Raimondo Cubeddu Sul 'diritto naturale' e sulla sua relazione col cattolicesimo e col liberalismo. Il fatto che l'espressione 'diritto naturale' sia comunemente adoperata per designare quelle concezioni del diritto (ius naturale, lex naturalis, Natural Rights, Human Rights, diritti fondamentali, etc.) come un qualcosa di antecedente alla politica, allo stato, alla legislazione e come un argine al potere e alla sua endogena tendenza all'espansione, non deve indurre a pensare anche che tutti coloro i quali concordano su tale sua antecedenza genetica e su tale sua funzione si trovino pure d'accordo quando si tratta di precisare quale sia la sua origine e che cosa esattamente significhi 'natura' o 'naturale'. In via di prima approssimazione si potrebbe quindi dire che le vicende del diritto naturale riflettono il grande antagonismo che caratterizza l'Occidente e che può essere riassunto nella tensione vitale, ma non certo priva di momenti di feconda concordia e di reciproca influenza, tra Religione e Filosofia. Di fatto, e per quanto nessuno degli antagonisti punti più all'eliminazione dell'altro, tale tensione continua a presentare aspetti problematici e controversi che sono appunto connessi al fatto che le reciproche influenze tendono a mettere in discussione e, sulla spinta di quel tumultuoso e frenetico emergere di novità che sta caratterizzando l'epoca contemporanea, costringono costantemente a ridisegnare i relativi confini e le rispettive sfere di competenza. Il punto di partenza, conseguentemente, è da individuare nelle diverse risposte alle domande se il diritto sia un portato della filosofia o della rivelazione; se sia, come il diritto romano, un fenomeno originale rispetto ad esse1; cosa debba intendersi per 'natura'; ed infine se essa abbia o meno un fine e se può essere conosciuto. Se si affrontasse la questione da un punto di vista storico si potrebbe osservare (per semplificare, ed ammettendo che sia possibile e lecito) che dalla fusione tra la tradizione del diritto romano e la tradizione del diritto cristiano2, dalla quale nasce la stagione della legge naturale (jus e lex diventano in questa circostanza quasi sinonimi e le differenze negli usi è ora opportuno –anche per mancanza di competenza– lasciarle da parte), ad un certo punto –successivamente alla Riforma– emerge una nuova categoria di diritti. E poiché essi nascono e si affermano più o meno contemporaneamente a quel fenomeno che caratterizza la 'modernità': vale a dire l'affrancamento dello stato, della politica, dell'economia, della filosofia e della scienza dalla religione e dall'etica, ci si chiede anche quale sia la relazione di tali 'nuovi diritti' con la precedente tradizione della legge naturale. A tal riguardo gli studiosi si dividono. Quelli detti 'continuisti' ritengono che tra Cfr. SCHIAVONE (2005). “Saint Thomas restaure la doctrine rigoureuse romain du droit, monstrant qu'elle ne s'oppose en rien à la foi chrétienne”, scrive VILLEY, in (1983). 1 2 il ius naturale, la lex naturalis ed i Natural Rights vi sia, appunto, una continuità che è più forte delle differenze3. Tale opinione non è tuttavia condivisa da altri studiosi, ed in specie da coloro i quali mettono in evidenza come quei 'Rigths' siano legati ad una nuova e diversa concezione della natura, dell'individuo e del fine delle istituzioni politiche e sociali che si stacca significativamente da quella romanistica-aristotelicotomistica, e come, semmai di continuità si debba parlare, quei Rights possono, o dovrebbero, essere messi in relazione piuttosto con la tradizione volontaristica di Pier di Giovanni Olivi, Scoto ed Ockham, ovvero con quel 'diritto soggettivo' che essi inaugurano attribuendo al concetto di ius un significato che gli studiosi ritengono non avesse nella tradizione tomistica e neanche in quella romanistica che si era sviluppata in Europa all'incirca a partire dal Duecento4. Michel Villey, ha sapientemente messo in luce come tra Ockham e Tommaso, anche a proposito del diritto5, le differenze non siano poche, e quando John Finnis ha cercato di mostrare che anche in Tommaso vi sarebbe un uso dell'espressione ius naturale che potrebbe preludere a quella moderna di diritti naturali, la replica di Brian Tierney lascia il segno6. Ma le 'leggi permissive', che per quest'ultimo rappresenterebbero l'elemento di continuità7, non sono prese in considerazione dai 'continuisti cattolico-liberali' i quali molto spesso si limitano a valorizzare gli aspetti 'continuisti' dell'opera di Tierney (la lenta trasformazione del significato di ius nel linguaggio giuridico e filosofico tardo medievale) a discapito di quelli 'discontinuisti'. Se di una continuità si volesse comunque parlare, essa sarebbe quindi da ricercare nella tradizione del volontarismo e non dell'oggettivismo tomista. Ciò che comunque comporta anche affrontare se non il tema del finalismo in generale, per lo meno di quel particolare finalismo delle istituzioni politiche e sociali, compresa quella della proprietà, che distingue la tradizione tomista e volontarista da quella degli 'individualismi', pur così diversi, di Hobbes e di Locke. Di qui, sicuramente intrecciandosi alla dottrina della povertà volontaria sviluppata da settori del francescanesimo, ed in particolare alle concezioni della proprietà e del suo uso (usus pauper e usus facti) da essi teorizzate e diffuse (tra tante difficili circostanze8), tale nuova concezione –che per alcuni studiosi prelude o inaugura la stagione dell'individualismo (le cui origini, tuttavia, altri studiosi individuano già nei primi decenni del primo millennio9, e quindi anteriormente al diffondersi del francescanesimo)– sarebbe sfociata in Grozio, in Hobbes, in Locke e in Pufendorf tramite la mediazione della Seconda Scolastica, che taluni studiosi intendono anche come un tentativo (più o meno volontario) di conciliare la concezione oggettivistica e quella soggettivistica del diritto10, e per il cui tramite le Lo stato del dibattito è efficacemente sintetizzato da TIERNEY (2002), trad. it. p. 9: “tra gli studiosi contemporanei esistono punti di vista piuttosto diversi sul rapporto fra legge naturale e diritti naturali. Alcuni sostengono che i due concetti sono logicamente incompatibili tra loro. Altri affermano che i diritti naturali furono dedotti dalla legge naturale nell’opera dell’Aquinate, o –al contrario– che la legge naturale fu dedotta dai diritti naturali nell’opera di Hobbes. Tutte queste posizioni sembrano passibili di critica”. 4 Cfr., ad esempio, OAKLEY (1984), capp. XIV, XV, XVI, e PARISOLI (1999). 5 Si vedano in particolare VILLEY (1975) e (1983). 6 Cfr. FINNIS (2002) e TIERNEY (2002), pp. 416-20. 7 Cfr. TIERNEY (2001a) e (2001b). 8 Si veda TODESCHINI (2004). 9 Si veda il sempre valido LAGARDE, G. DE (1956) e MORRIS (1972). 10 Cfr. TODESCAN (2003). 3 dottrine economiche dell'Olivi anzitutto, si sarebbero (per vie soltanto parzialmente chiarite dall'indagine storico-filologica e teorica) trasmesse a Locke. Forse con un certo semplicismo tale questione viene spesso elusa dai cattolici liberali di formazione 'austriaca, i quali, sostenendo che tra legge naturale e diritti naturali vi sia una continuità teorica e storica, finiscono così per trascurare di chiedersi da una parte in che relazione sia la concezione del diritto 'austriaca' con quella tomistica, con quella volontaristica e con quella dei Natural Rights; dall'altra se i Natural Rights della tradizione lockeana (dei quali pure si dichiarano fautori) siano, a loro volta, più compatibili con la legge naturale della tradizione tomista o col volontarismo giuridico della tradizione francescana di Scoto e di Ockham. Più in generale, seguendo Tierney, è da respingere la tesi che vede l'epoca premoderna concentrarsi sulla legge naturale e quella moderna sui diritti naturali. E questo, non soltanto perché ciò finirebbe per appiattire le differenze tra Scoto ed Ockham da una parte e San Tommaso, dall'altra, ma soprattutto, per via della grande 'varietà di diritti' dei quali trattavano i teologi, i giuristi ed i canonisti medievali11. Ciò che se per un verso sembra andare nella direzione della 'continuità' tra lex naturalis e Natural Rights il cui anello di congiunzione –come s'è detto– pare costituito per alcuni dallo jus naturale e per altri dalle 'leggi permissive', per un altro verso fornisce soltanto una continuità legata al linguaggio dei giuristi (che fu uniforme fino alla Riforma e all'emergere degli stati nazionali) dietro il quale fa comunque capolino un profondo mutamento di carattere filosofico. Quello stesso mutamento, qualora non si voglia adoperare la parola 'rottura', che si ha nel passaggio dalla filosofia scolastica a quella moderna e che è per molti versi speculare al diverso uso che subisce l'espressione 'bene comune'. Espressione che certamente rimane nell'uso, ma acquisendo un significato diverso. In ogni caso, se la ricostruzione di un passaggio tanto complesso potesse essere così semplificata, il punto centrale diverrebbe la parafrasi che delle teorie economiche di Olivi fecero Antonino da Firenze e Bernardino da Siena (quest'ultimo non a caso un francescano)12, i quali, come è noto, le trasmisero agli esponenti della Scuola di Salamanca e, loro tramite, e più esattamente tramite Suarez, a Locke. Di certo, le indagini più recenti tendono ad escludere che il concetto di proprietà di Locke costituisca una rottura traumatica col concetto di proprietà elaborato dalla tradizione definibile come medievale13. Più che l'espressione di un concetto di proprietà legato alla nascente mentalità 'borghese' (tesi cara a MacPherson e a Strauss) la dottrina della proprietà di Locke –anche se i riferimenti filologici rimangono tuttora controversi e se con Olivi inizia a manifestarsi una concezione che oggi si direbbe 'soggettivistica' del valore14 che invece non si ritrova nella concezione lockeana– sarebbe allora da intendere come una rielaborazione 'creativa' di elementi già presenti, e talora anche consolidati, nella tradizione medievale. Tale formulazione della tesi 'continuista' appare oggi largamente condivisa anche se non deve essere confusa con quella di Alessandro Passerin d'Entrèves che si incentra sul carattere del diritto naturale come critica del potere politico e quindi Cfr. TIERNEY (1997). Si veda soprattutto SPICCIANI (1990a). 13 Si vedano, ad esempio, TULLY (1980), BUCKLE (1991), KRAMER (1997) e SWANSON (1997). 14 Cfr. SPICCIANI (1990b). 11 12 della legislazione 'positiva', e che pertanto sarebbe il reale punto di contatto tra la tradizione della lex naturalis e quella dei Natural Rights15. Anche se taluni studiosi non recedono dal vedere in Tommaso e nei suoi epigoni qualcosa che fa pensare ai moderni diritti come opportunità soggettive connesse all'esistenza di una legge naturale oggettiva, il problema che la tesi pone riguarda appunto la particolare combinazione di legge naturale e diritto soggettivo nella Scolastica spagnola, e le modalità del suo trasmettersi ad Hobbes e a Locke. Tale percorso, comunque, finisce per lasciare in ombra quella particolare trasformazione della lex naturalis in Common Law che è peculiare dell'Inghilterra, e per spostare l'attenzione sulla relazione di Hobbes e di Locke con la riflessione del diritto canonico e della Seconda Scolastica piuttosto che con l'elaborazione del concetto di diritto e di proprietà che dà vita a quelli che potrebbero essere definiti i 'diritti del popolo inglese' così come si erano configurati a seguito delle vicende politiche inglesi e nelle opere di di Bracton, Coke, Seldon e Hale16. E questo, senza chiedersi cosa mai abbia indotto Hobbes e Locke a definire 'naturali' quei diritti che, in qualche modo, avevano già trovato collocazione nella tradizione della Common Law. Altri studiosi, pur senza negare la rilevanza delle implicazioni filosofiche connesse alla discussa e opinabile distinzione tra lex e ius in epoca moderna, ritengono invece che a fondamento dei nuovi Natural Rights sia un mutamento radicale del modo di intendere il concetto di natura di fronte al quale la distinzione tra tradizione oggettivistica e tradizione soggettivistica, dato anche il fatto che nessuna di esse rinunciava ad una concezione finalistica dell'azione umana, finirebbero per apparire secondarie. In questo caso, più che con la trazione volontaristica, sarebbe il caso di confrontarsi con le conseguenze che anche nel campo del diritto ebbero le teorie cartesiane sulla natura e col modo in cui tale nuovo concetto, che mette in scacco la dottrina aristotelica e quindi quella della common truth, furono recepite da Hobbes e da Locke dando vita ad un nuovo modo di intendere legge, diritti, fondamenti e fini dell'associazione politica. La discontinuità filosofica, in questo caso, apparirebbe più forte della 'continuità giuridica' anche nei termini prima descritti, e la 'catastrofe volontaristica' –per dirla con Villey– non sarebbe che un preludio della decadenza della filosofia politica che verrà dopo, e che è assolutamente condannato prima dalla tradizione del diritto naturale cattolico (si pensi a Taparelli d'Azeglio17) e poi da pensatori tanto diversi come lo stesso Villey e Strauss. Accanto a questa, che si potrebbe definire come la questione centrale, ci sarebbe da annoverarne anche altre. La prima, come s'è visto, riguarda la relazione tra lex naturalis e Common Law e tra quest'ultima e i Natural Rights. Ammesso infatti che le espressioni lex naturalis e Common Law possono essere state adoperate come sinonimi perché tali sono intese da Bracton fino a Blackstone18 passando per Coke e Hale, viene da chiedersi quale sia allora la relazione tra Common Law e Natural Rights. Cfr. PASSERIN D'ENTRÈVES (1951). Su di ciò rinvio a CUBEDDU (2004b). Cfr. BERMAN (2003). 17 Cfr. TAPARELLI D'AZEGLIO (1855). 18 Anche Blackstone, ad esempio, per via del suo credere che “the principal aim of society is to protect individuals in the enjoyment of those absolute rights which were vested in them by immutable laws of nature” (cfr. BLACKSTONE (1765-69)) sarebbe allora un 'continuista'. 15 16 Ovvero come mai alcuni intendono la prima come fondamento dei secondi, dato che due degli bersagli polemici di Hobbes sono da una parte Hooker, il teorico tomista (nella versione anglicana) della lex naturalis, e dall'altra Coke il teorico della Common Law. Come se non bastasse, per semplificare diciamo con Savigny, inizia anche ad affermarsi una concezione 'evoluzionistica' del diritto che muove dal diritto romano per giungere ad un'interpretazione della sua nascita che di 'naturale' non ha niente di più dell'essere il 'risultato irriflesso' di atti di scambio di poteri e di pretese19 coi quali gli uomini cercano di risolvere problemi e di migliorare la propria situazione. Data la naturalità dello scambio, ed il fatto che in quest'ultimo caso si potrebbe intendere l'evoluzione del diritto come qualcosa di non dissimile da quel flourishing20 ora oggetto di riguardosa attenzione tra i contemporanei teorici della connessione tra Natural Law tomista e Natural Rights lockeani, si sarebbe tentati, anche in questo caso, di parlare di un'ulteriore accezione del diritto naturale. Il fatto è però che alcuni continuatori in una prospettiva liberale di tale tradizione (vale a dire gli esponenti della Scuola Austriaca) in generale disdegnano l'uso delle due espressioni (Natural Law e Natural Rights, espressione, quest'ultima da loro poco usata forse anche perché identificabile, a torto o a ragione, da una parte con Locke visto tra i fondatori della teoria oggettivistica del valore; e dall'altro col razionalismo francese) e, soprattutto, persistono forti difficoltà ad adoperare la parola 'naturale' per designare quelle istituzioni che, come il linguaggio, il diritto ed il denaro, altro non sarebbero, sempre per quei teorici, e il riferimento è ovviamente a Menger, se non 'risultati in larga misura involontari' di un'azione umana anzitutto, e per sua 'natura', portata prima a cercare di risolvere problemi come quello della sicurezza e della fame e poi ad imparare dalla loro soluzione e, per così dire, a 'teorizzarci' su. Esito di uno 'scambio di pretese' che non appare possibile immaginare esistenti prima dell'uomo, tale accezione del diritto, 'naturale' quanto la diseguaglianza tra gli uomini, sarebbe quindi un esempio del modo in cui, invece di raggiungere l''ordine giusto' tramite l'imitazione del modello normativo costituito dalla natura, l'uomo cerca di controllare gli eventi sulla base della conoscenza posseduta di sé, e dei propri bisogni, ma senza riconoscere o attribuire alla natura un fine specifico o un'evoluzionismo di stampo ottimistico. Ciò che darebbe vita ad una serie di istituzioni normative definibili, secondo Menger, come "organico irriflesse"21. Così esposta, tale teoria potrebbe anche far pensare, e qualcuno lo ha fatto, ad una ripresa del volontarismo oliviano giunto dalla Spagna, e per vie misteriose, a Vienna nella seconda metà dell'Ottocento e lì rifiorito nella teoria dell'azione umana e del diritto che caratterizza la cosiddetta Scuola Austriaca. Solo che manca qualsiasi riferimento testuale (se non qualche accenno nelle ultime opere di Hayek) e che qui non abbiamo un Dio e neanche una teleologia. Più in generale, pur riconoscendo che la moderna economia di mercato di cui gli 'Austriaci' si fanno interpreti può avere in Olivi il suo primo teorico, ciò che segna la differenza è l'emergere di quel fenomeno 'stato' che rende impossibile il finalismo della sua, e francescana, funzione sociale del mercante. Una funzione che può svolgersi in un ambito comunitario ma non in un ambito statuale a meno di intendere lo stato come associazione politica teleocratica. Penso a LEONI (1961) e (2005). Cfr. RASMUSSEN, DEN UYL (2005). 21 Cfr. MENGER (1883). 19 20 Ci troviamo quindi di fronte ad un passaggio tanto importante quanto controverso, riguardo al quale, nonostante la quantità e qualità delle indagini, molte questioni rimangono aperte e riguardo al quale pensare di dire la parola definitiva, o semplicemente riassuntiva è, quanto meno, difficile, o indice di presunzione. Tuttavia, che i padri della nuova dottrina dei Natural Rights pensassero in termini di rottura è quasi evidente dalle loro opere. Grozio, Hobbes e Locke si sforzano di ragionare “etiamsi daremus [...] Deum non esse”; ed anche se sovente adoperano il linguaggio della tradizione filosofica, teologica e giuridica, il contenuto del loro pensiero è nuovo e vuole essere innovatore22. Certamente allontanarsi dalla tradizione è difficile, ma lo stacco apparve allora, e tale fu ritenuto per secoli, più cruento di quanto possa, per lo meno ad alcuni, apparire oggi. Per di più, accanto ad uno sviluppo della tradizione dei Natural Rights hobbesiani e lockeani, si registrò, come è stato messo in evidenza in questi ultimi anni (e penso al progetto di Knud Haakonssen per la Liberty Fund) una parallela e conflittuale ripresa dei temi della Natural Law secondo la tradizione tomistica che si legò, per lo meno inizialmente, ad uno dei ben noti oggetti polemici di Hobbes, vale a dire ad Hooker, che possiamo ritrovare in Burke23, e che appare ben chiara nel mondo cattolico con le opere di Taparelli d'Azeglio, di Matteo Liberatore e nei molti ed importanti pensatori (ad esempio, Maritain, Rommen, Simon, Crowe, Veatch, etc.) che nel XX secolo sono protagonisti della ripresa della concezione tomistica della legge naturale. Invero non si trattò certo della prima ed unica volta che a parole e a concetti consolidati nella tradizione si dette un contenuto nuovo. Succede comunemente anche oggi. Per cercare di fare un po' di luce bisogna quindi tornare un bel po' indietro, e pertanto, oltre che dalla Seconda Scolastica, bisognerebbe anche muovere per un verso dalla tradizione volontaristica che si rifà a Ochkam e, per un altro verso, dall'ambiente scettico, se non addirittura ateo, nel quale vivevano, o per il quale avevano, se non altro, forse anche simpatia, Grozio, Hobbes e Locke (i quali con le confessioni religiose dei loro tormentati tempi ebbero non pochi problemi). Non sarebbe neanche inopportuno chiedersi perché mai questi ultimi abbiano sentito la 'necessità' di aggiungere qualcosa d'altro, che denominarono Natural Rights alla tradizionale lex naturalis, sulla cui fondazione nella lex aeterna è possibile nutrissero qualche dubbio, e a quella della Common Law. Grozio, in via di 'ipotesi 'assurda', teorizza l'esistenza di un diritto (jus naturale) che avrebbero avuto valore “anche se Dio non fosse esistito” [“Etiamsi daremus, quod sine magno scelere dari nequit, Deum non esse aut ab eo non curari negotia humana”], e lo distingue dallo jus divinum, richiamando così l'attenzione su un'eventualità sicuramente scandalosa ma parimenti indice di una possibilità destinata ad un certo, sia pure controverso, sviluppo. Studiosi recenti sostengono, e a ragione, che neanche questa fosse una novità dato che anche Tommaso aveva distinto la lex naturalis dalla lex divina, e richiamano l'attenzione sul fatto che Grozio parla di ius e non di lex24. Come se non bastasse, sia Hobbes, sia Locke insistono sulla novità che sarebbe rappresentato dal loro concetto di Natural Right e sul fatto che non bisogna Per quanto riguarda Locke si veda, ad esempio, HORWITZ (1990). Cfr. STANLIS (1986). 24 Si veda TODESCAN (2003). 22 23 confonderlo con quello dei 'diritti del popolo inglese' e neanche con la legge naturale25. Oggi alcuni studiosi indagano sulle radici religiose di tali inediti diritti mettendo opportunamente in evidenza ciò che li lega a varie tradizioni cristiane e medievali26, ma non è il caso di dimenticare che per secoli la filosofia di Hobbes e di Locke fu additata come atea e che i sostenitori cattolici e protestanti della lex naturalis considerarono da subito i loro Natural Rights se non in termini analoghi a quelli di figli del diavolo o, per lo meno, ed è il caso di Burke, come i diretti precursori di quella infausta concezione razionalistica ed illuministica dei diritti che avrebbe portato alla Rivoluzione Francese. E non è inoltre privo di rilevanza il fatto che, proprio per via del pericolo che la teoria politica cattolica poteva rappresentare per le istituzioni e per le libertà degli inglesi, Locke sia così poco 'tollerante' nei confronti dei cattolici. Un atteggiamento che mette in luce quanta diffidenza, anche nei secoli successivi, molti esponenti liberalismo abbiano nutrito nei confronti della dottrina politica cattolica i cui princìpi (e poteva fare eccezione la dottrina della legge naturale?) e le cui istituzioni furono a lungo ritenuti inconciliabili con quelli del liberalismo. Ne furono, ovviamente ed ampiamente, ripagati dai cattolici. Ma se oggi, sollecitati da un ecumenismo reso stringente dalla consapevolezza che di fronte ad una minaccia comune (che indifferente alle distinzioni vede nel cristianesimo e nel liberalismo un unico nemico) i dissidi non devono prevalere ancora una volta sulle affinità, è possibile dire sia che sgradevoli esagerazioni ce ne furono da entrambe le parti, sia che la storia, come le affinità, non può essere negata. Come pure che un'iniezione di teleologismo sarebbe probabilmente fatale per un liberalismo che deve essere indubbiamente 'riparato' (anche se non sa se ci siano e dove esattamente si trovino i 'pezzi' adatti, o se debba 'costruirseli' da solo) e che sicuramente non può sperare di sfuggire al relativismo (minaccia endemica e ben nota) adottando la versione 'forte' di un finalismo che, nella versione ottimistica del provvidenzialismo della 'invisible hand' e del 'laissez faire' non ha certo contribuito a risolvere i suoi problemi teorici, e neanche ad assicurargli una perpetua credibilità politica. Indubbiamente ci si trova di fronte ad uno dei passaggi filosofici più controversi ed affascinanti della storia della filosofia politica liberale. Tuttavia, e per quanto possa risultare comprensibile ed anche condivisibile che –nel tentativo di porre qualcosa di solido sopra l'estrema variabilità del processo di mercato, di individuare princìpi solidi, razionali, universali e perenni che servano da guida nelle scelte umane, nei processi conoscitivi e decisionali, e per superare il relativismo indotto dalla distinzione kantiana tra morale e diritto– i Libertarians cerchino di istituire una relazione di continuità tra la lex naturalis tomistica e i Natural Rights lockeani, non appare possibile evitare di osservare che il loro tentativo poggia su delle forzature. Come, ad esempio, quella di interpretare in senso 'continuista' la dottrina secondo la quale “il diritto naturale ha avuto una parte preminente nel pensiero e della storia dell’Occidente perché concepita come la misura ultima del giusto e dell’ingiusto, come il modello della vita buona ovvero della vita “secondo Sulla questione, rinvio a CUBEDDU (2004a). Anche se, a proposito delle loro origini cristiano-giudaiche, non tutti si confrontano seriamente e serenamente con la tesi di Villey, chiaramente, anche se polemicamente, esposte in VILLEY (1983). 25 26 natura”, [come] una pietra di paragone delle istituzioni esistenti, una istanza ora conservatrice ora rivoluzionaria”27. Ciò che indubbiamente non costituisce una novità dato che si tratta della tesi sostenuta da un autore: Otto von Gierke che doveva marcare indelebilmente la riflessione sulla natura, le vicende storiche e le interpretazioni del diritto naturale28. Anche la tesi di Strauss, secondo il quale in quei tormentati tempi i filosofi si siano “espressi tra le righe” è certo suggestiva, ma in questo caso se alcuni studiosi (compreso Strauss) potrebbero osservare che i padri dei Natural Rights cercavano di nascondere il loro ateismo, altri studiosi (per lo meno riguardo alla questione della lex naturalis) potrebbero ribattere che in realtà cercavano di offuscare il loro tomismo (ciò che tuttavia implicherebbe che tale 'ingombrante' componente sarebbe indipendente dal loro sistema filosofico). Tanto basta, tuttavia, per sostenere che gli attuali contrasti sulla loro natura, fondamento ed estensione, hanno una vita lunga e forse anche giustificata da un'ambiguità di fondo che alcuni studiosi, Strauss29 e Villey tra i primi, hanno cercato di sciogliere, sia pure argomentandola diversamente, sostenendo che si tratti di cose diverse: che tra la tradizione della legge naturale (ius naturale e lex naturalis) e quella dei Natural Rights vi sia cesura e non continuità. Nati in contrapposizione alla lex naturalis della tradizione tomista, i Natural Rights sono oggi al centro dell'attenzione di quei 'tomisti liberali' che rivendicano una continuità che comunque rimane problematica. Se non altro per il fatto che la tradizione tomista cattolica, ad iniziare da Taparelli, ha da sempre avvertito la differenza tra la lex naturalis e i Natural Rights. Tant'è che anche oggi i Natural Rights non hanno molta fortuna tra i tomisti non liberali accusati, da quelli liberali, di essere anche poco tomisti. Parlare oggi di diritto naturale significa, quindi ed ancora una volta, in un contesto per molti versi analogo a quello in cui se ne iniziò a discutere (e questa potrebbe essere anche il motivo per cui a suo riguardo si parla anche di lex aeterna), chiedersi se tale diritto, e forse anche una legge naturale, possano continuare ad assolvere la funzione di punto di riferimento per trattare dei diritti dell'uomo, delle funzioni dello stato, e dei poteri delle maggioranze in contesti caratterizzati da una pluralità di valori, di etiche e di religioni. Tale questione, che fino a pochi anni fa poteva essere confinata nel dibattito erudito, scientifico o accademico, ha assunto una particolare importanza nel momento in cui la civiltà occidentale viene da più parti (sia religiose, sia laiche) accusata di essere incline ad un relativismo tanto marcato da determinarne l'incapacità di far fronte all'attacco di altre culture, religioni o civiltà. L'accusa, se soltanto si pensa a Strauss, non è affatto nuova e viene messa in relazione col fatto che, abbandonando la 'stella polare' rappresentata dal diritto naturale classico (quello che egli chiama Natural Right e che distingue dalla Natural Law cristiana30), la filosofia politica si è incamminata verso una sorta di relativismo nichilistico. Ciò che qui si vuol dire è che il rigetto della tesi secondo la quale i Natural PASSERIN D'ENTRÈVES (1951). Cfr. GIERKE (1957), ma l'edizione originale, Das deutsche Genossenschaftsrecht, è del 1881. La traduzione inglese ha il pregio di avvalersi di un'introduzione di Ernest Barker. 29 Di STRAUSS si vedano (1953) e (1968). 30 Cfr. FORTIN (1996). 27 28 Rights derivino da una lex naturalis, e questa da una legge eterna, non comporta affatto una discesa negli inferi del relativismo. Quindi, che per continuare ad usare i diritti naturali come una stella polare, non c'è affatto bisogno di farli poggiare su una lex naturalis a sua volta fondata su una lex aeterna. Nel corso dei secoli, tanto la legge naturale quanto i diritti naturali sono stati intesi come antecedenti alla politica e alla legislazione e sono stati interpretati sia come argini al potere e alla dilatazione delle aspettative individuali, sia come fondamento della loro dilatazione e a quella del potere. E ciò, probabilmente, per il fatto che il concetto di 'natura' era soggetto ad interpretazioni 'naturalmente' incerte e comunque legate al cambiamento del suo concetto 'scientifico'. Recentemente, riprendendo un tema che già aveva attratto l'attenzione degli studiosi, McInerny, per fare un esempio, individua nella filosofia di Cartesio la prima critica sistematica al presupposto conoscitivo della lex naturalis31. Niente, come è stato detto, è infatti più 'culturale' del concetto di 'natura'. E la sua scoperta, al pari di quella della legge naturale fu, come ricorda Strauss, opera proprio della filosofia classica e non compare nella Bibbia ebraica. Di fatto, come viene in evidenza in gran parte della letteratura d'ispirazione cristiana e specificatamente cattolica sul diritto naturale, quando si vuol dedurre i diritti naturali da una legge naturale, si va incontro ad una serie di problemi che essenzialmente non derivano tanto dal fatto che la legge impone doveri e i diritti schiudono opportunità, quanto dal fatto che il concetto di natura a cui si fa riferimento stenta, e talora, giustamente, neanche vuole, fare i conti con le trasformazioni che il concetto di natura umana ha assunto sia per effetto delle scoperte scientifiche, sia per le trasformazioni delle credenze condivise dall'opinione pubblica sul concetto medesimo. In effetti, ciò che si riesce a dedurne è molto inferiore alle aspettative iniziali quanto a certezza; come, del resto, avviene allorché si cerca di dedurre un dover essere da un altro. Senza considerare poi a quali esiti potrebbe mai portare la tesi deduzionistica in un mondo in cui, purtroppo, ha ormai trionfato la degenerazione relativistica del principio del libero arbitrio, ed in cui, in politica e in morale, i 'custodi della grande tradizione' hanno vita grama. Come pure l'avrebbero i tentativi di derivare diritti individuali e scelte collettive da un'asserita 'legge naturale'. La mia impressione è che sarebbe soltanto un modo per accentuare i contrasti che già esistono nell'opinione pubblica occidentale e che stanno rendendo sempre più difficile anche fare scelte collettive fondate su un utilitarismo i cui risultati si potrebbero godere già 'a breve termine'. Quel che intendo sostenere è che, stante l'incertezza che è precipitata sul concetto di natura, essa non è più neanche un 'essere' dal quale possono essere dedotti dei 'dover essere', ma soltanto, a sua volta, un 'dover essere', una costruzione teorica. I tomisti possono contestare la legge di Hume, ma non possono esimersi dal chiedersi se la 'natura' sia così certa come sostengono e neanche possono evitare di fare i conti col fatto che il primo colpo a tale 'certezza' è stato portato dallo stesso Tommaso quando ha posto la lex aeterna sopra la lex naturalis. Le parole di Strauss, quando sostenne che “la conseguenza estrema della concezione che San Tommaso aveva della legge naturale è che essa è inseparabile in pratica non solo dalla teologia (cioè da una teologia naturale che è, in effetti, basata 31 Cfr. MCINERNY (2000). sulla rivelazione biblica), ma anche dalla teologia rivelata”32, suonano come un ritocco sinistro sul tentativo tomista di dedurre i diritti naturali dalla legge naturale per il fatto che, in tal modo quest'ultima, viene a fondarsi sulla rivelazione e non più sulla filosofia. Con ciò, sia ben chiaro, non si intende affatto sostenere che il progetto di scoprire il faro debba essere abbandonato, ma soltanto che quando non lo si trova, e se ne ha indubbiamente bisogno, è possibile tentare di costruirlo tenendo conto della sovente perversa correlazione tra due fenomeni di per sé stessi, o per 'natura', non stabili come la ricerca scientifica ed i mutamenti dell'opinione pubblica. Vale a dire dei due fenomeni che da secoli si rivelano (e per fortuna) i più difficili da governare (da parte di tutti i tipi di potere); tanto che possono essere indicati come caratterizzanti la vitalità di quella civiltà occidentale che è poi anche la patria tanto della lex naturalis, quanto dei Natural Rights. Di qui la lunga serie di questioni irrisolte e tendenzialmente conflittuali che caratterizza la lunga tradizione del diritto naturale al quale si richiamano tanto i sostenitori del 'diritto all'aborto', quanto quelli del 'diritto alla vita'. Una sorta di attuale riproposizione di un'ambiguità che, come ricordava Bobbio33, e prima di lui Gierke, era servita tanto ai sostenitori della delimitazione della sovranità, quanto ai sostenitori della sua fondazione e della sua estensione. Ma se quello di legge naturale è un concetto ambiguo, può essere detto lo stesso per i Natural Rights? In altre parole, chiedersi se i Natural Rights possano essere a fondamento di una filosofia politica che, senza rinunciare alla questione del 'miglior ordine politico', si interroghi sulla convivenza di ideologie politiche connesse a diverse concezioni della natura, dell'uomo e della sua dignità e finalità, significa toccare uno il tema principale della filosofia politica. Infatti, se la questione fosse presa sul serio, bisognerebbe anzitutto chiedersi perché gran parte della modernità abbia tentato di fondere la legge e i diritti naturali con lo stato tanto da far pensare che la teoria dei Natural Rights sia una produzione dello stato nascente, della nuova mentalità individualistica legata al sorgere dell'economia di mercato, uno strumento di cui, come osserva Gierke, i teorici dello stato si servono per combattere tanto la società corporativa medievale, quanto per porre argine alle pretese dei canonisti e dei romanisti. Forse è giunto il momento di fare un bilancio dei tentativi di affidare allo stato il compito di garantire o di realizzare i diritti naturali, e, infine, di chiederci quali siano stati effettivamente i vantaggi dei vari tentativi di trarre dalla legge naturale e dai diritti naturali indicazioni pratiche sull'agire individuale e politico. Se si volesse fare tale bilancio esso apparirebbe infatti quasi fallimentare34, tanto da indurre a ripensare l'assioma, più volte ripetuto, secondo il quale essi costituiscono la 'stella polare' della filosofia politica e secondo il quale il loro abbandono ne segna l'inizio della decadenza. Da tale punto di vista il tentativo cattolico di legare la legge naturale e i conseguenti diritti naturali ad una lex aeterna ad essi ancora precedente, apparirebbe indubbiamente vantaggiosa se non fosse che allora la natura rischierebbe di Cfr. STRAUSS (1953). Cfr. BOBBIO 1990. 34 E questo, come ritiene BARNETT (2004), forse anche nell'ambito del Libertarianism rothbardiano. 32 33 coincidere con la fede e con la rivelazione e quello di diritto naturale diverrebbe quindi un concetto praticamente inutilizzabile da parte di quanti non si riconoscono in esse. In tal modo, infine, i due concetti di legge e di diritto naturale perderebbero la funzione di punti di riferimento 'naturali' per tutti gli uomini. Cosa indubbiamente non auspicabile. Il perdurare della questione è quindi dato alla perenne esigenza di individuare qualcosa di stabile al di là delle scoperte e delle innovazioni della ricerca filosoficoscientifica e dei cambiamenti dell'opinione pubblica. Di qui quel tentativo di distinguere natura e rivelazione che si è mostrato tanto affascinante quanto incerto nei suoi esiti per il fatto che il concetto di bene, per quanto desiderabile e perseguibile, non è simultaneamente universalizzabile dato che la sua percezione richiede una conoscenza che non è innata, né equamente distribuita e che comunque mantiene un costo di acquisizione anche quando 'rivelato'. A voler abusare di sintesi, si potrebbe quindi dire che il vero problema del diritto naturale è che la sua distinzione tra bene e male è prescientifica, presuppone un'innata capacità di distinzione che non si ha nella realtà. Quel principio della naturale diseguaglianza degli uomini da cui parte la filosofia viene così infranto dalla credenza nella loro innata, e contemporaneamente naturale e logica, capacità di distinguere tra bene e male, vale a dire di esprimere una valutazione omogenea, se non identica e simultanea, dello stesso fenomeno. E, per di più, senza tener conto del fatto che talora può capitare di trattare di fenomeni di cui non si ha né esperienza, né conoscenza. In altre parole, il concetto di natura può essere desunto da ciò che conosciamo o, paradossalmente, da ciò che non conosciamo? Ma di qui anche la convinzione di chi scrive che non soltanto il fondare su, ma anche il legare i diritti ad un'etica o ad una tradizione religiosa, sia non soltanto sbagliato, perché i diritti naturali sorgono proprio per garantire la libertà degli uomini indipendentemente dalla loro razza e religione, ma anche poco saggio dal momento che, se quel legame fosse affermato, gli stessi diritti avrebbero valore soltanto da quanti in quelle etiche o tradizioni religiose si riconoscono. E invece oggi si ha proprio bisogno del contrario. Certamente non si tratta di impresa facile, ma chi si professa liberale non può esimersi dal cimentarsi con essa, se non altro chiedendosi se si possa ancora parlare di una 'stella polare' in un'epoca che ammette fini individuali, ma che è restia a credere che ne esistano di umani, e se si possibile immaginare diritti naturali senza una concezione essenzialistica e finalistica della natura umana. Per questo, data l'importanza che i due concetti hanno avuto nella storia della filosofia politica, la relazione tra legge naturale e diritti naturali è un tema che, di per sé stesso, rende complessi e problematici i rapporti tra cattolicesimo e liberalismo. Si aggiunga che per quanto in generale i cristiani teorizzino una deducibilità dei diritti naturali dalla legge naturale ed un continuità storica tra i due, tale continuità o deduzione non è certamente negata da tutti i liberali (cristiani o meno), ma anche che esistono liberali e cattolici che non credono nella continuità storica o deduzione concettuale; cattolici che ritengono che i Natural Rights siano una deprecabile invenzione moderna; ed infine cristiani che non credono nell'esistenza di una legge naturale ma credono nell'esistenza di Natural Rights; e non-cristiani che non credono nell'esistenza di una legge naturale e neanche nell'esistenza di Natural Rights. Apparentemente la dizione Human Rights mette un po' tutti d'accordo, ma quando si passa a definirli e a chiedersi come e chi li debba garantire o realizzare, i contrasti finiscono per riesplodere. E questo, anche senza considerare come tutto ciò finisca per riflettersi sulle diverse concezioni che costoro hanno del mercato. In sintesi, si potrebbe affermare che quanti individuano il punto di partenza nella legge naturale sono, e logicamente, propensi a attribuire al mercato un fine che trascende quello dei singoli individui, mentre i sostenitori dei Natural Rights tendono a negargli un fine superiore a quello degli individui che vi agiscono. Ancora in generale, si può individuare l'origine di tali differenze nel diverso ruolo attribuito al diritto di proprietà ed alla sua estensione, ma è bene non dimenticare che per alcuni, appartenenti tanto al campo dei fautori della legge naturale, quanto a quello dei Natural Rights, l'inserimento del diritto di proprietà tra i diritti naturali è quanto meno dubbio. Sempre in generale, costoro ritengono che tale diritto sia, o debba essere, soggetto ad una delimitazione da parte del potere politico che ne specifichi il fine: il bene comune o l'utilità sociale. Due concetti che un moderno sostenitore dei Natural Rights lockeani troverebbe per lo meno discutibili anche in considerazione del fatto che affermarne l'esistenza significherebbe, a sua volta, ammettere l'esistenza di qualcosa di precedente agli individui, ai loro Natural Rights, e per essi, in qualche misura, vincolante. In generale, e come primo approccio alla questione, si può dire che taluni esponenti del liberalismo (termine con cui si intende, ovviamente, Classical Liberalism) non condividono la tesi che tra la tradizione della legge naturale e quella dei diritti naturali vi sia una continuità, e che un'altra differenza consiste nel non condividere, da parte del liberalismo, il finalismo che il cattolicesimo ritiene sia proprio della natura umana e quindi delle istituzioni umane come, appunto, il mercato. Volendo essere meno estremisti, si potrebbe sostenere che tali teorici del liberalismo assegnano loro finalità diverse, forse non incompatibili ma semplicemente complementari. Ciò che tuttavia non impedisce di chiedersi se la beatitudo, ciò che per Tommaso rappresenta il fine ultimo dell'uomo, il suo teleologismo (secondo il quale “omne agens agit propt er finem”, ed il suo sostenere che “omnia appetunt divinam similitudinem quasi ultimum finem”) possano corrispondere alla credenza moderna (ed 'austriaca') secondo la quale ogni essere vivente cerca costantemente di migliorare la propria condizione passando da una situazione che ritiene insoddisfacente ad una che ritiene lo sia meno con i mezzi messi a disposizione da una conoscenza limitata che cambia in relazione a quanto apprende nel farsi stesso del processo. Lo stesso concetto di flourishing è finalistico, mentre, per via del farsi della conoscenza, i processi di apprendimento possono anche rivelarsi sbagliati. Fondendo le due cose i cattolici liberali rischiano di finire in un vicolo cieco che li porta ad accettare l'idea di una natura umana finalistica e di fini individuali soggettivi. Ciò che soggiace alla critica secondo la quale se i processi di acquisizione della conoscenza non avvengono contemporaneamente e in maniera coordinata, nessun fine, per quanto 'naturale', può essere raggiunto. Dunque, da un lato i cattolici liberali ipotizzano la naturalmente diseguale distribuzione della conoscenza tra gli uomini, ne riconoscono costi e tempi di acquisizione diversi, e contemporaneamente, dall'altro lato, ritengono che esista un fine naturale comune e che questo, state quel complesso di condizioni, possa essere conosciuto e raggiunto. Anche se resta imprecisata la questione dei tempi in cui raggiungerlo e cosa fare dopo. Ciò che quindi si può escludere è che il liberalismo sia interpretabile come una sorta di secolarizzazione del cristianesimo. E' certamente vero che nel corso dei secoli le due tradizioni della filosofia politica, come mostra l'esistenza e la fioritura del cattolicesimo liberale, o del liberalismo cattolico, si sono, per così dire, reciprocamente e felicemente contaminate. Tuttavia, se si concentra l'attenzione sulle reciproche e feconde contaminazioni si può anche correre il rischio di dimenticare i lunghi secoli di reciproca, sorda, ed aspra ostilità. In definitiva, come non si deve dimenticare che non sempre il cattolicesimo ha avuto un atteggiamento favorevole nei confronti del liberalismo e della sua concezione del mercato (un'avversione che ha comprensibili motivazioni teoriche e storiche), così pure non è il caso di dimenticare che analoga ostilità è stata riservata da molti esponenti della tradizione liberale al cristianesimo e, più in generale, alla religione. Oggi, fortunatamente, e grazie soprattutto alla tenacia dei cattolici liberali, tali reciproche avversioni appaiono confinate nel passato; ma questo non significa affatto che le differenze si siano annullate o che non abbiano più ragione di esistere. Ancora una volta in generale, e per quanto la nozione stessa di 'sfera privata' sia diventata problematica e discussa nell'ambito del liberalismo, nessun cattolico accetterebbe di buon grado che la religione sia confinata in quella sfera. La questione, se si tiene presente che è un luogo comune sostenere che il liberalismo 'si regge o cade sulla distinzione tra sfera privata e sfera pubblica', non è quindi di poco conto. E questo senza chiedersi quale, per le due tradizioni, sia l'ampiezza delle due sfere e, quindi, il rilievo della libertà individuale e la sua estensione. Al giorno d'oggi, poiché i cattolici liberali hanno come punto di riferimento quella particolare versione del liberalismo che è stata elaborata dalla Scuola Austriaca, e poiché non v'è dubbio che essa rappresenti il mainstream in fatto di Classical Liberalism e di Libertarianism, se si vuole indagare sulle affinità e sulle differenze bisogna quindi prendere le mosse da quanto gli Austriaci sostengono sulla libertà individuale e sulla genesi delle istituzioni sociali. Nel far questo, tuttavia, bisogna dire che i cattolici liberali che condividono la teoria politica ed economica 'austriaca' devono, per lo meno su alcune questioni, prendere le distanze da due tradizioni di pensiero eminentemente cattoliche come quelle di Maritain della 'Grisez-Finnis School' le quali hanno dato un indubbio e rilevante contributo alla rinascita della dottrina della legge naturale tomista. Di contro, è pure da ricordare che la dottrina della legge naturale non è certo centrale –o forse è anche assente– negli esponenti della Scuola Austriaca i quali inoltre, e soprattutto quelli definibili come 'liberali classici', ed anche per questo distinti dai Libertarians, più che alla tradizione dei Natural Rights, si rifanno a quella della Common Law piuttosto che ai lockeani Natural Rights. Di fatto la portata rivoluzionaria, il vero stacco, rappresentato dalla teoria lockeana dei Natural Rights, fu quello di sottrarli alla politica, alla Common Law e al diritto canonico, e di rendere 'universali' diritti che prima erano soltanto 'soggettivi' e spesso nella forma di privilegi. Una rivoluzione in parte ancora non compresa quando vengono chiamati diritti quelle che sono semplici e talora giustificate aspettative individuali, pretese soggettive, che tuttavia non possono, a differenza dei Natural Rights lockeani, assumere una carattere universale. E qui si può anche passare ad una questione che può apparire del tutto fuori luogo, ma che invece è centrale. La si può riassumere come una domanda: 'può la tesi continuista –la quale in sostanza afferma che il miglior ordine politico è quello in cui il bene individuale coincide (o deve coincidere) col bene comune– sopravvivere senza falsificare la tesi di Arrow? O il prenderne atto significa che se quella coincidenza è impossibile, il 'bene comune' non esiste neanche nella versione liberale di 'insieme di regole comuni?'35 La derivazione dei diritti dalla legge naturale/eterna, infatti, non fornisce garanzia alcuna sull'inserimento tra questi di aspettative individuali o sociali che col tempo si sarebbero rivelati fallimentari dal punto di vista economico. Il discorso potrebbe anche estendersi, ma ciò su cui si vuole attirare l'attenzione è che la derivazione degli uni dall'altra non è garantita da nulla e non costituisce nessun tipo di garanzia poiché sarebbe fatta da individui comunque dotati di tempo limitato e di conoscenza fallibile ed anche essa parziale. Molto semplicemente siamo ancora al problema humeano relativo alla possibilità di derivare enunciati (diritti) prescrittivi da enunciati fattuali (natura). Rimane, è vero, il fatto che per i giuristi medievali non propendevano a dedurre legge e diritti dalla natura umana, bensì da specifici contesti, ma allora resta da capire di che continuità si parli se i moderni continuisti insistono tanto su un tema, quello della 'natura umana', che per i premoderni era invece quasi secondario. Come se non bastasse, a caratterizzare la filosofia delle scienze sociali e la teoria delle istituzioni 'austriaca' (la quale, come si è detto, è diventata le filosofia delle scienze sociali di riferimento per la gran parte dei contemporanei cattolici liberali, ma non ha particolare ragioni di riverenza nei confronti di Hobbes e di Locke) è la quasi assoluta mancanza di una concezione finalistica della natura umana e delle istituzioni nelle quali si esprime. Ma se pure considerassimo tale affermazione estremistica, resta il fatto che il concetto di libertà individuale del liberalismo 'austriaco' non corrisponde né a quello della tradizione tomistica, né a quello della tradizione volontaristica. Certamente si potrebbe osservare che per molti aspetti la posizione di Menger sulle 'leggi naturali esatte' e sui fini della scienza economica meriterebbero, da questo punto di vista, un'attenzione particolare e che potrebbero far pure pensare ad un influenza aristoteloco-tomistica che comunque manca in Mises e in Hayek. E tuttavia, pur accettando tale obiezione, non si dovrebbe, soprattutto a questo punto, fare a meno di prendere in considerazione altrettanto seria le poche ma complesse pagine che Menger dedica alla genesi del fenomeno giuridico nelle pagine finali delle Untersuchungen. Detto diversamente, e premesso che non è indispensabile essere austriaci o tomisti, a mio avviso, se si vuol essere entrambe le cose contemporaneamente (sia pure con graduazioni soggettivamente diverse) dichiarando di condividere la filosofia politica e delle scienze sociali 'austriaca' (teoria dei valori soggettivi, delle istituzioni, individualismo metodologico, evoluzionismo culturale spontaneo, etc.) i cattolici liberali rischiano di allontanarsi dalle principali letture del tomismo senza ancora proporne una nuova e diversa. Ciò che nella tradizione cattolico liberale 'austriaca' appare problematico, in definitiva, è il tentativo di conciliare un sostanziale libertarismo anarcoindividualistico nel campo economico e politico con un conservatorismo di stampo cattolico nel campo etico. Nei confronti di quest'ultimo, come più in generale nei confronti dei tanti amici cattolico-liberali, chi scrive non ha certo avversione, si limita 35 Cfr. CUBEDDU (2005). a sollevare problemi di coerenza invitandoli a considerare con maggior accuratezza quei nodi tematici che vengono abitualmente risolti in senso favorevole alla continuità tra legge naturale e diritti naturali, tra finalismo della natura umana e processi di mercato e di acquisizione della conoscenza, dando per scontato che tra etica cristiana e mercato i punti di attrito siano tanto secondari quanto, sempre a loro avviso, lo sono quelli tra cristianesimo e liberalismo. Negare che quest'ultimo abbia radici anche nel cristianesimo sarebbe tanto insensato quanto negare i punti di contrasto e di contrapposizione teorica e storica. E tuttavia, come altre volte ho avuto occasione di dire, il liberalismo non è una secolarizzazione del cristianesimo e del cattolicesimo. Soltanto chi vuole far finta di ignorarne storia e origini può spingersi fino al punto di negare la vena atea che scorre nel pensiero di molti dei suoi padri, una vena che i pensatori cattolici tradizionalisti hanno sempre riconosciuto e rimproverato. Superare quel punto critico in una direzione 'negazionista' significa screditare scientificamente tutto un lavoro di analisi critica dei problemi che è stato fatto e che è giusto e opportuno continuare, ma che bisogna fare anzittutto e soprattutto con gli strumenti della critica scientifica e filologica. Significa fare seriamente i conti con le tesi di quanti sostengono e ritengono che le due tradizioni non siano facilmente componibili e che non abbia neanche troppo senso comporle. Significa confutarle. Non farne cenno significa soltanto dare l'impressione che non le si conosca e che si abbia a che fare con un'operazione di stampo giornalistico ed ideologico e non, come sarebbe invece auspicabile, scientificamente duratura. Ciò che è cosa diversa dal riconoscere e valorizzare quelle complementarietà ed affinità che, lungi dall'essere un impedimento, rafforzano la necessità di fare insieme un lungo tratto di strada consapevoli che ad un certo punto, o su certe questioni, ci si può però dividere. Per fare un'esempio, se un pensatore come McInerny sostiene che la filosofia cartesiana è la negazione dei presupposti sui quali si fondava la dottrina della legge naturale aristotelico-tomistica, bisogna mostrare che Cartesio non ebbe influenza sulla filosofia moderna nella quale fioriscono non solo i Natural Rights, ma che produce anche un impressionante numero di opere nei cui titoli compare assai spesso la parola 'natura'. Significa chiedersi se quella parola, o quel concetto, vengano adoperati attribuendo loro lo stesso significato attribuito da Tommaso e dai teologi (e filosofi) a lui successivi. Ci sono dunque delle questioni che dal punto di vista teoretico devono essere chiarite perché se ciò non avviene nessun compromesso, o nessuna delle auspicabili sinergie, sarà possibile nella sfera politico-pratica. La prima è che il contenuto delle concezioni dei diritti naturali dei cattolici e dei liberali è diverso. Per questi ultimi sentir parlare di eguaglianza e di solidarietà significa ascoltare un discorso da 'socialisti umanitari'. Quei diritti (sempre che non li si intenda nella prospettiva del Rule of Law) non possono essere realizzati senza scelte collettive, e questo significa far rientrare lo stato, anche nella forma di stato liberale, in quella sfera che si esige sottratta a logiche e a determinazioni di tipo maggioritario. A ciò si aggiunga che, fin quando la teoria democratica non smentirà il teorema di Arrow, si tratta, in buona sostanza, di scelte arbitrarie. La seconda è che il liberalismo non è una secolarizzazione o degenerazione relativistico-nichilistica del cristianesimo, ma una filosofia politica comprendente un sistema di valutazione dei sistemi politici ed economici fondato sull'assoluto primato della libertà individuale. La terza è che i diritti naturali della tradizione liberale implicano che nessuno dei loro titolari, e per nessun motivo, può ledere, o limitare senza un consenso libero ed esplicito ('scambio di pretese' nel senso di Leoni), i diritti naturali altrui. Per fare un esempio, la titolarità del diritto di proprietà su un bene, o sul proprio corpo, non significa che nel suo esercizio si possano produrre effetti, anche e soltanto acustici, che fuoriescano dall'estensione della proprietà medesima. Ciò che è ben diverso dal credere che i diritti possano essere limitati a fini di utilità generale, o di bene comune, nozioni nelle quali, anche nella forma della solidarietà, si annida il socialismo, e che, nella loro specificazione ed articolazione, non possono che essere demandate al mutare dell'opinione pubblica o della conoscenza sociale. La quarta è che la chiesa cattolica deve riconoscere la legittimità della ricerca filosofica e scientifica anche nel campo dei diritti e della loro estensione come una via della ricerca della verità diversa dalla propria senza far credere che la ricerca filosofica debba automaticamente sfociare nel relativismo. La quinta è che l'immissione tra i diritti naturali di quelli all'eguaglianza mostra come la dottrina sociale della chiesa sia vicina alle tesi della Rivoluzione francese più di quanto lo sia il Classical Liberalism il quale, su di essa, non ha mutato opinione rispetto a quanto già detto da Burke. La sesta è che se è vero che la ricerca filosofica può condurre a forme di relativismo, esse non sono imputabili a tutti i tipi di ricerca filosofica. Come mostra la storia della filosofia politica liberale contemporanea, la lotta al relativismo è un obiettivo comune. E se non lo fosse non si riuscirebbe a spiegare come mai il liberalismo sostenga di essere il miglior ordine politico La settima è che la contaminazione del cristianesimo con elementi marxistici, a lungo tollerata, se non favorita, da quei cattolici che hanno individuato nel mercato il male assoluto, ha fatto danni per lo meno paragonabili a quelli del relativismo in ambito filosofico. Il compito dei cattolici liberali, che tali questioni hanno studiato e che le hanno a cuore, potrebbe allora essere quello di favorire un dialogo tra le due anime dell'Occidente che poi sono all'origine della sua vitalità. Ma questo implica anzitutto riconoscere le differenze e la legittimità di strade diverse per un obiettivo comune che è quello di sottrarre la definizione di ciò che è diritto alle ondivaghe opinioni pubbliche, alla politica e al ceto dei giuristi. Anche oggi, quel che lascia perplessi è il tentativo di celare il ruolo che la ricerca filosofica ha avuto nella storia dell'Occidente. Accettare questo significherebbe accettare una diversa forma di fondamentalismo. Di conseguenza, il tentativo di attribuire le difficoltà dei nostri tempi alla filosofia politica individualistica e al liberalismo economico è quanto meno ingeneroso. Soprattutto se si tiene conto dell'attenzione che essi dedicano al tentativo di elaborare criteri per valutare le scelte individuali e sociali e le istituzioni. Tornando alla controversa questione della continuità tra legge naturale e diritti naturali, intendere questi ultimi come una degenerazione della legge naturale perché Hobbes e Locke caratterizzano la natura umana come paura o fame, non contribuisce a rasserenare il clima. Sostenere che la divinità si sia rivelata ad un uomo che non aveva né paura, né fame ha poco senso; e significa anche che la distinzione rivelata tra bene e male è immediatamente percepibile senza presupporre esperienza e conoscenza del male, della paura, e della fame da parte dell'uomo. BIBLIOGRAFIA BARNETT R.E. (2004), The Moral Foundations of Modern Libertarianism, in BERKOWITZ (ed.) (2004). BARROTTA, PL. (a cura di) (2005), Soggettivismo, tempo ed istituzioni. A partire dalla Scuola Austriaca, Soveria Mannelli, Rubbettino. BERKOWITZ, P. (ed.) (2004), Varieties of Conservatism in America, Stanford, Cal., Hoover Institution Press. BERMAN, H.J. (2002), Law and Revolution, II The Impact of the Protestant Reformations on the Western Legal Tradition, Cambridge, Mass., London, The Harvard Universit Press. BLACKSTONE, W. (1765-69), Commentaries on the Laws of England, 4 voll., ed. Chicago-London, The University of Chicago Press, 1979. BOBBIO, N. (1990), L'età dei diritti, Torino, Einaudi. BUCKLE, S. (1991), Natural Law and the Theory of Property, Oxford, OUP. CUBEDDU, R. (2004a), Legge naturale o diritti naturali? Alcune questioni di filosofia politica liberale, in 'Quaderni dell'Istituto Acton', n. 15, Soveria Mannelli, Rubbettino. ---- (2004b), La concezione del diritto naturale in Alessandro Passerin d'Entrèves, in NOTO (a cura di) (2004). ---- (2005), Tempo individuale e tempo delle regole, in BARROTTA (a cura di) (2005). FINNIS, J. (2002), Aquinas on ius and Hart on Rights: A Response to Tierney, in "The Review of Politics", LXIV, 3; trad. it. San Tommaso sullo ius e Hart sui diritti: una risposta a Tierney, in "élites", 2/2003. FORTIN, E. (1996), Augustine, Thomas Aquinas, and the Problem of Natural Law, ora in Classical Christianity and Political Order, II vol. di Collected Essays, ed. by Brian Benestad, J., Lanham, Rowman & Littlefield Publishers. GIERKE, O. (1957), Natural Law and the Theory of Society 1500 to 1800, ed. Boston, Beacon Press.HORWITZ, R. (1990), Introduction to LOCKE (1990). KRAMER, M.A. (1997), John Locke and the origins of private property. Philosophical explorations of individualism, community, and equality, Cambridge, CUP. LAGARDE, G. DE (1956) La naissance de l'esprit laïque au déclin du Moyen Age, I, Bilan du XIII siècle, Louvain, Éditions E. Nauwelaerts - Paris, Béatrice-Nauwelaerts. LEONI, B. (1961), Freedom and the Law, Princeton, Van Nostrand; trad. it. La libertà e la legge, Macerata, Liberlibri, 1995. ---- (2005), Il diritto come pretesa, a cura di Masala, A., Macerata, Liberilibri. LOCKE, J. (1990), Questions concerning the Law of Nature, with an Introduction, Text, and Translation by R. Horwitz, J. Strauss Clay, and D. Clay, Ithaca and London, Cornell University Press. MCINERNY, R. (2000), Are There Moral Truths That Everyone Knows?, in MCLEAN (ed.) (2000). m, E.B. (ed.) (2000), Commons Truths. New Perspectives on Natural Law, Wilmington, Delaware, ISI Books. MENGER, C. (1883), Untersuchungen über die Methode der Socialwissenschaften, und der Politischen Oekonomie insbesondere, Leipzig, Duncker & Humblot; trad. it. Sul metodo delle scienze sociali, Macerata, Liberilibri, 1996. MORRIS, C. (1972), The Discovery of the Individual. 1050-1200, New York, Harper Torchbooks. NOTO, S. (a cura di) (2004), Alessandro Passerin d'Entrèves pensatore europeo, Bologna, Il Mulino. OAKLEY, F. (1984), Natural Law, Conciliarism and Consent in the Late Middle Age, London, Variorum Reprints. OLIVI, PIETRO DI GIOVANNI (1990), Usure, compere e vendite. La scienza economica del XIII secolo, Milano, Jaca Book. PASSERIN D’ENTREVES, A. (1951), Natural Law. An Introduction to Legal Philosophy, London, Hutchinson’s Univ. Library. PARISOLI, L. (1999), Volontarismo e diritto soggettivo. la nascita medievale di una teoria dei diritti nella Scolastica Francescana, Roma, Istituto Storico dei Cappuccini. RASMUSSEN, DB., DEN UYL, D. (2005), Norms of Liberty. A Perfectionist basis for non-perfectionist politics, University Park, Pennsylvania, The Pennsylvania State University Press. SCHIAVONE, A. (2005), Ius. L'invenzione del diritto in Occidente, Torino, Einaudi. SPICCIANI, A. (1990a), Capitale e interesse tra mercatura e povertà nei teologi e canonisti dei secoli XIII-XV, Roma, Jouvence. ---- (1990b), Pietro di Giovanni Olivi indagatore della razionalità economica medioevale, in OLIVI (1990). STALIS, P.J. (1986), Edmund Burke and the Natural Law, Shreverport, Lousiana, Huntington House . STRAUSS, L. (1953), Natural Right and History, ed. Chicago-London, The University of Chicago Press; trad. it. Diritto naturale e storia, Venezia, Neri Pozza, 1957. ---- (1968), Natural Law, in International Encyclopedia of the Social Sciences, vol. 11, ed ora in STRAUSS (1983). ---- (1983), Studies in Platonic Political Philosophy, Chicago, The University of Chicago Press. SWANSON, S.G. (1997), The Medieval Foundations of John Locke's Theory of Natural Rights: Rights of subsistence and the Principle of Extreme Necessity, in "History of Political Thought", XVIII, 3. TAPARELLI D'AZEGLIO, L. (1855), Saggio teoretico di diritto naturale appoggiato sul fatto, ed. Roma, “La Civiltà Cattolica”, 1949, condotta sulla I ed. definitiva del 1855; l’opera apparve nel 1840-43. TIERNEY, B. (1997), The Idea of Natural Rights: Studies on Natural Rights, Natural Law and Church Law, 1150-1625, Atlanta, Scholars Press. ---- (2001a), Kant on Property: The Problem of Permissive Law, in "Journal of the History of Ideas", 62, pp. 301-12. ---- (2001b), Permissive Natural Law and Property: Gratian to Kant, in "Journal of the History of Ideas", 62, pp. 381-99. ---- (2002), Natural Law and Natural Rights: Old Problems and Recent Approaches, in “The Review of Politics”, LXIV, n. 3, pp. 389-406; trad. it. Legge naturale e diritti naturali: vecchi problemi e nuovi approcci, in "élites", 2/2003. TODESCHINI, G. (2002), I mercanti e il tempio. La società cristiana e il circolo virtuoso della ricchezza fra Medioevo ed Età Moderna, Bologna, Il Mulino. TODESCAN, F. (2003), Etiamsi daremus. Studi sinfonici sul diritto naturale, Padova, Cedam. TULLY, J. (1980), A Discourse on Property. John Locke and his adversaries, Cambridge, CUP. VILLEY, M. (1975), La formation de la penseé juridique moderne, Paris, Editions Montchrestien. ---- (1983), Le droit et les droites de l'homme, Paris, PUF.