I rischi dell’integrazione finanziaria
di Marangoni Francesco e Miglioranza Mattia
La politica economica dei governi ha cominciato a considerare l’integrazione finanziaria una delle
priorità soltanto negli ultimi decenni. I rischi connessi alla liberalizzazione degli investimenti di
portafoglio espongono, infatti, il paese a diversi problemi macroeconomici che, con il verificarsi di
determinate circostanze, possono generare pesanti vincoli ed enormi costi.
In particolare, analizzeremo alcune importanti questioni salite prepotentemente alla ribalta in seguito
allo sviluppo dell’ integrazione finanziaria degli ultimi vent’anni e alle recenti ondate di crisi
finanziarie. Di particolare interesse risulta l’analisi inerente le dinamiche dei flussi di capitale sia in
entrata che in uscita.
L’entrata di capitali viene generalmente considerata un fenomeno positivo; ciononostante può
comportare un problema di gestione macroeconomica con conseguenze potenzialmente
destabilizzanti se gli afflussi sono di gran lunga superiori rispetto alle dimensioni dell’economia.
Soprattutto nelle economie emergenti, dove si tende a perseguire come obiettivo di politica economia
una qualche forma di parità del tasso di cambio, l’afflusso di capitali costringe le autorità monetarie
ad acquistare la valuta estera derivante dagli investimenti stranieri nel paese, creando base monetaria
attraverso il canale estero. La così accresciuta disponibilità di moneta si riflette positivamente sul
credito e genera una diminuzione del tasso d’interesse, spingendo verso l’alto la domanda aggregata,
anche grazie agli effetti-ricchezza causati dall’ aumento degli effetti degli assets reali e finanziari.
E’ molto probabile che in una prima fase l’ inutilizzata capacità produttiva favorisca l’espandersi
dell’ attività economica, ma provochi un deterioramento delle partite correnti della bilancia dei
pagamenti. Successivamente, data la presenza di forti limiti strutturali del sistema economico,
potrebbe verificarsi quel processo che la dottrina definisce come overheating, fenomeno che registra
un processo inflazionistico che a sua volta, in presenza di un cambio nominale fisso, determina un
apprezzamento del cambio reale e quindi un peggioramento delle partite correnti.
Ricapitolando, i sintomi tipici dell’ overheating sono accelerazione dell’ attività economica,
deterioramento del saldo delle P.C., crescita dell’ inflazione e apprezzamento del tasso di cambio
reale.
Le misure di politica economica che possono essere messe in atto per limitare gli effetti
macroeconomici indesiderati consistono:
a) in una riduzione degli afflussi netti di valuta estera;
b) in un aumento dei deflussi ottenuti dalla liberalizzazione commerciale, dagli investimenti
nazionali all’estero e da un’ eventuale restituzione dei debiti esteri.
c) I una limitazione dell’ impatto dei afflussi di capitale sugli aggregati monetari e creditizi
interni e/o tramite politiche di sterilizzazione e/o aumento della ROB e/o aumento della
pressione fiscale o con il definitivo abbandono del cambio fisso.
Il secondo aspetto, precedentemente accennato, riguarda i deflussi consistenti ed improvvisi da un
paese. A tale proposito va sottolineato come, sebbene la volatilità dei movimenti di capitale sia
recentemente solo lievemente aumentata, la dimensione assoluta di questi scostamenti abbia subito
un incremento considerevole. .
L’integrazione finanziaria internazionale può determinare una maggiore volatilità dei flussi di
capitale, e quindi aumentare la probabilità di crisi finanziaria; crisi finanziarie osannate da una parte
della dottrina perché considerate fondamentali per un’economia capitalistica per il loro tipico ruolo di
pulizia del sistema, ma osteggiate dall’altra perché estremamente costose in termini di distruzione di
ricchezza e mancata crescita.
Una semplice tassonomia delle crisi finanziare deve distinguere tre tipi di situazioni di crisi, ovvero
crisi valutaria o di bilancia dei pagamenti, crisi sistemica del settore bancario e finanziario e crisi del
debito; fenomeni che comunque spesso coesistono nel manifestarsi di un tale evento economico. Esse
inoltre si possono sviluppare attraverso tre principali canali: fattori interni, fattori esterni e intrinseche
instabilità dei mercati finanziari internazionali.
Per shock esterni si intende qualsiasi causa che riduca le entrate di valute pregiate nel paese o
aumenta i pagamenti del paese al resto del mondo.
Essi possono esser rappresentati da una modifica delle ragioni di scambio, come ad esempio una
caduta non anticipata dei prezzi alle esportazioni che può mettere in difficoltà le imprese esportatrici;
da un rallentamento nella domanda aggregata mondiale o da un brusco movimento nei tassi di cambio
tra le principali valute chiave.
La variazione dei tassi di interesse al ribasso nei paesi industrializzati favorisce significanti
riallocazioni di portafoglio con forti investimenti nelle economie emergenti. Una marcata crescita,
invece, interromperebbe e ridurrebbe il flusso di investimenti finanziari verso dei paesi emergenti con
gravi conseguenze finanziarie per questi ultimi.
Il verificarsi di un asset substitution potrebbe generare una ricomposizione dei portafogli negativa
per il paese dando luogo a deflussi di capitali consistenti e inattesi. In secondo luogo i più alti tassi di
interesse sia esteri che interni influenzano negativamente il merito di credito e l’affidabilità dei
prenditori dei paesi meno sviluppati. In terzo luogo tassi di interesse elevati possono provocare
problemi alle banche sia sul lato dell’attivo (adverse selection e moral hazard) che del passivo
(aumento dei costi della raccolta sui mercati nazionali ed internazionali).
Relativamente alle cause interne, la letteratura economica analizza con vari modelli gli effetti di
politiche macroeconomiche insostenibili. Grazie ai contributi di Krugman e di Flood, il modello
canonico o di prima generazione spiega il verificarsi di crisi valutarie come la logica conseguenza di
una incompatibilità di una politica fiscale e monetaria, con la presenza di un cambio fisso, da un lato,
e con il comportamento razionale degli operatori che attuano l’attacco speculativo, dall’altro.
Si supponga che le autorità centrali si impegnino a mantenere una qualche parità del tasso di cambio e
che contemporaneamente il governo registri costanti disavanzi di bilancio, finanziati con creazione
di moneta. Nel lungo periodo le politiche fiscali e monetarie adottate sono però incompatibili con un
cambio fisso. Gli operatori, in presenza di continui deficit, saranno portati a rivedere al ribasso le loro
aspettative riguardo al tasso di cambio che si registrerebbe in assenza di un intervento discrezionale
della banca centrale – si parla di “shadow price”.
Le aspettative di operatori razionali collocano un dato tempo t in cui le autorità monetarie non
saranno più in grado di sostenere una fissità del cambio, per l’esaurimento delle riserve ufficiali. Essi
riterranno allora più profittevole detenere attività finanziarie denominate in valuta ed inizieranno a
vendere quelle in valuta domestica ad un certo tempo t-1, anticipando così l’esaurimento delle riserve
e l’abbandono del cambio fisso. Ma, continuando, se si prevede l’abbandono nel tempo t-1, operatori
razionali troveranno conveniente vendere attività nazionali e spostarsi su quelle estere al tempo t-2, e
così via. In altre parole, quando l’inconsistenza di politiche macroeconomiche fa salire il valore dello
shadow price del cambio oltre al valore annunciato dalla parità fissa si verificherà un attacco
speculativo che costringerà le autorità a svalutare.
Da sottolineare come il modello di prima generazione dimostri che la fuga di capitali rifletta un
comportamento degli operatori tutt’altro che irrazionale, ma frutto di una valutazione che illustra la
miopia di politiche economiche incompatibili con un cambio fisso1.
Esiste un altro filone di contributi –denominati i modelli della seconda generazione- nel quale
vengono criticate alcune ipotesi estremamente semplificatrici, quali ad esempio un’automatica e
meccanica difesa del cambio con la sola vendita di riserve ufficiali o una politica di monetizzazione
dei disavanzi di bilancio, incurante della situazione esterna. La caratteristica più importante di questo
secondo approccio è l’inserimento di un trade-off nella decisione di abbandonare un regime di
cambio fisso. I benefici associabili ad un cambio fisso dovrebbero facilitare l’investimento e gli
scambi internazionali e contribuire alla lotta contro l’inflazione. Le ragioni di un abbandono del
cambio fisso potrebbero scaturire, invece, da un’inflazione più elevata rispetto ai paesi concorrenti,
da un deterioramento delle partite correnti e da una caduta occupazionale, per effetto di un
apprezzamento del cambio reale; inoltre il costo di difendere una determinata parità, associabile ai più
alti tassi di interesse praticati e/o alla perdita di riserve ufficiali, tende ad aumentare quando il
mercato sospetta che il regime di cambio fisso possa essere lasciato.
Il modello di seconda generazione illustra l’attacco speculativo sulla falsa riga del modello canonico,
evidenziando come gli operatori fiutino che il trade-off delle autorità si stia spostando verso
l’abbandono della fissità del cambio e ritengano pertanto più conveniente investimenti in attività
estere. Come nel caso precedente, il comportamento degli speculatori accelera i tempi della
svalutazione, ma non ne costituisce una causa prima.
Gli squilibri macroeconomici, come un’eccessiva volatilità dell’inflazione, possono provocare anche
delle crisi bancarie e finanziarie. Una repentina caduta dell’inflazione può far aumentare i tassi reali
sui debiti delle imprese contratti in periodi precedenti e con tassi di interesse nominali fissi. Questo
può aggravare anche la situazione delle stesse banche, rendendo più gravose persino le sue funzioni
tipiche: in presenza di un’eccessiva volatilità inflattiva diventa più ardua la selezione dei progetti più
remunerativi e delle clientela più affidabile.
Inoltre, la fragilità del sistema bancario potrebbe rappresentare una remora importante per la gestione
della politica monetaria. Un eventuale innalzamento dei tassi di interesse dovrebbe essere cautamente
soppesato con le possibili ricadute sull’attività economica e quindi sulla capacità dei prenditori di
fondi di restituire i finanziamenti, con un effetto negativo sul prezzo dei titoli e con un maggior costo
della raccolta.
Una terza macrocategoria di fattori che può esser d’aiuto per comprendere le crisi finanziarie,
soprattutto le più recenti, chiama in causa l’ intrinseca instabilità dei mercati finanziari; ovvero fattori
che possono, se non proprio innescare, almeno rafforzare l’ampiezza e gli effetti delle crisi
finanziarie.
A tale proposito sono due le principali questioni che dobbiamo considerare per aumentare la
comprensione delle crisi. In prima istanza, dobbiamo chiederci perché si registrano enormi afflussi di
capitali verso alcune economie emergenti, data l’elevata rischiosità di questi paesi. La dottrina ne
identifica la causa nella scelta dei regimi di cambio fisso, che potrebbero distorcere i comportamenti
sia degli investitori internazionali sia dei debitori, dati gli alti tassi d’interesse talvolta necessari per
sostenere il cambio fisso.
In secondo luogo, dobbiamo interrogarci sul perché della volatilità che caratterizza alcune
componenti di questi flussi; a tale proposito la nostra attenzione si deve soffermare
sugli
investimenti portafoglio che, al contrario degli investimenti produttivi che rientrano in un’ottica
aziendale di lungo periodo, ubbidiscono ad una logica di gestione e di allocazione dei portafogli
finanziari attenta ai differenziali di breve periodo tra i tassi di rendimento e possono esporre , per loro
natura, un paese a notevoli rischi finanziari.
Per quanto riguarda l’elevata instabilità dei rischi di portafoglio ci sono molti aspetti che possono
spiegarla e che possono dare conto del fenomeno del contagio. Tra essi va menzionata
l’incompletezza informativa,che spinge gli operatori a prendere decisioni osservando e basandosi sul
comportamento di altri operatori; meccanismo che può contribuire a spiegare il contagio che si
manifesta all’interno di un’ area geografica. A ciò si deve aggiungere il comportamento adottato dai
gestori di fondi comuni, nel seguire i trends di mercato per realizzare prestazioni non inferiori a quelli
dei loro colleghi. Sempre i gestori di fondi potrebbero essere obbligati ad investire in paesi con rating
minimo; una revisione al ribasso del rating potrebbe innescare un processo di vendite che alimentano
gli effetti negativi della crisi sui prezzi degli assets.
Non v’è comunque da dimenticare che la maggior frequenza delle crisi finanziarie nelle vicende
economiche si sia manifestata in economie meno sviluppate ed in particolare in quelle emergenti.Ciò
può essere spiegato partendo dall’assetto economico di questi paesi, generalmente più fragili e più
instabili rispetto alle economie dei paesi industrializzati,nonché maggiormente esposti a problemi di
informazioni incomplete ed asimmetriche. Quest’ultime si possono verificare a causa del diverso
grado d’informazione tra le autorità del paese e gli investitori internazionali, che potrebbero investire
più di quanto sarebbe giustificato in ragione dell’effettiva situazione di rischio del paese; a ciò va
sommato l’aspetto distorsivo provocato da leadership che possono alimentare comportamenti
imitativi da parte degli investitori (hearding behavior) provocando ondate di investimenti e
disinvestimenti che si traducono in aumenti della volatilità.
Come abbiamo già accennato, i costi macroeconomici determinati da massicce ed improvvise uscite
di capitale da un paese possono essere di notevole portata. Vale la pena di soffermasi, dunque, sui
diversi possibili effetti che, al generarsi di una crisi, spesso si alimentano l’un l’altro mettendo in atto
veri e propri circoli viziosi e provocando forti danni in termini di distruzione della ricchezza.
In primo luogo, il deflusso di capitali comporta una forte perdita di valore della valuta del paese in
esame nella forma di un deprezzamento o di una svalutazione a seconda del regime del cambio
vigente.La perdita di valore è causata dalle richieste di conversione della valuta domestica in valute
estere che derivano sia dagli investitori esteri, sia dai residenti che ricercano protezione per la loro
ricchezza acquistando attività denominate in valute estere2.In secondo luogo, i deflussi di capitale si
associano ad un aumento dei tassi di interesse interni, dato che le autorità cercano di arginare l’uscita
di capitali innalzando i tassi d’interesse a breve, e perché la maggior offerta di titoli domestici
determina una pressione al rialzo dei tassi3. In terzo luogo, durante una crisi finanziaria si assiste ad
un declino molto pronunciato dei corsi azionari, dovuto alla perdita di fiducia che si manifesta nei
confronti delle prospettive economiche del paese
Non va, inoltre, scordato che la crisi finanziaria comporta generalmente una riduzione dei tassi di
crescita delle economie (Tabella A),riconducibile a diversi fattori quali la perdita di fiducia nelle
prospettive di crescita di un paese, gli elevati tassi di interesse, la caduta nei livelli di consumo e degli
investimenti .In quinto luogo anche i prezzi degli immobili registrano spesso una caduta dovuta
all’innalzamento dei tassi d’interesse, alla diminuzione della crescita economica, e alla minore
disponibilità di credito.
Gli effetti negativi che si registrano a livello macroeconomico possono inoltre determinare
conseguenze molto pesanti sul sistema bancario attivando così un altro fronte di serie difficoltà per il
paese che sperimenta l’uscita di capitali. La crisi economica che si manifesta nel sistema economico
può infatti peggiorare gli equilibri economici e finanziari del sistema bancario. Ciò si deve al
deterioramento del portafoglio titoli bancario, alla crisi del sistema reale che si ripercuote in termini
di possibili insolvenze nei confronti del sistema bancario.
Nel considerare gli effetti di una crisi finanziaria non si può, comunque, prescindere dal considerarne
gli effetti sociali;le crisi finanziarie non sono “un gioco a somma zero”, le perdite di una parte non
sono compensate dai guadagni di un’altra, se non altro perché anche chi non partecipa al gioco viene
travolto dagli effetti delle crisi. Infatti, da un lato la svalutazione di una moneta sotto le pressioni degli
speculatori può rendere gravoso il pagamento di quella parte di debito denominato in valuta estera
(nel caso di PVS); dall’altro le importazioni diventano più costose ed il conseguente aumento dei
prezzi provoca una spirale di inflazione (Tabella B). I due effetti insieme riducono il reddito delle
popolazioni coinvolte tramite una riduzione del potere d’acquisto dei salari e del consumo delle
famiglie (Tabella C). In più la fuga dei capitali rende il credito più costoso, cosicché anche imprese
sane potrebbero essere costrette a chiudere o a ridimensionare la loro attività, con un effetto spesso
drammatico sull’occupazione (Tabella D).
La riduzione del reddito fa diminuire il gettito fiscale che, insieme all’aumento dei prezzi, peggiora i
conti pubblici, il deficit pubblico primario, e rende indispensabili tagli alla già deficitaria spesa
pubblica:in seguito alla tempesta finanziaria, in Indonesia l’inflazione nel 1998 arrivò al 65% e la
disoccupazione salì al 6,6%; in Corea la disoccupazione passò dal 2,6 al 7,7%, raddoppiando il
numero dei poveri. La Banca Mondiale stima che ci sarebbero voluti sette anni, nella migliore delle
ipotesi, perché i livelli di salari e occupazione ritornino a quelli del 1997.
La dottrina ha cercato di individuare i principali strumenti di intervento in una situazione di crisi
finanziaria. Bisogna subito osservare come una delle politiche meno efficaci sia rappresentata dalla
reintroduzione dei controlli che, se molto estesi e se tenuti in vigore per troppo tempo, potrebbero
eliminare i vantaggi connessi all’afflusso di capitali con gravi ripercussioni sull’apparato economico.
I controlli potrebbero essere aggirati ed elusi mediante circuiti alternativi e potrebbero generare effetti
aberranti e distortivi sul comportamento degli operatori, sebbene consentano, almeno in un primo
momento, di preservare una certa autonomia della politica monetaria.
I modelli di prima e seconda generazione ritengono decisamente più efficaci sane e consistenti
politiche fiscali e monetarie al fine di minimizzare la possibilità di un attacco speculativo.
Sul piano strutturale, il settore più importante è quello finanziario, e più in particolare quello
bancario. Sono ritenuti indispensabili un adeguato impianto legislativo in linea con gli standard
internazionali, che obbligano gli intermediari finanziari a dotarsi di sistemi di controllo del rischio e a
requisiti minimi di capitale per far fronte ad eventuali situazioni di difficoltà; necessario è altresì un
complesso di autorità e di istituzioni di vigilanza e la possibilità che gli operatori usufruiscano di
informazioni economiche tempestive ed affidabili.
La scelta del regime di cambio, invece, riflette necessariamente l’importanza attribuibile a una
politica monetaria autonoma che a sua volta dipende dalla disponibilità di strumenti di stabilizzazione
alternativi e dagli schoks che colpiscono l’economia. A tal riguardo si suole prescrivere per gli shoks
di carattere nominale un regime di cambio fisso, per quelli di natura reale una flessibilità nella
fissazione del cambio stesso.
Pei i cambi fissi, l’obiettivo della politica del cambio dovrebbe esser quello di gestire la valuta
evitando l’eventualità di un eccessivo scostamento dal cambio reale. Gli attacchi speculativi
verrebbero invece meglio immunizzati dall’adozione del cambio flessibile, che rifletterebbe le varie
aspettative sulla situazione presente e futura del paese.
1
Negli ultimi 25 anni si sono susseguite 158 crisi finanziarie dovute a pressioni sul cambio e 54 crisi bancarie
(dati del FMI). Queste ultime sono diventate più frequenti dopo il 1987, in seguito alla liberalizzazione dei mercati
finanziari.
2
Il peso Messicano durante la crisi del 1995 perse circa la metà del suo valore rispetto al dollaro americano.
3
Fenomeni di forte crescita dei tassi d’interesse sono stati registrati durante tutte le crisi finanziarie.
-Tabella A- Crescita del Prodotto Nazionale Lordo, in termini reali
1996
1997
Indonesia*
8,2
2,0
Tailandia
5,5
-0,4
Repubblica della Corea 7,1
5,5
*dati riportati per periodi 1996/1997, 1997/98, 1998/1999.
1998
-16
da –7 a -8
-7,0
-Tabella B- Inflazione (misurata come variazione dell’Indice dei prezzi al consumo)
1996
Indonesia*
5,2
Tailandia
5,9
Repubblica della Corea 4,9
1997
12,9
5,6
6,6
1998
65
8,0
5,5
-Tabella C- Aumento della povertà dovuta alla crisi (1998)
Paese
Aumento del numero
dei poveri
Milioni percentuale
della
popolazione
dovuto alla
disoccupazione
Milioni
percentuale
dell’aumento
totale
dovuto all’inflazione
Milioni
percentuale
dell’aumento
totale
Indonesia
39,9
20
12,3
30,8
27,6
69,2
Repubblica della
Corea
5,5
12
4,7
85,5
0,8
14,5
6,7
12
5,4
80,6
1,3
19,4
Tailandia
-Tabella D- Disoccupazione, valori percentuali (%)
Indonesia
Repubblica della Corea
Tailandia
Malesia
1997
4,7
2,6
1,9
2,7
1998
6,6
7,7
4,4
4,4
Dati tratti da: Helen Hayward: Costing the casino. The real Impact of currency in the 1990s.