la parola della domenica Anno liturgico B omelia di don Angelo nella Solennità di Pentecoste secondo il rito ambrosiano 27 maggio 2012 At 2,1-11 Sal 103 1Cor 12,1-11 Gv 14,15-20 Passa inosservata la Pentecoste, come inosservato passa spesso, dobbiamo riconoscerlo, lo Spirito. Eppure è festa delle feste, festa della pienezza. E scordarla o scolorirla, significa fermarsi prima, dimenticare l’ultimo approdo, l’ultimo approdo della salvezza. Perdersi prima della tappa finale, la più entusiasmante. La Pentecoste è come il maturare di tutte le feste. Non per nulla, presso gli ebrei, prima che diventasse la festa della rivelazione della Legge al Sinai, la Pentecoste era una festa agricola, festa delle messi mature: il seme nascosto nella terra si è fatto stelo, si è fatto spiga matura, è grano: la vita è scesa e si è fatta grano. Bisognava far festa. Così anche lo Spirito. Lo Spirito, il soffio del Dio vivente, era sceso, aveva preso dimora nelle acque primordiali, era stato alitato sul volto del terrestre e della sua donna, l’argilla era diventata un essere vivente. Era sceso come vento sul monte Sinai e la Torah era diventata rivelazione per tutto il popolo, era diventata un fatto di coscienza e di libertà. Era sceso lo Spirito sui profeti, li aveva rivestiti di forza, li aveva resi testimoni dell’Invisibile. Era sceso come soffio di vita, nel grembo di Maria che divenne la madre di Gesù, il Figlio del Dio Altissimo. Era sceso su Gesù, lo ricolmò in pienezza e Gesù divenne la Tenda di Dio in mezzo agli uomini. E Gesù effuse lo Spirito, emise lo spirito, sulla Croce, Maria e Giovani a raccoglierlo, ancora una donna e un uomo. E poi, risorto, lo alitò sul volto dei discepoli, come nei lontani giorni della creazione sul primo uomo. Ultima dimora dunque dello Spirito è il volto dell’uomo, della donna. La vita è arrivata nelle spighe, il soffio di Dio è arrivato ai nostri volti. E dà vita e splendore ai volti. Noi celebriamo oggi questo approdo, questo ultimo approdo: l’approdo nell’intimo della nostra coscienza, l’approdo nella nostra libertà. Non penso di essere molto lontano dal vero confessando che troppo poco sostiamo ad avvertire questa presenza in noi, presenza troppo ignorata. Eppure vera, se vere sono le parole di Gesù, se efficace è la preghiera che lui ha fatto perché lo Spirito rimanga con noi per sempre: “egli” disse “rimane presso di voi e sarà in voi”. Siamo stati educati a cercare la luce fuori di noi, poco educati a cercarla dentro di noi, ad affidarci al magistero ultimo, quello decisivo per ciascuno di noi, il magistero dello Spirito che secondo Gesù rimane presso di noi, è in noi, dal più piccolo al più grande, un magistero insostituibile, quello decisivo, a cui attingere e da cui farci guidare. Queta festa è invito a consultarlo. Ma, dobbiamo aggiungere, il dono dello Spirito è pure in funzione della costruzione di una comunità vera, lo ricordava Paolo a quelli di Corinto, scrivendo: “A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune”. E dunque non l’uniformità. Non l’imposizione, di una stessa visione, di una stessa cultura, di una stessa lingua. Lo stupore in quel lontano giorno era che ognuno sentiva parlare nella propria lingua. Non la uniformità, ma la ricchezza delle diversità. Ma nello stesso tempo è scritto: “per il ben comune”. Che mi sembra, lasciatemi dire, parola un po’ fuori di moda in questa stagione, con gli esiti che tutti vediamo. A spingerci nelle nostre scelte è il bene comune? Vorrei concludere brevemente sostando su un altro aspetto della Pentecoste, l’ebbrezza, la Pentecoste porta con sé una certa ebbrezza. E cioè lo Spirito non ci lascia pallidi e spenti, come a volte succede nei riti – non solo nei riti, ma anche nella vita –, ma vivi, appassionati. Nella lettura degli Atti oggi veniva ricordata solo una delle reazioni della folla, alla vista dei discepoli, la reazione di incantato stupore: “erano stupiti, fuori di sé per la meraviglia”. Ma il brano taceva l’altra reazione, quella di coloro che li deridevano e dicevano: “Si sono ubriacati di vino dolce”. Ebbene forse, senza saperlo, dicevano una grande verità, perché lo Spirito potremmo anche intravederlo nell’immagine del vino dolce: “la sobria ebbrezza dello Spirito”, canta la liturgia. Ecco allora l’invito. Lasciati prendere dal vino nuovo, lasciati invadere dall’ebbrezza dello Spirito, lasciati trasportare da questo vento creatore. È la nostra salvezza. Dico che è la nostra salvezza perché il pericolo che sento, forse perché sto invecchiando, è quello dell’opacità e della stanchezza: e le parole diventano opache e stanche, i gesti opachi e stanchi, i riti opachi e stanchi, le strutture opache e stanche, le giornate opache e stanche… e il Vangelo un libro, e Gesù un nome. Che le parole tornino ad essere abitate dallo Spirito, parole con dentro una passione, e i gesti abitati dallo Spirito, gesti con dentro una passione, i riti abitati dallo Spirito, riti con dentro una passione, le strutture ecclesiali e civili abitate dallo Spirito, strutture con dentro una passione, le nostre giornate abitate dallo Spirito, giornate con dentro una passione, e il Vangelo diventi potenza di Dio e Gesù, non un nome, ma il vivente. Non ne possiamo più dei discorsi vuoti, senza cuore, dei gesti vuoti, senza cuore, dei riti vuoti, senza cuore, delle strutture vuote, senza cuore, delle giornate vuote, senza cuore. Occorre ritrovare, ma è un dono, la passione, occorre ritrovare il cuore, occorre ritrovare un’anima. Dare lo Spirito, dare un’anima. A noi stessi e alle cose. E i volti torneranno ad essere abitati. I gesti con dentro una passione. In un antico detto dei padri del deserto è scritto: «Un anziano era solito ripetere: “Spesso, quando il diacono diceva: ‘scambiatevi l’abbraccio di pace’, ho visto lo Spirito Santo sulla bocca dei fratelli”». Che succeda! Tra noi! Per la riflessione Come educarci all’ascolto del magistero silenzioso dello Spirito nelle coscienze? Come lasciarci condurre per vie insolite? E la passione del bene comune?