diritto naturale

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Raimondo Cubeddu
Sul 'diritto naturale' e sulla sua relazione col cattolicesimo e
col liberalismo.
Il fatto che l'espressione 'diritto naturale' sia comunemente adoperata per
designare quelle concezioni del diritto (ius naturale, lex naturalis, Natural Rights,
Human Rights, diritti fondamentali, etc.) come un qualcosa di antecedente alla
politica, allo stato, alla legislazione e come un argine al potere e alla sua endogena
tendenza all'espansione, non deve indurre a pensare anche che tutti coloro i quali
concordano su tale sua antecedenza genetica e su tale sua funzione si trovino pure
d'accordo quando si tratta di precisare quale sia la sua origine e che cosa esattamente
significhi 'natura' o 'naturale'. In via di prima approssimazione si potrebbe quindi
dire che le vicende del diritto naturale riflettono il grande antagonismo che
caratterizza l'Occidente e che può essere riassunto nella tensione vitale, ma non certo
priva di momenti di feconda concordia e di reciproca influenza, tra Religione e
Filosofia. Di fatto, e per quanto nessuno degli antagonisti punti più all'eliminazione
dell'altro, tale tensione continua a presentare aspetti problematici e controversi che
sono appunto connessi al fatto che le reciproche influenze tendono a mettere in
discussione e, sulla spinta di quel tumultuoso e frenetico emergere di novità che sta
caratterizzando l'epoca contemporanea, costringono costantemente a ridisegnare i
relativi confini e le rispettive sfere di competenza.
Il punto di partenza, conseguentemente, è da individuare nelle diverse risposte
alle domande se il diritto sia un portato della filosofia o della rivelazione; se sia, come
il diritto romano, un fenomeno originale rispetto ad esse1; cosa debba intendersi per
'natura'; ed infine se essa abbia o meno un fine e se può essere conosciuto.
Se si affrontasse la questione da un punto di vista storico si potrebbe osservare
(per semplificare, ed ammettendo che sia possibile e lecito) che dalla fusione tra la
tradizione del diritto romano e la tradizione del diritto cristiano2, dalla quale nasce la
stagione della legge naturale (jus e lex diventano in questa circostanza quasi sinonimi e
le differenze negli usi è ora opportuno –anche per mancanza di competenza–
lasciarle da parte), ad un certo punto –successivamente alla Riforma– emerge una
nuova categoria di diritti. E poiché essi nascono e si affermano più o meno
contemporaneamente a quel fenomeno che caratterizza la 'modernità': vale a dire
l'affrancamento dello stato, della politica, dell'economia, della filosofia e della scienza
dalla religione e dall'etica, ci si chiede anche quale sia la relazione di tali 'nuovi diritti'
con la precedente tradizione della legge naturale.
A tal riguardo gli studiosi si dividono. Quelli detti 'continuisti' ritengono che tra
Cfr. SCHIAVONE (2005).
“Saint Thomas restaure la doctrine rigoureuse romain du droit, monstrant qu'elle ne s'oppose en
rien à la foi chrétienne”, scrive VILLEY, in (1983).
1
2
il ius naturale, la lex naturalis ed i Natural Rights vi sia, appunto, una continuità che è
più forte delle differenze3. Tale opinione non è tuttavia condivisa da altri studiosi, ed
in specie da coloro i quali mettono in evidenza come quei 'Rigths' siano legati ad una
nuova e diversa concezione della natura, dell'individuo e del fine delle istituzioni
politiche e sociali che si stacca significativamente da quella romanistica-aristotelicotomistica, e come, semmai di continuità si debba parlare, quei Rights possono, o
dovrebbero, essere messi in relazione piuttosto con la tradizione volontaristica di
Pier di Giovanni Olivi, Scoto ed Ockham, ovvero con quel 'diritto soggettivo' che essi
inaugurano attribuendo al concetto di ius un significato che gli studiosi ritengono
non avesse nella tradizione tomistica e neanche in quella romanistica che si era
sviluppata in Europa all'incirca a partire dal Duecento4.
Michel Villey, ha sapientemente messo in luce come tra Ockham e Tommaso,
anche a proposito del diritto5, le differenze non siano poche, e quando John Finnis ha
cercato di mostrare che anche in Tommaso vi sarebbe un uso dell'espressione ius
naturale che potrebbe preludere a quella moderna di diritti naturali, la replica di
Brian Tierney lascia il segno6. Ma le 'leggi permissive', che per quest'ultimo
rappresenterebbero l'elemento di continuità7, non sono prese in considerazione dai
'continuisti cattolico-liberali' i quali molto spesso si limitano a valorizzare gli aspetti
'continuisti' dell'opera di Tierney (la lenta trasformazione del significato di ius nel
linguaggio giuridico e filosofico tardo medievale) a discapito di quelli 'discontinuisti'.
Se di una continuità si volesse comunque parlare, essa sarebbe quindi da
ricercare nella tradizione del volontarismo e non dell'oggettivismo tomista. Ciò che
comunque comporta anche affrontare se non il tema del finalismo in generale, per lo
meno di quel particolare finalismo delle istituzioni politiche e sociali, compresa
quella della proprietà, che distingue la tradizione tomista e volontarista da quella
degli 'individualismi', pur così diversi, di Hobbes e di Locke.
Di qui, sicuramente intrecciandosi alla dottrina della povertà volontaria
sviluppata da settori del francescanesimo, ed in particolare alle concezioni della
proprietà e del suo uso (usus pauper e usus facti) da essi teorizzate e diffuse (tra tante
difficili circostanze8), tale nuova concezione –che per alcuni studiosi prelude o
inaugura la stagione dell'individualismo (le cui origini, tuttavia, altri studiosi
individuano già nei primi decenni del primo millennio9, e quindi anteriormente al
diffondersi del francescanesimo)– sarebbe sfociata in Grozio, in Hobbes, in Locke e in
Pufendorf tramite la mediazione della Seconda Scolastica, che taluni studiosi
intendono anche come un tentativo (più o meno volontario) di conciliare la
concezione oggettivistica e quella soggettivistica del diritto10, e per il cui tramite le
Lo stato del dibattito è efficacemente sintetizzato da TIERNEY (2002), trad. it. p. 9: “tra gli studiosi
contemporanei esistono punti di vista piuttosto diversi sul rapporto fra legge naturale e diritti
naturali. Alcuni sostengono che i due concetti sono logicamente incompatibili tra loro. Altri affermano
che i diritti naturali furono dedotti dalla legge naturale nell’opera dell’Aquinate, o –al contrario– che
la legge naturale fu dedotta dai diritti naturali nell’opera di Hobbes. Tutte queste posizioni sembrano
passibili di critica”.
4 Cfr., ad esempio, OAKLEY (1984), capp. XIV, XV, XVI, e PARISOLI (1999).
5 Si vedano in particolare VILLEY (1975) e (1983).
6 Cfr. FINNIS (2002) e TIERNEY (2002), pp. 416-20.
7 Cfr. TIERNEY (2001a) e (2001b).
8 Si veda TODESCHINI (2004).
9 Si veda il sempre valido LAGARDE, G. DE (1956) e MORRIS (1972).
10 Cfr. TODESCAN (2003).
3
dottrine economiche dell'Olivi anzitutto, si sarebbero (per vie soltanto parzialmente
chiarite dall'indagine storico-filologica e teorica) trasmesse a Locke.
Forse con un certo semplicismo tale questione viene spesso elusa dai cattolici
liberali di formazione 'austriaca, i quali, sostenendo che tra legge naturale e diritti
naturali vi sia una continuità teorica e storica, finiscono così per trascurare di
chiedersi da una parte in che relazione sia la concezione del diritto 'austriaca' con
quella tomistica, con quella volontaristica e con quella dei Natural Rights; dall'altra se
i Natural Rights della tradizione lockeana (dei quali pure si dichiarano fautori) siano,
a loro volta, più compatibili con la legge naturale della tradizione tomista o col
volontarismo giuridico della tradizione francescana di Scoto e di Ockham.
Più in generale, seguendo Tierney, è da respingere la tesi che vede l'epoca premoderna concentrarsi sulla legge naturale e quella moderna sui diritti naturali. E
questo, non soltanto perché ciò finirebbe per appiattire le differenze tra Scoto ed
Ockham da una parte e San Tommaso, dall'altra, ma soprattutto, per via della grande
'varietà di diritti' dei quali trattavano i teologi, i giuristi ed i canonisti medievali11.
Ciò che se per un verso sembra andare nella direzione della 'continuità' tra lex
naturalis e Natural Rights il cui anello di congiunzione –come s'è detto– pare costituito
per alcuni dallo jus naturale e per altri dalle 'leggi permissive', per un altro verso
fornisce soltanto una continuità legata al linguaggio dei giuristi (che fu uniforme fino
alla Riforma e all'emergere degli stati nazionali) dietro il quale fa comunque capolino
un profondo mutamento di carattere filosofico. Quello stesso mutamento, qualora
non si voglia adoperare la parola 'rottura', che si ha nel passaggio dalla filosofia
scolastica a quella moderna e che è per molti versi speculare al diverso uso che
subisce l'espressione 'bene comune'. Espressione che certamente rimane nell'uso, ma
acquisendo un significato diverso.
In ogni caso, se la ricostruzione di un passaggio tanto complesso potesse essere
così semplificata, il punto centrale diverrebbe la parafrasi che delle teorie economiche
di Olivi fecero Antonino da Firenze e Bernardino da Siena (quest'ultimo non a caso
un francescano)12, i quali, come è noto, le trasmisero agli esponenti della Scuola di
Salamanca e, loro tramite, e più esattamente tramite Suarez, a Locke.
Di certo, le indagini più recenti tendono ad escludere che il concetto di
proprietà di Locke costituisca una rottura traumatica col concetto di proprietà
elaborato dalla tradizione definibile come medievale13. Più che l'espressione di un
concetto di proprietà legato alla nascente mentalità 'borghese' (tesi cara a
MacPherson e a Strauss) la dottrina della proprietà di Locke –anche se i riferimenti
filologici rimangono tuttora controversi e se con Olivi inizia a manifestarsi una
concezione che oggi si direbbe 'soggettivistica' del valore14 che invece non si ritrova
nella concezione lockeana– sarebbe allora da intendere come una rielaborazione
'creativa' di elementi già presenti, e talora anche consolidati, nella tradizione
medievale.
Tale formulazione della tesi 'continuista' appare oggi largamente condivisa
anche se non deve essere confusa con quella di Alessandro Passerin d'Entrèves che si
incentra sul carattere del diritto naturale come critica del potere politico e quindi
Cfr. TIERNEY (1997).
Si veda soprattutto SPICCIANI (1990a).
13 Si vedano, ad esempio, TULLY (1980), BUCKLE (1991), KRAMER (1997) e SWANSON (1997).
14 Cfr. SPICCIANI (1990b).
11
12
della legislazione 'positiva', e che pertanto sarebbe il reale punto di contatto tra la
tradizione della lex naturalis e quella dei Natural Rights15.
Anche se taluni studiosi non recedono dal vedere in Tommaso e nei suoi
epigoni qualcosa che fa pensare ai moderni diritti come opportunità soggettive
connesse all'esistenza di una legge naturale oggettiva, il problema che la tesi pone
riguarda appunto la particolare combinazione di legge naturale e diritto soggettivo
nella Scolastica spagnola, e le modalità del suo trasmettersi ad Hobbes e a Locke.
Tale percorso, comunque, finisce per lasciare in ombra quella particolare
trasformazione della lex naturalis in Common Law che è peculiare dell'Inghilterra, e
per spostare l'attenzione sulla relazione di Hobbes e di Locke con la riflessione del
diritto canonico e della Seconda Scolastica piuttosto che con l'elaborazione del
concetto di diritto e di proprietà che dà vita a quelli che potrebbero essere definiti i
'diritti del popolo inglese' così come si erano configurati a seguito delle vicende
politiche inglesi e nelle opere di di Bracton, Coke, Seldon e Hale16. E questo, senza
chiedersi cosa mai abbia indotto Hobbes e Locke a definire 'naturali' quei diritti che,
in qualche modo, avevano già trovato collocazione nella tradizione della Common
Law.
Altri studiosi, pur senza negare la rilevanza delle implicazioni filosofiche
connesse alla discussa e opinabile distinzione tra lex e ius in epoca moderna,
ritengono invece che a fondamento dei nuovi Natural Rights sia un mutamento
radicale del modo di intendere il concetto di natura di fronte al quale la distinzione
tra tradizione oggettivistica e tradizione soggettivistica, dato anche il fatto che
nessuna di esse rinunciava ad una concezione finalistica dell'azione umana,
finirebbero per apparire secondarie. In questo caso, più che con la trazione
volontaristica, sarebbe il caso di confrontarsi con le conseguenze che anche nel
campo del diritto ebbero le teorie cartesiane sulla natura e col modo in cui tale nuovo
concetto, che mette in scacco la dottrina aristotelica e quindi quella della common
truth, furono recepite da Hobbes e da Locke dando vita ad un nuovo modo di
intendere legge, diritti, fondamenti e fini dell'associazione politica.
La discontinuità filosofica, in questo caso, apparirebbe più forte della
'continuità giuridica' anche nei termini prima descritti, e la 'catastrofe volontaristica'
–per dirla con Villey– non sarebbe che un preludio della decadenza della filosofia
politica che verrà dopo, e che è assolutamente condannato prima dalla tradizione del
diritto naturale cattolico (si pensi a Taparelli d'Azeglio17) e poi da pensatori tanto
diversi come lo stesso Villey e Strauss.
Accanto a questa, che si potrebbe definire come la questione centrale, ci sarebbe
da annoverarne anche altre. La prima, come s'è visto, riguarda la relazione tra lex
naturalis e Common Law e tra quest'ultima e i Natural Rights. Ammesso infatti che le
espressioni lex naturalis e Common Law possono essere state adoperate come sinonimi
perché tali sono intese da Bracton fino a Blackstone18 passando per Coke e Hale,
viene da chiedersi quale sia allora la relazione tra Common Law e Natural Rights.
Cfr. PASSERIN D'ENTRÈVES (1951). Su di ciò rinvio a CUBEDDU (2004b).
Cfr. BERMAN (2003).
17 Cfr. TAPARELLI D'AZEGLIO (1855).
18 Anche Blackstone, ad esempio, per via del suo credere che “the principal aim of society is to protect
individuals in the enjoyment of those absolute rights which were vested in them by immutable laws
of nature” (cfr. BLACKSTONE (1765-69)) sarebbe allora un 'continuista'.
15
16
Ovvero come mai alcuni intendono la prima come fondamento dei secondi, dato che
due degli bersagli polemici di Hobbes sono da una parte Hooker, il teorico tomista
(nella versione anglicana) della lex naturalis, e dall'altra Coke il teorico della Common
Law.
Come se non bastasse, per semplificare diciamo con Savigny, inizia anche ad
affermarsi una concezione 'evoluzionistica' del diritto che muove dal diritto romano
per giungere ad un'interpretazione della sua nascita che di 'naturale' non ha niente di
più dell'essere il 'risultato irriflesso' di atti di scambio di poteri e di pretese19 coi quali
gli uomini cercano di risolvere problemi e di migliorare la propria situazione. Data la
naturalità dello scambio, ed il fatto che in quest'ultimo caso si potrebbe intendere
l'evoluzione del diritto come qualcosa di non dissimile da quel flourishing20 ora
oggetto di riguardosa attenzione tra i contemporanei teorici della connessione tra
Natural Law tomista e Natural Rights lockeani, si sarebbe tentati, anche in questo caso,
di parlare di un'ulteriore accezione del diritto naturale.
Il fatto è però che alcuni continuatori in una prospettiva liberale di tale
tradizione (vale a dire gli esponenti della Scuola Austriaca) in generale disdegnano
l'uso delle due espressioni (Natural Law e Natural Rights, espressione, quest'ultima da
loro poco usata forse anche perché identificabile, a torto o a ragione, da una parte con
Locke visto tra i fondatori della teoria oggettivistica del valore; e dall'altro col
razionalismo francese) e, soprattutto, persistono forti difficoltà ad adoperare la
parola 'naturale' per designare quelle istituzioni che, come il linguaggio, il diritto ed
il denaro, altro non sarebbero, sempre per quei teorici, e il riferimento è ovviamente a
Menger, se non 'risultati in larga misura involontari' di un'azione umana anzitutto, e
per sua 'natura', portata prima a cercare di risolvere problemi come quello della
sicurezza e della fame e poi ad imparare dalla loro soluzione e, per così dire, a
'teorizzarci' su. Esito di uno 'scambio di pretese' che non appare possibile
immaginare esistenti prima dell'uomo, tale accezione del diritto, 'naturale' quanto la
diseguaglianza tra gli uomini, sarebbe quindi un esempio del modo in cui, invece di
raggiungere l''ordine giusto' tramite l'imitazione del modello normativo costituito
dalla natura, l'uomo cerca di controllare gli eventi sulla base della conoscenza
posseduta di sé, e dei propri bisogni, ma senza riconoscere o attribuire alla natura un
fine specifico o un'evoluzionismo di stampo ottimistico. Ciò che darebbe vita ad una
serie di istituzioni normative definibili, secondo Menger, come "organico irriflesse"21.
Così esposta, tale teoria potrebbe anche far pensare, e qualcuno lo ha fatto, ad
una ripresa del volontarismo oliviano giunto dalla Spagna, e per vie misteriose, a
Vienna nella seconda metà dell'Ottocento e lì rifiorito nella teoria dell'azione umana e
del diritto che caratterizza la cosiddetta Scuola Austriaca. Solo che manca qualsiasi
riferimento testuale (se non qualche accenno nelle ultime opere di Hayek) e che qui
non abbiamo un Dio e neanche una teleologia. Più in generale, pur riconoscendo che
la moderna economia di mercato di cui gli 'Austriaci' si fanno interpreti può avere in
Olivi il suo primo teorico, ciò che segna la differenza è l'emergere di quel fenomeno
'stato' che rende impossibile il finalismo della sua, e francescana, funzione sociale del
mercante. Una funzione che può svolgersi in un ambito comunitario ma non in un
ambito statuale a meno di intendere lo stato come associazione politica teleocratica.
Penso a LEONI (1961) e (2005).
Cfr. RASMUSSEN, DEN UYL (2005).
21 Cfr. MENGER (1883).
19
20
Ci troviamo quindi di fronte ad un passaggio tanto importante quanto
controverso, riguardo al quale, nonostante la quantità e qualità delle indagini, molte
questioni rimangono aperte e riguardo al quale pensare di dire la parola definitiva, o
semplicemente riassuntiva è, quanto meno, difficile, o indice di presunzione.
Tuttavia, che i padri della nuova dottrina dei Natural Rights pensassero in
termini di rottura è quasi evidente dalle loro opere. Grozio, Hobbes e Locke si
sforzano di ragionare “etiamsi daremus [...] Deum non esse”; ed anche se sovente
adoperano il linguaggio della tradizione filosofica, teologica e giuridica, il contenuto
del loro pensiero è nuovo e vuole essere innovatore22.
Certamente allontanarsi dalla tradizione è difficile, ma lo stacco apparve allora,
e tale fu ritenuto per secoli, più cruento di quanto possa, per lo meno ad alcuni,
apparire oggi. Per di più, accanto ad uno sviluppo della tradizione dei Natural Rights
hobbesiani e lockeani, si registrò, come è stato messo in evidenza in questi ultimi
anni (e penso al progetto di Knud Haakonssen per la Liberty Fund) una parallela e
conflittuale ripresa dei temi della Natural Law secondo la tradizione tomistica che si
legò, per lo meno inizialmente, ad uno dei ben noti oggetti polemici di Hobbes, vale a
dire ad Hooker, che possiamo ritrovare in Burke23, e che appare ben chiara nel
mondo cattolico con le opere di Taparelli d'Azeglio, di Matteo Liberatore e nei molti
ed importanti pensatori (ad esempio, Maritain, Rommen, Simon, Crowe, Veatch, etc.)
che nel XX secolo sono protagonisti della ripresa della concezione tomistica della
legge naturale.
Invero non si trattò certo della prima ed unica volta che a parole e a concetti
consolidati nella tradizione si dette un contenuto nuovo. Succede comunemente
anche oggi.
Per cercare di fare un po' di luce bisogna quindi tornare un bel po' indietro, e
pertanto, oltre che dalla Seconda Scolastica, bisognerebbe anche muovere per un
verso dalla tradizione volontaristica che si rifà a Ochkam e, per un altro verso,
dall'ambiente scettico, se non addirittura ateo, nel quale vivevano, o per il quale
avevano, se non altro, forse anche simpatia, Grozio, Hobbes e Locke (i quali con le
confessioni religiose dei loro tormentati tempi ebbero non pochi problemi). Non
sarebbe neanche inopportuno chiedersi perché mai questi ultimi abbiano sentito la
'necessità' di aggiungere qualcosa d'altro, che denominarono Natural Rights alla
tradizionale lex naturalis, sulla cui fondazione nella lex aeterna è possibile nutrissero
qualche dubbio, e a quella della Common Law. Grozio, in via di 'ipotesi 'assurda',
teorizza l'esistenza di un diritto (jus naturale) che avrebbero avuto valore “anche se
Dio non fosse esistito” [“Etiamsi daremus, quod sine magno scelere dari nequit, Deum non
esse aut ab eo non curari negotia humana”], e lo distingue dallo jus divinum, richiamando
così l'attenzione su un'eventualità sicuramente scandalosa ma parimenti indice di
una possibilità destinata ad un certo, sia pure controverso, sviluppo. Studiosi recenti
sostengono, e a ragione, che neanche questa fosse una novità dato che anche
Tommaso aveva distinto la lex naturalis dalla lex divina, e richiamano l'attenzione sul
fatto che Grozio parla di ius e non di lex24.
Come se non bastasse, sia Hobbes, sia Locke insistono sulla novità che sarebbe
rappresentato dal loro concetto di Natural Right e sul fatto che non bisogna
Per quanto riguarda Locke si veda, ad esempio, HORWITZ (1990).
Cfr. STANLIS (1986).
24 Si veda TODESCAN (2003).
22
23
confonderlo con quello dei 'diritti del popolo inglese' e neanche con la legge
naturale25.
Oggi alcuni studiosi indagano sulle radici religiose di tali inediti diritti
mettendo opportunamente in evidenza ciò che li lega a varie tradizioni cristiane e
medievali26, ma non è il caso di dimenticare che per secoli la filosofia di Hobbes e di
Locke fu additata come atea e che i sostenitori cattolici e protestanti della lex naturalis
considerarono da subito i loro Natural Rights se non in termini analoghi a quelli di
figli del diavolo o, per lo meno, ed è il caso di Burke, come i diretti precursori di
quella infausta concezione razionalistica ed illuministica dei diritti che avrebbe
portato alla Rivoluzione Francese.
E non è inoltre privo di rilevanza il fatto che, proprio per via del pericolo che la
teoria politica cattolica poteva rappresentare per le istituzioni e per le libertà degli
inglesi, Locke sia così poco 'tollerante' nei confronti dei cattolici. Un atteggiamento
che mette in luce quanta diffidenza, anche nei secoli successivi, molti esponenti
liberalismo abbiano nutrito nei confronti della dottrina politica cattolica i cui princìpi
(e poteva fare eccezione la dottrina della legge naturale?) e le cui istituzioni furono a
lungo ritenuti inconciliabili con quelli del liberalismo. Ne furono, ovviamente ed
ampiamente, ripagati dai cattolici.
Ma se oggi, sollecitati da un ecumenismo reso stringente dalla consapevolezza
che di fronte ad una minaccia comune (che indifferente alle distinzioni vede nel
cristianesimo e nel liberalismo un unico nemico) i dissidi non devono prevalere
ancora una volta sulle affinità, è possibile dire sia che sgradevoli esagerazioni ce ne
furono da entrambe le parti, sia che la storia, come le affinità, non può essere negata.
Come pure che un'iniezione di teleologismo sarebbe probabilmente fatale per un
liberalismo che deve essere indubbiamente 'riparato' (anche se non sa se ci siano e
dove esattamente si trovino i 'pezzi' adatti, o se debba 'costruirseli' da solo) e che
sicuramente non può sperare di sfuggire al relativismo (minaccia endemica e ben
nota) adottando la versione 'forte' di un finalismo che, nella versione ottimistica del
provvidenzialismo della 'invisible hand' e del 'laissez faire' non ha certo contribuito a
risolvere i suoi problemi teorici, e neanche ad assicurargli una perpetua credibilità
politica.
Indubbiamente ci si trova di fronte ad uno dei passaggi filosofici più
controversi ed affascinanti della storia della filosofia politica liberale.
Tuttavia, e per quanto possa risultare comprensibile ed anche condivisibile che
–nel tentativo di porre qualcosa di solido sopra l'estrema variabilità del processo di
mercato, di individuare princìpi solidi, razionali, universali e perenni che servano da
guida nelle scelte umane, nei processi conoscitivi e decisionali, e per superare il
relativismo indotto dalla distinzione kantiana tra morale e diritto– i Libertarians
cerchino di istituire una relazione di continuità tra la lex naturalis tomistica e i Natural
Rights lockeani, non appare possibile evitare di osservare che il loro tentativo poggia
su delle forzature. Come, ad esempio, quella di interpretare in senso 'continuista' la
dottrina secondo la quale “il diritto naturale ha avuto una parte preminente nel
pensiero e della storia dell’Occidente perché concepita come la misura ultima del
giusto e dell’ingiusto, come il modello della vita buona ovvero della vita “secondo
Sulla questione, rinvio a CUBEDDU (2004a).
Anche se, a proposito delle loro origini cristiano-giudaiche, non tutti si confrontano seriamente e
serenamente con la tesi di Villey, chiaramente, anche se polemicamente, esposte in VILLEY (1983).
25
26
natura”, [come] una pietra di paragone delle istituzioni esistenti, una istanza ora
conservatrice ora rivoluzionaria”27.
Ciò che indubbiamente non costituisce una novità dato che si tratta della tesi
sostenuta da un autore: Otto von Gierke che doveva marcare indelebilmente la
riflessione sulla natura, le vicende storiche e le interpretazioni del diritto naturale28.
Anche la tesi di Strauss, secondo il quale in quei tormentati tempi i filosofi si
siano “espressi tra le righe” è certo suggestiva, ma in questo caso se alcuni studiosi
(compreso Strauss) potrebbero osservare che i padri dei Natural Rights cercavano di
nascondere il loro ateismo, altri studiosi (per lo meno riguardo alla questione della
lex naturalis) potrebbero ribattere che in realtà cercavano di offuscare il loro tomismo
(ciò che tuttavia implicherebbe che tale 'ingombrante' componente sarebbe
indipendente dal loro sistema filosofico).
Tanto basta, tuttavia, per sostenere che gli attuali contrasti sulla loro natura,
fondamento ed estensione, hanno una vita lunga e forse anche giustificata da
un'ambiguità di fondo che alcuni studiosi, Strauss29 e Villey tra i primi, hanno cercato
di sciogliere, sia pure argomentandola diversamente, sostenendo che si tratti di cose
diverse: che tra la tradizione della legge naturale (ius naturale e lex naturalis) e quella
dei Natural Rights vi sia cesura e non continuità.
Nati in contrapposizione alla lex naturalis della tradizione tomista, i Natural
Rights sono oggi al centro dell'attenzione di quei 'tomisti liberali' che rivendicano una
continuità che comunque rimane problematica. Se non altro per il fatto che la
tradizione tomista cattolica, ad iniziare da Taparelli, ha da sempre avvertito la
differenza tra la lex naturalis e i Natural Rights. Tant'è che anche oggi i Natural Rights
non hanno molta fortuna tra i tomisti non liberali accusati, da quelli liberali, di essere
anche poco tomisti.
Parlare oggi di diritto naturale significa, quindi ed ancora una volta, in un
contesto per molti versi analogo a quello in cui se ne iniziò a discutere (e questa
potrebbe essere anche il motivo per cui a suo riguardo si parla anche di lex aeterna),
chiedersi se tale diritto, e forse anche una legge naturale, possano continuare ad
assolvere la funzione di punto di riferimento per trattare dei diritti dell'uomo, delle
funzioni dello stato, e dei poteri delle maggioranze in contesti caratterizzati da una
pluralità di valori, di etiche e di religioni.
Tale questione, che fino a pochi anni fa poteva essere confinata nel dibattito
erudito, scientifico o accademico, ha assunto una particolare importanza nel
momento in cui la civiltà occidentale viene da più parti (sia religiose, sia laiche)
accusata di essere incline ad un relativismo tanto marcato da determinarne
l'incapacità di far fronte all'attacco di altre culture, religioni o civiltà. L'accusa, se
soltanto si pensa a Strauss, non è affatto nuova e viene messa in relazione col fatto
che, abbandonando la 'stella polare' rappresentata dal diritto naturale classico (quello
che egli chiama Natural Right e che distingue dalla Natural Law cristiana30), la filosofia
politica si è incamminata verso una sorta di relativismo nichilistico.
Ciò che qui si vuol dire è che il rigetto della tesi secondo la quale i Natural
PASSERIN D'ENTRÈVES (1951).
Cfr. GIERKE (1957), ma l'edizione originale, Das deutsche Genossenschaftsrecht, è del 1881. La traduzione
inglese ha il pregio di avvalersi di un'introduzione di Ernest Barker.
29 Di STRAUSS si vedano (1953) e (1968).
30 Cfr. FORTIN (1996).
27
28
Rights derivino da una lex naturalis, e questa da una legge eterna, non comporta
affatto una discesa negli inferi del relativismo. Quindi, che per continuare ad usare i
diritti naturali come una stella polare, non c'è affatto bisogno di farli poggiare su una
lex naturalis a sua volta fondata su una lex aeterna.
Nel corso dei secoli, tanto la legge naturale quanto i diritti naturali sono stati
intesi come antecedenti alla politica e alla legislazione e sono stati interpretati sia
come argini al potere e alla dilatazione delle aspettative individuali, sia come
fondamento della loro dilatazione e a quella del potere. E ciò, probabilmente, per il
fatto che il concetto di 'natura' era soggetto ad interpretazioni 'naturalmente' incerte e
comunque legate al cambiamento del suo concetto 'scientifico'.
Recentemente, riprendendo un tema che già aveva attratto l'attenzione degli
studiosi, McInerny, per fare un esempio, individua nella filosofia di Cartesio la prima
critica sistematica al presupposto conoscitivo della lex naturalis31. Niente, come è stato
detto, è infatti più 'culturale' del concetto di 'natura'. E la sua scoperta, al pari di
quella della legge naturale fu, come ricorda Strauss, opera proprio della filosofia
classica e non compare nella Bibbia ebraica.
Di fatto, come viene in evidenza in gran parte della letteratura d'ispirazione
cristiana e specificatamente cattolica sul diritto naturale, quando si vuol dedurre i
diritti naturali da una legge naturale, si va incontro ad una serie di problemi che
essenzialmente non derivano tanto dal fatto che la legge impone doveri e i diritti
schiudono opportunità, quanto dal fatto che il concetto di natura a cui si fa
riferimento stenta, e talora, giustamente, neanche vuole, fare i conti con le
trasformazioni che il concetto di natura umana ha assunto sia per effetto delle
scoperte scientifiche, sia per le trasformazioni delle credenze condivise dall'opinione
pubblica sul concetto medesimo. In effetti, ciò che si riesce a dedurne è molto
inferiore alle aspettative iniziali quanto a certezza; come, del resto, avviene allorché
si cerca di dedurre un dover essere da un altro. Senza considerare poi a quali esiti
potrebbe mai portare la tesi deduzionistica in un mondo in cui, purtroppo, ha ormai
trionfato la degenerazione relativistica del principio del libero arbitrio, ed in cui, in
politica e in morale, i 'custodi della grande tradizione' hanno vita grama. Come pure
l'avrebbero i tentativi di derivare diritti individuali e scelte collettive da un'asserita
'legge naturale'. La mia impressione è che sarebbe soltanto un modo per accentuare i
contrasti che già esistono nell'opinione pubblica occidentale e che stanno rendendo
sempre più difficile anche fare scelte collettive fondate su un utilitarismo i cui
risultati si potrebbero godere già 'a breve termine'.
Quel che intendo sostenere è che, stante l'incertezza che è precipitata sul
concetto di natura, essa non è più neanche un 'essere' dal quale possono essere
dedotti dei 'dover essere', ma soltanto, a sua volta, un 'dover essere', una costruzione
teorica. I tomisti possono contestare la legge di Hume, ma non possono esimersi dal
chiedersi se la 'natura' sia così certa come sostengono e neanche possono evitare di
fare i conti col fatto che il primo colpo a tale 'certezza' è stato portato dallo stesso
Tommaso quando ha posto la lex aeterna sopra la lex naturalis.
Le parole di Strauss, quando sostenne che “la conseguenza estrema della
concezione che San Tommaso aveva della legge naturale è che essa è inseparabile in
pratica non solo dalla teologia (cioè da una teologia naturale che è, in effetti, basata
31
Cfr. MCINERNY (2000).
sulla rivelazione biblica), ma anche dalla teologia rivelata”32, suonano come un
ritocco sinistro sul tentativo tomista di dedurre i diritti naturali dalla legge naturale
per il fatto che, in tal modo quest'ultima, viene a fondarsi sulla rivelazione e non più
sulla filosofia.
Con ciò, sia ben chiaro, non si intende affatto sostenere che il progetto di
scoprire il faro debba essere abbandonato, ma soltanto che quando non lo si trova, e
se ne ha indubbiamente bisogno, è possibile tentare di costruirlo tenendo conto della
sovente perversa correlazione tra due fenomeni di per sé stessi, o per 'natura', non
stabili come la ricerca scientifica ed i mutamenti dell'opinione pubblica. Vale a dire
dei due fenomeni che da secoli si rivelano (e per fortuna) i più difficili da governare
(da parte di tutti i tipi di potere); tanto che possono essere indicati come
caratterizzanti la vitalità di quella civiltà occidentale che è poi anche la patria tanto
della lex naturalis, quanto dei Natural Rights.
Di qui la lunga serie di questioni irrisolte e tendenzialmente conflittuali che
caratterizza la lunga tradizione del diritto naturale al quale si richiamano tanto i
sostenitori del 'diritto all'aborto', quanto quelli del 'diritto alla vita'. Una sorta di
attuale riproposizione di un'ambiguità che, come ricordava Bobbio33, e prima di lui
Gierke, era servita tanto ai sostenitori della delimitazione della sovranità, quanto ai
sostenitori della sua fondazione e della sua estensione.
Ma se quello di legge naturale è un concetto ambiguo, può essere detto lo stesso
per i Natural Rights?
In altre parole, chiedersi se i Natural Rights possano essere a fondamento di una
filosofia politica che, senza rinunciare alla questione del 'miglior ordine politico', si
interroghi sulla convivenza di ideologie politiche connesse a diverse concezioni della
natura, dell'uomo e della sua dignità e finalità, significa toccare uno il tema
principale della filosofia politica.
Infatti, se la questione fosse presa sul serio, bisognerebbe anzitutto chiedersi
perché gran parte della modernità abbia tentato di fondere la legge e i diritti naturali
con lo stato tanto da far pensare che la teoria dei Natural Rights sia una produzione
dello stato nascente, della nuova mentalità individualistica legata al sorgere
dell'economia di mercato, uno strumento di cui, come osserva Gierke, i teorici dello
stato si servono per combattere tanto la società corporativa medievale, quanto per
porre argine alle pretese dei canonisti e dei romanisti.
Forse è giunto il momento di fare un bilancio dei tentativi di affidare allo stato il
compito di garantire o di realizzare i diritti naturali, e, infine, di chiederci quali siano
stati effettivamente i vantaggi dei vari tentativi di trarre dalla legge naturale e dai
diritti naturali indicazioni pratiche sull'agire individuale e politico.
Se si volesse fare tale bilancio esso apparirebbe infatti quasi fallimentare34, tanto
da indurre a ripensare l'assioma, più volte ripetuto, secondo il quale essi
costituiscono la 'stella polare' della filosofia politica e secondo il quale il loro
abbandono ne segna l'inizio della decadenza.
Da tale punto di vista il tentativo cattolico di legare la legge naturale e i
conseguenti diritti naturali ad una lex aeterna ad essi ancora precedente, apparirebbe
indubbiamente vantaggiosa se non fosse che allora la natura rischierebbe di
Cfr. STRAUSS (1953).
Cfr. BOBBIO 1990.
34 E questo, come ritiene BARNETT (2004), forse anche nell'ambito del Libertarianism rothbardiano.
32
33
coincidere con la fede e con la rivelazione e quello di diritto naturale diverrebbe
quindi un concetto praticamente inutilizzabile da parte di quanti non si riconoscono
in esse. In tal modo, infine, i due concetti di legge e di diritto naturale perderebbero
la funzione di punti di riferimento 'naturali' per tutti gli uomini. Cosa indubbiamente
non auspicabile.
Il perdurare della questione è quindi dato alla perenne esigenza di individuare
qualcosa di stabile al di là delle scoperte e delle innovazioni della ricerca filosoficoscientifica e dei cambiamenti dell'opinione pubblica. Di qui quel tentativo di
distinguere natura e rivelazione che si è mostrato tanto affascinante quanto incerto
nei suoi esiti per il fatto che il concetto di bene, per quanto desiderabile e
perseguibile, non è simultaneamente universalizzabile dato che la sua percezione
richiede una conoscenza che non è innata, né equamente distribuita e che comunque
mantiene un costo di acquisizione anche quando 'rivelato'.
A voler abusare di sintesi, si potrebbe quindi dire che il vero problema del
diritto naturale è che la sua distinzione tra bene e male è prescientifica, presuppone
un'innata capacità di distinzione che non si ha nella realtà. Quel principio della
naturale diseguaglianza degli uomini da cui parte la filosofia viene così infranto dalla
credenza nella loro innata, e contemporaneamente naturale e logica, capacità di
distinguere tra bene e male, vale a dire di esprimere una valutazione omogenea, se
non identica e simultanea, dello stesso fenomeno. E, per di più, senza tener conto del
fatto che talora può capitare di trattare di fenomeni di cui non si ha né esperienza, né
conoscenza. In altre parole, il concetto di natura può essere desunto da ciò che
conosciamo o, paradossalmente, da ciò che non conosciamo?
Ma di qui anche la convinzione di chi scrive che non soltanto il fondare su, ma
anche il legare i diritti ad un'etica o ad una tradizione religiosa, sia non soltanto
sbagliato, perché i diritti naturali sorgono proprio per garantire la libertà degli
uomini indipendentemente dalla loro razza e religione, ma anche poco saggio dal
momento che, se quel legame fosse affermato, gli stessi diritti avrebbero valore
soltanto da quanti in quelle etiche o tradizioni religiose si riconoscono. E invece oggi
si ha proprio bisogno del contrario.
Certamente non si tratta di impresa facile, ma chi si professa liberale non può
esimersi dal cimentarsi con essa, se non altro chiedendosi se si possa ancora parlare
di una 'stella polare' in un'epoca che ammette fini individuali, ma che è restia a
credere che ne esistano di umani, e se si possibile immaginare diritti naturali senza
una concezione essenzialistica e finalistica della natura umana.
Per questo, data l'importanza che i due concetti hanno avuto nella storia della
filosofia politica, la relazione tra legge naturale e diritti naturali è un tema che, di per
sé stesso, rende complessi e problematici i rapporti tra cattolicesimo e liberalismo. Si
aggiunga che per quanto in generale i cristiani teorizzino una deducibilità dei diritti
naturali dalla legge naturale ed un continuità storica tra i due, tale continuità o
deduzione non è certamente negata da tutti i liberali (cristiani o meno), ma anche che
esistono liberali e cattolici che non credono nella continuità storica o deduzione
concettuale; cattolici che ritengono che i Natural Rights siano una deprecabile
invenzione moderna; ed infine cristiani che non credono nell'esistenza di una legge
naturale ma credono nell'esistenza di Natural Rights; e non-cristiani che non credono
nell'esistenza di una legge naturale e neanche nell'esistenza di Natural Rights.
Apparentemente la dizione Human Rights mette un po' tutti d'accordo, ma quando si
passa a definirli e a chiedersi come e chi li debba garantire o realizzare, i contrasti
finiscono per riesplodere.
E questo, anche senza considerare come tutto ciò finisca per riflettersi sulle
diverse concezioni che costoro hanno del mercato. In sintesi, si potrebbe affermare
che quanti individuano il punto di partenza nella legge naturale sono, e logicamente,
propensi a attribuire al mercato un fine che trascende quello dei singoli individui,
mentre i sostenitori dei Natural Rights tendono a negargli un fine superiore a quello
degli individui che vi agiscono. Ancora in generale, si può individuare l'origine di
tali differenze nel diverso ruolo attribuito al diritto di proprietà ed alla sua
estensione, ma è bene non dimenticare che per alcuni, appartenenti tanto al campo
dei fautori della legge naturale, quanto a quello dei Natural Rights, l'inserimento del
diritto di proprietà tra i diritti naturali è quanto meno dubbio. Sempre in generale,
costoro ritengono che tale diritto sia, o debba essere, soggetto ad una delimitazione
da parte del potere politico che ne specifichi il fine: il bene comune o l'utilità sociale.
Due concetti che un moderno sostenitore dei Natural Rights lockeani troverebbe per
lo meno discutibili anche in considerazione del fatto che affermarne l'esistenza
significherebbe, a sua volta, ammettere l'esistenza di qualcosa di precedente agli
individui, ai loro Natural Rights, e per essi, in qualche misura, vincolante.
In generale, e come primo approccio alla questione, si può dire che taluni
esponenti del liberalismo (termine con cui si intende, ovviamente, Classical Liberalism)
non condividono la tesi che tra la tradizione della legge naturale e quella dei diritti
naturali vi sia una continuità, e che un'altra differenza consiste nel non condividere,
da parte del liberalismo, il finalismo che il cattolicesimo ritiene sia proprio della
natura umana e quindi delle istituzioni umane come, appunto, il mercato. Volendo
essere meno estremisti, si potrebbe sostenere che tali teorici del liberalismo
assegnano loro finalità diverse, forse non incompatibili ma semplicemente
complementari. Ciò che tuttavia non impedisce di chiedersi se la beatitudo, ciò che per
Tommaso rappresenta il fine ultimo dell'uomo, il suo teleologismo (secondo il quale
“omne agens agit propt er finem”, ed il suo sostenere che “omnia appetunt divinam
similitudinem quasi ultimum finem”) possano corrispondere alla credenza moderna
(ed 'austriaca') secondo la quale ogni essere vivente cerca costantemente di migliorare la
propria condizione passando da una situazione che ritiene insoddisfacente ad una che ritiene
lo sia meno con i mezzi messi a disposizione da una conoscenza limitata che cambia in
relazione a quanto apprende nel farsi stesso del processo.
Lo stesso concetto di flourishing è finalistico, mentre, per via del farsi della
conoscenza, i processi di apprendimento possono anche rivelarsi sbagliati. Fondendo
le due cose i cattolici liberali rischiano di finire in un vicolo cieco che li porta ad
accettare l'idea di una natura umana finalistica e di fini individuali soggettivi. Ciò
che soggiace alla critica secondo la quale se i processi di acquisizione della
conoscenza non avvengono contemporaneamente e in maniera coordinata, nessun
fine, per quanto 'naturale', può essere raggiunto. Dunque, da un lato i cattolici
liberali ipotizzano la naturalmente diseguale distribuzione della conoscenza tra gli
uomini, ne riconoscono costi e tempi di acquisizione diversi, e contemporaneamente,
dall'altro lato, ritengono che esista un fine naturale comune e che questo, state quel
complesso di condizioni, possa essere conosciuto e raggiunto. Anche se resta
imprecisata la questione dei tempi in cui raggiungerlo e cosa fare dopo.
Ciò che quindi si può escludere è che il liberalismo sia interpretabile come una
sorta di secolarizzazione del cristianesimo. E' certamente vero che nel corso dei secoli
le due tradizioni della filosofia politica, come mostra l'esistenza e la fioritura del
cattolicesimo liberale, o del liberalismo cattolico, si sono, per così dire,
reciprocamente e felicemente contaminate. Tuttavia, se si concentra l'attenzione sulle
reciproche e feconde contaminazioni si può anche correre il rischio di dimenticare i
lunghi secoli di reciproca, sorda, ed aspra ostilità. In definitiva, come non si deve
dimenticare che non sempre il cattolicesimo ha avuto un atteggiamento favorevole
nei confronti del liberalismo e della sua concezione del mercato (un'avversione che
ha comprensibili motivazioni teoriche e storiche), così pure non è il caso di
dimenticare che analoga ostilità è stata riservata da molti esponenti della tradizione
liberale al cristianesimo e, più in generale, alla religione.
Oggi, fortunatamente, e grazie soprattutto alla tenacia dei cattolici liberali, tali
reciproche avversioni appaiono confinate nel passato; ma questo non significa affatto
che le differenze si siano annullate o che non abbiano più ragione di esistere. Ancora
una volta in generale, e per quanto la nozione stessa di 'sfera privata' sia diventata
problematica e discussa nell'ambito del liberalismo, nessun cattolico accetterebbe di
buon grado che la religione sia confinata in quella sfera. La questione, se si tiene
presente che è un luogo comune sostenere che il liberalismo 'si regge o cade sulla
distinzione tra sfera privata e sfera pubblica', non è quindi di poco conto. E questo
senza chiedersi quale, per le due tradizioni, sia l'ampiezza delle due sfere e, quindi, il
rilievo della libertà individuale e la sua estensione.
Al giorno d'oggi, poiché i cattolici liberali hanno come punto di riferimento
quella particolare versione del liberalismo che è stata elaborata dalla Scuola
Austriaca, e poiché non v'è dubbio che essa rappresenti il mainstream in fatto di
Classical Liberalism e di Libertarianism, se si vuole indagare sulle affinità e sulle
differenze bisogna quindi prendere le mosse da quanto gli Austriaci sostengono sulla
libertà individuale e sulla genesi delle istituzioni sociali. Nel far questo, tuttavia,
bisogna dire che i cattolici liberali che condividono la teoria politica ed economica
'austriaca' devono, per lo meno su alcune questioni, prendere le distanze da due
tradizioni di pensiero eminentemente cattoliche come quelle di Maritain della
'Grisez-Finnis School' le quali hanno dato un indubbio e rilevante contributo alla
rinascita della dottrina della legge naturale tomista.
Di contro, è pure da ricordare che la dottrina della legge naturale non è certo
centrale –o forse è anche assente– negli esponenti della Scuola Austriaca i quali
inoltre, e soprattutto quelli definibili come 'liberali classici', ed anche per questo
distinti dai Libertarians, più che alla tradizione dei Natural Rights, si rifanno a quella
della Common Law piuttosto che ai lockeani Natural Rights.
Di fatto la portata rivoluzionaria, il vero stacco, rappresentato dalla teoria
lockeana dei Natural Rights, fu quello di sottrarli alla politica, alla Common Law e al
diritto canonico, e di rendere 'universali' diritti che prima erano soltanto 'soggettivi' e
spesso nella forma di privilegi. Una rivoluzione in parte ancora non compresa
quando vengono chiamati diritti quelle che sono semplici e talora giustificate
aspettative individuali, pretese soggettive, che tuttavia non possono, a differenza dei
Natural Rights lockeani, assumere una carattere universale.
E qui si può anche passare ad una questione che può apparire del tutto fuori
luogo, ma che invece è centrale. La si può riassumere come una domanda: 'può la tesi
continuista –la quale in sostanza afferma che il miglior ordine politico è quello in cui
il bene individuale coincide (o deve coincidere) col bene comune– sopravvivere
senza falsificare la tesi di Arrow? O il prenderne atto significa che se quella
coincidenza è impossibile, il 'bene comune' non esiste neanche nella versione liberale
di 'insieme di regole comuni?'35
La derivazione dei diritti dalla legge naturale/eterna, infatti, non fornisce
garanzia alcuna sull'inserimento tra questi di aspettative individuali o sociali che col
tempo si sarebbero rivelati fallimentari dal punto di vista economico.
Il discorso potrebbe anche estendersi, ma ciò su cui si vuole attirare l'attenzione
è che la derivazione degli uni dall'altra non è garantita da nulla e non costituisce
nessun tipo di garanzia poiché sarebbe fatta da individui comunque dotati di tempo
limitato e di conoscenza fallibile ed anche essa parziale. Molto semplicemente siamo
ancora al problema humeano relativo alla possibilità di derivare enunciati (diritti)
prescrittivi da enunciati fattuali (natura). Rimane, è vero, il fatto che per i giuristi
medievali non propendevano a dedurre legge e diritti dalla natura umana, bensì da
specifici contesti, ma allora resta da capire di che continuità si parli se i moderni
continuisti insistono tanto su un tema, quello della 'natura umana', che per i
premoderni era invece quasi secondario.
Come se non bastasse, a caratterizzare la filosofia delle scienze sociali e la teoria
delle istituzioni 'austriaca' (la quale, come si è detto, è diventata le filosofia delle
scienze sociali di riferimento per la gran parte dei contemporanei cattolici liberali, ma
non ha particolare ragioni di riverenza nei confronti di Hobbes e di Locke) è la quasi
assoluta mancanza di una concezione finalistica della natura umana e delle
istituzioni nelle quali si esprime. Ma se pure considerassimo tale affermazione
estremistica, resta il fatto che il concetto di libertà individuale del liberalismo
'austriaco' non corrisponde né a quello della tradizione tomistica, né a quello della
tradizione volontaristica.
Certamente si potrebbe osservare che per molti aspetti la posizione di Menger
sulle 'leggi naturali esatte' e sui fini della scienza economica meriterebbero, da questo
punto di vista, un'attenzione particolare e che potrebbero far pure pensare ad un
influenza aristoteloco-tomistica che comunque manca in Mises e in Hayek. E tuttavia,
pur accettando tale obiezione, non si dovrebbe, soprattutto a questo punto, fare a
meno di prendere in considerazione altrettanto seria le poche ma complesse pagine
che Menger dedica alla genesi del fenomeno giuridico nelle pagine finali delle
Untersuchungen.
Detto diversamente, e premesso che non è indispensabile essere austriaci o
tomisti, a mio avviso, se si vuol essere entrambe le cose contemporaneamente (sia
pure con graduazioni soggettivamente diverse) dichiarando di condividere la
filosofia politica e delle scienze sociali 'austriaca' (teoria dei valori soggettivi, delle
istituzioni, individualismo metodologico, evoluzionismo culturale spontaneo, etc.) i
cattolici liberali rischiano di allontanarsi dalle principali letture del tomismo senza
ancora proporne una nuova e diversa.
Ciò che nella tradizione cattolico liberale 'austriaca' appare problematico, in
definitiva, è il tentativo di conciliare un sostanziale libertarismo anarcoindividualistico nel campo economico e politico con un conservatorismo di stampo
cattolico nel campo etico. Nei confronti di quest'ultimo, come più in generale nei
confronti dei tanti amici cattolico-liberali, chi scrive non ha certo avversione, si limita
35
Cfr. CUBEDDU (2005).
a sollevare problemi di coerenza invitandoli a considerare con maggior accuratezza
quei nodi tematici che vengono abitualmente risolti in senso favorevole alla
continuità tra legge naturale e diritti naturali, tra finalismo della natura umana e
processi di mercato e di acquisizione della conoscenza, dando per scontato che tra
etica cristiana e mercato i punti di attrito siano tanto secondari quanto, sempre a loro
avviso, lo sono quelli tra cristianesimo e liberalismo.
Negare che quest'ultimo abbia radici anche nel cristianesimo sarebbe tanto
insensato quanto negare i punti di contrasto e di contrapposizione teorica e storica. E
tuttavia, come altre volte ho avuto occasione di dire, il liberalismo non è una
secolarizzazione del cristianesimo e del cattolicesimo. Soltanto chi vuole far finta di
ignorarne storia e origini può spingersi fino al punto di negare la vena atea che scorre
nel pensiero di molti dei suoi padri, una vena che i pensatori cattolici tradizionalisti
hanno sempre riconosciuto e rimproverato.
Superare quel punto critico in una direzione 'negazionista' significa screditare
scientificamente tutto un lavoro di analisi critica dei problemi che è stato fatto e che è
giusto e opportuno continuare, ma che bisogna fare anzittutto e soprattutto con gli
strumenti della critica scientifica e filologica. Significa fare seriamente i conti con le
tesi di quanti sostengono e ritengono che le due tradizioni non siano facilmente
componibili e che non abbia neanche troppo senso comporle. Significa confutarle.
Non farne cenno significa soltanto dare l'impressione che non le si conosca e che si
abbia a che fare con un'operazione di stampo giornalistico ed ideologico e non, come
sarebbe invece auspicabile, scientificamente duratura. Ciò che è cosa diversa dal
riconoscere e valorizzare quelle complementarietà ed affinità che, lungi dall'essere un
impedimento, rafforzano la necessità di fare insieme un lungo tratto di strada
consapevoli che ad un certo punto, o su certe questioni, ci si può però dividere.
Per fare un'esempio, se un pensatore come McInerny sostiene che la filosofia
cartesiana è la negazione dei presupposti sui quali si fondava la dottrina della legge
naturale aristotelico-tomistica, bisogna mostrare che Cartesio non ebbe influenza
sulla filosofia moderna nella quale fioriscono non solo i Natural Rights, ma che
produce anche un impressionante numero di opere nei cui titoli compare assai spesso
la parola 'natura'. Significa chiedersi se quella parola, o quel concetto, vengano
adoperati attribuendo loro lo stesso significato attribuito da Tommaso e dai teologi (e
filosofi) a lui successivi.
Ci sono dunque delle questioni che dal punto di vista teoretico devono essere
chiarite perché se ciò non avviene nessun compromesso, o nessuna delle auspicabili
sinergie, sarà possibile nella sfera politico-pratica.
La prima è che il contenuto delle concezioni dei diritti naturali dei cattolici e
dei liberali è diverso. Per questi ultimi sentir parlare di eguaglianza e di solidarietà
significa ascoltare un discorso da 'socialisti umanitari'. Quei diritti (sempre che non li
si intenda nella prospettiva del Rule of Law) non possono essere realizzati senza scelte
collettive, e questo significa far rientrare lo stato, anche nella forma di stato liberale,
in quella sfera che si esige sottratta a logiche e a determinazioni di tipo maggioritario.
A ciò si aggiunga che, fin quando la teoria democratica non smentirà il teorema di
Arrow, si tratta, in buona sostanza, di scelte arbitrarie.
La seconda è che il liberalismo non è una secolarizzazione o degenerazione
relativistico-nichilistica del cristianesimo, ma una filosofia politica comprendente un
sistema di valutazione dei sistemi politici ed economici fondato sull'assoluto primato
della libertà individuale.
La terza è che i diritti naturali della tradizione liberale implicano che nessuno
dei loro titolari, e per nessun motivo, può ledere, o limitare senza un consenso libero
ed esplicito ('scambio di pretese' nel senso di Leoni), i diritti naturali altrui. Per fare
un esempio, la titolarità del diritto di proprietà su un bene, o sul proprio corpo, non
significa che nel suo esercizio si possano produrre effetti, anche e soltanto acustici,
che fuoriescano dall'estensione della proprietà medesima. Ciò che è ben diverso dal
credere che i diritti possano essere limitati a fini di utilità generale, o di bene comune,
nozioni nelle quali, anche nella forma della solidarietà, si annida il socialismo, e che,
nella loro specificazione ed articolazione, non possono che essere demandate al
mutare dell'opinione pubblica o della conoscenza sociale.
La quarta è che la chiesa cattolica deve riconoscere la legittimità della ricerca
filosofica e scientifica anche nel campo dei diritti e della loro estensione come una via
della ricerca della verità diversa dalla propria senza far credere che la ricerca
filosofica debba automaticamente sfociare nel relativismo.
La quinta è che l'immissione tra i diritti naturali di quelli all'eguaglianza
mostra come la dottrina sociale della chiesa sia vicina alle tesi della Rivoluzione
francese più di quanto lo sia il Classical Liberalism il quale, su di essa, non ha mutato
opinione rispetto a quanto già detto da Burke.
La sesta è che se è vero che la ricerca filosofica può condurre a forme di
relativismo, esse non sono imputabili a tutti i tipi di ricerca filosofica. Come mostra la
storia della filosofia politica liberale contemporanea, la lotta al relativismo è un
obiettivo comune. E se non lo fosse non si riuscirebbe a spiegare come mai il
liberalismo sostenga di essere il miglior ordine politico
La settima è che la contaminazione del cristianesimo con elementi marxistici, a
lungo tollerata, se non favorita, da quei cattolici che hanno individuato nel mercato il
male assoluto, ha fatto danni per lo meno paragonabili a quelli del relativismo in
ambito filosofico.
Il compito dei cattolici liberali, che tali questioni hanno studiato e che le hanno
a cuore, potrebbe allora essere quello di favorire un dialogo tra le due anime
dell'Occidente che poi sono all'origine della sua vitalità. Ma questo implica anzitutto
riconoscere le differenze e la legittimità di strade diverse per un obiettivo comune che è
quello di sottrarre la definizione di ciò che è diritto alle ondivaghe opinioni
pubbliche, alla politica e al ceto dei giuristi.
Anche oggi, quel che lascia perplessi è il tentativo di celare il ruolo che la
ricerca filosofica ha avuto nella storia dell'Occidente. Accettare questo
significherebbe accettare una diversa forma di fondamentalismo.
Di conseguenza, il tentativo di attribuire le difficoltà dei nostri tempi alla
filosofia politica individualistica e al liberalismo economico è quanto meno
ingeneroso. Soprattutto se si tiene conto dell'attenzione che essi dedicano al tentativo
di elaborare criteri per valutare le scelte individuali e sociali e le istituzioni.
Tornando alla controversa questione della continuità tra legge naturale e
diritti naturali, intendere questi ultimi come una degenerazione della legge naturale
perché Hobbes e Locke caratterizzano la natura umana come paura o fame, non
contribuisce a rasserenare il clima. Sostenere che la divinità si sia rivelata ad un
uomo che non aveva né paura, né fame ha poco senso; e significa anche che la
distinzione rivelata tra bene e male è immediatamente percepibile senza presupporre
esperienza e conoscenza del male, della paura, e della fame da parte dell'uomo.
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