Guerra ai civili. Le stragi tra storia e memoria.
di Paolo Pezzino
1) Nuove ricerche
1
Un gruppo di ricerca nazionale ha censito, catalogato e analizzato le stragi di popolazione
civile commesse dall’esercito tedesco e da reparti della Repubblica Sociale Italiana in alcune
significative regioni italiane, utilizzando la documentazione da archivi italiani,britannici,
statunitensi e tedeschi, e la raccolta di testimonianze orali, per analizzare compiutamente sia le
modalità dei singoli episodi, sia le politiche della memoria costruite attorno a essi. Le zone
individuate sono significative sia dal punto di vista geografico (Napoli e la Campania, la Puglia, la
Toscana, l’Emilia e Romagna), sia dal punto di vista delle tipologie individuabili per i massacri e le
politiche della memoria. Infatti si tratta di aree nelle quali avvennero i primi massacri tedeschi in
Italia (nel territorio napoletano a partire dal settembre 1943), ma nelle quali la memoria degli stessi
è stata rimossa ed espulsa dal discorso pubblico; di un’area, come quella Toscana, dove la “guerra
ai civili” è stata caratterizzata da una particolare intensità, soprattutto nella primavera estate 1944, e
dove sono rintracciabili parecchi casi di memoria divisa; infine di una zona, l’Emilia e Romagna,
nella quale la politica del terrore trova attivi, accanto a quelli tedeschi, raparti della Repubblica
sociale, in una logica di guerra civile, ricomposta tuttavia dopo la guerra nella costruzione di
un’identità regionale “rossa”, e quindi antifascista.
Mancava finora un censimento di questi episodi, che li collocasse in un contesto storico
preciso: non sapevamo quanti fossero attribuibili a rappresaglie per azioni partigiane o si
collocassero piuttosto in una logica di terrorismo verso le popolazioni civili; non conoscevamo
spesso né l’esatto numero delle vittime, né i reparti responsabili di simili episodi. Alcuni episodi
erano ancora oscuri nelle modalità di svolgimento e, soprattutto, nelle motivazioni che li hanno
provocati. Non era stata analizzata, se non in pochi casi, la memoria elaborata a livello comunitario,
e la sue caratteristiche di memoria divisa o integrata nella celebrazione ufficiale del lutto.
Il tentativo è stato quello di una più precisa collocazione delle stragi nella storia,
ricostruendo le strutture di potere, le logiche e i condizionamenti culturali che le resero possibili, i
comportamenti e le finalità dei vari protagonisti, l’evoluzione complessa della memoria dei
sopravvissuti, le modalità con le quali la memoria comunitaria sia stata assunta, od espulsa, dal
paradigma antifascista dell’Italia repubblicana. Siamo partiti infatti dalla convinzione che in una
strage interagiscono tre attori: chi la compie (cioè i tedeschi, spesso coadiuvati da elementi locali
fascisti o da reparti della Repubblica Sociale), le popolazioni civili che le subiscono, ma anche i
partigiani, che della minaccia di rappresaglia indiscriminata da parte tedesca hanno dovuto tenere
conto nell’elaborazione di strategie politiche e tattiche militari, fornendo risposte spesso anche assai
differenziate. Solo ricostruendo le modalità delle interazioni tra questi tre attori sarà possibile uscire
dal racconto di singoli episodi, sempre unicamente tragici per i sopravvissuti, per i quali ogni
massacro ha una sua particolarità che lo rende unico, per trovare rispondere che ad alcuni nodi
tematici generali di grande interesse. Da questo punto di vista ci interessava anche sottoporre a
1
Il gruppo, formato dalle Università di Bari, Bologna, Napoli e Pisa, ha usufruito di finanziamenti
dal Murst per progetti nazionali di ricerca per il biennio novembre 1999-2001. Coordinatore nazionale, e
dell’unità pisana, è stato Paolo Pezzino, coordinatori degli altri gruppi locali Luigi Masella (Bari), Luciano
Casali (Bologna), Gabriella Gribaudi (Napoli). I risultati della ricerca sono stati presentati al convegno
internazionale di studi “Guerra ai civili. Stragi, violenza e crimini di guerra in Italia e in Europa durante la
seconda guerra mondiale: i fatti, le memorie, i processi”, Bologna, 19-22 giugno 2002. Inoltre sono di
imminente pubblicazione per l’ancora del mediterraneo, tre volumi collectanei, dedicati a Campania, Emilia,
Toscana, e due volumi che raccoglieranno i materiali del convegno, per i tipi de il Mulino.
verifica le posizioni di chi, come Leonardo Paggi, ha scritto che “il massacro si configura come
un’azione ‘gratuita’, avulsa, nonostante le apparenze, da una logica strumentale del tipo mezzofine”. A suo avviso solo apparentemente l’eccidio risponde alle necessità belliche, alla repressione
dell’attività partigiana, alle finalità di una rappresaglia, dato che comunque “la politica di
indiscriminata repressione provoca una crescente opposizione geometrica della opposizione armata
al regime di occupazione militare. Per riprendere la distinzione avanzata da Freud in Considerazioni
attuali sulla guerra e la morte del 1915, la politica del massacro, assolutamente inspiegabile in
termini di ‘interessi’, si configurerebbe invece come il prodotto di una ‘passione’, che cerca di
camuffarsi e autolegittimarsi appellandosi alla razionalità di un interesse”. E, nello stesso volume,
Angela Scali propone l’interpretazione del massacro come “la manifestazione più lucida del punto
2
di massima aberrazione umana, un’esplosione di follia totale” .
E’ un’interpretazione che non mi convince: sia il caso di Civitella Val di Chiana, al quale
Paggi si riferisce, sia molti altri fra quelli da noi presi in esame dimostrano che un qualche risultato
la “politica” delle stragi lo ottenne: a volte infatti, e più frequentemente di quanto non si sia finora
ammesso, le rappresaglie hanno attivato, od allargato, le fratture tra popolazioni e partigiani,
impedendo a questi ultimi di dispiegare tutto il proprio potenziale militare. Una qualche razionalità
strumentale a chi programmò i massacri va quindi riconosciuta, e bisogna analizzare la loro logica
interna con il distacco dello scienziato sociale, come un vero e proprio oggetto di ricerca. Ciò
significa piuttosto riportare lo studio dei massacri ad un’attenta contestualizzazione che consenta di
evitare richiami, che non spiegano molto sul piano analitico, all’irrazionalità del male, o al substrato
immodificabile di violenza della natura umana, al terrore fine a se stesso. Paggi afferma anche che il
“massacro nazista è un rituale che si ripete ossessivamente senza variazioni di sostanza”, ma
tuttavia “destinato ad assumere significati molto diversi a seconda del modo in cui esso si dispone
nella memoria della comunità dei sopravvissuti”. A noi sembra che dal punto di vista del contesto
storico, i massacri di civili che hanno accompagnato la campagna d’Italia si inseriscano invece in
3
fasi diverse (almeno cinque ne hanno individuate Collotti e Matta in un primo studio di sintesi , e
4
tre fasi ha individuato Klinkhammer . Quanto alle tipologie di episodi, Collotti e Matta ne hanno
individuate otto, il nostro gruppo ne ha elaborate cinque: a dimostrazione della estrema varietà di
situazion, ma anche della possibilità di arrivare ad un’enucleazione di caratteristiche comuni.
2) I perpetratori del massacro.
Il rinnovato interesse che la storiografia italiana ha dedicato al tema delle stragi di civili è il
frutto sia di alcune circostanze esterne (il cinquantennale di questi episodi, caduto nel 1994, i due
processi a Priebke per l’eccidio delle Cave Ardeatine, 1996-1997, ma anche dell’influenza di un
dibattito sviluppatosi in Germania sulla natura e le caratteristiche della guerra condotta dalla
Wehrmacht: gli storici tedeschi hanno molto discusso sul carattere di sterminio di questa guerra, e
dimostrato che protagonisti di molti eccidi di civili che la caratterizzarono in tutta Europa furono
non solo unità delle SS o truppe comunque specializzate, ma reparti regolari dell’esercito. Il lavoro
di revisione storiografica di questo luogo comune è uscito dal chiuso dei lavori accademici per
investire la coscienza nazionale dei cittadini tedeschi quando una mostra sui crimini della
2
Leonardo Paggi, Presentazione a Leonardo Paggi (a cura di), Storia e memoria di un massacro
ordinario, Roma, manifestolibri, 1996, p. 7; Angela Scali, Una vita riconquistata. La Resistenza muta della
gente di 3Civitella, ivi, p. 133.
Enzo Collotti-Tristano Matta, Rappresaglie, stragi, eccidi, in Enzo Collotti, Renato Sandri e
Frediano Sessi, a cura di, Dizionario della Resistenza, volume primo, Storia e geografia della Liberazione,
Torino, Einaudi,
2000, pp. 254-267.
4
Lutz Klinkhammer, Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili (1943-44), Roma, Donzelli,
1997, pp. 19-21.
5
Wehrmacht , allestita nel marzo 1995 per conto dell’Institut für Sozialforschung di Amburgo, e
portata in giro in 33 città tedesche e austriache fino al 1999, ha provocato contrastanti reazioni fra
gli studiosi e nell’opinione pubblica. La mostra è stata visitata da circa 800.000 persone, e fin
dall’inizio ha suscitato accanite discussioni: di essa si è occupato il Parlamento federale in due
dibattiti, oltre ad alcuni parlamenti locali. Il dibattito è stato peraltro attraversato da un “infortunio”
degli organizzatori: alla fine del 1999 tre studiosi pubblicarono i risultati di una ricerca che metteva
in dubbio la correttezza delle didascalie poste sotto alcune fotografie: in particolare si sosteneva che
alcune fotografie non documentavano, come spiegavano le didascalie, un pogrom contro gli ebrei,
ma persone uccise dal servizio segreto sovietico NKVD. La mostra è così stata ritirata poi il 4
novembre 1999, ed è stato costituito un comitato di storici indipendenti incaricato di sottoporre a
6
verifica l’intera mostra . Un anno dopo, il 15 novembre del 2000, il comitato presentava a
Francoforte sul Meno le conclusioni del suo lavoro: la mostra presentava errori nei contenuti, un
impreciso uso delle fonti, affermazioni troppo generiche e allusive, ma tuttavia non erano state
riscontrate falsificazioni che inficiassero la validità complessiva delle tesi sostenute. Il comitato
raccomandava quindi che la mostra fosse ripresentata al pubblico in una versione corretta e rivista.
La nuova mostra, Verbrechen der Wehrmacht. Dimensionen des Vernichtungskrieges 1941—1944 è
stata quindi inaugurata nel novembre del 2001 a Berlino, con una nuova sessione proprio sulle
controversie, politiche e filologiche, relative alla precedente mostra, e sta ancora girando per le città
tedesche. Da queste vicende, che denotano comunque un interessante ruolo di garanzia e di
certificazione di “verità” svolto dagli storici, e nel complesso un approccio critico al proprio passato
più incisivo che da noi, emerge chiaramente come le ricerche storiche stiano mettendo in
7
discussione quello che Gerhard Schreiber ha definito un “tabù” : la convinzione, per usare le parole
di Kesselring dopo la guerra, che nella loro condotta bellica “i soldati tedeschi […] non hanno
trascurato l’osservanza dei princìpi di umanità e le esigenze della cultura e dell’economia, e ciò in
8
una misura che raramente è dato riscontrare in conflitti di così grave portata” .
In Italia, dove quel tabù era particolarmente radicato nella stessa memoria dei sopravvissuti
(per i quali sono sempre state le SS a rendersi complici dei massacri) la ricerca ha investito la natura
delle stragi: se si riesce a dimostrare che la “guerra ai civili” fu l'effetto di un coordinamento delle
più alte autorità militari, e che vi furono coinvolti l'esercito e i suoi “uomini comuni”, molti dei
quali, del resto, erano stati spostati in Italia dal fronte orientale, dove avevano già sperimentato “die
brutalisierung des krieges” di cui parla Bartov, ne deriva che essa rappresenta un carattere
qualitativo del sistema di occupazione tedesco e un dato significativo per comprendere la natura del
sistema di occupazione tedesco e della stessa Repubblica Sociale Italiana. Sulla natura e le cause dei
massacri in Italia esiste una copiosa mole di testimonianze, fornite dai generali tedeschi subito dopo
la guerra, che ne adducono motivazioni strategico-militari: i massacri di civili sarebbero il risultato,
spiacevole ma inevitabile, di operazioni militari contro i partigiani, e troverebbe quindi una
motivazione utilitaristica e razionale in chi lo compie. Tutt’al più si fu disposti ad ammettere che
singoli reparti potessero avere ecceduto nel compito loro affidato, sfuggendo al controllo dei loro
5
Vernichtungskrieg. Verbrechen der Wehrmacht 1941 bis 1944. La mostra faceva parte di un più
ampio progetto di ricerca su Angesichts unseres Jahrhunderts. Gewalt und Destruktivität im
Zivilisationsprozeß.
6
Ne hanno fatto parte Omer Bartov, Cornelia Brink, Gerhard Hirschfeld, Friedrich Kahlenberg,
Manfred Messerschmidt, Reinhard Rürup, Christian Streit and Hans-Ulrich Thamerh. Notizie su queste
vicende e sulla mostra nel sito dell’Institut für Sozialforschung di Amburgo http://www.hisonline.de/index.htm. Il catalogo, dal titolo Verbrechen der Wehrmacht. Dimensionen des
Vernichtungskrieges 1941—1944 è stato pubblicato nel gennaio 2002 nelle edizioni dell’Istituto di Amburgo.
Solo ora viene tradotto in italiano, per i tipi de il Mulino, il libro fondamentale di Omer Bartov, Hitlers
Wehrmacht.
Soldaten, fanatismus und die brutalisierung des krieges, pubblicato ad Amburgo nel 1995.
7
Gerhard Schreiber, La vendetta tedesca, 1943-1945. Le rappresaglie naziste in Italia, Milano,
Mondadori,
2000 [1996], p. 3.
8
Memorie di guerra, 1954, cit. ivi, p. 235.
superiori, ma si addussero comunque motivi di comprensione per simili eccessi: l’andamento
sfavorevole del conflitto, le preoccupazioni per i bombardamenti in Germania, le modalità di
combattimento dei partigiani, giudicate poco leali. Di queste spiegazioni, naturalmente
deprivandole del tono giustificatorio che era loro proprio, echeggia l’eco nelle motivazioni di chi
oggi ritiene superfluo investigare su comportamenti che, si sostiene, sono tipici di tutti gli eserciti.
In una recensione molto critica di un intero filone di studi, Roberto Vivarelli, dopo avere affermato
che “di orrori particolare si macchiarono in quegli anni tutte le parti politiche che in quella lunga
guerra furono coinvolte, senza eccezioni”, affermava: “Dubito che molti degli episodi su cui questi
studi si fermano, di massacro di civili da parte di truppe germaniche, servano a meglio definire che
cosa fu il nazismo. Ciò almeno per tutti quei casi, e sono i più, che si svolsero nelle adiacenze della
linea del fronte o lungo le vie di collegamento tra fronte o retrovie, dove a torto o a ragione fu
ravvisato dai tedeschi il pericolo di azioni partigiane e un rischio per la sicurezza delle truppe.
Ovviamente non è in discussione l’atrocità dei fatti, ma credo che quei fatti, assai più che alla storia
del nazismo, appartengano alla storia di quel ben più generale fenomeno della storia umana, che è la
9
guerra” . Una prima domanda che ci si è posti, quindi, è quanto sia da attribuirsi all’ideologia
nazionalsocialista nel comportamento dell’esercito tedesco in Italia, quanto in altri termini le stragi
rappresentino un dato significativo per comprendere la natura del sistema di occupazione tedesco e
della stessa Repubblica Sociale Italiana, o non piuttosto un portato, privo di qualsiasi valenza
ideologica, della guerra totale del XX secolo.
Sono domande che si è posto anche lo studioso che ci ha fornito l’opera fondamentale
sull’occupazione tedesca in Italia, Lutz Klinkhammer. Secondo Klinkhammer, in estrema sintesi
delle sue tesi, nel quadro dell’organizzazione policratica del potere nazionalsocialista, e delle “lotte
di potere tra gli organi di governo rivali”, si dette spazio, nell’ambito di un sistema di ordini
draconiani che emanavano direttamente dagli alti comandi militari tedeschi, ad una radicalizzazione
della lotta contro la guerriglia, che rispondeva ad una intensificazione di questa a partire dal marzo
1944. Tuttavia, pur essendoci una sostanziale concordia dei vertici militari, “furono soprattutto
unità delle SS e altre formazioni di élite quelle che si ‘distinsero’ per la particolare brutalità e
10
crudeltà nella repressione della guerriglia” . Inoltre, in un secondo contributo specifico sulle stragi,
in merito alla “questione se negli eccidi tedeschi in Italia si sia mostrata o meno una specificità
nazista”, sostiene che “i massacri di popolazione civile non combattente non rappresentano la
norma in tutto il territorio italiano occupato”, mentre “una costante dell’occupazione in Italia è
costituita, al contrario, dall’arresto e dalla deportazione di ‘nemici’ politici e ideologici del regime
nazionalsocialista, e dall’uccisione – contro il diritto internazionale – dei partigiani, ai quali fino
all’autunno-inverno 1944 fu negato lo statuto di combattenti”. Perciò, non gli “sembra esserci una
differenza fondamentale tra i meccanismi della ‘lotta alle bande’ attuata dai tedeschi in Italia e
quelli di altre guerre di guerriglia”, ritenendo piuttosto tipici “i meccanismi del restante apparato
repressivo e soprattutto quelli della deportazione nei campi di concentramento nazisti. Queste forme
amministrativamente e burocraticamente perfezionate della lotta nazista contro il nemico furono
11
[…] il tratto distintivo della politica d’occupazione tedesca in Italia” .
9
Roberto Vivarelli, Guerra ai civili e vuoti di memoria, in “Belfagor”1998, n. 3, pp. 346-347 e 348.
A sostegno della sua argomentazione, Vivarelli richiamava il comportamento delle truppe italiane in
Jugoslavia, il comportamento delle armate napoleoniche, la repressione da parte delle truppe britanniche
della rivolta dei Sepoys in India nel 1857, il comportamento delle truppe francesi in Algerine, di quelle
americane in Vietnam e sovietiche in Afghanistan, e confrontava le circa 10.000 vittime civili delle stragi
con gli oltre
41.000 morti a causa dei bombardamenti alleati.
10
Lutz Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia. 1943-1945, Torino, Bollati Boringhieri, 1993,
p. 334. 11
Idem, Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili (1943-44), Roma, Donzelli, 1997, pp. 24,
18 e 103.
12
Gli studi italiani, articolati soprattutto sul livello locale, o tutt’al più subregionale , non
sono arrivati ad un’interpretazione complessiva del fenomeno: essi tuttavia, nella ricostruzione
minuziosa di alcuni episodi, hanno posto alcune questioni, sottolineando gli aspetti ideologici propri
di un intero esercito impregnato dell’ideologia nazista, e sottolineando il tipo di indottrinamento e
di educazione totalitaria cui erano stati sottoposti i soldati, i sottufficiali e gli ufficiali, della
Wehrmacht, che li porta a muovere una vera e propria “guerra ai civili” condotta con finalità
terroristiche, e spesso indipendente dall’effettiva consistenza dell’attività partigiana. In particolare
Battini e Pezzino, a conclusione di uno studio sui massacri di civili nella Toscana centrooccidentale, sottolineavano come “le disposizioni dell’esercito comportarono l’adozione di un’ottica
operativa squisitamente militare, che implicava sia un’intensificazione delle modalità repressive
adottate in precedenza che una certa libertà di azione per i comandanti delle unità nel dosaggio della
durezza. Tuttavia non vi furono affatto differenze importanti nelle procedure repressive adottate dai
diversi comandanti delle unità della Wehrmacht, dei reparti delle SS o della polizia tedesca in
Italia: anzi gli ordini e le procedure più drastiche che furono applicate provennero tutti da
comandanti di unità diverse dell’esercito”. Essi ritengono quindi che per lo meno per l’Italia
centrale esistesse “un piano e un meccanismo di repressione” che operò almeno fino all’autunno del
1944, e che, con l’accordo di tutte le autorità del sistema di occupazione, attribuì all’esercito le
responsabilità nelle zone operative. Il “coinvolgimento nei massacri di unità militari di qualsiasi
13
tipo” proverebbe questa tesi.
Battini e Pezzino arrivavano alle loro conclusioni dopo l’analisi di alcuni episodi, come la
strage del padule di Fucecchio e quella del Duomo di San Miniato (sulla quale è in corso una
controversia con chi la attribuisce ad un proiettile di artiglieria americano), nei quali operarono
reparti dell’esercito e non vi era evidenza di una forte attività partigiana, e sulla scorta di una
documentazione archivistica che utilizzava soprattutto le risultanze delle indagini inglesi e gli
interrogatori resi dai generali tedeschi prigionieri di guerra. Anche Collotti e Matta hanno sostenuto,
14
sulla scorta di Andrae e Schreiber, “l’intenzionalità della condotta terroristica della guerra da parte
della Wehrmacht, indipendentemente dal peso della minaccia della Resistenza nei confronti della
15
sua sicurezza” . E Schreiber, in un libro apparso nel 1996 in Germania e nel 2000 in Italia, ha
sostenuto che “riguardo ai crimini di guerra e alla condotta bellica nazista risulta quindi
inammissibile qualsiasi schematica distinzione fra la Wehrmacht e le Waffen-Ss, le SS o la polizia
[…] Tutte agirono come efficaci strumenti di un regime criminoso”. A suo avviso le stragi di
popolazione civile in Italia evidenziano una serie di stereotipi nei confronti dell’ex alleato fino ai
12
Rimando, senza alcuna pretesa di completezza, ed in ordine cronologico a Tristano Matta (a cura
di), Un percorso della memoria. Guida ai luoghi della violenza nazista e fascista in Italia, Milano, Electa,
1996; Leonardo Paggi, (a cura di), Storia e memoria cit.; Michele Battini-Paolo Pezzino, Guerra ai civili.
Occupazione tedesca e politica del massacro, Toscana, 1944, Venezia, Marsilio, 1997; Giovanni Contini, La
memoria divisa, Milano, Rizzoli, 1997; Leonardo Paggi (a cura di), La memoria del nazismo nell’Europa di
oggi, Scandicci (Firenze), La Nuova Italia, 1997; Paolo Pezzino, Anatomia di un massacro. Controversia
sopra una strage tedesca, Bologna, Il Mulino, 1997; Gloria Chianese (a cura di), Mezzogiorno: percorsi
della memoria tra guerra e dopoguerra, numero monografico di “Nord e Sud”, novembre-dicembre 1999;
Gabriella Gribaudi, Guerra, violenza, responsabilità. Alcuni volumi sui massacri nazisti in Italia, in
“Quaderni Storici”, 100, aprile 1999; Leonardo Paggi (a cura di), Le memorie della Repubblica, Scandicci
(Firenze), La Nuova Italia, 1999; Alessandro Portelli, L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse
Ardeatine, la memoria, Roma, Donzelli, 1999; Enzo Collotti-Tristano Matta, Rappresaglie, stragi, eccidi, in
Enzo Collotti, Renato Sandri e Frediano Sessi, a cura di, Dizionario della Resistenza, volume primo, Storia e
geografia della Liberazione, Torino, Einaudi, 2000, pp. 254-267; Paolo Pezzino, Storie di guerra civile.
L’eccidio di Niccioleta, Bologna, Il Mulino, 2001; Ivan Tognarini, Kesselring e le stragi nazifasciste. 1944:
estate di13sangue in Toscana, Roma, Carocci, 2002.
Michele Battini e Paolo Pezzino, Guerra ai civili cit., pp. XXII-XXIII.
14
F. Andrae, La Wehrmacht in Italia. La guerra delle forze armate tedesche contro la popolazione
civile 1943-1945,
Roma, Editori Riuniti, 1997 [1995];
15
Enzo Collotti-Tristano Matta, Rappresaglie cit., pp. 266-267
limiti del razzismo: “In ciò si concretizzò un’affinità mentale dei colpevoli con l’ideologia
nazionalsocialista, di cui essi introiettarono una visione dell’uomo improntata al razzismo […] Di
sicuro non si trattò di un razzismo paragonabile a quello che causò lo sterminio degli ebrei, bensì di
un atteggiamento razzistico che aveva come scopo il declassamento di una nazione […] Le relazioni
tra tedeschi e italiani furono all’epoca, in buona sostanza, quelle fra un Herrenvolk e uno
16
Sklavenvolk” . Una tesi condivisa da Collotti, per il quale le accuse di tradimento ed i propositi di
vendetta delle massime autorità tedesche furono “più che sufficienti per fornire al soldato tedesco
una immagine della popolazione italiana che non induceva a rispetto, che quando non ne mostrava
l’ostilità ne connotava comunque negativamente le qualità umane, la viltà, l’ignavia, la
fannullaggine, suggerendo nel complesso l’idea di una popolazione inferiore (a ciò equivaleva
l’epiteto di ‘meridionale’ o di ‘mediterraneo’), non in grado di competere con il popolo tedesco e
17
meritevole quindi di un trattamento di poco riguardo” .
Queste le tesi, se non opposte per lo meno dissonanti, che si confrontavano sulla natura e i
motivi della condotta dell’esercito tedesco. Rispetto alle quali, il lavoro di ricerca condotto dai
gruppi regionali consente, credo, di apportare alcune significative acquisizioni. Si tratta di ripartire,
innanzitutto, dalle conclusioni delle indagini inglesi, per contestualizzarle. Il 9 luglio 1945 un
ufficiale della British War Crime Section definiva la linea militare tedesca verso le popolazioni
civili italiane “una sistematica politica di sterminio, di saccheggi, di pirateria e di terrorismo”,
ponendo l'accento proprio sull'aspetto della pianificazione delle operazioni contro i civili, che
presupponeva una struttura di “organizzazioni funzionali” e “responsabilità per l’emanazione degli
18
ordini” . Gli inglesi, che più degli statunitensi si erano impegnati ad investigare su episodi di stragi
di civili, avevano concluso le loro indagini con un rapporto generale che l’11 di agosto del 1945
veniva inviato dal quartier generale alleato al Sottosegretario di Stato britannico del “War Office”,
insieme ad annessi ed appendici che contenevano i risultati delle investigazioni. Il “Report on
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German reprisals for partisan activity in Italy” , già nel titolo stesso metteva in relazione le
rappresaglie all’attività partigiana, della quale sottolineava l’importanza e l’estensione, collegando
il vero e proprio sistema di ordini che è all’origine della fase più intensa di rappresaglie contro i
civili alle preoccupazioni tedesche per una simile attività. In questa fase il problema della
ripartizione di competenze fra SS e esercito era stato risolto con un “teleprint message dated 1 May
44 from Field Marshal Keitel to the GOC-in-C SOUTHWEST. This laid down that the GOC-in-C
SOUTHWEST was in supreme command of operations against partisans in the Italian area. The
Supreme Head of the SS an Police would be responsible for conducting operations but would
follow the guiding principles laid down by the GOC-in-C SOUTHWEST and would work directly
20
under him” . La conclusione del rapporto era che le “reprisals were not executed on the orders of
commanders of individual German formations and units but were examples of an organised
21
campaign directed by the HQ of Field Marshal Kesselring” . Peraltro il rapporto sottolineava la
funzione di formazioni particolarmente addestrate a quei compiti: La Hermann Göring, soprattutto
nel giugno-settembre, la I Divisione paracadutisti, la 16a Divisione corazzata granatieri delle SS.
Un cambiamento di atteggiamento era individuato nell’agosto 1944, a seguito delle proteste
di Mussolini a Kesselring, ma anche per gli effetti indesiderati di una simile politica (“excesses
were driving Italians who were formerly adherent to the German cause to join the partisans”) e per
16
17
pp. 21-22
18
Gerhard Schreiber, La vendetta tedesca cit., pp. 5 e 232.
Occupazione e guerra totale nell’Italia 1943-1945, in Tristano Matta (a cura di), Un percorso cit.,
Michele Battini-Paolo Pezzino, Guerra ai civili cit., pp. 197-198.
PRO, WO 204/11465. Altra copia in WO 32/12206. E’ senza data: fa tuttavia riferimento ad un
rapporto del 9 luglio 1945, del quale approfondisce i paragravi V e VI, e rappresenta la sintesi delle
investigazioni
britanniche portate avanti dalla SIB.
20
Ivi,
p.
9.
21
Ivi, p. 14.
19
“the jealousy of the GOC-in-C SOUTHWEST as a soldier for the reputation of the German
22
Army” (una motivazione questa da tenere presente, perché ricorrerà, dopo il processo a
Kesselring, nel provvedimento di conversione in ergastolo della pena di morte inflitta al generale).
Nuovi ordini furono così emanati da Kesselring il 21 agosto 1944, il 24 settembre 1944 e l’8
febbraio 1945, mitigando quelli draconiani della tarda primavera precedente. La risposta alle
lamentele di Mussolini fu spedita il 27 dicembre: “it was of an evasive nature and defended the
23
action taken but promised that a new order on the subject of reprisals would shortly be issued” .
Il rapporto collegando le stragi alle necessità di ordine militare, fornisce un quadro
apparentemente lineare della loro motivazione. Tuttavia i problemi interpretativi che pone il
24
rapporto sono notevoli: innanzi tutto solo una minoranza degli episodi di strage fu indagata .
Eccessiva appare inoltre l’omologazione del comportamento delle varie unità tedesche, ed il
tentativo di riportare tutto al sistema di ordini emanato dagli alti comandi tedeschi, sottolineando la
similarità dei casi esaminati, era chiaramente funzionale alla politica giudiziaria che in quella fase si
pensava di adottare nei confronti dei generali tedeschi. Infine si trascura molto il ruolo svolto in
molti massacri da unità italiane della Repubblica sociale. Perciò da un punto di vista analitico le
investigazioni inglesi, pur raggiungendo importanti risultati soprattutto nell’individuazione del
sistema d’ordini, possono essere tutt’al più il punto di partenza per un lavoro di ricerca; e va
sottolineato che anche dal punto di vista giudiziario lasciarono ampi margini di incertezza, e non
riuscirono a superare spesso la difficoltà nell’attribuire precise responsabilità ai comandanti dei vari
corpi, tant’è che il 12 novembre 1946 il Judge Advocate General di Londra doveva riconoscere che
nei confronti di un certo numero di generali vi era “little likelihood of ever succesfully preferring
any charge […] In most cases it is almost impossibile to link an Officer Commanding a particolar
25
Corps or Division with atrocities committed in the area where that Corps or Division operated” .
I nostri gruppi hanno quindi operato un censimento di tutti gli episodi di strage: ancora non
siamo in grado di fornire i dati completi unificati, perché il lavoro è ancora in corso, ma alcune
considerazioni ci permettono già di fare un primo passo in avanti. Ed innanzitutto di riportare alla
luce pienamente l’intensità dei massacri nell’Italia meridionale, ed in Campania in particolare, che
già era stata sottolineata da Klinkhammer, che la collegava al fatto che “le tre fasi dell’occupazione
26
si sovrapposero, svolgendosi in tal modo con ulteriore rapidità” .
27
In Puglia (e in Basilicata) la ricerca ha evidenziato le violenze nei confronti dei civili e dei
militari, in particolare soldati sbandati,compiute dai diversi reparti della Wehrmacht in ritirata tra
settembre ed ottobre 1943. In un solo caso è ipotizzabile una responsabilità diretta di una parte degli
italiani (i fascisti) ,oltre quella dei tedeschi, nei massacri. Si può senz'altro escludere una lettura
degli eccidi "che individui nell'azione partigiana la causa delle stragi": il carattere della resistenza e
22
Ivi, p. 5.
Ivi, p. 8. Alla corrispondenza in questione di parte italiana fanno riferimento Franco De Felice, I
massacri di civili nelle carte di polizia dell’Archivio centrale dello Stato, in Leonardo Paggi, a cura di, Le
memorie della Repubblica cit., in particolare alle pp. 21-32, Schreiber, pp. 105-107, Mimmo Franzinelli, Le
stragi nascoste. L’armadio della vergogna: impunità e rimozione dei crimini di guerra nazifascismi 19432001, Milano, Mondatori, 2002, cap. III. I vari ordini di Kesselring si ritrovano in WO 235/366: ad essi
fanno riferimento
un po’ tutti gli studi recenti sull’argomento.
24
In appendice al rapporto si trova l’elenco dei casi “fully investigated”: si tratta di 24 stragi: Cave
Ardeatine, Guardistallo, Padule di Fucecchio, Rifredi Castello, Caviglia, Bucine, Civitella Val di Chiana,
Badicroce, Palazzo del Pero, San Polo, Castiglion Fibocchi, San Giustino, Quota, Partina-Moscato,
Montemignaio, Stia, Sarsina, Verrucchio, Villa Dell’Albero, Padulivo, Gubbio, Bardine San Terenzo, San
Martino. Come si vede un’indagine formale della SIB non fu svolta nel caso dei due massacri più gravi
commessi
in Italia dalle truppe tedesche, quelli di S. Anna di Stazzema e di Marzabotto.
25
PRO,
WO 309/1372.
26
Lutz
Klinkhammer,
Stragi naziste cit., pp. 21.
27
Il gruppo di ricerca era composto da Luigi Masella, coordinatore, Ennio Corvaglia, Vito Antonio
Lezzi.
23
dell'opposizione delle popolazioni alla violenta occupazione tedesca assume un aspetto prettamente
"civile" e s'inserisce nel contesto della generale crisi politico sociale determinata dalle modalità
28
della fine guerra nel Mezzogiorno .
29
In Campania e nel frusinate sono state riportati alla luce episodi spesso poco conosciuti, e
effettuate ricerche particolareggiate su Napoli, per quel che riguarda l'insurrezione popolare nota
con il nome di "quattro giornate" e gli episodi di violenza perpetuati dall'esercito tedesco che la
precedono. Sono state effettuate le registrazioni di un elevato numero di testimonianze ed è stato
schedato il registro dei morti del Comune di Napoli a partire dal 9 settembre 1943, fino ai primi
giorni del 1945, per rilevare le uccisioni determinate da mitragliamenti, cannoneggiamenti,
esecuzioni da parte delle truppe tedesche. I dati raccolti hanno consentito di costruire un quadro del
tutto nuovo e originale della insurrezione napoletana: la memoria di coloro che vi parteciparono o vi
assistettero è tuttora vivissima e si scontra con quella ufficiale retorica o svalutante; le morti
provocate dai tedeschi sono di molto superiori a quelle finora considerate dagli studiosi. La
documentazione tedesca consente poi di ricostruire le decisioni e le preoccupazioni del comando
tedesco e l’opera di distruzione messa in atto prima di abbandonare la città. Sono state svolte
inchieste in profondità sulle località dove sono avvenute le principali rappresaglie, facendo
emergere azioni e comportamenti dei diversi soggetti che agirono in quel particolare momento
30
storico e in quel contesto . E' stata acquisita documentazione locale e sono state eseguite
31
registrazioni di testimonianze e riprese video per diverse decine di ore . La ricerca ha evidenziato
soprattutto il carattere di vera e propria resistenza civile che si oppose al grado di violenza
sviluppato dalle forse tedesche, per reagire a quattro tipi di violenza da queste messe in atto:
Nel caso campano, come è stato detto, le fasi dell’occupazione tedesca, che altrove si dispiegarono nel giro di
più mesi o anni, si verificarono contemporaneamente e all’improvviso. Occupazione militare, ritirata strategica con la
politica della terra bruciata, linee di fortificazione e difesa, combattimenti con gli alleati, alto livello di concentrazione
delle truppe, accelerazione della violenza da parte dei soldati, tutti questi elementi strettamente connessi fra di loro e
tutti operanti nel medesimo lasso di tempo produssero effetti letali per la popolazione. Le violenze si sommarono in
alcuni casi raggiungendo livelli particolarmente atroci come a Napoli, Acerra, Bellona,Caiazzo, Sparanise, quando si
ebbero contemporaneamente rappresaglie, rastrellamenti e deportazioni di uomini, distruzioni dell’abitato, saccheggi.
Comunque si operò su tutto il territorio una politica di occupazione durissima, cui la popolazione rispose con una
insospettata e sottovalutata energia, che si dispiegò in particolare nel territorio che sopportò il primo impatto della
28
Principali uccisioni per rappresaglia: Provincia di Bari: cinque località. Uccisione per rappresaglia
63 (3 vittime provocate da mine e 24 soldati sbandati in abiti civili , non identificati ed i corpi occultati). 2
bambini- 3 ragazzi- 4 anziani. Provincia di Foggia:undici località. Uccisioni per rappresaglia 71( 30
provocate da mine e 11 soldati sbandati in abiti civili, non identificati ed i corpi occultati). 4 bambini- diversi
diciassettenni (non ancora definita la categoria delle altre vittime). Provincia di Taranto: una località.
Uccisione per rappresaglia 25. 7 bambini. Basilicata: 2 località. Uccisione per rappresaglia 37. Alcuni
diciassettenni(
il numero delle vittime non è definitivo).
29
Alla ricerca hanno lavorato Gabriella Gribaudi, coordinatrice, Salvo Ascione, Tommaso Baris,
Gloria Chianese, Andrea De Santo.
30
Il numero complessivo delle vittime in Campania è piuttosto elevato: ne sono state individuate
1586 in totale, delle quali 507 in stragi, 609 nella sola Napoli, 470 in episodi “sparsi”. Il numero di vittime
per provincia è il seguente: Avellino: 5 (in uccisioni sparse); Benevento: 36 (18 in 2 stragi, 18 in uccisioni
sparse); Caserta: 745 (342 in 19 stragi, 403 in uccisioni sparse); Napoli: 826 (646 a Napoli, di cui 142 in 5
stragi, 180 nella provincia); Salerno: 9 (5 in una strage; 4 in uccisioni sparse). Il numero complessivo delle
vittime in provincia di Frosinone è stato di 334, delle quali 98 in stragi, 236 in uccisioni sparse.
31
I luoghi in cui si è lavorato sono i seguenti: Mugnano, Giugliano, Acerra, Nola, Scafati,
Castellammare, Orta di Atella, Sparanise, Bellona, Vitulazio, Mondragone, Capua, Mignano Monte Lungo,
Presenzano, Cave, Conca della Campania, Caiazzo, Bonalbergo, Caserta, Teano, Tora e Piccilli, Cassino e
alcuni paesi del frusinate (Arpino, Castrocielo, Cervaro, Piglio, Ripi, S. Ambrogio sul Garigliano, S. Andrea
del Garigliano, San Giorgio a Liri, Vallemaio, Vallerotonda). Sono stati intervistati 155 testimoni per un
numero complessivo di circa 113 ore di registrazioni depositate presso il "Laboratorio Multimediale di Storia
Orale" del Dipartimento di sociologia dell’Università Federico II; sono state effettuate circa trenta ore di
riprese video per fare il documentario.
ritirata tedesca, a ridosso dello sbarco, e che giunse a vere e proprio insurrezioni spontanee, come quelle di Napoli e di
Acerra. Le violenze verso i civili si svilupparono in un crescendo, a partire dai saccheggi e dalle razzie di uomini fino a
32
giungere a massacri indiscriminati. .
La maggior responsabile dei massacri campani fu la divisione Hermann Göring.
33
In Toscana sono stati censiti 190 episodi, cioè 139 stragi (episodi che coinvolgono 5 o più
vittime) e 51 eccidi (da 2 a 4 vittime); il numero complessivo delle vittime è stato di 3457, di cui
2635 maschi (il 76,2%), 751 femmine (21,8%) e 71 vittime delle quali non è stato possibile
accertare il sesso (38 solo a S. Anna di Stazzema). Su ognuno di questi episodi è stata compilata una
34
scheda analitica, che ci permette di andare oltre i dati generali . Un primo dato si impone: gli
episodi commessi per rappresaglia contro un’azione partigiana, quelli cioè nei quali vi è stata una
risposta ad un’azione armata da parte di partigiani o combattenti irregolari o civili, a sommosse ed a
rivolte, ed il rapporto tra azione e repressione è chiaro e localizzato nello spazio e nel tempo, sono
stati solo 45 (il 28,3% delle 163 azioni per le quali è possibile, sulla base dei dati disponibili,
individuare una tipologia); dato di grande significato, perché tende a ridimensionare di molto le tesi
difensive dei generali tedeschi e, pur ammettendo che “non si può prescindere dal fatto che le stragi
35
di civili spesso si svolsero nel contesto della lotta antipartigiana” , tende a chiamare in ballo altri
elementi, collegati ad un controllo del territorio che tendeva ad assumere un carattere apertamente
terroristico nei confronti delle popolazioni civili. Le stragi commesse in occasione di rastrellamenti
di partigiani, di evacuazione forzata di civili, di operazioni volte alla deportazione di uomini per il
controllo del territorio sono state infatti 63 (36,1%), e ad esse va attribuito oltre il 50% delle
vittime; se ad esse aggiungiamo le stragi per ritorsione o vendetta, episodi motivati da sentimenti di
rancore o vendetta riconducibili ad una situazione di difficoltà militare, di diffusa ostilità da parte
della popolazione, di opposizione politica (il 21,7%), e stragi commesse nel corso di quella che
abbiamo definito la ritirata aggressiva, che assommano in sé i moventi della vendetta e del controllo
del territorio in proporzioni variabili (12,0%), abbiamo il 60% degli episodi, e circa il 70% delle
vittime, che non possono essere ricondotti a “rappresaglie”, nel senso che al termine viene dato nel
diritto di guerra.
Se consideriamo le vittime, questa considerazione si rafforza: solo il 44,6% delle 3457
vittime censite erano adulti nell’età per essere adibiti o al servizio militare o ai lavori coatti: il resto
delle vittime erano donne (il 21,8%) o anziani (peraltro del 12,8% delle vittime maschili non siamo
in grado di precisare l’età). Nel 61,6% dei casi (117 episodi) si è trattato di uccisioni nelle quali
sono stati selezionati i soli uomini; in 73 casi (38,4%) di stragi indiscriminate, con l’uccisione anche
di donne, anziani, bambini. In questi episodi sono rimasti coinvolti soprattutto reparti della
Hermann Göring e della 16a Divisione corazzata granatieri delle SS, e sono anche quelli con il più
alto numero di vittime: il 60,6% delle vittime complessive sono state uccise nel corso di queste
azioni con più netto carattere terroristico o punitivo nei confronti della popolazione.
Per quanto riguarda i responsabili, bisogna sottolineare che su 77 di questi episodi non è
stato possibile arrivare ad una loro identificazione plausibile. Sui restanti 113, i dati danno questi
risultati: Wehrmacht: 65 (57,5%), di cui divisione Hermann Göring 14 (12,5%); SS 31 (27,4%), di
cui 16a Divisione corazzata granatieri 26 (23,2%); solo reparti della Repubblica sociale italiana 17
32
Gabriella Gribaudi, Guerra ai civili. Le stragi naziste in Campania e nel frusinate, in Gabriella
Gribaudi, a cura di, Guerra contro i civili. Per un atlante delle stragi naziste in Italia, vol. I Campania, Napoli,
l’ancora 33
del mediterraneo, di prossima pubblicazione.
Alla ricerca in Toscana hanno partecipato Paolo Pezzino, coordinatore, Luca Baldissara, Michele
Battini, Giovanni Contini, Carlo Gentile, Gianluca Fulvetti, Riccardo Maffei, Claudio Manfroni, Toni
Rovatti, 34Guri Schwarz. I risultati sono esposti nel sito http://www.stm.unipi.it/stragi.
I dati sono stati elaborati da Gianluca Fulvetti e Francesca Pelini, curatori del volume Guerra
contro i civili. Per un atlante delle stragi naziste in Italia, vol. II Toscana, Napoli, l’ancora del mediterraneo, di
prossima pubblicazione. A parte vanno considerati quegli episodi che risultano privi di informazioni
sufficienti.
35
Lutz Klinkhammer, Stragi naziste cit., p. VIII.
(15,1%). In altri 17 episodi i reparti della Repubblica sociale italiana o i fascisti hanno agito come
collaboratori (13) o delatori dei tedeschi (4). Sommando gli episodi attribuibili alla responsabilità di
reparti delle SS e della Hermann Göring abbiamo quasi il 40% del totale, ma una percentuale ben
più alta per quanto riguarda il numero delle vittime, il 58,9%, dato che le azioni commesse da questi
reparti, per lo più per il controllo del territorio, sono state mediamente più sanguinose. Peraltro
essendo le azioni della Hermann Göring e della 16a Divisione corazzata granatieri delle SS, più
note e studiate, è ipotizzabile che la maggior parte degli episodi sui quali non abbiamo elementi per
attribuirli ad uno specifico reparto siano ascrivibili a reparti “comuni” delle forze armate tedesche.
Un particolare rilievo assume il dato delle stragi la cui responsabilità appare esclusiva di
reparti italiani della repubblica sociale: una percentuale abbastanza elevata, ed una realtà di solito
abbastanza trascurata (si tratta, lo ricordo, di rappresaglie su civili, non di esecuzioni di partigiani).
Del resto un’“autonomia” fascista nello stragismo è un dato che emerge con ancora più evidenza dai
36
lavori del gruppo emiliano-romagnolo : addirittura in quella regione appaiono evidenti momenti di
contrasto fra fascisti e tedeschi di fronte a determinato episodi. Ne consegue una maggiore
“politicizzazione” delle uccisioni fasciste che spesso assumono il sapore abbastanza esplicito della
“vendetta”. Nel “parco ostaggi” che vengono tenuti a disposizione per rappresaglie - rastrellati,
politici, genitori e parenti di “disertori” - esistono sempre “personalità” di rilievo. La stessa
questione di un “parco ostaggi” è particolarmente interessante per valutare il modo delle uccisioni
fasciste e il carattere di “ricatto continuo” che in gran parte dell’Emilia assumono le “rappresaglie”.
Per ritornare al dibattito sopra esposto sull’interpretazione della strategia stragista, è
indubbio che la violenza di guerra è il contesto generale che favorisce, da parte di tutti i paesi
coinvolti nel conflitto, un processo di brutalizzazione a danno dei civili. Ma, a parte la necessità di
tenere comunque sempre ben presente la distinzione i fini ultimi per i quali le forze che si
contrapponevano combattevano, mi sembra che il dato rilevante della “guerra ai civili” condotta dai
tedeschi e dai loro alleati e collaboratori sia stato il vero e proprio sistema di ordini che ha applicato
all’Italia le direttive fondamentali di lotta alle bande emanate fra novembre e dicembre del 1942
37
nell’ambito della guerra di sterminio condotta nei paesi dell’Europa orientale , addirittura
inasprendole anche quando queste per altri teatri di guerra furono sostituite da ordini meno radicali.
Proprio questo sistema di ordini, convinse gli investigatori inglesi che ci si trovava davanti ad una
strategia del terrore volontariamente adottata e pienamente coordinata. Un simile sistema di ordini
mi sembra un qualcosa di unico nella storia della seconda guerra mondiale, che contribuisce a
connotare la “guerra ai civili” adottata in Italia in senso tipicamente nazista. Si rileva insomma
come anche per l’Italia, dopo che questa, “tradendo” l’antico alleato entrava a fare parte del sistema
di occupazione nazista come nazione fondamentalmente sottomessa, possa applicarsi, sia pure con
qualche opportuna distinzione, quanto ha scritto Enzo Collotti, riconducendo la guerra della
Wehrmacht alla sua natura di strumento di un “progetto di ristrutturazione complessiva dell’Europa
perseguito dal nazismo [...] L’imbarbarimento della condotta stessa delle operazioni militari, oltre
che dei metodi di gestione dei territori occupati, acquista una logica che altrimenti apparirebbe
sprovvista di qualsiasi razionalità, mentre invece si rivela una necessità del sistema che scatena la
36
Al gruppo, diretto da Luciano Casali e Dianella Gagliani, hanno partecipato Davide Bergamini,
Enrica Cavina, Irene Di Jorio, Beatrice Magni, Marco Minardi, Massimo Storchi. Il gruppo ha censito tutti
gli episodi di uccisioni di civili tra l’8 settembre 1943 e la fine di aprile 1945: i dati completi sono stati
inseriti in www.dds.unibo.it/guerraeresistenza, con l’elenco completo anche delle azioni partigiane. Anche i
risultati di questo gruppo sono di prossima pubblicazione nel volume, a cura di Luciano Casali e Dianella
Gagliani, Guerra contro i civili. Per un atlante delle stragi naziste in Italia, vol. III Emilia-Romagna, Napoli,
l’ancora del mediterraneo.
37
Gerhard Schreiber, La vendetta tedesca cit, pp. 91-131; Lutz Klinkhammer, Stragi naziste cit,, pp.
51-53, 88-96.
guerra e un mezzo di condotta bellica che gli stessi programmatori militari danno per scontato in
38
partenza” .
E’ indubbio peraltro che, se quella delle rappresaglie di civili fu probabilmente una scelta
programmata dai tedeschi, e non di volta in volta imposta dalle circostanze, è comunque rilevabile
una differenziazione fra le truppe tedesche, sia nella propensione a mettere effettivamente in pratica
gli ordini draconiani emanati dai Comandi, sia nelle modalità con cui questi vennero applicati,
quando lo furono. E non bisogna intendere meccanicamente il sistema di ordini come una vera e
propria coazione a massacrare: se così fosse, se cioè ad ogni azione partigiana fosse corrisposta una
reazione tedesca secondo le linee guida elaborate nella tarda primavera del 1944, anche
considerando solo quella che Schreiber definisce la seconda fase “dei provvedimenti destinati alla
39
lotta contro i partigiani nel teatro di guerra italiano” , cioè dagli inizi di aprile alla fine di settembre
1944, il numero delle vittime sarebbe enormemente più alto. Dopo tutto ha ragione Klinkhammer a
rilevare che “anche se si parte dal presupposto che le vittime civili (partigiani esclusi) hanno
superato il numero di 10000, e si ipotizza che ogni vittima civile è stata uccisa da un diverso
tedesco […] si deve concludere che 95 soldati tedeschi su 1000 non furono coinvolti nell’uccisione
40
di civili italiani” . Ma mi sembra che i dati della Toscana – unica regione per la quale disponiamo
in questa fase della ricerca di dati già elaborati, ma comunque regione di grande significato per la
questione che stiamo trattando – dimostrino come effettivamente la casistica delle formazioni
coinvolte sia molto ampia, e confermino quindi l’esistenza di una linea generale che spingeva verso
il massacro. Per quanto riguarda coloro che scelsero di applicare quegli ordini, va inoltre rilevato
che se in molti episodi si operò una scelta fra le vittime, decidendo di colpire solo i maschi in età
adulta, evidenziando la persistenza di una “percezione della guerra come una lotta che andava
41
disputata solo tra gli uomini” , in molte azioni vi fu tuttavia una violenza assolutamente
indiscriminata, che resta particolarmente difficile da comprendere, anche rispetto alle stravolte
esigenze militari che facevano considerare le popolazioni civili del teatro di battaglia alla stregua di
combattenti, ritenendole oggettivamente responsabili di azioni ostili condotte dai partigiani, se non
riferendosi ad un modello di guerra di annientamento che venne applicato soprattutto, ma non solo,
da alcune unità, ed in una determinata fase dell’occupazione tedesca: il passaggio della linea del
fronte (è il caso di molti eccidi campani, dell’aretino, di Guardistallo e del padule di Fucecchio,
eccidi questi ultimi attribuibili a reparti “normali” della Wehrmacht) e soprattutto l’avvicinamento e
quindi l’assestamento della linea del fronte al ridosso della Linea Gotica (è il caso dei massacri
effettuati dalla 16a Divisione corazzata granatieri delle SS (S. Anna di Stazzema, Bardine-San
Terenzio, Vinca, Marzabotto). In queste aree fu l'istanza del controllo terroristico sulle popolazioni
a prevalere come spinta all’uso indiscriminato della violenza nei confronti delle popolazioni, e la
dimensione del massacro in questi episodi, ed il fatto che solo 25 delle 77 stragi indiscriminate
siano attribuibili a reparti speciali, rivelano quel “razzismo sconsiderato che, pur avendo contorni
42
molto vaghi, era ampiamente diffuso, profondamente radicato e facile da innescare” . E alla stessa
conclusione credo arriveremmo con un’analisi accurata dello stillicidio di violenze “minori”, da
furti e saccheggi ai tentativi di stupro, fino a uccisioni di singoli individui senza alcuna apparente
ragione se non quella di un’istintiva resistenza alla violenza subita.
2) L’elaborazione di memorie comunitarie sulle stragi, ed il loro rapporto con le politiche
ufficiali delle memorie.
38
Recensione a Hannes Heer-Klaus Naumann (a cura di), Vernichtungskrieg. Verbrechen der
Wehrmacht 1941-1944, Hamburg, Hamburger Edition, 1995, in “Passato e Presente”, 38, maggio/agosto
1996, pp.39 143-144.
Gerhard Schreiber, La vendetta tedesca cit., p. 110 e nota 60 p. 262
40
Lutz Klinkhammer, Stragi naziste cit, p. 102
41
Ivi, p. 101.
42
Gerhard Schreiber, La vendetta tedesca cit., p. 232.
Ho già detto che ogni comunità colpita da una strage vive la tragedia che l’ha attraversata
come un qualcosa di assolutamente unico, non confrontabile con altri episodi analoghi. E dal punto
di vista della memoria che i massacri hanno sedimentato nelle comunità che ne sono state investite,
si evidenzia una grande varietà di reazioni: una chiamata in causa, come corresponsabili del
massacro, dei partigiani, accusati di avere attirato con le loro azioni, ma spesso con la loro semplice
43
presenza, il potenziale di violenza dei tedeschi, autori materiali del massacro ; una attribuzione di
colpe soprattutto ai fascisti locali; la ricerca di altri capri espiatori, a volte senza una rpecisa
caratterizzazione ideologica; l’elevazione del massacro a sacrificio consapevole per la costruzione
dell’Italia democratica e antifascista; la cancellazione dalla memoria collettiva.
Così in Puglia dall' insieme dell' indagine è emersa la debole memoria pubblica di quegli
eventi, sottoposti negli anni della transizione dal fascismo alla repubblica e per tutti gli anni
Cinquanta ad un forte isolamento nel dibattito politico-culturale e ad una emarginazione anche sul
piano della ricerca storiografica.
E, per quanto riguarda la Campania, Gabriella Gribaudi ha sottolineato come “il mito
nazionale della Resistenza lasciava ai margini l’esperienza di quella parte d’Italia, in cui non si era
potuta sviluppare la lotta partigiana nei termini in cui il modello ideale la dipingeva, cioè bande
militarmente organizzate da un comando centralizzato e politico: infatti per la brevità
dell’occupazione l’opposizione alle violenze tedesche si era caratterizzata per la sua intensità ma
anche per la sua spontaneità. Rimasero dunque nell’ombra tutte le azioni attive di disobbedienza
civile e di resistenza nei confronti dell’occupazione tedesca, che avrebbero potuto entrare a pieno
titolo nella memoria pubblica nazionale, sottraendo le popolazioni meridionali a quel ruolo di
44
conservazione e subalternità che tenaci stereotipi avevano loro attribuito fin dall’Unità d’Italia” .
Tale omissione ha portato al paradossale risultato non solo di appiattire nella categoria
antropologica della jacquerie quella che è stata il primo esempio di insurrezione cittadina contro i
tedeschi, fino al punto di sottostimarne in maniera clamorosa il numero delle vittime, ma anche di
occultare spesso la memoria dei massacri nazisti, che pure è ancora viva nei testimoni, ma per lo più
ridotta a memoria individuale o famigliare, tuttavia ancora viva e pronta a riemergere solo che trovi
qualcuno che si mostri disposto a raccoglierla.
Per quanto riguarda la Toscana, Giovanni Contini, riprendendo e approfondendo suoi
precedenti studi, sottolinea quanto la memoria “divisa” sia molto più diffusa di quanto non avesse
pensato, anche se non assume “un carattere di aperta e pubblica denuncia, come nel caso di
45
Civitella” . Contini peraltro individua “due modelli di memoria relativamente omogenei, che
separano le località di strage collocate al di sotto della Linea Gotica da quelle che si trovano a nord
di essa”. Nelle prime, dove la vera e propria lotta di resistenza dura solo pochi mesi, questa viene
percepita come “qualcosa di molto ‘esterno’”, e la rapida fine della guerra accentua la differenza fra
43
Del resto la ricerca ha evidenziato come l’atteggiamento delle formazioni partigiane verso la
possibilità di rappresaglie sia stato quanto mai complesso, e niente affatto lineare ed omogeneo, con aspre
contese e divisioni all’interno della resistenza armata su questo tema. Il rapporto con le popolazioni era a
volte visto solo in maniera strumentale rispetto alle necessità logistiche delle formazioni, e l’esigenza di
sicurezza che queste manifestavano o bollate sdegnosamente con l’accusa di attendismo o comunque
programmaticamente considerate secondarie rispetto ai fini militari e politici della lotta armata. Altre volte le
formazioni assunsero pienamente il problema della sicurezza delle popolazioni all’interno del proprio modo
di operare. Il carattere più o meno stanziale delle formazioni, il collegamento più o meno stretto con una
specifica comunità, nonché la durata della lotta armata sono elementi che hanno inciso notevolmente nelle
scelte in proposito.
44
Gabriella Gribuadi, Tra retorica pubblica e memorie private: divaricazioni, dissonanze, oblii. Le
stragi naziste
in Campania, paper presentato a questo convegno, p. 1.
45
Giovanni Contini, Toscana 1944: per una storia della memoria delle stragi naziste, in
Gianluca Fulvetti e Francesca Pelini, a cura di, Guerra contro i civili. Per un atlante delle stragi naziste
in Italia, vol. II Toscana, Napoli, l’ancora del mediterraneo, di prossima pubblicazione.
chi ritorna finalmente alla vita normale, sia pure in condizioni di ricostruzione faticosa, e chi
avendo subito un lutto drammatico, avverte con maggior forza la particolarità della propria
situazione, ed è portato perciò a reagire accusando i partigiani:
Di conseguenza in questa area, che copre la gran parte del territorio toscano, troviamo più
frequentemente una memoria simile a quella di Civitella: il paese dei superstiti si contrappone ai partigiani, li
accusa più o meno duramente di essere i principali responsabili del massacro, che hanno provocato senza poi
intervenire per bloccare la strage. […] Nei paesi collocati a nord della Gotica, e nella fattispecie nell’antica
provincia di Apuania, oggi di Massa-Carrara, la ricerca evidenzia un modello di memoria collettiva meno
stereotipato; anche dove le stragi ci sono state, ed anche dove il rapporto causa-effetto tra azione partigiana e
massacro tedesco è assolutamente evidente, come nel caso di Bardine San Terenzio, si osserva una polemica
molto dura, che però non contrappone semplicemente la comunità ai partigiani. I superstiti criticano infatti
duramente alcune formazioni, ma spesso anche loro sono stati partigiani, prima o dopo le stragi; quindi non
polemizzano con tutta la Resistenza ma solo con alcune formazioni, alcuni capi partigiani.
In Emilia e Romagna invece casi di stragi per le quali l’accusa si riversi sui partigiani sono
praticamente assenti, o se si vuole sono state costruire politicamente a posteriori, “inventando” una
contrapposizione che non trova tracce effettive nella “gente”. Il fatto che i primi eccidi (marzo 44)
avvengono là dove si sono costituiti gruppi di “resistenti” o disertori “locali” fa sì che la
contrapposizione montagna/pianura o locali/forestieri sia praticamente assente o largamente
minoritaria. Né va dimenticata la più lunga durata della Resistenza al di sopra degli Appennini e il
lungo inverno 44-45 che fa sì che il “consenso” venga stabilito e consolidato, dando origine nel
secondo dopoguerra al mito della regione “rossa” saldatasi nella lotta di liberazione e antifascista.
E tuttavia le memorie private e non ricomprese in quella ufficiale della resistenza che
prevalgono in Campania (ma anche, ad esempio, a S. Anna di Stazzema, studiata da Toni Rovatti),
e le memorie divise presenti in Toscana un problema segnalano un importante problema di
interpretazione storiografica: parlando di memorie infatti noi parliamo di punti di intersezione fra il
politico ed il sociale, fra il vissuto e la sistemazione che di questo viene fatto in narrazioni posteriori
coerenti: quello che conta non è tanto la constatazione della presenza di memorie diverse (in una
società aperta le memorie sono sempre conflittuali, e fino ad un certo punto è un bene che sia così)
quanto la valutazione dell’intensità del conflitto che sulla memoria del passato si combatte - la cui
posta è l’attribuzione di quel capitale sociale rappresentato da un “passato [...] attivamente
46
trasmesso alla generazione presente [...] accettato come dotato di senso” - e la riuscita o meno di
strategie di ricomposizione. In Italia, più che altrove, il tema della segmentazione delle memorie ha
accompagnato e condizionato la costruzione della democrazia, perché l’esperienza del fascismo è
stata, più che altrove, devastante, coinvolgendo nella crisi del regime, l’intera società. Non si tratta
in altre parole, assumendo in pieno il tema come oggetto di analisi storiografica, di fare un
“processo” alla resistenza, né di sostituire il punto di vista dei combattenti con quello di chi, anche
perché colpito negli affetti più cari, rifiuta di pagare per le scelte di altri un prezzo personale
pesante. Addossare la responsabilità della tragedia ai partigiani, come a volte avviene, ha consentito
di individuare un capro espiatorio, un referente locale, chiaramente individuabile, che permettesse
alle vittime di restituire un qualche senso agli avvenimenti, iscrivendoli in una dimensione
famigliare. Ma non ci si può fermare a questo dato: si tratta di analizzare anche quanto la voglia di
pace di gran parte delle popolazioni italiane le portasse ad avvertire la presenza di bande come
potenzialmente minacciosa, al di là del fatto che i partigiani si rendessero autori di azioni
imprudenti o sconsiderate, come pure in alcuni episodi è avvenuto. Se spostiamo l’attenzione dai
combattenti sulle popolazioni, la questione è di verificare quanto i principi che alimentavano la lotta
partigiana potessero essere sostenuta da popolazioni che puntavano più che altro alla sopravvivenza,
e di sottoporre ad analisi critica il tema del sostegno popolare alla resistenza armata. Il problema da
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Yosef Hayim Yerushalmi, Riflessioni sull’oblio, in Yerusshalmi ed al., Usi dell’oblio, Parma,
Pratiche Editrice, 1990 [1988], p. 14.
approfondire è cioè quanto memorie divise,allargandosi da comunità locali all’intero corpo della
nazione, siano state una componente che ha pesato nei processi di ideazione, costruzione e
modellamento della democrazia italiana negli ultimi 50 anni, insomma un elemento storico, da
ricostruire ed interpretare al pari di altri, che ha contribuito ha definire i limiti del funzionamento
del sistema politico. La memoria infatti è un fattore storico a pieno titolo, e sottolineare la varietà di
memorie sulla Resistenza porta alla necessità di riformulare un giudizio storiografico generale che
sia in grado di ricomporre la pluralità delle memorie comunitarie – locali ma anche della comunità
nazionale - in un quadro unico, capace di spiegare alcune caratteristiche della storia successiva.
Si affronta così in realtà il tema del significato nazionale della Resistenza, della sua scarsa
capacità, cioè, di rappresentare, all’indomani della guerra, un elemento di forte unione per la
maggior parte degli italiani, in grado di incarnare un ethos collettivo da questi condiviso. L’identità
degli Italiani si presenta, anche per questo, caratterizzata da quello che Bodei ha recentemente
definito un “noi diviso”: è un’identità cioè frammentata e segmentata, che trova difficoltà
nell’orientarsi secondo valori universalmente accettati, e non si riconosce in una memoria condivisa
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del passato . In un paese storicamente caratterizzato da una “pluralità di storie e di memorie in un
processo di unificazione segnato dal permanere delle differenze”, la Resistenza ha rappresentato
costantemente nella memoria degli italiani, al di là delle celebrazioni ufficiali, più un elemento di
divisione che di unificazione: per quanto riguarda essa, come ci ricorda Isnenghi, “l’analisi di
questo mezzo secolo ci restituisce intimamente irriconciliabile le rappresentazioni di eventi e
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personaggi decisivi” . Il tema delle memorie divise rimanda perciò in ultima analisi a quello della
difficile ricostruzione di un’identità nazionale nel dopoguerra.
3) Punire i colpevoli
Parte importante della documentazione raccolta dal gruppo di ricerca riguarda il tema della
punizione dei crimini di guerra commessi in Italia, che evidentemente si intreccia con quello più
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generale della punizione dei responsabili del regime nazista . Si è delineata l’evoluzione generale
dell’atteggiamento alleato nei confronti della questione della punizione dei generali tedeschi che
avevano operato in Italia, ed in particolare il passaggio da una strategia giudiziaria che mirava a
tenere in Italia una seconda Norimberga ad un atteggiamento giustificazionista, che portò prima al
blocco dei processi, quindi alla rapida liberazione di quei generali che erano stati in un primo
momento condannati a morte, con sentenze commutate poi in ergastolo. Siamo convinti di avere
ricostruito con precisione l’evoluzione della politica giudiziaria alleata: in estrema sintesi, si sono
intrecciate motivazioni di stretto ordine giuridico (la difficoltà effettiva nell’attribuire precise
responsabilità ai comandanti dei vari corpi, riconosciuta il 12 novembre 1946 dal Judge Advocate
General di Londra), di carattere politico (non creare imbarazzo negli italiani, a loro volta oggetto di
richieste di estradizione per crimini di guerra soprattutto da parte della Jugoslavia), di carattere
internazionale, soprattutto dopo il manifestarsi della guerra fredda. Ma anche motivi di fondo, da
ricondurre alle difficoltà degli stessi inglesi ed americani nell'affrontare processi che
presupponevano un’elaborazione giuridica in merito ai crimini di guerra e a quelli contro l'umanità
che era appena all’inizio, e che non poteva certo essere limitata alla condotta bellica dei paesi
sconfitti, ma, se portata avanti, avrebbe prima o poi investito le stesse responsabilità alleate (ad
esempio, nei bombardamenti a tappeto delle città tedesche). Personalmente ritengo che quello che
univa i generali dei due fronti, una volta cessate le ostilità, era l’intima convinzione
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Remo Bodei, Il noi diviso. Ethos e idee dell’Italia repubblicana, Torino, Einaudi, 1998.
Mario Isnenghi, Conclusione, in I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, RomaBari, Laterza,
1996, pp. 567 e 597
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Riprendo con modifiche considerazioni svolte in Sui mancati processi in Italia ai criminali di
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guerra tedeschi, con appendice documentaria, in “Storia e Memoria”, a. 10, n. 1, 1° semestre 2001,
pp. 9-72.
dell’irresponsabilità penale di qualsiasi azione ordinata o commessa da un soldato, che avesse una
qualche motivazione bellica, ed una comune sottovalutazione per le sorti della popolazione civile.
Significativo da questo punto di vista che Alexander l'8 maggio 1947 intervenne a favore di
Kesselring condannato a morte da un tribunale militare inglese a Venezia, scrivendo dal Quebec al
primo ministro di essere rimasto colpito dalla sentenza e di sperare che venisse commutata, poiché
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Kesselring ed i suoi soldati avrebbero combattuto in Italia “hard but clean” ; un’affermazione che
ricorda singolarmente quella del generale von Vietinghoff-Scheel, successore di Kesselring nella
carica di comandante supremo Sudovest, che dichiarò che nel teatro italiano “entrambe le parti
combatterono dal primo all’ultimo giorno lealmente come nei tempi passati … In Italia la guerra
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terminò com’era iniziata e come si era svolta: fair” . Viceversa nel pieno della campagna d’Italia,
quando dal ministero degli esteri gli pervennero notizie di atrocità tedesche nel nord Italia, lo stesso
Alexander, nell’ottobre 1944, aveva stilato un comunicato rivolto “to German officers and men”,
nel quale, riferendosi ad alcuni episodi di rappresaglia, li denunciava apertamente come crimini di
guerra, minacciando processi nel dopoguerra per chi avesse ordinato ed eseguito simili azioni.
Nelle motivazioni con le quali il 29 giugno 1947 il generale Harding, comandante in capo
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delle forze del Mediterraneo centrale, commutò la sentenza di morte in ergastolo , le
argomentazioni non solo richiamavano esplicitamente la dichiarazione scritta di Alexander,
riconoscendo a Kesselring di essere stato un combattente leale, ma ammettevano anche il diritto del
feldmaresciallo tedesco di proteggere le proprie truppe dalle attività partigiane, spiegando che era
stato difficile distinguere tra civili e combattenti, che i civili era spesso implicati in azioni di
sostegno ai partigiani e che esistevano incertezze delle convenzioni militari internazionali vigenti in
materia di rappresaglie. Il ribaltamento di prospettiva rispetto alle conclusioni del “Report on
German reprisals for partisan activity in Italy” non potrebbe essere più netto: un anno dopo il
generale Harding poteva nella sua decisione richiamare esplicitamente le motivazioni adottate dai
generali tedeschi a propria difesa.
Del resto, già a Norimberga la “finzione” che tutto quanto accaduto fosse il prodotto di un
“complotto” di un ristretto numero di uomini, e non piuttosto di processi più ampi e complessi di
costruzione di Stati “criminali”, fu in qualche modo il compromesso che permise di portare avanti il
processo, e di limitare al solo campo avversario la ricerca e la punizione di crimini di guerra. E se le
pressioni a favore della sospensione della sentenza di morte di Kesselring possono essere spiegate
con la ragion di Stato, almeno da parte di Churchill e di altri politici, quelle del generale Alexander,
sostenitore convinto della “lealtà” dell’ex nemico, denotano quanto fosse duro, per i vertici militari
britannici, rinunciare al principio di una sostanziale irresponsabilità di chi combatte vestendo una
divisa.
Pisa, ottobre 2002-10-24
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PRO, WO, 32/15390.
Citato in Gerhard Schreiber, La vendetta tedesca cit., p. 235.
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PRO, WO, 32/15390.
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