Le parole e l'economia di lanfranco caminiti La dislessia (parola che viene dal greco lexis, lettura) è un disturbo a causa del quale non si è bene capaci di leggere e capire un testo scritto, seppure si riesca a comprendere le singole parole. Questo disturbo non ha alcun rapporto con la facoltà e la facilità di parola: per esempio, dislessico era il giovane Cassius Clay, prima cioè di subire menomazioni irreversibili per i tanti pugni alla testa, personaggio straordinario anche per la sua facondia, ironia, orgoglio della parola. Kristen era affetta da una sorta di dislessia. Questo non le aveva impedito di laurearsi, alla fine degli anni Ottanta, in antropologia in un college di New York né di trovare, successivamente, lavoro come impiegata. La cosa buffa è che Kristen lavorava coi numeri, proprio a New York, per una banca, l'olandese ABN Amro (quella che da noi è famosa soprattutto per la scritta sulla maglia del grande Ajax). Dislocata, per la sua dedizione al lavoro, nel recinto delle contrattazioni, ogni giorno inseriva nel computer caterve di numeri. La direzione della banca sapeva di quel suo piccolo difetto e della condizione di perenne imbarazzo che questo le provocava. Nel giugno del 1991 aveva invertito l'ordine delle cifre in un'operazione sulle opzioni, e la cosa aveva causato una perdita di mezzo milione di dollari. Un'altra volta aveva dovuto sostituire un assistente del suo capo, e si erano accordati con questi perché durante le operazioni limitassero le convenzioni di parole a solo due: il capo avrebbe detto “compra” quando voleva comprare e “vendi” quando voleva vendere; quando le valute cominciarono a muoversi, lui le disse “dai” e lei comprò, ma il capo voleva dire proprio il contrario, perché nel gergo delle contrattazioni “dare” significa “vendere”. Lui urlò come un ossesso e lei scappò a gambe levate dall'ufficio. Tutte queste cose Kristen le raccontò nella causa Stati uniti contro James Martignoni, un giovanotto rampante assunto dalla ABN Amro come vicepresidente per conquistarsi un posto al sole nel campo delle opzioni valutarie a New York. Martignoni, che era stato coccolato e spesso gratificato dalla banca, finì per stornare qualcosa come 70 milioni di dollari prima che i suoi capi se ne accorgessero e cercassero di porvi rimedio. Quando la perdita era ancora attorno ai 20 milioni e qualche contabile cominciava a fare domande (soprattutto perché Martignoni e Kristen - che lavorava ora come sua assistente - avevano apposto dei contrassegni particolari nei loro rapporti, degli asterischi e dei triangoli invece degli zeri) Kristen propose, per nascondere la perdita, di perseverare in un piccolo errore che aveva commesso in quei giorni su un documento di vendita, lo spostamento di un valore decimale: se lo avesse ripetuto su altri cinque documenti tutto sarebbe rimasto nascosto. In fondo, poteva sempre invocare, a propria giustificazione, quel suo piccolo difetto di dislessia. Le cose non andarono così, e ci fu una causa e tutto il resto. Il silenzio è d'oro Ma l'importanza della determinatezza e dell'indeterminatezza delle parole nel decidere di enormi quantità di denaro la si può arguire anche in episodi di personaggi molto più importanti di Kristen e certamente non affetti da disturbi linguistici: George Soros, star della finanza internazionale, capace di piegare la Banca d'Inghilterra e il governo italiano in un braccio di ferro scriteriato (ma non per lui) tra il '92 e il '93, nel 1981 aveva perduto una spropositata cifra di denaro per avere sbagliato una telefonata sul mercato azionano. C'è un'immagine popolare che in qualche modo rende conto del rapporto stretto che esiste tra linguaggio ed economia, ed è quella vista in centinaia di film e di informazioni televisive, del recinto della Borsa lì dove avvengono le contrattazioni. Gente che urla gesticola fa le linguacce e gesti osceni e incomprensibili, corre di qua e di là, si attacca ai telefoni, scrive e poi dice delle cose. Per quanto lo sviluppo della mondializzazione della finanza e della sua informatizzazione abbiano sostanzialmente anestetizzato e reso asettico tutto quell'ambiente, fornendo display, schermi di computer, comunicazioni da tutte le borse mondiali in tempo reale, programmi informatici che sfruttano le relazioni matematiche più disparate, dalla frequenza delle catastrofi naturali a quella dei terremoti finanziari, la centralità del linguaggio nella determinazione dell'economia non è certo venuta meno, anzi si è forse accresciuta. Per suggestione, basta pensare al suo opposto: immaginare l'effetto dell'improvviso silenzio, dell'ammutolimento della parola dentro la frenesia discorsiva dell'economia. Michelangelo Antonioni lo descrisse ne L'eclisse, quando dentro la corbeille, il recinto delle contrattazioni, della Borsa di Roma improvvisamente tacciono le urla e gli strepiti degli operatori perché s'è deciso un minuto di silenzio per commemorare la morte per infarto di un collega. Come statue di sale tacciono gli operatori inutili senza la parola, oggetti inanimati, proprio nel senso che l'anima del loro agire è il linguaggio, e che il silenzio e la cosa più contro natura per l'economia. Durerà poco, appena un minuto, perché - come dirà Delon rivolto a una stranita Monica Vitti — ogni minuto vale miliardi. O forse dice milioni, siamo davvero in un altro tempo. L'elemento più importante nella valutazione di un'opzione è un valore chiamato “volatilità”, che si fissa secondo criteri completamente soggettivi basati su un calcolo di variazione dei prezzi. Per esempio, un'opzione che da il diritto di vendere fiorini in cambio di dollari avrà un valore più alto se i prezzi subiranno delle oscillazioni ragguardevoli e più basso se rimangono costanti. La volatilità è cioè un valore difficile a definirsi, dal momento che nessuno può sapere quali saranno le oscillazioni di quotazioni. Non c'è nulla che possa rappresentare meglio la volatilità dell'economia quanto la volatilità linguistica, cioè la capacità di evocare scenari, rappresentarli, metaforizzarli, usarli retoricamente, disseminare trabocchetti come la padronanza della lingua. Andy Krieger che fu un operatore temuto e prestigioso dei mercati internazionali di valuta (nel 1987 si vantò di avere venduto allo scoperto l'intera massa monetaria della Nuova Zelanda) prima delle sue disavventure giudiziarie, si era laureato in filosofia in un'Università della Pennsylvania, specializzandosi successivamente in sanscrito. Quando ebbe un violento scontro sulla sterlina, i giornali britannici tirarono fuori contro di lui varie storie, ma quello che più colpiva era proprio quella sua conoscenza del sanscrito, che gli avrebbe dato accesso a chissà quali esoterismi. Questa relazione oscura e vitale tra lingua, scrittura ed economia doveva essere ben nota a Keynes (che pure fu tra coloro che monumentalizzarono la matematizzazione di questa), almeno stando a quanto accadde attorno l'accordo di Bretton Woods che divenne insieme alla costituzione del Fondo Monetano Internazionale e della Banca Mondiale dopo la Seconda Guerra mondiale, sostituendo il gold standard, il perno del nuovo assetto monetario ed economico del mondo. Nel 1943, prima della conferenza, Keynes andò negli Stati Uniti per appianare le divergenze tra il suo piano e quello degli americani sostanzialmente accettando le posizioni di questi - tra l'altro quasi tutti keynesiani purché fosse lui a riscriverlo. Gli americani chiesero: “Ma se siete disposti ad accettarlo, che bisogno c'è di riscriverlo?” E Keynes: “Perché il vostro piano è scritto in cherokee”. E loro: “Lo abbiamo scritto in cherokee, perché questo è il linguaggio che i guerrieri di Wall Street capiscono”. Keynes insistette al di fuori di ogni ragionevolezza, accusando, tra le altre cose, uno degli uomini del Tesoro americano di agire come un rabbino incapace di spostarsi dalla lettera del Talmud. Matematica e letteratura Generalmente si ha un'idea approssimativa dell'economia come di una scienza i cui supporti principali sono i numeri: per un verso, quindi, qualcosa che ha a che fare con la contabilità e, per l'altro, con la matematica. Ma la nascita dell'economia politica tra il Settecento e l'Ottocento per affermarsi come scienza non usava principalmente i numeri bensì i concetti, i criteri, le figure analitiche. In Smith, Ricardo e Marx sono le rivoluzioni categoriali quelle che consentono di rovesciare le analisi correnti e di fondare l'economia politica (e una critica di questa), supportando le categorie con qualche cifra. E' con Marshall, e con l'affermarsi della teoria marginalista, che si consolida l'uso di tradurre o enunciare i concetti con strumenti sempre più sofisticati di rappresentazione grafica in assi, coordinate curve - e in un certo senso non poteva che essere così, visto che la teoria del valore viene affrontata fondamentalmente come teoria dei prezzi, e quindi occorre rappresentare l'andamento dei prezzi e la storia dei prezzi. Ed è con Keynes - e con le sue elaborazioni sulla moneta — che si afferma la macroeconomia, cioè la necessita di rappresentare i grandi aggregati, i grandi numeri sull'occupazione, i bilanci dello Stato, la finanza pubblica, i movimenti di import-export delle merci, la spesa pubblica, e il bisogno di capire come intrecciare, muovere, spostare questi grandi aggregati. La matematizzazione dell'economia si consolida dagli anni Trenta in poi, fino all'impotenza della capacità di rappresentazione dei numeri, ovvero fino al momento in cui diventa insufficiente quello strumento di misura del rapporto tra monete, merci, aggregati, movimenti internazionali dei cambi, con la decisione americana del 1971 dell'inconvertibilità del dollaro in oro. Da quel momento, letteralmente, non è più esistita alcuna possibilità di rappresentare significativamente attraverso delle cifre, un'esatta corrispondenza dell'andamento dell'economia, di qualsiasi economia non solo quella nazionale ma anche, e soprattutto, quella internazionale. Da scienza esatta, matematicamente accertabile - anche quando (come in Keynes) i numeri servivano a descrivere delle potenzialità, ovvero a ipotizzare quanto sarebbe accaduto - l'economia si scontrò con la crescita improvvisa, casuale, rapida, sregolamentata della finanza internazionale, si scontrò con il problema del governo della moneta. In geometria si chiamano frattali (dal latino frangere, spezzare) quegli oggetti o fenomeni che hanno struttura frastagliata e che non possono essere trattati con i mezzi dell'analisi matematica ordinaria, in quanto i suoi modelli matematici mancano del requisito fondamentale della derivabilità in ogni punto; oggetti frattali sono, per esempio, il contorno di un fiocco di neve, la struttura frastagliata di una costa o di una catena di montagne. Ecco, dopo il 1971 i numeri si scontravano con i trattali. Da quel momento, ma in particolare con la fine degli anni Settanta e l'emergere dei derivati finanziari, l'economia divenne sostanzialmente linguaggio e invenzioni linguistiche, anche se usa sempre più massicciamente strumenti basati sulla precisione di calcolo infinitesimale dei numeri. Recentemente - alla presentazione del libro di Marino Sinibaldi sul pulp - qualche intervenuto contrappose la velocità della modernizzazione al “ruolo” della letteratura, che sarebbe quello di sospensione, di rallentamento, di approfondimento (quindi portò l'esempio di Proust che divaga per pagine attorno un particolare). Il pulp, ovviamente, sarebbe eccessivamente veloce e velocizzante, quindi già solo per questo non-letteratura. Ho forti dubbi sul fatto che la letteratura sia rallentamento e non piuttosto velocizzazione. E questo senza scomodare Wells e la macchina del tempo o Verne. Credo piuttosto che sia velocizzazione, del tempo e dell'attraversamento dello spazio, a cominciare da Omero, quindi dal racconto, dalla trasposizione dei fatti da “quel momento”, visibile dai presenti, a “qualsiasi momento” fruibile da chiunque. La parola scritta, precipitato, condensazione del pensiero che, invece, è sovrabbondanza, pesante fardello da trasportare, velocizza il linguaggio, lo semplifica per un verso e lo comunica ad altri: questa atemporalità e questa aspazialità è esattamente la velocizzazione. La letteratura è quindi attività di velocizzazione per eccellenza dell'uomo, non pausa, non rallentamento. D'altronde è noto che chi scrive cerca sempre le parole per togliere, che il suo mestiere è esattamente questo: non tanto scrivere per aggiungere, accumulare parole, quanto piuttosto sceglierle, levarle. E in questo va sempre contro il tempo, che è accumulazione, stratificazione. L'unica facoltà dell'uomo capace oggi di descrivere in qualche modo gli avvenimenti dell'economia - e la loro velocità - è l'artificio linguistico. Trucchi linguistici e neologismi Luca Meldolesi, stimato professore universitario di economia, nonché già stimato rivoluzionario attorno il Sessantotto, ha condotto, con altri, circa un anno fa un'importante e ponderosa indagine “sul campo” nel Sud, attorno le questioni del mercato del lavoro e dell'occupazione - da cui emerge non solo una realtà vivace e ricca di potenzialità ma una diffusa insofferenza all'assistenzialismo e ai luoghi comuni, oltre che un bisogno di mettere certezze in alcune condizioni. Intervistato da una volenterosa giornalista, Meldolesi dice: “Le prime verifiche ci hanno confermato subito che esiste un forte scostamento tra dati e realtà, tanto che i nostri laureandi vengono incoraggiati a includere nelle loro tesi uno specchietto riassuntivo delle discrepanze tra i risultati delle loro inchieste e le rilevazioni ufficiali”. A una successiva domanda sul perché al Sud le statistiche non funzionino, Meldolesi risponde: “Nel Mezzogiorno esiste un rapporto particolare con l'autorità, tale per cui l'intervistato tende a dirsi disoccupato perché vorrebbe un posto di lavoro preciso... I nostri stessi studenti, cui chiediamo di fare queste indagini, hanno un atteggiamento reticente, quasi per proteggere l'ambiente dal quale provengono”. Non si pensi però che truccare le parole sia una prerogativa del disoccupato o sottoccupato meridionale magari per estorcere un sussidio, per influenzare l'economia. Proprio contro “la miriade di nuovi trucchi” inventati dagli operatori della finanza si scagliò Paul Volcker, ex presidente della Federal Reserve degli Stati Uniti. Eppure erano stati proprio loro a cominciare le danze dei giochi linguistici. Nel 1950 gli Stati Uniti registrano il primo deficit della loro storia. Non era ancora un disavanzo commerciale: esportavano molto di più di quanto importassero. Ma la crescita enorme del budget militare, gli aiuti all'estero come controllo politico, il turismo degli americani avevano rimpinguato le casse delle banche europee, formando il primo disavanzo nella bilancia dei pagamenti. Gli americani non erano ancora assuefatti a quest'idea, e così nelle statistiche ufficiali decisero di non catalogare questi passivi di bilancio, utilizzando invece la categoria “trasferimenti netti di oro e dollari al resto del mondo”. Quanto a immaginazione linguistica il bilancio dello Stato italiano (definito, con espressione colorita “carro di Tespi” da Giuliano Amato) non è però secondo a nessuno. Benché lui stesso dichiari di avere ormai esaurito tutte le immaginazioni, il ragioniere centrale dello Stato, Monorchio, è un potente costruttore di neologismi. Tra gli affanni di manovre correttive del disavanzo ha inserito la sua creatura dei “fondi globali negativi” (legge n 362 del 1988). Questi rappresentano una sorta di “prenotazione” della copertura di un provvedimento, che prende la veste, in bilancio, di una “appostazione” (altro splendido neologismo, di incerta origine, ma di chiaro significato, tra appostare - come spiare in agguato dei movimenti per intervenire - e appostare come mettere a posto). Questa appostazione è collegata con il segno negativo al segno positivo di quel provvedimento, così che esso non gravi sulle finanze pubbliche. Il problema da aggirare è sempre stato l'obbligo costituzionale introdotto da Einaudi alla nascita della Repubblica, della copertura delle leggi di spesa - l'art 81. In un certo senso è grazie a queste manovre di aggiramento che si è potuto forzare la visione contabile del mercato di un economista alla Einaudi, insufficiente rispetto la crescita impetuosa di una domanda sociale di beni e di benessere che ha attraversato l'Italia a partire dagli anni Sessanta (visione che è esplosa davvero negli anni Ottanta quando è cominciato a mancare qualsiasi rapporto tra crescita sociale e debito pubblico). E' anche vero che ormai la selva di leggi e leggine, di stati di previsione dei vari ministeri hanno reso il Bilancio dello Stato qualcosa di assolutamente impenetrabile, tanto da poter dire che non esiste un riferimento generale “certo” sull'indebitamento complessivo del settore statale (e già esistono difficoltà di circoscrivere la definizione tra “settore statale”, “amministrazioni pubbliche” e “settore pubblico”) oppure, che è lo stesso, tanto da poter affermare che esso sia un “falso”. E il deficit pubblico comprende sempre più elementi “sotto la linea”: regolazione di debiti pregressi, scarti di emissione dei titoli, variazioni dei tassi di cambio, proventi delle future privatizzazioni, cioè tutte voci che comportano solo variazioni positive e negative. C'è dunque un pizzico di verità nelle critiche che vengono rivolte, ad esempio, alle manovre e manovrine del governo Prodi (“misure cosmetiche” le ha definite Modigliani, “artifici contabili” invece Giavazzi, “numeri fragili” il “Corriere della Sera”, dopo che il Tar aveva stabilito di annullare la decisione dell'Enel di abbassare le tariffe, rialzando così la cifra dell'inflazione), ma è ovvio che la questione non sta nella precisione contabile attorno lo 0,1 oppure lo 0,2 - come nella opinabile valutazione europea. Ascoltare Monorchio è illuminante. In un'intervista dell'aprile 1996 dice: “Anche un'inversione minima, dello 0,1-0,2%, indicherebbe che siamo sulla strada del risanamento”. A esatta distanza di un anno, nell'aprile 1997 Monorchio dice, in un'altra intervista: “Scostamenti nella misura dello 0,1-0,2% sono ridicoli, irrilevanti. Insomma, si tratta di discrepanze statistiche”. Non è un giro di valzer il suo, anzi sta coerentemente difendendo lo stesso criterio, cioè, come afferma poi: “I conti sono a posto”. II problema vero è che l'amministrazione dei conti non è una materia contabile, ma squisitamente contestuale, cioè linguistica. “l'Unità” del 28 settembre 1996, nel presentare la manovra da 65.000 miliardi del governo dell'Ulivo, in un articolo zeppo di cifre percentuali e dati, abusa del tempo condizionale “… I consumi privati infatti dovrebbero mostrare un'accelerazione… Si dovrebbe consolidare l'attivo della bilancia commerciale…Le unità di lavoro dovrebbero aumentare…La dinamica salariale dovrebbe rallentare e si dovrebbe venficare l'allineamento sostanziale dei salari… II tasso di disoccupazione dovrebbe quindi migliorare…”. Rispetto alle apodittiche certezze del Gran Contabile di Stato questo uso del condizionale potrebbe indicare una sorta di seria cautela, ma a pensarci bene quale altro tempo resta oggi alla descrizione dell'economia ai politici, quando essi si basano sulla stima, la previsione, incapaci di progettare società, di inventare economia? La produzione è sottomessa alla descrizione Gli unici che marciano con senso del presente e del futuro sono le Banche centrali, vera nave dei folli convinti di potere sottomettere l'intera società alle loro regole ai loro studi, e di poterla rifondare addirittura. Se c'è un posto dove quello straordinario gesto inventivo di Pol Pot di abolire la moneta rischia di ripetersi con segno opposto questa è l'Europa dei governatori delle banche centrali, tutti tesi a inseguire il loro sogno di ridurre sempre di più la massa monetaria circolante, fino a sopprimerla magari (l'Albania è stata il loro incubo - seppure non ha avuto il tempo di trasformarsi da fenomeno circoscritto in sfida internazionale). Per avere, infine, una esplicitazione chiara - anche se l' esempio che qui si riporta è circoscritto all'Italia - del rapporto stretto tra produzione e scrittura, tra economia e testo, basta dare un'occhiata al carnet di appuntamenti della politica con le parole dell'economia: - 28 febbraio, il Ministro del Tesoro presenta la Relazione sulla gestione di cassa del settore pubblico allargato; - 31 marzo, Relazione generale sulla situazione economica del paese; - 15 maggio Documento di programmazione economico-finanziaria; - fine giugno, il Bilancio di assestamento; - luglio, Bilancio annuale e pluriennale a “legislazione vigente”; - entro l'anno, Relazione previsionale e programmatica. A questa montagna di parole e scrittura vanno aggiunte le varie manovre - ormai considerabili come delle scadenze fisse - attorno le quali si produce una voluminosa massa di considerazioni, il Rendiconto generale di cassa e soprattutto le Considerazioni finali della Banca d'Italia, nell'Assemblea che si tiene all'incirca ogni maggio. Quello che si vuole qui dire non è tanto l'inaffidabilità dei numeri alla descrizione dei fenomeni economici (anche questo comunque: le storie controfattuali e le simulazioni riguardo l'inflazione e il debito pubblico in Italia sviluppate da Modigliani, Baldassarri e Castiglionesi sono un semplice supporto a una posizione riassumibile nel freno dei salari e nel taglio dello Stato sociale), quanto il fatto che la produzione generale oggi sia pre-scritta, anzi prescritta, dentro i parametri concettuali del governo dispotico della moneta. Non c'è solo una Biblioteca di Babele dell'economia, ma il Grande libro dove la produzione è sottomessa alla descrizione. La produzione è scrittura, nel senso che il vincolo testuale alla dinamica delle forze economiche è fortissimo. La produzione è linguaggio, nel senso che i trucchi linguistici costruiscono il quadro generale dentro il quale si giustifica continuamente la mortificazione della tendenza alla crescita della produzione. I numeri, le cifre, i rendiconti - che già di per se non riescono a seguire l'andamento dell'economia e della finanza - vengono inanellati secondo una struttura linguistica e discorsiva apodittica, formalità senza logica. Di fronte a questo ordine economico del discorso dobbiamo imparare dalla dislessia di Kristen a essergli indifferenti, capire che muoversi verso una forma economica caotica e ingovernabile è molto meno drammatico che restare descritti e denominati economicamente, riprendere la forza e la complessità delle categorie analitiche, dei criteri e dei concetti. Lo scontro sull'economia è di linguaggi, di parole, cioè politico. Roma, dicembre 1997