CONCILIOVATICANOIIXL
LA GLORIA DI DIO E L’AMORE PER L’UOMO
Rilettura dell’omilia svolta da Paolo VI il 7 dicembre 1965
alla vigilia della conclusione del Concilio Vaticano II
Novara Cattedrale, 8 dicembre 20051
È facile immaginare che la preparazione di questa importante omilia abbia
impegnato anche le ore notturne di Paolo VI. Chi legge il testo italiano (dato che
il testo ufficiale è in latino) avverte subito che il Papa lo ha scritto di suo pugno:
il vocabolario, lo sviluppo della frase, il passaggio da un paragrafo all’altro, la
struttura complessiva dell’intervento manifestano chiaramente la mano
dell’autore.
Il Concilio e la gloria di Dio
Qual è il tema che Paolo VI ritenne di dover mettere in primo piano
rivolgendosi ai Padri Conciliari, prima del saluto finale, dopo quattro anni di un
lavoro comune iniziato con Giovanni XXIII?
Ecco la risposta che egli diede: “Vogliamo riservare questo momento
prezioso ad un solo pensiero, che curva in unità i nostri spiriti e li solleva nello
stesso tempo al vertice delle nostre aspirazioni. Il pensiero è questo: qual è il
valore religioso del nostro Concilio? Religioso, diciamo, per il rapporto diretto
col Dio vivente, quel rapporto che è ragion d’essere della Chiesa e di quanto
ella crede, spera ed ama, di quanto ella è e fa. Possiamo dire d’aver dato gloria
a Dio, d’aver cercato la sua conoscenza ed il suo amore, d’aver progredito nello
sforzo della sua contemplazione, nell’ansia della sua celebrazione, e nell’arte
della sua proclamazione agli uomini che guardano a noi come a Pastori e
Maestri delle vie di Dio? Noi crediamo candidamente che sì”.
Paolo VI fa riferimento a Giovanni XXIII e alla allocuzione inaugurale del
Concilio: “Questo massimamente riguarda il Concilio Ecumenico: che il sacro
deposito della dottrina cristiana sia custodito e insegnato in forma più efficace…
Il Signore ha detto: Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia. Questo
primum esprime in quale direzione debbano muoversi i nostri pensieri e le
nostre forze”. In questo modo il medesimo spirito risulta presente mentre il
Il testo dell’omilia di Paolo VI (7 dicembre 1965) è reperibile in Enchiridion Vaticanum, 1, dal n. 448*
al n. 465*.
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Concilio si apre e mentre esso si chiude coinvolgendo due Papi.
Credo che l’omilia conclusiva di Paolo VI avrebbe potuto avere sviluppi
molto diversi da quello che invece ha avuto, e su questo occorre meditare. Quel
grande uomo, che Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica Redemptor
hominis chiamerà suo padre spirituale, rileggeva il Concilio chiedendosi se era
stato, per la Chiesa, dal principio alla fine, soprattutto un modo di dare gloria a
Dio. È in questo modo – sembra suggerire il Papa a quarant’anni da quel giorno
del 1965 – che la Chiesa deve intendere tutto il suo cammino e la sua azione
pastorale: per la gloria di Dio, trasformando la sua vita in una liturgia. Come
suggeriva l’apostolo Paolo ai Romani: “Offrite i vostri corpi come sacrificio
perenne a Dio” (Rm 12,1).
Concilio e Chiesa
È interessante notare che, subito dopo le parole introduttive, Paolo VI
sollevi una domanda, che forse avvertiva anche come un’obiezione nei
confronti dell’esperienza conciliare: “Si dirà che il Concilio più che delle divine
verità si è occupato principalmente della Chiesa. È vero. Ma questa
introspezione non è stata fine a se stessa”. Mirava invece a “ritrovare in se
stessa vivente ed operante, nello Spirito Santo, la parola di Cristo” e a “scrutare
più a fondo il mistero, cioè il disegno della presenza di Dio sopra e dentro di sé,
e per ravvivare in sé quella fede che è il segreto della sua sicurezza e della
sapienza e dell’amore che la obbliga a cantare senza posa le lodi di Dio”.
A riprova di queste affermazioni il Papa cita alcuni documenti conciliari che
esprimono in maniera particolarmente netta l’intento profondo della riflessione
del Concilio sulla Chiesa (fa riferimento a: Dei Verbum, Sacrosanctum
concilium, Lumen gentium, Presbyterorum ordinis, Perfectae caritatis,
Apostolicam actuositatem). A questo riguardo dice che essi “lasciano
chiaramente trasparire la diretta e primaria intenzione religiosa del Concilio, e
dimostrano quanto sia limpida e fresca la ricca vena spirituale che il vivo
contatto con il Dio vivo fa erompere nel seno della Chiesa, e da lei effondere
sulle aride zolle della nostra terra”.
Sappiamo che nelle fasi iniziali del Concilio fu proprio il card. Montini a
proporre con grande lucidità e vigore che il Concilio Vaticano II approfondisse il
tema della Chiesa, completando in questo modo i lavori del Concilio Vaticano I.
E così avvenne. Ne è un segno fondamentale la Lumen gentium e ciò che in
essa, con un orizzonte e un linguaggio effettivamente nuovi, viene detto del
“mistero” della Chiesa, della Chiesa come popolo di Dio e corpo di Cristo, della
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natura profonda dell’Episcopato.
In questo momento mi pare di sentire la voce profonda di Paolo VI e di
vedere i suoi occhi sempre così protesi a guardare negli occhi i suoi
interlocutori. Egli forse ci sollecita a far tesoro di quanto è stato detto dal
Concilio, più che su “che cosa è” la Chiesa, su “chi è” la Chiesa. La
perseveranza nella fede ha molto bisogno oggi che, quando si adopera il
termine “Chiesa”, a questa parola non si dia il significato corrente nei massmedia, normalmente fermi agli aspetti sociologici, ma abbia la ricchezza
propriamente teologica di una realtà di grazia che, appunto, fa di noi il popolo di
Dio e il corpo di Cristo.
Concilio e mondo contemporaneo
Paolo VI, insieme con la domanda che ho già ricordato, ne fa emergere
anche un’altra che, forse ancor più della precedente, poteva assomigliare a una
obiezione nei confronti dei lavori conciliari. Essa riguarda la rilevanza data dal
Concilio al mondo. Vediamo dunque da vicino che cosa, a questo proposito, ha
detto Paolo VI.
Anzitutto esprime una conferma: “Questo Concilio è stato vivamente
interessato dallo studio del mondo moderno. Non mai forse come in questa
occasione la Chiesa ha sentito il bisogno di conoscere, di avvicinare, di
comprendere, di penetrare, di servire, di evangelizzare la civiltà circostante, e di
coglierla, quasi di rincorrerla nel suo rapido e continuo mutamento”.
Spiega anche perché il Concilio ha fatto questa scelta: “Questo
atteggiamento, determinato dalle distanze e dalle fratture verificatesi negli ultimi
secoli, nel secolo scorso ed in questo specialmente, tra la Chiesa e la civiltà
profana, e sempre suggerito dalla missione salvatrice essenziale della Chiesa,
è stato fortemente e continuamente operante nel Concilio”.
Paolo VI affronta anche il sospetto che vede presente qua e là dicendo
che il vivo interesse per il cammino dell’umanità ha suggerito “ad alcuni il
sospetto che un tollerante e soverchio relativismo al mondo esteriore, alla storia
fuggente, alla moda culturale, ai bisogni contingenti, al pensiero altrui, abbia
dominato persone ed atti del Sinodo ecumenico, a scapito della fedeltà dovuta
alla tradizione e a danno dell’orientamento religioso del Concilio medesimo. Noi
non crediamo che questo malanno si debba ad esso imputare nelle sue vere e
profonde intenzioni e nelle sue autentiche manifestazioni”.
L’interessamento di Paolo VI per il mondo si era manifestato, anche con
parole drammatiche, già quando era Arcivescovo di Milano. Eravamo nella
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seconda metà degli anni cinquanta, ma già allora egli vedeva lucidamente
l’urgenza di riflettere, da parte della Chiesa, sulla condizione culturale nella
quale ci trovavamo immersi e che chiedeva un forte impegno di
evangelizzazione. Dopo 50 anni non si può non dargli ragione e considerare
che l’accento posto dal Concilio sul mondo contemporaneo nasceva dall’ansia
apostolica che bruciava da sempre nel cuore di Papa Montini. Non ci deve
sfuggire, nel discorso finale del Concilio, proprio mentre parla di un vivo
interesse nei confronti del mondo moderno, metta in evidenza le “distanze” e
parli addirittura di “fratture” verificatesi negli ultimi secoli. Si riferiva in
particolare, alla frattura culturale avvenuta, nei confronti della fede cristiana, già
nella seconda metà del Settecento e poi approfonditasi nell’Ottocento e nel
Novecento. Non c’è nessun irenismo in Paolo VI. L’attenzione al cammino
dell’umanità si accompagna a una grande lucidità nella lettura della situazione.
Ciò non impedisce, anzi lo porta a ribadire apertamente qual è
l’atteggiamento di fondo che ha guidato i lavori: “Vogliamo notare come la
religione del nostro Concilio sia stata principalmente la carità; e nessuno potrà
rimproverarlo di irreligiosità e di infedeltà al Vangelo per tale precipuo
orientamento, quando ricordiamo che è Cristo stesso ad insegnarci essere la
dilezione ai fratelli il carattere distintivo dei suoi discepoli, e quando lasciamo
risuonare nei nostri animi le parole apostoliche: «La religione pura e
immacolata, agli occhi di Dio e del Padre, è questa: visitare gli orfani e le
vedove nelle loro tribolazioni e conservarsi puri in questo mondo» (Gc 1,27); e
ancora: «Chi non ama il proprio fratello, che egli vede, come può amare Dio,
che egli non vede?» (Gv 4,20).
Il tempo del Concilio
La domanda circa il grande interesse del Concilio per l’uomo sollecita il
Papa a soffermarsi sul periodo storico nel quale la grande assise si è svolta.
Egli dice apertamente che l’uomo contemporaneo sfida la Chiesa e che il
Concilio ha affrontato apertamente questa difficile sfida: “La Chiesa del
Concilio, sì, si è assai occupata, oltre che di se stessa e del rapporto che a Dio
la unisce, dell’uomo al quale oggi in realtà si presenta”. Quest’uomo “si è quasi
drizzato davanti al consesso dei Padri conciliari”. Ne fa quasi una
fenomenologia ricordando “l’uomo tragico”, “l’uomo superuomo”, “l’uomo
infelice”, “l’uomo versatile pronto a recitare qualsiasi parte”, “l’uomo rigido
cultore della sola realtà scientifica”, “l’uomo com’è, che pensa, che ama, che
lavora, che sempre attende qualcosa”, “l’uomo sacro per l’innocenza della sua
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infanzia, per il mistero della sua povertà, per la pietà del suo dolore”, “l’uomo
individualista e l’uomo sociale”, “l’uomo «laudator temporis acti»” e “l’uomo
sognatore dell’avvenrie”, “l’uomo peccatore e l’uomo santo”. E aggiunge:
“L’umanesimo laico profano alla fine è apparso nella terribile statura ed ha, in
un certo senso, sfidato il Concilio. La religione del Dio che si è fatto uomo si è
incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio”.
A questo punto Paolo VI si sofferma su quello che è avvenuto in questo
confronto fra il Concilio e l’umanità contemporanea: “Che cosa è avvenuto?
Uno scontro, una lotta, un anatema? Poteva essere; ma non è avvenuto.
L’antica storia del samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio.
Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (e
tanto maggiori sono, quanto più grande si fa il figlio della terra) ha assorbito
l’attenzione del nostro Sinodo”. Conclude rivolgendosi alla cultura laica e
immanentista: “Dategli merito in questo almeno, voi umanisti moderni,
rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscerete il nostro
nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo”.
Come già in un passo precedente del discorso, anche qui è facile notare
che Paolo VI non fa una lettura ingenua del tempo del Concilio. Sa che esso
viene sfidato dall’umanesimo laico, chiuso alla trascendenza. Ma ritiene che, in
presenza di una simile situazione culturale, la Chiesa trova il paradigma al
quale ispirare quel difficile confronto nell’antica storia del samaritano. Conferma
così quell’atteggiamento di fondo, chiamato “carità”, a cui si era riferito prima. Il
fatto è che la Chiesa vive la propria missione se si fa carico, nel nome di Dio e
nel nome di Cristo, dell’intera umanità. Questa sua vocazione non può essere
indebolita dal fatto che il mondo sembra andare per una strada diversa rispetto
a quella da lei annunciata. Semmai questo è un motivo in più per considerare
attentamente e coraggiosamente per quali modi e quali sentieri andare alla
ricerca della pecorella smarrita, e con quali gesti e iniziative soffermarsi, come il
samaritano, sulla strada tra Gerusalemme e Gerico. È giusto notare che la
spinta che emerge da questa omilia di Paolo VI è forte. Forse occorre
aggiungere che non corrispondeva, allora, alla “mens communis” dei cristiani. E
ancora, che la sensibilità antropologica che qui emerge ha avuto un influsso
molto grande negli anni a venire, non riuscendo però ad avere sempre
l’equilibrio e la profondità testimoniata da Paolo VI. Un motivo in più, questo,
per riprendere in mano e meditare attentamente le parole che egli disse in un
momento particolarmente significativo, cioè al termine di tutti i lavori conciliari, e
per rileggere con lui i documenti del Concilio.
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Amare l’uomo per amare Dio
Come si era aperto, così si è concluso richiamando di nuovo il tema scelto
da Paolo VI. L’interesse del Concilio per l’uomo è stato suggerito dal “carattere
pastorale che ha scelto quasi programma. Ma tale interesse non è mai
disgiunto dall’interesse religioso più autentico”. Il Concilio “sull’uomo e sulla
terra si piega, ma al Regno di Dio si solleva. La religione cattolica e la vita
umana riaffermano così la loro alleanza, la loro convergenza in una sola umana
realtà: la religione cattolica è per l’umanità; in certo senso essa è la vita
dell’umanità. È la vita, per l’interpretazione, finalmente esatta e sublime, che la
nostra religione dà all’uomo (non è l’uomo, da solo, mistero a se stesso?)”; e la
dà precisamente in virtù della sua scienza di Dio: per conoscere l’uomo, l’uomo
vero, l’uomo integrale, bisogna conoscere Dio; ci basti ora, a prova di ciò,
ricordare la fiammante parola di Santa Caterina da Siena: «Nella tua natura,
Deità eterna, conoscerò la natura mia» (Orazione 24)”.
Paolo VI aggiunge ancora: “Se noi ricordiamo come nel volto d’ogni uomo,
specialmente se reso trasparente dalle sue lacrime e dai suoi dolori, possiamo
e dobbiamo ravvisare il volto di Cristo, il figlio dell’uomo, e se nel volto di Cristo
possiamo e dobbiamo ravvisare il volto del Padre celeste: «Chi vede me, disse
Gesù, vede anche il Padre» (Gv 14,9), il nostro umanesimo si fa cristianesimo e
il nostro cristianesimo si fa teocentrico”. Proprio per questo il Papa si chiede: “Il
Concilio non sarebbe, in definitiva, un semplice, nuovo e solenne insegnamento
ad amare l’uomo per amare Dio?”. Amare l’uomo, diciamo, non come
strumento, ma come primo fine, attraverso il quale possiamo giungere al fine
supremo che trascende tutte le realtà umane. E allora questo Concilio tutto si
risolve nel suo conclusivo significato religioso, altro non essendo che un
potente e amichevole invito all’umanità di oggi a ritrovare, per via di fraterno
amore, quel Dio «dal Quale – come diceva Agostino – allontanarsi è cadere, al
Quale rivolgersi è risorgere, nel Quale rimanere è stare saldi, al Quale ritornare
è rinascere, nel Quale abitare è vivere»”.
Quarant’anni fa Paolo VI proponeva alla Chiesa, e lo propone anche alla
Chiesa di oggi, di vivere nel suo tempo intensamente rivolta a dar gloria a Dio e
a interrogarsi in qual modo tutta l’umanità – ogni popolo – ogni persona possa
essere aiutata a mettere Dio al centro della vita, trovando così il fondamento di
una speranza che non delude nella benedizione che il Padre, per mezzo di
Cristo e nello Spirito Santo, riversa nel cuore di ogni creatura umana.
Mentre celebriamo la solennità dell’Immacolata, ricordando il quarantesimo
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anniversario della conclusione del Concilio Vaticano II, vogliamo far nostri i due
impegni indicati da Paolo VI per esprimere, nel contesto della vocazione propria
di ciascun di noi, una chiamata e una responsabilità che investono la Chiesa
intera. Esprime bene tutto questo Sant’Ireneo in un testo caro a mons. Aldo Del
Monte: “Gloria Dei vivens homo; vita autem hominis visio Dei”.
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