Sulla responsabilità delle nostre scuole (a partire da un articolo di Marco Lodoli1) di Franco Di Giorgi Nei periodi storico-politici come il nostro, in cui i governi sono coerentemente interessati a tagliare i fondi alla ricerca scientifica al fine di rafforzare le forze armate, e si sono pertanto preventivamente organizzati per richiedere sempre meno cultura alla scuola, questa ha il dovere morale prima che didattico di esigere dai giovani studenti ancora più cultura. La questione centrale, infatti, oggi è per essa la seguente: è in grado oggi la scuola di assumersi la responsabilità di un tale compito? È capace, cioè, essa di un simile impegno, di reagire e di dare una risposta seria, adeguata e vitale all’attuale décadence e alla generale richiesta di disimpegno? Ha essa la forza realmente trasformatrice e non semplicemente trasformista di proporre e di realizzare una vera Contro-Riforma”? In un siffatto periodo di formazione informatizzata, ovverosia virtuale e velleitaria, ha essa ancora delle energie a disposizione per opporre una dis-informazione o una contro-informazione reale e autentica? Per capire la reale portata del problema scolastico nel presente, senza andare troppo indietro, basta rivolgersi al nostro recente passato, dove la memoria conserva innumeri esempi tra i suoi doviziosi quanto polverosi e ancora segreti scaffali. Già compiendo questo primo passo, voltandosi cioè all’indietro, come l’angelo della storia di Klee e di Benjamin, mentre viene inesorabilmente spinto verso il futuro, la scuola, in questo riformativo processo di recupero e di ricostruzione del passato, si trasformerebbe ipso facto da quella sorta di Commercial Park Study Center (con l’opzione allo studio) che è diventata in questi ultimi anni a una Scuola con la ‘S’ maiuscola. Non è forse proprio contro la medesima superficializzazione della cultura, contro la sua empiricizzazione ed esteriorizzazione, per non dire banalizzazione e commercializzazione, che, nel tempo, si sono impegnati Socrate, il socratico Platone, il platonismo di Agostino, l’agostini-smo di Lutero, il giansenismo di Pascal e di Manzoni, fino all’anglo-cattolicesimo di T.S. Eliot? E più vicino a noi, non è forse contro “I miei ragazzi insidiati dal demone della Facilità”, apparso su la Repubblica di mercoledì 6 novembre 2002. 1 1 questa arida e pragmatica cultura dell’apparire e dell’apparenza che si rivolgono i tremolii e i balbettii del capo della Chiesa Romana e il capo della Repubblica Italiana ? 2 Per essere più precisi rispetto ai riferimenti del passato si potrebbe ad esempio rivolgere l’attenzione a quel capitolo 83 della seconda parte dell’Uomo senza qualità di Robert Musil (“Le stesse cose ritornano”), dove lo scrittore di Klagenfurt affronta la complicata questione della storia, e dove si parla della letteratura, della filosofia e della teologia ridotte a “stabilimenti di pollicoltura”, ad aziende cioè create ad hoc dove le idee sublimi, riproducendosi e proliferando serialmente e senza controllo e in gran quantità, evitano comodamente ai più la necessità di occuparsene personalmente. Musil inizia a scrivere questo suo Lebenswerk nel 1923, ma gli anni cui egli si riferisce in questo suo lavoro di una vita sono i primi due decenni del ‘900, e in particolare, in queste pagine, il periodo tra la fine del 1913 e l’inizio del 1914. Si tratta di anni per molti versi propedeutici, anni in cui, pensava Ulrich, il protagonsita del romanzo, “tante cose agitavano l’umanità. (..) Si faceva la guerra nei Balcani, sì o no? Un intervento c’era senz’altro; ma se fosse vera guerra egli non sapeva dire (..). Il presidente francese partiva per la Russia; si temeva che la pace mondiale fosse minacciata”. Le stesse cose ritornano, diceva infatti Musil, anche se con nomi e luoghi diversi. Oggi basterebbe sostituire, come si intuisce, ‘Iraq’ a ‘Balcani’ e il gioco è fatto. Oppure, potremmo richiamarci a Friedrich Nietzsche e allo spirito delle sue Inattuali, con particolare riferimento alla Seconda e alla Terza, ovverosia rispettivamente a quella sulla storia, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, e quella sulla filosofia, Schopenhauer come educatore, entrambe del 1874 (e non del 1884, come compariva erroneamente in una delle tracce preparate dal Ministero per l’ultimo Esame di Stato). “Si pensi — scrive Nietzsche in una pagina della Terza Inattuale — ad una giovane mente con poca esperienza nella vita, in cui vengono immagazzinati cinquanta sistemi ridotti a parole e cinquanta critiche dei medesimi, l’uno accanto all’altro e l’uno confuso con l’altro — che desolazione, che imbarbarimento, quale sprezzo per una educazione alla filosofia! In effetti il giovane, come pure si ammette, non è affatto educato alla filosofia, bensì a un esame filosofico: il cui esito di solito è, com’è noto, che l’esaminato — anche troppo esaminato! — confessi a se stesso con un sospiro di sollievo: “Dio sia lodato, non sono un filosofo, ma un cristiano e un cittadino del mio Stato!”. E se questo sospiro di sollievo fosse, appunto, l’intenzione dello Stato e l’“educazione alla filosofia” solo un modo per allontanare dalla filosofia? È una domanda da porsi. — Ma se le cose stessero così, ci sarebbe da temere soltanto che la gioventù finisse per rendersi conto del 3 perché la filosofia venga così maltrattata. Ciò che vi è di più alto, la generazione del genio filosofico, non sarebbe nient’altro che un pretesto? Lo scopo, forse, impedirne proprio la generazione? Il senso stravolto nel controsenso? Allora, guai a tutto il complesso della furberia statale e professorale! —”. 4 Dal rifiuto e dall’impossibilità di vivere e di pensare liberamente nell’’attualità’ dello Stato o del neonato Reich prusso-bismarckiano nacquero le Inattuali di Nietzsche, nonché l’errabondo vivere di questo filosofo. Un rigetto che già qualche anno prima, a ventisettenne anni, egli aveva manifestato quando era ancora professore all’università di Basilea, in alcune conferenze poi raccolte nel testo Sull’avvenire delle nostre scuole, del 1872. L’analisi critica che Nietzsche ha sviluppato in rapporto a quel sistema e a quello Stato, il cui scopo era di “allevarsi quanto prima è possibile utili impiegati, e assicurarsi della loro incondizionata arrendevolezza”, come sappiamo, è stata svolta col supporto delle tesi marxiane e freudiane negli anni Sessanta e Settanta, al tempo della guerra fredda e della guerra meno fredda del Viet Nam, e con la medesima efficacia potrebbe altresì essere verosimilmente ripresa nel nostro tempo, nella nostra società contemporanea, dove si parla con troppo arbitrio e faciloneria, per non dire leggerezza, di guerre preventive da utilizzare per fini sempre meno oscuri e da far combattere un po’ dappertutto. Anche oggi, come in passato, infatti, i governi alimentano e radicano la loro Ragion di Stato in quell’inesauribile humus economico opportunamente concimato e fertilizzato. Una Ragion di Stato che, ora come allora, viene poi coperta, difesa, protetta, conservata, fortificata e silenziosamente garantita da tutto quello sterminato e selvaggio sottobosco amministrativo che essi hanno per tempo preparato e seminato. Ora, proprio della filosofia — lo sapevano già sia Platone sia Plotino — non è il voler restare a contemplare in estasi la tiepida luce del sole che brilla sulle alte vette innevate, e dove si può respirare comodamente e a pieni polmoni l’aria pura e gradevole che intanto accarezza dolcemente la pelle abbronzata. Tipico della conoscenza filosofica — lo vediamo catarticamente nella tragedia di Edipo re — non è il raggiungimento apatico o indolore della verità, ma l’inelusibile sofferenza che ogni indagine autentica della verità implica. Caratteristico della filosofia — come di ogni altro campo del sapere umano affrontato con onestà e serietà — è invece il permanere a lavorare, come fa il legnaiuolo leopardiano, nella bassa valle, nella pianura, tra una caverna e l’altra, nelle ore notturne o nelle prime ore dell’alba, all’aurora, quando molti ancora dormono o sonnecchiano o sono in dormiveglia e la vita stenta a ridestarsi. È il sentirsi esistenzialmente presi dal dubbio e compresi nella possibilità sempre critica e lacerante di poter entusiasticamente progredire verso l’alto o di poter drammaticamente regredire verso il basso, di poter con la volontà 5 astenersi dall’errore e dal male proprio quando le loro divinità ci invitano con il sorriso più seducente. Specifico della filosofia è scendere nei bassifondi, nei sobborghi periferici — ce lo ha insegnato Pasolini e prima di lui Dostoevskij — dove da sempre sorgono impalcature e cantieri eternamente aperti, in mezzi ai quali, fra tufi, mattoni, calcinacci e lenzuola stese, si muovono gli innumerevoli operai dalle gote pallide e dagli occhi che sanno di tenebra. Esseri comuni, eppure così irriconoscibili e perlopiù invisibili come uno sfondo imbiancato a causa della copiosa polvere che copre e nobilita le loro mani callose e ruvide, nonché i loro corpi magri e temprati, i loro capi, i loro capelli arruffati, e poi i loro visi — i loro visi! Guardate i loro volti! Ebbene, talora i loro visi, come succede anche oggi, appaiono tesi e disperati come quelli dei ‘soliti’ operai-Fiat in sovrannumero, sfruttati e disoccupati, licenziati con tanto di lettera raccomandata, il che vuol dire che sono essi e le loro famiglie che, come al ‘solito’, dovranno pagare il conto-crisi. Disperazione a disperazione! Dolore a dolore! Malvagità su malvagità! Sud, Suddito, Sudditanza! Operai, umili artigiani, così tanto amati dal Leopardi, i quali instancabilmente attendono al loro lavoro. Certo, da questi edifici in eterna costruzione — perché interminabile è la ricerca! — da queste Werkstätten des Geistes, come le chiamava Nietzsche, da queste officine dello spirito, non emana un odore gradevole. E ciò a causa delle stille di sudore che brillano sulla fronte abbassata dei salariati: stille che, avvicinandosi un po’ di più, sembrano essere stelle, sì stelle del cielo infinito che si riflettono misteriosamente nella vita consapevole e finita di quei lavoratori. Ecco, questa immagine della dea Filosofia ha risvegliato in noi l’articolo di Marco Lodoli, quando questi metteva in guardia i suoi ragazzi contro il demone della Facilità. Un’immagine che, come una fedele principessa gidiana, ci ha sempre accompagnati su per le irte salite dell’esistenza e dell’esperienza, lungo le quali, certo, spesso molti dèmoni e dèi si incontrano, eppure mai fra essi è comparso quello della Facilità. Quell’articolo ha ridestato in noi l’immagine di una semplice fanciulla dalla bellezza malinconica, che, come la Beatrice dantesca — così ci piace immaginarla —, si aggira rischiando e raschiando fra i bassifondi selvaggiamente sconvolti delle città, ispirando tuttavia in coloro che hanno avuto e che avranno la fortuna di incontrarla virtù e poesia, stupore e malinconia, ovvero, come direbbe Kant, quegli elementi che stanno alla base del sentimento del sublime, di quel piacere intenso e formativo che 6 sorge però solo dalla pena. Piacer figlio d’affanno, diceva infatti il sublime poeta recanatese. 7