, la potenza produttiva dell’umano non ha potere sull’essere incondizionato, scaturisce di riflesso la domanda sulla condizione dell’umano in quanto soggetto produttore che è esposto al rischio di essere ridotto a oggetto di produzione. C’è un rapporto intrinseco tra l’essere incondizionato e l’essere condizionato che è l’ente umano? Un rapporto che sottragga quest’ultimo all’esito di producibilità al quale è esposto dall’eccesso di artificialità? In altri termini: come l’essere dell’umano può godere di uno statuto di irriducibile incondizionatezza pur essendo sempre condizionato? All’ente condizionato può essere attribuita l’incondizionatezza (una certa incondizionatezza) grazie a un rapporto di partecipazione. L’incondizionatezza dell’ente condizionato scaturisce dalla partecipazione all’incondizionatezza dell’essere posto come assoluto. 12. Una conclusione in forma di problema In questa partecipazione la dignità ontologica dell’ente può poggiare su un saldo fondamento. Come l’essere illimitato non può essere sottomesso alla logica della produzione a opera di altri o di altro, analogamente l’essere limitato, l’umano, non può essere ridotto alla logica della producibilità. Quindi anche l’essere umano è principio in sé e va rispettato come tale. Non può diventare senza residui un oggetto di produzione. Ci ricolleghiamo allora al concetto di natura come genesis o physis, per ribadire un plesso semantico che dice la non riducibilità alla logica della produzione, dell’essere prodotti da altro. Ed è questo il nocciolo ontologico delle protezioni antropologiche di cui sopra si è parlato. In definitiva: l’idea di essere come pienezza dell’umano che partecipa dell’essere incondizionato – una pienezza inscritta nella sua natura e insieme sempre aperta a un compimento non ancora dato – può caricarsi di valenze normative rispetto alla logica di manipolazione e di riduzione strumentale che può condurre alla sua negazione. Se 14 per l’umano vale il riconoscimento del diritto-di-essere e del diritto-di-con-essere, su questa base di dignità ontologica si può sostenere una normatività etica che contrasti l’onnipotenza dell’artificio e le sue involuzioni distruttive. La dignità dell’ente, in quanto radicata nell’essere, non può essere oscurata dalle pretese pervasive dell’artificio; essa diventa anzi principio di critica delle situazioni in cui l’ipertrofia strumentale si dovesse espandere come normalità esistenziale. L’antidoto degli antidoti consiste nella capacità di tener fermo il rapporto con l’essere. Questa capacità esclude che l’artificio, con la sua logica di produzione strumentale, possa diventare la totalità dell’esperienza dell’ente finito. Da essa scaturisce l’avere a cura che l’artificio non superi i confini propri di una dimensione parziale dell’esistenza. Il “successo” di un’etica, che attinga al principio della dignità d’essere riconosciuta universalisticamente, deve affidarsi alla maturità delle coscienze capaci di discernimento tra il produrre manifestativo, aperto al compimento dell’essere, e il produrre di asservimento alla strumentalità, che da esso allontana. Questo discernimento, se condiviso, è la condizione prima di possibilità di ogni buona formulazione di codici e di regolamenti, e fornisce la misura di ogni scelta da compiere nella puntualità delle situazioni e delle circostanze contingenti, mai prive di opacità e incertezza oltre che di rischio. Muniti di questa tutela ontologica, possiamo valorizzare la potenza dell’artificio senza renderla devastante. Non si tratta, infatti, di coltivare la “paura dell’artificiale” su cui Mounier rovesciava la sua caustica ironia antiborghese11; ma di fare dell’artificio l’alleato di una superiore ominizzazione o, se si preferisce, umanizzazione. Con queste garanzie, ci è concesso di guardare al post-umano come potenziamento dell’umano e, quindi, della sua vita buona. 11 E. Mounier, La petite peur du XX siècle, Éditions du Seuil, Paris 1949, tr. it. a cura e con un saggio introduttivo di F. Riva, La paura dell’artificiale. Progresso, catastrofe, angoscia, Città Aperta, Troina 2007. 15