Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 4 –5 dicembre1997 Nicoletta Bruzzichelli, quale procuratrice generale di
Rina Bruzzichelli ved. Leonetti e di Renzo Bruzzichelli, conveniva in giudizio, davanti al Tribunale di
Firenze, l’A.NA.S. – Ente Nazionale per le Strade e la CO.E.STRA. S.p.A., quale mandataria del
Raggruppamento temporaneo di Imprese CO.E.STRA. S.p.A.- Ing. Penzi S.p.A., chiedendone la condanna
– in solido ovvero di quello dei due convenuti che ne sarebbe risultato tenuto - al risarcimento del danno,
commisurato al valore venale del bene, subìto da parte attrice per la perdita della proprietà di vaste aree
di terreni siti in Pontassieve (rappresentati al N.C.T. del suddetto Comune al Foglio n.99 in varie
particelle) interessate, per una superficie complessiva di mq. 21.680, dai lavori di costruzione della
variante della S.S. n.67 “Tosco – Romagnola agli abitati di Pontassieve e San Francesco.
Esponeva l’attrice che il 30 luglio 1991 era stato notificato ai Bruzzichelli il decreto di occupazione
d’urgenza col quale, sulla base del progetto di approvazione dell’opera del Ministero dei LL.P, il Prefetto di
Firenze aveva autorizzato l’occupazione da parte della CO.E.STRA. S.p.A.- Ing. Penzi S.p.A., incaricata
dell’esecuzione dei lavori; che il 17 giugno1991 era stato notificato agli attori un nuovo decreto col quale
il Prefetto autorizzava l’occupazione d’urgenza di altri terreni degli stessi; che su detti terreni la
CO.E.STRA aveva rapidamente concluso i lavori della variante viaria senza che fosse stato adottato il
decreto di esproprio; che i citati decreti di occupazione erano scaduti rispettivamente il 9 marzo 1996 e
l’11 marzo 1997.
Chiedevano pertanto la condanna di parte convenuta anche al risarcimento dei danni conseguenti al
frazionamento dei fondi rimasti in proprietà degli attori e all’asservimento dei fondi stessi al vicolo di
rispetto e di inedificabilità stradale, nonché al pagamento del corrispettivo (indennità) per il periodo di
occupazione (legittima) di urgenza, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria.
Si costituiva in giudizio la CO.E.STRA. Sp.A., la quale chiedeva dichiararsi preliminarmente il proprio
difetto di legittimazione passiva e, nel merito, il rigetto delle domande attrici siccome infondate:
nell’impugnata ipotesi di accoglimento di tali domande, chiedeva che l’ANAS – cui notificava la comparsa
di costituzione – fosse condannata a rilevarla indenne dalle domande stesse.
Assumeva al riguardo che col contratto di appalto da essa stipulato con l’ANAS essa aveva assunto, fra gli
altri, l’obbligo del pagamento delle indennità agli aventi diritto e la legittimazione a resistere nel giudizio
di opposizione alla determinazione delle indennità: pertanto era essa priva di legittimazione passiva nel
presente giudizio avente ad oggetto l’accessione invertita per realizzazione dell’opera pubblica in difetto
di provvedimenti ablatori, sicché legittimata passiva era soltanto l’ANAS.
Costituitasi a sua volta, l’ANAS eccepiva: a) il proprio difetto di legittimazione passiva per essere unica
legittimata la Coestra S.p.A. cui erano state affidate tutte le procedure di esproprio; b) l’incompetenza del
Tribunale per essere competente la Corte d’Appello in quanto assumeva non essere ancora scaduti i
termini poiché con decreto del 5 aprile 1997 l’amministratore straordinario dell’ANAS, tenuto conto dei
motivi di forza maggiore che avevano impedito il completamento delle procedure espropriative, aveva
prorogato i termini per le procedure di esproprio; c) l’infondatezza delle domande attrici, invocando al
riguardo l’applicazione dell’art.5 bis L.n.359/92.
Quindi, all’esito dell’istruzione, articolatasi nella produzione di documenti ‘hic et inde’ e
nell’espletamento di CTU, con sentenza del 20 – 23 maggio 2001 il Tribunale fiorentino in composizione
monocratica:
respingeva le domande attrici nei confronti della CO.E.STRA. S.p.A., quale mandataria del
Raggruppamento temporaneo di Imprese CO.E.STRA. S.p.A.- Ing.Penzi S.p.A., per carenza di
legittimazione passiva della convenuta, compensando fra tali parti le spese del giudizio;
condannava l’ANAS a pagare agli attori la somma di £.1.863.125.000= (di cui £.1.490.500.000=
a titolo risarcimento danni e £.372.625.000= per indennità di occupazione legittima), oltre rivalutazione
secondo gli indici ISTAT, interessi legali sulla predetta somma da calcolarsi anno per anno dal luglio1995
alla data di pubblicazione della sentenza e i soli interessi legali da tale ultima data e la rifusione delle
spese del giudizio.
Riteneva il primo giudice che i due decreti prefettizi di occupazione scadevano rispettivamente il 4 aprile
1997 e il 12 marzo 1997, di modo che il decreto di proroga dei termini emesso il 5 aprile 1997 dall’ANAS
era tardivo e inidoneo a riaprire i termini di occupazione già scaduti. Si era pertanto verificata la c.d.
accessione invertita a causa della irreversibile trasformazione del bene occupato in carenza di decreto di
esproprio, irrilevante essendo la proposta di ‘cessio bonorum’ avanzata dai proprietari perché non
perfezionatasi per mancata accettazione.
Nella determinazione del danno, il Tribunale, sulla base della CTU, escludeva da un lato la sussistenza di
danni ai residui terreni limitrofi degli attori perché parte adiacente al fiume e gravata da vincolo
idrogeologico, parte sufficientemente ampia per consentire futuri utilizzi e riteneva, dall’altro, la
vocazione edificatoria dei terreni, non intaccata dalla menzionata presenza di vincoli idrogeologici,
procedendo alla media dei valori peritali calcolati dal 1992 al 1997 e determinando il valore venale dei
beni occupati in £.1.490.500.000=.
Contro tale sentenza propone appello l’A.N.A.S., chiedendone la riforma – previo eventuale rinnovo della
CTU - nei sensi di cui in epigrafe sulla base dei seguenti motivi:
1)
essendo stato nella specie emesso il decreto di proroga del 5 aprile 1997 – eventualmente
illegittimo, ma non inesistente o assunto in carenza di potere assoluto – la posizione del privato è di
1
interesse legittimo e non già di diritto soggettivo, sicché la giurisdizione spetta – in via esclusiva ex D.
Lgs. n.80/99 e della L.n.205/00 - al giudice amministrativo e non già a quello ordinario;
2)
erroneamente il Tribunale ha ritenuto la carenza di legittimazione passiva della CO.E.STRA. S.p.A.,
la quale - agente ‘in nome e per conto’ dell’Amministrazione, sicché non può nemmeno parlarsi di
mandato con rappresentanza - è in realtà l’unica legittimata passiva quale soggetto avente il diritto (e il
dovere) di compiere la procedura ablatoria e armonizzare così l’attività materiale con quella
amministrativa (Cass. 16.6.2000 n.8246; Cass. 4.2.98 n.1109): ancor più erronea ed ingiustificata è la
condanna dell’Amministrazione a rimborsare le spese del giudizio al concessionario CO.E.STRA.;
3)
nel merito, la sentenza impugnata viene censurata in quanto: a) è affetta da intima
contraddittorietà perché da un lato colloca al 1997 il termine dell’occupazione legittima (e quindi il
verificarsi di tutti i presupposti dell’accessione invertita) e, dall’altro, fa risalire al 1995 la perdita della
proprietà da parte degli attori per irreversibile trasformazione del suolo; b) ha operato una errata
liquidazione del danno, in quanto il primo giudice si è pedissequamente adagiato sulle errate valutazioni
del CTU, che ha attribuito ai terreni in questione una suscettibilità edificatoria “residenziale” che in realtà
essi non hanno mai avuto, essendo essi per la maggior parte destinati dal P.R.G. del 1976 ( e dalla
variante del 1989) a verde pubblico e attrezzature sportive e tecnologiche, tenuto anche conto dei
sottovalutati vincoli idraulici che facevano rientrare l’area ‘de qua’ nella zona A2 all’interno della quale
sono in sostanza consentiti solo gli interventi già previsti negli strumenti urbanistici e in parte già
realizzati; c) ne consegue che è del tutto sproporzionato il valore (rapportato ad una inesistente
vocazione edificatoria) di £.75.000/mq. determinato dal CTU, più adeguata essendo la valutazione
di£.18.000/mq. sulla cui base era stata a suo tempo formulata l’offerta della CO.E.STRA.; d) l’indice di
fabbricabilità di 1,5 mc/mq adottato dal CTU è estremamente generoso;
4)
per le censure di cui sopra è errato anche il capo della sentenza relativo alla determinazione
dell’indennità di occupazione legittima, affetto peraltro dal più radicale vizio di incompetenza per essere al
riguardo funzionalmente competente in unico grado la Corte d’Appello.
Costituitasi in giudizio, la CO.E.STRA. S.p.A., quale mandataria del Raggruppamento temporaneo di
Imprese CO.E.STRA. S.p.A.- Ing. Penzi S.p.A. , rassegna – anche in via di appello incidentale subordinato
- le conclusioni riportate in epigrafe.
Si sono costituite a loro volta Nicoletta Bruzzichelli e Giselda Bruzzichelli, quali eredi di Rina Bruzzichelli
ved. Leonetti e di Renzo Bruzzichelli, chiedendo il rigetto dell’impugnazione siccome infondata e
spiegando a loro volta impugnazione incidentale per ottenere: a) la maggior valutazione dei terreni nella
misura di £.1.626.000.000= rapportata all’11 marzo 1997 (giorno di scadenza dell’occupazione legittima)
quale data di illecita ablazione del bene e non già a quella del luglio 1995 cui il Tribunale ha ricondotto
l’evento dannoso; b) l’ammontare dell’indennità di occupazione legittima nella consequenziale maggior
somma di £.408.102.820=.
Quindi, sulle conclusioni trascritte in epigrafe, all'udienza del 1° giugno 2004, concessi alle parti i termini
ex art.190 c.p.c. per ulteriori difese scritte, la Corte ha trattenuto la causa in decisione, deliberando alla
successiva udienza camerale del 19 novembre 2004.
MOTIVI DELLA DECISIONE
L’appello principale è infondato.
Va in rito disattesa l’eccezione di difetto di giurisdizione dell’A.G.O. (primo motivo), atteso che, in primo
luogo, ai sensi dell’art.45 comma 18°, del D. Lgs. n.80/98 le controversie di cui agli art 34 e 35 dello
stesso D. Lgs. – fra le quali quelle di occupazione appropriativa da parte della P.A. in cui rientra la
presente causa – sono devolute al giudice amministrativo a partire dal 1° luglio 1998, restando ferma la
giurisdizione dell’A.G.O. per i giudizi pendenti alla data del 30 giugno 1998: il presente giudizio ha avuto
inizio nel 1997.
Di più, qualora – come per l’appunto nel caso di specie, come si vedrà più avanti - siano scaduti i termini
per il compimento dei lavori e delle espropriazioni fissati con la dichiarazione di pubblica utilità e di
urgenza ed indifferibilità di un'opera pubblica, e debba escludersi una valida proroga dei termini medesimi
(consentita solo prima di tale scadenza), il provvedimento che autorizza l'occupazione del fondo privato in
previsione della successiva espropriazione deve ritenersi affetto da carenza di potere per il periodo in cui
consenta l'occupazione stessa dopo l'indicata scadenza, con la conseguenza che, dalla relativa data, la
posizione del privato riacquista la consistenza di diritto soggettivo, e resta tutelabile davanti al giudice
ordinario, anche con azione risarcitoria, mentre è a tal fine irrilevante il completamento dell'opera
pubblica sopravvenuto solo in epoca posteriore (Cassazione civile, sez. un., 22 settembre 1984, n. 4816;
Cassazione civile, sez. un., 15 ottobre 1983, n. 6036).
L'art. 13 l. 25 giugno 1865, n. 2359, disponendo che i termini stabiliti per l'espropriazione per pubblica
utilità e per i lavori possono essere prorogati, ma una volta scaduti, comportano la reiterazione, nelle
forme prescritte, della dichiarazione di pubblica utilità dell'opera da eseguire, implica che tale reiterazione
avvenga mediante il nuovo svolgimento del procedimento amministrativo strumentale alla detta
dichiarazione, di guisa che si possa tenere conto sia delle determinazioni di tutti gli organi amministrativi
legittimati ad interloquire, sia dell'attuale assetto dei luoghi e degli eventuali mutamenti sopravvenuti alla
dichiarazione divenuta inefficace per scadenza dei termini, con la conseguenza, in mancanza di tale
nuovo procedimento, della nullità della dichiarazione di pubblica utilità e della carenza di potere in capo
all'amministrazione contro la cui azione è consentita al privato, in tale ipotesi, la tutela del suo diritto
2
soggettivo davanti al giudice ordinario e non davanti a quello amministrativo (Cassazione civile, sez. un.,
22 maggio 1996, n. 4717; Cassazione civile, sez. un., 25 febbraio 1993, n. 2320).
Invero, non tutti i comportamenti implicanti un uso del territorio sono riconducibili alla materia
urbanistica, ma solo quelli che, esprimendo l'esercizio di un potere amministrativo, siano collegati ad un
fine pubblico o di pubblico interesse legalmente dichiarato; in difetto di tale collegamento, si configura - a
carico della p.a. - un mero comportamento materiale, integrante, ove lesivo di situazioni giuridiche di altri
soggetti, un fatto illecito generatore di danno, che è al di fuori dell'ambito applicativo della riserva di
giurisdizione in favore del giudice amministrativo, prevista dall'art. 34 d.lg. 31 marzo 1998 n. 80, nel
testo sostituito dall'art. 7 l. 21 luglio 2000 n. 205. Ne consegue che nelle controversie aventi ad oggetto
casi di occupazione c.d. usurpativa - nelle quali, manca una valida e perdurante dichiarazione di
pubblica utilità dell'opera in ragione della quale è stata disposta l'occupazione di un fondo, o per
mancanza "ab initio" della dichiarazione di pubblica utilità o perché questa sia venuta meno in seguito
all'annullamento dell'atto in cui era contenuta ovvero sia divenuta inefficace - sussiste la giurisdizione
del giudice ordinario, non essendo tali fattispecie in alcun modo riconducibili all'esercizio di un potere
amministrativo in materia urbanistica e imponendosi, al riguardo, il rispetto dei principi costituzionali e
dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali inerenti all'art. 1, del
protocollo addizionale n. 1, della Cedu, con particolare riguardo alla distinzione tra l'occupazione
appropriativa e l'occupazione usurpativa (Cassazione civile, sez. un., 9 giugno 2004, n. 10978;
Cassazione civile, sez. un., 6 giugno 2003, n. 9139).
Ancora più in radice, la giurisdizione del giudice ordinario va nella specie affermata per la ragione che si è
nella specie in presenza di una ablazione illegittima della proprietà del privato da parte
dell’amministrazione che – v. infra - secondo la Convenzione europea dei diritti umani non consente
distinzioni di (maggiore o minore) gravità fra occupazioni illegittime e impone la piena tutela – in via
restitutoria o, in mancanza, in via risarcitoria integrale – del diritto soggettivo del proprietario.
Infondato è anche il secondo motivo, poiché correttamente il Tribunale ha escluso la legittimazione
passiva della CO.E.STRA.
Non rileva infatti, ai fini della invocata legittimazione passiva della Coestra che l’ANAS abbia all’art. 9 del
Capitolato speciale conferito alla stessa, appaltatrice, “..il mandato di svolgere in rappresentanza
dell’ANAS, salvo i rimborsi.., tutte le procedure tecniche, amministrative e finanziarie, anche in sede
contenziosa, connesse con le occupazioni di urgenza, le espropriazioni ed asservimenti occorrenti per
l’esecuzione delle opere appaltate..”(doc.1 fasc. di parte Coestra).
Non è infatti nella specie utilmente invocabile dall’ANAS il principio secondo cui << qualora
l'amministrazione espropriante deleghi ad un'impresa privata tutti i poteri e le facoltà concernenti la
procedura ablativa, realizzando una concessione traslativa, il concessionario è il solo responsabile delle
obbligazioni sorte o assunte in dipendenza della vicenda espropriativa; ne consegue che, in tale ipotesi,
unico legittimato a resistere alla domanda di risarcimento del danno per intervenuta occupazione
acquisitiva è il concessionario, a nulla rilevando che la realizzazione dell'opera sia intervenuta prima della
scadenza del termine di occupazione autorizzata, in quanto, essendo stata delegata al concessionario
l'intera procedura espropriativa e non la sola realizzazione dell'opera pubblica, la delega non può ritenersi
esaurita con l'ultimazione dell'opera >> (Cassazione civile, sez. I, 28 aprile 2003, n. 6591; Cassazione
civile, sez. I, 16 giugno 2000, n. 8246; Cassazione civile, sez. I, 4 febbraio 1998, n. 1109), enunciato
dalla S.C. in fattispecie di concessione traslativa, in cui – diversamente dal caso che ne occupa - il
concessionaria agiva in nome proprio.
Invero, nel caso in cui, non essendo tempestivamente intervenuto il decreto di espropriazione ed essendo
stata realizzata l'opera pubblica, si verifica quel fenomeno che va sotto il nome di "accessione invertita",
deve essere valorizzata la circostanza che l'ente territoriale conserva la qualità di espropriante pur
quando sia delegata ad altri la cura della procedura espropriativi, ciò comportando una sua posizione di
immanenza sulla procedura, di potere-dovere di controllo sul razionale svolgimento di essa, insomma una
sua non estraneità all'onere di coordinare tempi dell'attività materiale e tempi dell'attività amministrativa.
Infatti, non solo l'ente espropriante (che resta pur sempre "dominus" della procedura anche nell'ipotesi in
cui ricorra all'istituto della delega) è responsabile dell'operato del delegato poiché la legge dispone che
l'espropriazione, si svolge non soltanto "in nome e per conto" del delegante, ma anche "d'intesa" con
quest'ultimo, che conserva ogni potere di controllo e di stimolo il cui mancato esercizio è fonte di
corresponsabilità con il delegato per i danni da questi materialmente arrecati attraverso la c.d. accessione
invertita per irreversibile trasformazione del bene illegittimamente occupato, senza che assuma all'uopo,
rilievo la natura del negozio intercorso tra delegante e delegato (v.Cassazione civile, sez. I, 12 luglio
2001, n. 9424); ma, nell'ipotesi di concorso di più enti nell'attuazione dell'opera pubblica, deve aversi
riguardo al soggetto che nel provvedimento ablatorio risulta beneficiano dell'espropriazione, salvo che
dal decreto stesso non emerga che ad altro ente, in virtù di legge o di atti amministrativi e mediante
figure sostitutive a rilevanza esterna (delegazione amministrativa, affidamento improprio, concessione
traslativa), sia stato conferito il potere ed il compito di procedere all'acquisizione delle aree occorrenti e di
promuovere e curare direttamente, agendo in nome proprio, le necessarie procedure espropriative, ed
addossarsi i relativi oneri; solo in questi ultimi casi, infatti, si verifica una situazione in cui, legittimato a
compiere l'attività con competenza propria, sia un ente diverso da quello cui l'opera spetta, e, come in
ipotesi di provvedimento di concessione di un'opera pubblica e delle relative espropriazioni mediante
delega dei relativi poteri, si verifica il trasferimento di funzioni e potestà proprie dell'espropriante al
3
concessionario. Sicché quest'ultimo diviene, in veste di soggetto attivo del rapporto espropriativo, l'unico
titolare di tutte le obbligazioni che ad esso si ricollegano ed il solo legittimato passivo nell'eventuale
giudizio di opposizione alla determinazione delle corrispondenti indennità.
E tuttavia, perché si abbia un simile effetto occorre un provvedimento di concessione traslativa,
caratterizzata dal trasferimento al privato non della sola facoltà di chiedere all'autorità amministrativa la
emissione di singoli atti del provvedimento espropriativo ma anche di quella di compierli direttamente, in
nome e per conto proprio, e in forza della delega di poteri a lui concessa; che dunque non è invocabile
nell'ipotesi in cui il concessionario o l'appaltatore si limitino all'esecuzione di attività preparatorie o
successive degli atti ablatori (come la predisposizione dell'elenco degli espropriandi, dei verbali
d'immissione in possesso, del prospetto delle indennità da corrispondere ai singoli espropriati, la
materiale presa di possesso dell'immobile ecc.) peraltro svolgendole in nome e per conto
dell'amministrazione concedente. (Cassazione civile, sez. I, 21 maggio 2003, n. 7950;
Cass. n.467/2000; n.4323/1999; n.1232/1995).
Nella specie, è decisivo che, come è pacifico in causa, la Coestra agiva in nome e per conto dell’ANAS,
che rimane pertanto, quale ente beneficiario dell’opera tenuto – sulla base di quanto si argomenterà più
avanti – alla restituzione dei terreni illecitamente occupati o all’integrale risarcimento in favore dei
proprietari Bruzzichelli, l’unico legittimato a contraddire all’azione intrapresa da questi ultimi.
Si è nel caso di specie al di fuori dell'istituto della c.d. delegazione amministrativa, caratterizzato dal fatto
che il soggetto legittimato conferisce, in base ad una norma giuridica, ad altro ente pubblico l'incarico di
operare in nome proprio e per conto del delegante, con la conseguenza che gli atti posti in essere dal
delegato sono a lui imputabili ed esso ne risponde nei confronti dei terzi; avendosi qui una ipotesi
analoga a quella prevista dall’art. 60 della legge 865-1971, secondo il quale "gli enti ed istituti, incaricati
dell'attuazione dei programmi previsti dalla presente legge, acquisiscono dai Comuni le aree all'uopo
occorrenti", ma possono anche "procedere direttamente all'acquisizione delle aree in nome e per conto
dei Comuni, d'intesa con questi ultimi". È questa la ragione per cui, pur quando tali enti ed istituti sono
incaricati, oltreché della realizzazione delle opere, anche del compimento della procedura espropriativa, si
è ritenuto che la qualità di espropriante spetta al Comune (cfr. Cass. civ n.11128/1990; Cass. n.5762 e
6161 del 1990), con la conseguenza che al Comune stesso fa carico il pagamento dell'indennità di
espropriazione e di occupazione temporanea legittima ed esso è il solo legittimato passivo nel giudizio di
opposizione alla stima.
In conclusione, al di là delle problematiche suscitate dal tema della non-corrispondenza fra autore
dell'occupazione materiale e responsabile del risarcimento, sulla quale la giurisprudenza della Corte di
legittimità ha offerto un’ampia varietà di soluzioni, la carenza di legittimazione passiva della CO.E.STRA
rimane confermata dall’ulteriore considerazione, sulla scia di Cass. SS.UU. n.1464/1983, che
l'occupazione legittima postula l'esercizio ad opera della pubblica amministrazione del potere,
riconosciutole dalla legge, di incidere temporaneamente sulla facoltà di godimento del bene da parte del
privato; e quindi - nei limiti temporali in cui tale compressione è legittima - ciò che accade nel fondo
occupato è del tutto irrilevante nei confronti del privato, cui è riconosciuto soltanto l'indennizzo. È alla
scadenza del periodo di occupazione legittima - ove non sia nel frattempo intervenuto un provvedimento
ablatorio che abbia trasferito la proprietà all'ente occupante - che la radicale trasformazione del suolo che
si sia verificata con la costruzione dell'opera pubblica acquista rilevanza, determinando l’accollo dell’onere
resitutorio/risarcitorio all’ente beneficiario dell’opera (nella spece: l’ANAS). Finché è pendente il periodo di
occupazione temporanea legittima, è da escludere che sia illecito, ex se, il comportamento di chi procede
all'esecuzione dell'opera e la porta a compimento, tale anticipazione di effetti pratici rientrando nella
causa del provvedimento di occupazione temporanea preordinata all'espropriazione.
In realtà, l'obbligo a carico della Coestra di coordinare i tempi della attività materiale e della attività
amministrativa (al quale essa risulta del resto aver adempiuto in considerazione sia del fatto che, nel
corso del rapporto, l’ANAS non ebbe mai a contestarle alcun inadempimento, sia della lettera 13.121995
con cui essa avanzava all’ANAS tempestiva richiesta di emissione di provvedimento di proroga
dell’originaria dichiarazione di p.u.: v.doc.4 fasc.di parte Coestra) va inteso nel senso che l’anticipazione
nel tempo dell'esautoramento del proprietario da ogni contenuto del diritto si presenta, in prima battuta,
come assistita da un crisma di legittimità rigidamente condizionato alla pronuncia del decreto di
espropriazione prima della scadenza del termine assegnato alla occupazione temporanea d'urgenza,
scaduto il quale l'attività di irreversibile trasformazione.si paleserà priva di giustificazione e quindi
abusiva.
Ribadita pertanto la carenza di legittimazione passiva della COESTRA S.p.A., rimane assorbito l’appello
dalla stessa spiegato in via condizionata. Infondati sono anche i restanti due motivi concernenti il merito.
In fatto, va rammentato che:
in data 11 luglio 1991 veniva emesso dal Prefetto di Firenze decreto autorizzante l’occupazione di
urgenza, da parte della CO.E.STRA. S.p.A., incaricata dell’esecuzione dei lavori, di parte dei terreni dei
Bruzzichelli (ai quali il decreto veniva notificato il 30 luglio 1991), sulla base del progetto di approvazione
dell’opera di cui al D.M. del Ministero dei LL. PP. n.3918/227/709 del 4 aprile 1991, che stabiliva il
termine di giorni 1800 dalla data del decreto il termine per il compimento dell’espropriazione;
il 28 maggio 1992 ( con notifica ai proprietari del 17 giugno1991) veniva emesso dal Prefetto un
nuovo decreto col quale si autorizzava l’occupazione d’urgenza di ulteriori terreni dei Bruzzichelli sulla
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base del D.M. del Ministero dei LL.PP. n.1212/227/709 del 6 aprile 1992, anch’esso fissante il termine di
giorni1800 dalla data del decreto il termine per il compimento dell’espropriazione;
su detti terreni la CO.E.STRA ha nel settembre 1995 concluso i lavori della variante viaria senza
che sia stato adottato il decreto di esproprio;
i citati decreti di occupazione sono scaduti rispettivamente il 9 marzo 1996 e l’11 marzo 1997;
il 5 aprile 1997 l’ANAS ha emesso un decreto di propaga della dichiarazione di pubblica utilità,
palesemente fuori termine, senza che sia stato emesso decreto di esproprio.
Siamo pertanto in presenza di una ablazione illegittima, o meglio illecita, del diritto di proprietà dei
Bruzzichelli, che secondo l’elaborazione giurisprudenziale della S.C. costituirebbe una occupazione
acquisitiva cui dovrebbe applicarsi la liquidazione “ridotta” ex art. 5 bis comma 7 bis L. n.359/92, recepito
dagli artt.37 e 55 del T.U.E. (DPR n.327/01).
Ma le due pronunce della Corte dei diritti umani (sentenze Corte dir. uomo Belvedere
Alberghiera 30 ottobre 2003 e Corte dir.uomo 13 dicembre 2003, Carbonara e Ventura) hanno
ricondotto l’attenzione della dottrina sull’istituto in questione, di cui e si è da più parti
avvertita in dottrina la necessità di un ripensamento.
Mentre alcuni rilevavano che la Corte dei diritti dell’uomo aveva fatto giustizia di un istituto di origine
giurisprudenziale che era penetrato nell’esperienza allargando l’area delle immunità e dei privilegi della
pubblica amministrazione, altri scrivevano che le c.d. occupazioni espropriative erano correlate ad un
illecito comportamento che si traduceva in una appropriazione sine titulo del bene privato, in spregio sia
al principio di legalità (art.42 III comma Cost.) sia alla garanzia costituzionale riconosciuta dall’art.42
primo comma alla proprietà, legittimando la prassi delle “espropriazioni di fatto”.
Ma è la sentenza CEDU 11 dicembre 2003, Carbonara e Ventura che rappresenta, come è stato
perspicuamente rilevato, il definitivo punto di rottura della costruzione giurisprudenziale dell’occupazione
acquisitiva, ribadendosi in essa la divaricazione netta tra espropriazione lecita ed ablazione legittima della
proprietà i cui confini la Corte di Cassazione sembra voler ancora attenuare.
Nella sentenza Belvedere i giudici di Strasburgo, per descrivere la condotta usurpativa, hanno parlato di
"impossessamento da parte dello Stato del terreno dell’attrice, al quale questi non ha potuto rimediare" e
- altrove - di impossessamento intrinsecamente illegale, proprio a significare che nessuna differenza
ontologica essi hanno ravvisato tra fatto illecito perpetrato in presenza di una dichiarazione di p.u. e
condotta materiale usurpativa. Hanno, in particolare, rilevato che la condotta di occupazione acquisitiva
integra un’ingerenza contraria alla condizione di legalità e quindi arbitraria e che “ l’atto del Governo
italiano che la Corte ha ritenuto contrario alla Convenzione non era una espropriazione che sarebbe stata
legittima se fosse stato pagato un indennizzo, ma un illegale impossessamento sui beni dei ricorrenti”.
Il carattere illecito dello spossessamento, riconosciuto anche nel caso Carbonara, si ripercuote, in base
alla giurisprudenza della stessa Corte, sui criteri da adottare per determinare la riparazione dovuta dallo
Stato convenuto, “non potendo le conseguenze patrimoniali di un impossessamento lecito essere
assimilate a quelle di uno spossessamento illecito” (CEDU 28.11.2002 ex Re di Grecia c. Grecia).
In relazione al principio, pure espresso dal giudice di Strasburgo, che l’espropriazione per finalità
legittime di pubblica utilità può giustificare un rimborso inferiore al valore di mercato integrale (CEDU
25.3.1999 Papachelas), il riconoscimento del diritto all’integrale risarcimento del danno riconosciuto nel
caso Carbonara e Ventura parifica in modo netto ed inequivocabile le ipotesi di occupazione illegittima
che la Corte di Cassazione continua invece a distinguere agli effetti risarcitori.
E’ difficile pertanto non prendere atto della più incisiva tutela apprestata al diritto dominicale dal diritto
sovranazionale rispetto alla giurisdizione nazionale, tesa ad attenuare - fino ad eliderla - la linea di
confine fra occupazione acquisitiva ed espropriazione legittima che appare invece netta al giudice di
Strasburgo, il quale afferma il principio della restitutio in integrum”. Nel caso di occupazione acquisitiva
prodottasi nel caso Carbonara il giudice europeo, col ritenere che lo Stato ha l’obbligo di restituire il
terreno, mostra ancora una volta di non cogliere alcuna diversità sostanziale, rispetto al caso Belvedere
Alberghiera, in punto di violazione dell’art.1 Prot.n.1 C.E.D.U.; anche se, per vero, ha precisato che gli
Stati contraenti sono liberi di scegliere i mezzi da utilizzare per conformarsi ad una sentenza della Corte
dei diritti umani che constati una violazione, tanto che l’obbligo della restitutio in integrum può essere
sostituito, ove il diritto nazionale non permette o non permette che in maniera imperfetta di eliminare le
conseguenze della violazione, con altra misura più appropriata alla stregua di quanto previsto dall’art. 41
Ce.d.u.180: ma in tal caso l’indennizzo da stabilire deve comportare, secondo la Corte, una totale
eliminazione delle conseguenze della ingerenza oggetto della lite.
In realtà, l’assenza - all’interno dell’art.1 prot.n.1 alla CEDU - del riferimento esplicito alla funzione
sociale che invece caratterizza l’art.42 della nostra Cosituzione è indicativa di una maggior tutela del
diritto dominicale rispetto al nostro sistema nazionale, come del resto rilevato dalla Corte di legittimità
(v. Cass.6173/04) quando riconosce che “il diritto protetto dall’art.1 del Protocollo addizionale n.1 alla
Convenzione, ossia il pacifico godimento dei propri beni, se ben può ascriversi a contenuto implicito
anche delle garanzie costituzionali del diritto di proprietà e della libertà di iniziativa economica, trova
negli artt.41 e 42 Cost. una protezione condizionata dai limiti dell’utilità o della funzione sociale e si
colloca, quindi, in posizione recessiva rispetto ai interessi sovraordinati”.
L’istituto dell’occupazione appropriativa ha infatti trovato nella funzione sociale un punto-argomento a
suo favore, in quanto la Corte Costituzionale italiana, più volte chiamata a pronunziarsi sulla portata del
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diritto di proprietà e a sindacare la legittimità costituzionale di norme che incidevano pesantemente sul
diritto dominicale, con riguardo all’art. 3 della legge n. 458 del 1988 e - nel contrasto dell'interesse dei
proprietari dei suoli ad ottenerne, in caso di espropriazione illegittima, la restituzione con l'interesse
pubblico realizzato con l'impiego dei predetti beni per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata o
convenzionata - ha dato prevalenza a quest'ultimo interesse nell’ottica di “una finalità, segnata da sicuri
motivi d'interesse generale, compatibile con la disciplina dell'art. 42, secondo e terzo comma, della
Costituzione, in quanto esplicazione concreta della funzione sociale della proprietà.”
A sua volta Corte cost.188/1995 ha ritenuto che l’occupazione appropriativa realizza un modo di acquisto
della proprietà previsto dall'ordinamento sul versante pubblicistico e giustificato da un bilanciamento fra
interesse pubblico (correlato alla conservazione dell'opera in tesi pubblica) e interesse privato (relativo
alla riparazione del pregiudizio sofferto dal proprietario). Sulla stessa scia Corte cost.n.24/2000 ha
ribadito che lo scopo dell'art. 5-bis comma 7-bis del decreto-legge 11 luglio 1992 n. 333 è quello di
assicurare sempre, nella scelta del legislatore, in presenza di determinati presupposti, una prevalente
tutela del pubblico interesse alla conservazione dell'opera pubblica realizzata, con una previsione
risarcitoria ragionevolmente limitata, rivolta a regolare situazioni passate.
Ma, una volta accertato che il sistema normativo-convenzionale sopranazionale, come interpretato dal
giudice europeo, offre una tutela maggiore di quella costituzionalmente garantita, al giudice italiano
spetta il compito ineludibile di scelta tra i diversi assetti normativi-convenzionali-giurisprudenziali.
Poco importa ai fini che ne occupa la diversità delle ideologie – rispettivamente di stampo neo-liberista e
pubblico-solidaristica - sottese all’ordinamento sovranazionale e ed a quello nostro interno (la mancata
previsione del rinvio espresso alla funzione sociale all’interno della CEDU sembra sia correlata all’assenza
di una prospettiva solidaristica che la Convenzione non ha volutamente sviluppato, anche perché non di
sua competenza), anche perché, in definitiva, un efficace contemperamento dei due ordinamenti è
costituito dalla riconosciuta prevalenza del principio della massima espansione della discrezionalità degli
Stati aderenti che, all’interno del tessuto normativo primario interno, devono comunque preservare il
valore fondamentale della proprietà.
In tale prospettiva, deve da un lato ammettersi la piena osmosi del diritto fondamentale con gli interessi
pubblici confliggenti previsti dall’ordinamento nazionale e, dall’altro, il sindacato del giudice di Strasburgo
sulla congruità di tali interessi e sulle modalità con le quali l’ordinamento interno li persegue.
E al giudice italiano chiamato – come nella fattispecie - ad occuparsi di un caso di ablazione illegittima del
diritto di proprietà di un privata dal parte dell’amministrazione pubblica soccorre, nel suo compito di
scelta applicativa, il principio, già riconosciuta dalla stessa Corte Costituzionale nella sentenza 19
gennaio 1993 n.10, della primazia della normativa comunitaria; principio che ha ricevuto un ulteriore e
indiscutibile avallo dalla Corte di legittimità, la quale (v. Cass SS. UU. 6-05-2003 n. 6853. Cass. SS.UU.
14-04-2003 n. 5902) ha statuito che << la normativa recata dalla convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (ratificata e resa esecutiva in Italia con l. 4 agosto 1955 n.
848) è stata introdotta nell’ordinamento italiano con la forza di legge propria dell’atto contenente il
relativo ordine di esecuzione, onde ha valore di fonte normativa primaria, in coerenza con la struttura
della convenzione medesima, che affida in primo luogo a ciascuno stato il compito di assicurare il
godimento dei diritti riconosciuti al singolo (art. 1), richiedendo poi la garanzia dell’esistenza, nel diritto
interno, di un ricorso effettivo, dinanzi ad un’istanza nazionale, che consenta di avvalersi dei diritti e delle
libertà consacrati dalla normativa convenzionale (art. 13)>>.
La Corte Costituzionale ha nella sentenza citata statuito il principio che la Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo è stata introdotta nell’ordinamento italiano con la forza di legge propria
degli atti contenenti i relativi ordini di esecuzione e le sue norme sono tuttora vigenti, non potendo
certamente esser considerate abrogate dalle successive disposizioni legislative in materia, perché si
tratta di norme derivanti da una fonte riconducibile a una competenza atipica e, come tali, insuscettibili di
abrogazione o di modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria (nel nostro caso l’art.5 bis L.
n.359/92 e gli artt.37 e 55 T.U.E.).
In applicazione di tale principio, non può non applicarsi alla fattispecie l’art.1 Prot.n.1 alla CEDU in quanto
contemplante spazi di tutela superiori a quelli previsti – anche a livello costituzionale e della relativa
giurisprudenza - dalla attuale nostra legislazione interna.
Tale articolo dispone infatti che “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni”. Il
secondo paragrafo aggiunge che “Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di
utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale”.E’
precisato che “Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore
le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale
o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende.”
Secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza della Corte dei diritti umani questa disposizione contiene tre
norme distinte: la prima enuncia il generale principio del rispetto della proprietà; la seconda concerne la
privazione della proprietà sottomettendola a determinate condizioni; la terza riconosce agli Stati
contraenti il potere, tra gli altri, di regolamentare l’uso dei beni conformemente all’interesse generale.
E’ stato anche rilevato in dottrina che l’interpretazione delle espressioni contenute nel cit. art.1 è una
interpretazione “autonoma”, nel senso che l’interpretazione delle espressioni contenute nella Convenzione
va effettuata alla luce della Convenzione stessa; il che consente non solo di pervenire ad
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un’interpretazione uniforme nei vari Paesi aderenti, ma anche di impedire che singoli Stati si sottraggano
agli obblighi su di essi incombenti in base ad interpretazioni esistenti nell’ordinamento interno.
Quanto alle nozione di pubblicità utilità e di interesse generale che compaiono nell’articolo in
questione, la Corte di Strasburgo, elaborando la teoria del “margine di apprezzamento statale”, ha
ritenuto che spetta alla discrezionalità del legislatore nazionale – come tale insindacabile dal giudice
sovranazionale - il compito di indicare i connotati dell’utilità pubblica e dell'interesse generale, pur
rimarcando che la disciplina positiva deve essere provvista di base “ragionevole”. Al riguardo ha precisato
che “le autorità nazionali sono, in linea di principio, meglio in grado del giudice internazionale di
determinare ciò che è di ‘pubblica utilità’, ricordando che tale ultima espressione, contenuta nella seconda
previsione enunciata dall’art.1 del Protocollo n°1 alla CEDU “è una nozione di per sé molto ampia”e che
l’adozione di norme sulla privazione della proprietà “implica ordinariamente l’esame di questioni politiche,
economiche e sociali” rispetto alle quali il legislatore dispone “di grande libertà” che la stessa Corte dei
diritti dell’uomo è tenuta a rispettare “salvo se le sue determinazioni si rivelino manifestamente prive di
ragionevolezza”(CEDU 23.11.2000, Ex re di Grecia c. Grecia).
La conformità alla legge cui fa riferimento l’articolo in esame presuppone non solo un complesso di
disposizioni di diritto interno, ma anche la conformità del provvedimento o condotta applicata alla legge
medesima.
E se, fino alle più volte citate sentenze Belvedere Alberghiera e Carbonara e Ventura la Corte dei diritti
umani aveva mantenuto un atteggiamento particolarmente cauto circa la possibilità di sindacare la
legalità del provvedimento, è però prevalsa in seguito l’idea che non è sufficiente, per rispettare il
parametro della legalità, la mera esistenza di una norma all’interno dell’ordinamento statale che
giustifichi l’espropriazione, potendo- e dovendo – la Corte di Strasburgo operare un giudizio di conformità
a specifici parametri sostanziali.
Con le due menzionate sentenze la Corte ha chiaramente inteso intensificare la tutela dominicale dando
luogo ad un vero e proprio revirement, preannunziato peraltro dalla sentenza Iatridis c. Grecia del 25
marzo 1999 che, mutando la prospettiva che riconduceva il principio di legalità alla mera garanzia
dell’adeguatezza del risarcimento e del giusto bilanciamento tra interesse pubblico e diritto di proprietà,
era pervenuta ad un’interpretazione più rigorosa e garantistica per le ragioni proprietarie del principio di
legalità fino ad ammettere il contrasto con l’art.1, prot. n. 1 di ogni ingerenza illegale sul diritto
dominicale.
Successivamente, il principio è stato ribadito nella citata sentenza del 23.11.2000 ex Re di Grecia
rilevandosi che il protocollo esige <<anzitutto e soprattutto, che un’ingerenza della pubblica autorità nel
godimento del diritto al rispetto dei beni sia legittima:la seconda frase del primo paragrafo di tale articolo
autorizza la privazione di proprietà solo “nelle condizioni previste dalla legge” e il secondo paragrafo
riconosce agli Stati il diritto di disciplinare l’uso dei beni adottando “leggi”>>, affermandosi inoltre che “la
preminenza del diritto, uno dei principi-cardine di una società democratica, inerisce all’insieme degli
articoli della Convenzione”.
Sennonché la S.C. ha, con una sua recente pronuncia, ritenuto che la corretta lettura delle sentenze rese
in data 30 maggio 2000 dalla Corte europea dei diritti umani, avvalora la tesi secondo cui l'occupazione
appropriativa, quale modo di acquisto della proprietà alla mano pubblica, non può ritenersi, oggi, allo
stato attuale della legislazione e dell'evoluzione giurisprudenziale, in contrasto con i principi contenuti
nella convenzione europea dei diritti dell'uomo, in particolare con il doveroso rispetto della proprietà,
sancito dall'art. 1 del Prot. n. 1.(Cassazione civile, sez. I, 11 giugno 2004, n. 11096).
Secondo la decisione in esame <<.. la lettura corretta delle due sentenza della Corte europea dei diritti
umani, di recente operata dalle Sezioni unite di questa Suprema Corte (Cass. 14.4.2003, n. 5902;
6.5.2003, n. 6853) avvalora la tesi secondo cui tale modo di acquisto della proprietà non può ritenersi,
oggi, allo stato attuale della legislazione o dell'evoluzione giurisprudenziale, in contrasto con i principi
contenuti nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo, in particolare con il doveroso rispetto della
proprietà, sancito dall'art. 1 del Prot. n. 1. La sentenza resa in data 30.5.2000 nel caso Belvedere
Alberghiera S.r.l., riguarda fattispecie di occupazione usurpativa – estranea alla fattispecie in esame - in
cui, venuta meno la dichiarazione di pubblica utilità in seguito all'annullamento dello strumento
urbanistico attuativo in cui questa era implicita, l'intervento di trasformazione non era supportato dal
necessario collegamento del sacrificio dominicale al pubblico interesse: fattispecie cui la Corte europea
riconduce l'obbligo di restituzione del bene, in consonanza con il più recente orientamento
giurisprudenziale (tra le altre, Cass. 18.2.2000, n. 1814) che vi sostituisce il risarcimento integrale ove il
proprietario abbia anche implicitamente rinunciato alla reintegrazione in forma specifica. Nel caso
sottoposto al giudizio della Corte di Strasburgo, il Consiglio di Stato aveva negato l'esperibilità del
giudizio di ottemperanza, in base ai principi desumibili dall'art. 2033 c.c. La condanna della Corte europea
appare, oltre che fondata sul rispetto del diritto di proprietà sancito dalla Convenzione, oltremodo in linea
con gli esiti dell'elaborazione giurisprudenziale del tema della occupazione illegittima, dalla fine degli anni
'90, volti ad escludere effetti appropriativi ad ingerenze non assistite da una dichiarazione di pubblica
utilità valida ed efficace. La negazione, in quella fattispecie, della tutela restitutoria, è spiegabile
nell'ottica di un incidente di percorso nell'elaborazione dell'istituto, in cui incorse il giudice
amministrativo, in un momento in cui, questo sì, la fattispecie "usurpativa" (cioè non appropriativa) non
era stata chiaramente delineata. La sentenza in pari data, resa in causa Carbonara e Ventura c. Italia,
attiene invece a fattispecie tipica di occupazione appropriativa. La Corte europea, nel giudicare un caso in
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cui era stato negato al proprietario il risarcimento per intervenuta prescrizione quinquennale, muove dal
principio di legalità, al cospetto del quale ogni proposizione di bilanciamento tra l'interesse pubblico e
privato si rende superflua, per concludere che l'amministrazione ha finito per trarre vantaggio da
un'occupazione sine titulo. Il che ha indotto a riconoscere una violazione del protocollo della Convenzione,
foriero di un equo risarcimento. Pur essendo vero che il decisum della Corte europea funge da
insostituibile contributo interpretativo delle norme europee di salvaguardia dei diritti umani - e questo
vale a proposito della dedotta violazione dell'art. 46 della Convenzione -, e che per quanto è rimesso al
potere giurisdizionale, l'applicazione della Convenzione, ove incorporata nel diritto interno, può
comportare la disapplicazione della norme interne ritenute incompatibili, senza attendere l'intervento
adeguatore del potere legislativo (Cass. 19 luglio 2002, n. 10542), una lettura approfondita della
sentenza sul caso Carbonara e Ventura, non sembra debba indurre ad una revisione - nel senso
sollecitato dalla ricorrente - dei principi che grazie all'elaborazione giurisprudenziale e agli interventi, pur
episodici e contingenti, del legislatore, governano, in modo ormai certo e inequivoco, il fenomeno
dell'occupazione appropriativi. (………). La violazione del Prot. 1, ribadito che nel caso Carbonara e
Ventura si controverteva in presenza di una dichiarazione di pubblica utilità, e quindi in un'ipotesi minore
d'illegalità, non induce a concepire l'illiceità permanente dell'occupazione, e con essa il diritto del
proprietario alla restituzione (questo è il senso di una lettura comparata delle due sentenze del 30
maggio 2000). inoltre, l'illegalità non è tanto ricondotta dalla Corte Europea, nel caso Carbonara e
Ventura, al mancato rispetto delle regole di quella che potrebbe assurgere a procedura espropriativa
tipica - sul che lo stesso ordinamento interno non dubita, e vi riconduce conseguenze, quelle risarcitorie,
corrispettivamente più penalizzanti per l'espropriante e più gratificanti per l'espropriato, rispetto alla
misura standard dell'indennizzo espropriativo - quanto alla constatazione che la perdita del diritto di
proprietà era riconducibile, nella fattispecie decisa da quella corte, a un risultato imprevedibile ed
arbitrario, indotto dall'assenza "di norme di diritto interno sufficientemente accessibili, precise e
prevedibili", anche per il succedersi di applicazioni giurisprudenziali contraddittorie. In particolare sul
termine e sulla decorrenza del termine di prescrizione. Ciò che si vuole dimostrare è che, da un lato, la
sentenza Belvedere è fondata su un'errata applicazione dei principi in tema di dichiarazione di pubblica
utilità, e dall'altro, nell'attuale fase storica del procedimento espropriativo, non sussistono incertezze sulla
regolamentazione attuale e futura dell'occupazione appropriativa. Non si può certo dire, oggi, come nel
caso Carbonara e Ventura, che Il proprietario non possa prevedere la perdita del proprio diritto fino alla
decisione definitiva della Corte di Cassazione; non si può dire, come nel caso Belvedere, che ove manchi
la dichiarazione di pubblica utilità non sia concessa al proprietario la tutela restitutoria. Lo sforzo
ricostruttivo dell'istituto, in assenza di decisivi contributi legislativi, operato dalla giurisprudenza, ha
permesso finalmente di approdare ad una normativa "chiara, precisa e prevedibile", di modo che in
futuro, fino all'entrata in vigore del d.lgs. 8.6.2001 n. 327 (che all'art. 43 regola innovativamente il
fenomeno appropriativo), il proprietario non possa essere più tratto in inganno da opinioni contrastanti
sul termine di prescrizione adottabile e sul dies a quo dello stesso. Questo appare lo sforzo massimo che
l'organo giurisdizionale, nella laboriosa emancipazione dalle incertezze interpretative, ha prodotto
nell'allineare l'istituto alla salvaguardia dei diritti umani, una volta affermato che l'occupazione
appropriativa non è illegale in sé, ma per la pregressa mancanza di norme chiare atte a governarla. Per il
futuro è fuori dubbio che l'art. 43 d.lgs. 327/01, descrivendo un fenomeno sia pure parzialmente diverso
dall'occupazione illegittima, ha dato finalmente ulteriore regolamentazione, chiara accessibile prevedibile,
all'appropriazione di suoli privati utilizzati a fini pubblici: quali che siano i problemi di costituzionalità che
inevitabilmente si proporranno. Riguardo ai processi in corso - in virtù della norma transitoria di cui
all'art. 55 d.lgs. cit., come modificata dal d.lgs. 27.12.2002 n. 302 - l'applicazione degli stessi principi, un
tempo incerta e poco prevedibile, ma ora certa, non è in alcun modo contrastante con la Convenzione
europea dei diritti dell'uomo. E neppure il parametro costituzionale indicato dalla ricorrente può essere
invocato a garanzia del giusto processo, della tutela dell'affidamento e della certezza del diritto poiché, a
parte ogni considerazione sulla esattezza della riconducibilità dei valori richiamati alla norma invocata, si
è già detto sopra della estraneità dell'istituto appropriativo al tema della tutela processuale, e della
apprezzabilità della disciplina attuale dell'occupazione, proprio nel senso dell'affidamento e della certezza;
non c'è violazione dell'art. 10, in quanto, come sopra rilevato, non si ravvisano contrasti nell'attuale
disciplina del risarcimento da occupazione appropriativa, con le convenzioni internazionali (la
Convenzione sui diritti umani, peraltro, è stata ratificata nel diritto interno, con l. 4.8.1955, n. 848); non
c'è violazione dell'art. 101 Cost., posto che il giudice, con riguardo alla controversia in esame, è chiamato
oggi, per l'appunto, ad applicare una specifica norma di legge, l'art. 5 bis, comma 7 bis, l. 359/92, e non
un principio giurisprudenziale, per non dire che l'origine "pretoria" dell'istituto non equivale - come
mostra di credere la ricorrente - ad un'invenzione creativa della giurisprudenza, bensì alla
regolamentazione degli effetti di un fenomeno, quello dell'occupazione illegittima, che la Suprema Corte
(sentenza 26.2.1983, n. 1464) ritenne desumibili dall'ordinamento, al fine precipuo di tutelare il
proprietario del suolo occupato, in nome della certezza, sottraendolo ad un esercizio del potere
espropriativo che l'amministrazione tendeva ad esercitare ad libitum.>>.
In sintesi, secondo la S.C.:
a) l’occupazione appropriativa deve nettamente distinguersi da quella usurpativa, fenomeno quest’ultimo
dal quale non scaturisce l’effetto estintivo-acquisitivo se non nel caso di espressa domanda abdicativa del
privato, cui consegue peraltro una tutela massima in punto di risarcimento del danno;
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b) la giurisprudenza della Cassazione e della Corte costituzionale, nel lavorio interpretativo intrapreso nel
corso degli ultimi quattro lustri, è riuscita, anche per effetto di interventi legislativi settoriali, a
canonizzare un istituto che salvaguardia le prerogative proprietarie;
c) la giurisprudenza di Strasburgo non può legittimare l’idea che l’istituto dell’occupazione appropriativa
sia in sé contrastante con il diritto di proprietà. Il caso Carbonara e Ventura infatti, non poteva indurre a
concepire l’illiceità permanente dell’occupazione e dunque il diritto del proprietario alla restituzione
proprio perché esistendo la dichiarazione di pubblica utilità non poteva certo parlarsi di illecito
permanente, come nel caso di occupazione usurpativa.In quella sentenza l’accertata violazione dell’art.1
Prot.n.1 alla CEDU non scaturiva tanto dal mancato rispetto di una procedura espropriativa tipica, quanto
dall’assenza di norma chiare, precise e prevedibili proprio per il succedersi di applicazioni giurisprudenziali
contraddittorie.Ed anzi proprio il caso Belvedere Alberghiera poteva ritenersi dimostrativo dell’errata
applicazione – da parte del Consiglio di Stato - dei principi in tema di dichiarazione di pubblica utilità.
Esso rappresentava un incidente di percorso nell’elaborazione dell’istituto nel quale era incorso il giudice
amministrativo “in un momento in cui, questo sì, la fattispecie usurpativa(cioè non appropriativa) non era
stata chiaramente delineata”;
d) era proprio la giurisprudenza della Corte dei diritti umani a giustificare l’esattezza degli approdi
giurisprudenziali della Cassazione, posto che il caso Belvedere Alberghiera , inquadrarsi nella fattispecie
usurpativa, giustificava la tutela restitutoria o quella piena dal punto di vista economico;
e) è senz’altro vero che la norma nazionale interna può essere disapplicata dal giudice nazionale se
ritenuta incompatibile con le norme europee di salvaguardia dei diritti umani senza attendere l’intervento
del potere legislativo interno, ma la lettura delle due decisioni della Corte dei diritti umani non sembrano
indurre ad una revisione dei principi che governano, in modo ormai certo e in equivoco, il fenomeno
dell’occupazione appropriativa;
f) anche la regolamentazione degli effetti dell’occupazione appropriativa, introdotta con il comma 7 bis
dell’art.5 bis l.n.359/1992 e successivamente modificata – ma non per i procedimenti in corso dall’art.43 t.u.e., non risulta in contrasto con i canoni costituzionali e sovranazionali.Nè pertinente deve
ritenersi l’assunto del ricorrente volto ad ipotizzare uno straripamento di potere da parte degli organi
legislativi laddove hanno quantificato il risarcimento del danno nella misura ridotta prevista dall’art.5 bis
comma 7 bis legge n.359/1992, posto che il “giudice non può non essere vincolato dalla volontà del
legislatore, […] né è concepibile uno straripamento di quest’ultimo, per essere intervenuto a regolare un
istituto nato nell’applicazione giurisprudenziale.
Ma un convincente intervento dottrinario, che questa Corte ritiene pienamente condivisibile, ha rilevato la
discutibilità della affermazione della S.C. secondo cui per effetto di successivi interventi giurisprudenziali
e normativi l’istituto dell’occupazione appropriativa non realizzerebbe – oggi - alcuna violazione del
diritto umano fondamentale di proprietà, argomentando in contrario che il momento al quale occorre fare
riferimento per valutare una condotta non è certo quello dell’applicazione giurisprudenziale, ma piuttosto
quello della realizzazione della condotta.
Se la Corte di legittimità afferma che l’istituto è conforme oggi alla CEDU (ma in occasione delle tre
sentenze delle Sezioni Unite della S.C. rispettivamente n.5902, n.6859 e n.7504 del 2003 si era in modo
più sfumato sostenuto che “l’occupazione appropriativa risulta basata su regole sufficientemente chiare,
precise e prevedibili..”), è alquanto dubbio che tale affermazione valga a giustificare l’applicazione
retroattiva dell’istituto a tutte le vicende nelle quali la p.a. ha realizzato illegittimamente l’opera quando,
ancora, l’istituto non era stato disegnato nel modo “ chiaro, preciso e prevedibile”.
Se, come asserisce la S.C., non già il cittadino ma l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato non aveva
chiara la differenza fra occupazione “appropriativa” ed “usurpativa” nel 1996, tanto da affermare
l’esistenza di un’occupazione appropriativa in una fattispecie che sarebbe poi stata codificata come
usurpativa (istituto canonizzato chiaramente dalla Cassazione solo nell’anno 2000 facendone
applicazione concreta e chiara), è estremamente arduo ipotizzare che il proprietario di un fondo
sottoposto illegittimamente ad una manipolazione del proprio fondo sotto le mentite spoglie di un
procedimento ablativo, prima del 1996 e quando la fattispecie usurpativa non era stata chiaramente
delineata, avesse chiara siffatta distinzione; il che è di basilare importanza, se si considerano le diverse
conseguenze che, stando alla giurisprudenza di legittimità, scaturiscono dalla natura appropriativa od
usurpativa dell’occupazione sia in punto di quantum spettante a titolo di ristoro del danno che,
soprattutto, in ordine al tema della prescrizione, direttamente esaminato dalla Corte dei diritti umani.
Del resto, una significativa conferma della indiscutibile aleatorietà dei principi giurisprudenziali che
Cass.11096/04 ritiene chiari, prevedibili e precisi è costituita dal fatto che nella decisione originante la
sentenza in esame il giudice di merito aveva qualificato come mera occupazione appropriativa una
vicenda che, secondo i “consolidato principi” del giudice di legittimità, andava per contro sussunta nel
quadro dell’occupazione usurpativa.
Invero, la differenziazione che la Cassazione intende trarre dalle due decisioni della C.E.D.U.–Carbonara
e Ventura e Belvedere Alberghiera - è stata decisamente – ed in via autentica - smentita dalla stessa
Corte dei diritti dell’uomo, le cui pronunce non contengono affermazioni – neanche implicite - che nei casi
di occupazione appropriativa concretanti una violazione dei diritti dell’uomo non possa riconoscersi la
tutela restitutoria perché si tratterebbe di una ipotesi minore di d’illegalità.
Per contro, la Corte europea ha ribadito l’esistenza generale del principio della integrale restituito in
integrum che solo può elidere gli effetti della perpetrata violazione del diritto umano di proprietà, salvo
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poi precisare che gli Stati contraenti sono in linea di principio liberi di scegliere i mezzi da utilizzare per
conformarsi ad una sentenza che constati una violazione, tanto che la Corte, se il diritto nazionale non
permette o non permette che in maniera imperfetta di eliminare le conseguenze della violazione, può
accordare alla parte lesa, la soddisfazione che le sembri appropriata (punto 35 Carbonara).
Una lettura non prevenuta delle menzionate pronunce della CEDU non consente di ravvisarvi quel
concetto di minore illegalità che Cass.11096/04 attribuisce all’occupazione appropriativa nell’ottica di una
difesa dell’istituto come quello a suo tempo meritoriamente elaborato in sede giurisprudenziale per
accordare, nell’ambito della legislazione nazionale, una maggior tutela al privato, ma che ormai non può
più dirsi conforme al dettato della Convenzione europea dei diritti umani come interpretata dal giudice di
Strasburgo, risolvendosi anzi – in contrasto con le ragioni originarie della sua elaborazione – in una forte
penalizzazione degli interessi del privato spogliato illegittimamente di un suo bene.
La sentenza della Cassazione in esame infatti, pur ribadendo l’astratta disapplicabilità della norma interna
contrastante con il diritto sovranazionale contenuto nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti
umani, appare in sostanza sottovalutare i moniti della Corte dei diritti umani che, nelle due sentenze
sopra citate, aveva espresso giudizi fortemente negativi nei confronti della situazione italiana, c.p.r. al
monito circa l’aleatorietà di un sistema che prevede un inadeguato termine di prescrizione quinquennale
in caso di occupazione appropriativa, (anche se, per la precisione, la S.C. sembra lasciare aperto uno
spiraglio laddove rileva che il ricorrente non ha offerto argomenti nuovi tali da giustificare un revirement
sul punto).
Ma, ciò che più conta, Cass. 11096/04 non solo non si fa carico del rilievo fondamentale - contenuto nella
sentenza Carbonara e speso dalla CEDU per confutare la tesi difensiva del Governo che si era arroccato
richiamando il diritto vivente a sostegno della legittimità dell’istituto acquisitivo - secondo il quale un
principio giurisprudenziale non vincola le giurisdizioni in ordine alla sua applicazione, ma tace anche sulla
lettura fortemente negativa offerta dalla Corte dei diritti umani rispetto ad un intero sistema di tutela
offerto al proprietario colpito di un’occupazione illegittima che, prima dell’adozione del decreto ablatorio,
consente all’espropriante di acquisire la proprietà del bene, omettendo, volutamente, di collegare
l’adozione dell’art.43 del testo unico espropriazioni proprio alle decisioni rese dalla Corte dei diritti umani.
Valorizzando proprio quanto rimarcato – in contrasto con più d’una di espresse pronunce della Corte
stessa (in particolare Cass.6173/04) ma in armonia con le sentenze del 2003 sopra citate – dalla
sentenza in esame, seppur in obiter, circa il potere-dovere del giudice nazionale di disapplicare la norma
interna contrastante con le norme convenzionali, va ribadito che il giudice nazionale, preso atto del
contrasto della normativa interna con il sopraordinato diritto di origine convenzionale, non può
certamente persistere nell’idea ormai tramontata di fondare l’esercizio della giurisdizione sul postulato
della primazia del diritto interno, ma cogliere invece la reale complementarietà fra i diversi livelli di tutela
giurisdizionale che governano talune materie regolamentate da fonti nazionali e sovranazionali.
In tale prospettiva, il riferimento va non solo alle due decisioni rese tra l’ottobre ed il dicembre 2003 nelle
vicende Carbonara e Ventura e Belvedere Alberghiera ( nelle quali è stata chiaramente sottolineata la
diversità di effetti fra privazione della proprietà correlata ad procedimento ablatorio e ablazione correlata
ad uno spossessamento illecito alla quale deve seguire un’integrale risarcimento del danno), ma anche ad
un’altra questione pendente innanzi alla Corte dei diritti umani: il caso Maselli c.Italia, per il quale la
Corte dei diritti dell’uomo si è pronunziata in data 1° aprile 2004, con una decisione di ricevibilità proprio
in una vicenda nella quale il proprietario ha contestato l’esiguità del risarcimento del danno da
occupazione appropriativa.
Se poi si considerano gli effetti non meno dirompenti che altra pronunzia della Corte dei diritti umani
(caso Scordino c. Italia, 29 luglio 2004) è destinata a produrre nell’ordinamento interno con riferimento ai
criteri indennitari previsti dall’art.5 bis l.n.359/1992 per i procedimenti espropriativi ulteriormente
gravati, come il ristoro per occupazione appropriativa, di un’imposta del 20 per cento(art.11
l.n.413/1991), si è perspicuamente concluso dalla menzionata e condivisa posizione dottrinaria non
potersi dubitare che la riconosciuta violazione dell’art.1 Prot.n.1 alla CEDU anche in relazione alla misura
indennitaria prevista dalla ricordata disposizione e riprodotta nel nuovo T.U.E., diversamente da quanto
opinato dal giudice di legittimità, lascia pericolosamente scoperta una disciplina interna che, nella ben
più grave ipotesi di occupazione appropriativa, si attesta su un sistema di tutela non integrale e
notevolmente gravoso per proprietario.
In definitiva, la CEDU ritiene non compatibile col principio di legalità un meccanismo che, come quello
italiano, consente in via generale alla pubblica amministrazione di beneficiare di una situazione di
illegalità e, riaffermata a più riprese le centralità della tutela restitutoria (o, se non attuabile, l’integrale
risarcimento del danno), con le sue pronunce ha investito non tanto e non solo le singole vicende portate
al suo esame, quanto ed essenzialmente l’intero sistema di tutela giudiziale offerto dall’ordinamento
interno al proprietario “vittima” di un’occupazione illegittima sanzionata dal sistema stesso con la
previsione della acquisibilità del bene al patrimonio dell’ente danneggiante.
Tirando le fila del discorso e rimarcato che la Corte europea dei diritti dell’uomo “..ricorda che una
sentenza che costati una violazione comporta per lo Stato convenuto l’obbligo di mettere fine alla
violazione e di eliminare le conseguenze in modo di garantire il ripristino della situazione antecedente
“(Iatridis c.Grecia e Belvedere Alberghiera c.Italia sopra citate), non è dubbio che, in base alle
argomentazioni sopra esposte spetti ai Bruzzichelli, per l’ablazione illegittima dei loro terreni – edificabili,
10
secondo quanto è per dirsi – l’integrale risarcimento ad oggi del danno, inattuabile essendo la ‘restitutio
in integrum’.
Per ciò che concerne inparticolare la censura dell’ANAS sulla ritenuta edificabilità legale dei terreni
oggetto di causa (pacifica è l’edificabilità di fatto, trovandosi i terreni i questione “..a poca distanza
dell’abitato di Pontassieve, in zona di facile accessibilità e fornita delle opere di urbanizzazione primaria
<fognature, illuminazione, ecc.> : v. pag. VIII - IX relazione CTU), correttamente il Tribunale, sulla
scorta degli accertamenti peritali, ha ritenuto irrilevante il vincolo di viabilità in quanto preordinato
all’esproprio ed essendo la zona in cui ricadono detti terreni (in parte destinata a verde pubblico ed
attrezzature sportive) indicata come edificabile nel Piano di Ricostruzione precedente.
Del resto l’edificabilità legale dei terreni di cui trattasi era ‘ante causam’ pacifica tra le parti, dal momento
che nella (non accettata) “Offerta di prezzo per espropriazione di terreni edificabili” del 13 febbraio 1997
(doc.8 fasc. di parte Bruzzichelli) viene offerta dalla CO.E.STRA.S.p.A. - “in nome e per conto” dell’ANAS
- un’indennità rapportata chiaramente e ripetutamente alla legale edificabilità degli stessi. Né maggior
fondamento ha la doglianza secondo cui il CTU, nella sua valutazione “eccessiva” di £.75.000/mq., non ha
tenuto conto dei vincoli “idraulici” cui la zona in questione, che ricade in ambito A2 comprendente zone
immediatamente adiacenti a fasce vincolate in senso stretto e al cui interno sono consentite soltanto
nuove costruzioni suscettibili di autorizzazione o concessione e dietro dimostrazione da parte
dell’interessato dell’inesistenza di rischio legato a fenomeni di inondazione e/o di interventi atti a
diminuire tale rischio.
Correttamente infatti il primo giudice, sulla scorta degli ineccepibili rilevi peritali che rendono inaccoglibile
la richiesta di rinnovo della CTU, ha ritenuto che il “rischio idraulico” della zona non comportasse alcuna
riduzione dei valori stimati. Posto infatti che, secondo quanto chiarito dal CTU nella relazione suppletiva,
all’epoca della trasformazione dell’area il vincolo di inedificabilità, concerneva una fascia di mt.10 a
ridosso dei corsi d’acqua ex R.D. n.503 del 1904 e che nel 1997 (epoca dell’ablazione illegittima) vigeva
la L.R. n.230/94 secondo la quale i terreni Bruzzichelli, contigui alla fascia suddetta, rientravano
nell’ambito A2 nella quale, con riferimento al rischio idraulico, la realizzazione di nuovi manufatti era
disciplinata in modo da non renderla di difficile attuazione, sotto il profilo in esame la possibilità di
edificare non era soggetta a particolari, onerosi interventi che ne limitassero apprezzabilmente le
potenzialità edificatorie.
Si prospetta anzi fondato il rilievo delle appellanti incidentali secondo cui, in relazione all’indice medio di
fabbricabilità 2,5 mc/mq del comparto, sia estremamente prudenziale la valutazione del CTU
(£.75.000/mq) sulla base di un indice territoriale 1,5, ulteriormente ridotto poi alla metà – 0,75 mc/mq , quando è noto che la considerazione degli spazi a pubbliche attrezzature comporta una riduzione
aggiratesi sul 25%.
Fondato è per contro, sul punto, l’appello incidentale.
Come infatti convengono tutte le parti del giudizio, nella specie lo spossessamento illegittimo si è avuto al
(l’11) marzo 1997 e non già nel luglio del 1995, come erroneamente ritenuto dal primo giudice, che ha
poi determinato il valore del bene mediando i valori calcolati dal CTU nel 1992 e nel 1997. Ne consegue
che il valore venale del bene va determinato nella maggior somma di £.1.626.000.000= riferita all’anno
1997.
Ciò si ripercuote anche nella determinazione di quella che le parti definiscono “indennità per occupazione
legittima”, in ordine alla quale la questione dell’incompetenza del Tribunale sollevata dall’ANAS per essere
funzionalmente competente la Corte in unico grado è non solo infondata in linea teorica perché è
ammissibile la domanda di determinazione dell’indennità di espropriazione introdotta, innanzi alla corte
d’appello quale giudice funzionalmente competente mediante l’atto d’appello avverso una pronuncia di
primo grado relativa alla richiesta di risarcimento del danno per “occupazione acquisitiva” (v. Cass. sez. I
20-09-2001 n. 11864; Cass. sez. I 24-09-2002 n. 13875), ma anche concretamente priva di rilevanza in
radice, dal momento che, in considerazione del travolgimento ‘ex post’ della procedura espropriativa
senza che sia stato emesso decreto di esproprio, nel presente caso di ablazione illegittima deve più
propriamente parlarsi di indennizzo per il “mancato godimento del terreno dal momento in cui l’autorità
ha preso possesso di esso” (v. CEDU 30.10.2003 Belvedere Alberghiera c. Italia cit.).
Essendo comunque, nel merito, le parti d’accordo sul criterio di calcolo – ragguagliato all’indennità da
occupazione legittima rapportata alla virtuale indennità di esproprio - di tale indennizzo, in base al
maggior valore venale del bene sopra indicato spetta per il titolo in questione la maggior somma di
£.408.012.820=: di modo che, in parziale riforma della sentenza impugnata, il risarcimento globale
assomma all’importo di £. 2.034.012.820=, pari ad € 1.050.469,95=.
Su tale somma spettano gli accessori – rivalutazione monetaria ed interessi – come non
impugnativamente riconosciuti dal primo giudice, salvo la correzione della decorrenza, che per le ragioni
esposte va spostata al 1° aprile 1997 al saldo.
L’amministrazione appellante, totalmente soccombente, va condannata a rimborsare le spese ulteriori
del giudizio, che si liquidano come in dispositivo, tanto alla Coestra S p.A. che alle Bruzzichelli, mentre
ricorrono giusti motivi per dichiarare interamente compensate fra queste due ultime parti anche le spese
del presente gradi del giudizio.
P.Q.M.
La Corte d’Appello di Firenze, Sezione I Civile, definitivamente pronunciando:
11
1) rigetta l’appello proposto dall’ANAS contro la sentenza del Tribunale di Firenze in data 20 – 23 maggio
2001;
2) in accoglimento dell’appello incidentale spiegato contro la suddetta sentenza da Nicoletta Bruzzichelli e
Giselda Bruzzichelli, quali eredi di Rina Bruzzichelli ved. Leonetti e di Renzo Bruzzichelli ed in parziale
riforma della sentenza stessa, condanna l’ANAS a pagare alle menzionate Nicoletta Bruzzichelli e Giselda
Bruzzichelli, quali eredi di Rina Bruzzichelli ved. Leonetti e di Renzo Bruzzichelli, a titolo risarcimento
danni, la maggior somma di € 1.050.469,95=, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali decorrenti
dal 1° aprile 1997 al saldo sulla somma via via rivalutata anno per anno;
3) conferma nel resto la sentenza impugnata;
4) dichiara compensate fra la CO.E.STRA. S.p.A., quale mandataria del Raggruppamento temporaneo di
Imprese CO.E.STRA.S.p.A.- Ing.Penzi S.p.A. e Nicoletta Bruzzichelli e Giselda Bruzzichelli, quali eredi di
Rina Bruzzichelli ved. Leonetti e di Renzo Bruzzichelli, anche le spese del presente grado del giudizio;
5) condanna l’ANAS a rimborsare le spese ulteriori del giudizio sia alla CO.E.STRA. S.p.A., quale
mandataria del Raggruppamento temporaneo di Imprese CO.E.STRA.S.p.A.- Ing.Penzi S.p.A., sia a
Nicoletta Bruzzichelli e Giselda Bruzzichelli, quali eredi di Rina Bruzzichelli ved. Leonetti e di Renzo
Bruzzichelli: spese che si liquidano rispettivamente in complessivi € 21.115,28= (di cui € 14.000,00==
per onorari ed € 2.065,83= per diritti) in favore della CO.E.STRA S.p.A. ed in complessivi € 18.464,06=
( di cui € 16.000,00= per onorari ed € 3007,02= per spese anche forfetarie) in favore delle Bruzzichelli,
oltre IVA e CAP di legge.
Qualche osservazione in ordine alla disapplicabilità dell’articolo 5 bis, comma 7 bis, della
Legge n. 359/1992 (liquidazione ridotta in caso di occupazione acquisitiva).
di Alessandro Barca
La decisione che si annota riguarda una richiesta di risarcimento del danno, commisurato al valore venale
del bene, subito da parte attrice per la perdita della proprietà di vaste aree di terreni siti in Pontassieve,
interessate, per una superficie complessiva di mq. 21.680, dai lavori di costruzione della variante della
S.S. n. 67 “Tosco – Romagnola” agli abitati di Pontassieve e San Francesco.
Parte attrice deduceva la richiesa di risarcimento per occupazione acquisitiva, consumatasi per lo spirare
del termine del decreto di occupazione legittima e conseguente acquisizione dell’area all’occupante per
accessione invertita.
La sentenza dell’Appello fiorentino appare interessante in quanto, pur essendo in presenza di una
ablazione illegittima, o meglio illecita, del diritto di proprietà, che secondo l’elaborazione giurisprudenziale
della Suprema Corte costituirebbe una occupazione acquisitiva cui dovrebbe applicarsi la liquidazione
“ridotta” ex art. 5 bis, comma 7 bis, Legge n. 359/1992, recepito dagli artt. 37 e 55 del Testo Unico in
tema di espropriazioni (D.P.R. n. 327/2001), di fatto disapplica l’articolo 5 bis, citato e liquida il
risarcimento da occupazione acquisitiva nella misura corrispondente al valore venale integrale del bene.
Già nel 2003 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass., Sez. Un., 14 aprile 2003, n. 5902, in Gius,
2003, 16-17, 1837; in Gius, 2004, 6, 768), richieste di disapplicare l’art. 5 bis della Legge n. 359/1992,
per contrasto con l’art. 1 del Protocollo 1 e con l’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione Europea dei Diritti
dell’Uomo (dopo essersi richiamate alle sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 30 maggio
2000 Carbonara e Ventura contro Italia e Belvedere Alberghiera S.r.l. contro Italia (Carbonara and
Ventura v. Italy (N˚ 24638/94) 30 May 2000 [Section II] validation of unlawful occupation of property
asindirect expropriation (Art. 1 of Prot. 1) [violation]; Belvedere Alberghiera v. Italy (N˚ 31524/96)
30 May 2000 [Section II] validation of unlawful occupation of property asindirect expropriation (Art. 1 of
Prot. 1) [violation]: decisioni reperibili sul sito internet della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) -nelle
quali è stata chiaramente sottolineata la diversità di effetti fra privazione della proprietà correlata ad
procedimento ablatorio e ablazione correlata ad uno spossessamento illecito alla quale deve seguire
un’integrale risarcimento del danno) respingevano la domanda, sostenendo sostanzialmente che i
precedenti indicati della Corte di Strasburgo non rispecchiavano il caso dedotto in disputa, che, al
contrario, rifletteva una occupazione acquisitiva classica.
Non Belvedere Alberghiera S.r.l. contro Italia, perché richiamava un caso di “occupazione usurpativa”,
situazione per la quale la giurisprudenza italiana era pacificamente orientata verso una reintegrazione
integrale (sicché, aveva semplicemente sbagliato il Giudice interno, ad applicare il comma 7 bis, dell’art.
5 bis, della Legge n. 359/1992). La condotta usurpativa, viene definita dai giudici della CEDU come
“impossessamento da parte dello Stato del terreno dell’attrice, al quale questi non ha potuto rimediare” e
–altrove come- impossessamento intrinsecamente illegale, proprio a significare che nessuna differenza
12
ontologica essi hanno ravvisato tra fatto illecito perpetrato in presenza di una dichiarazione di pubblica
utilità e condotta materiale usurpativa. In particolare viene rilevato che la condotta di occupazione
acquisitiva integra un’ingerenza contraria alla condizione di legalità, come tale arbitraria: “l’atto del
Governo italiano che la Corte ha ritenuto contrario alla Convenzione non era una espropriazione che
sarebbe stata legittima se fosse stato pagato un indennizzo, ma un illegale impossessamento sui beni dei
ricorrenti”.
Non Carbonara e Ventura contro Italia perché, pur riguardando un caso di “occupazione acquisitiva”,
stigmatizzava l’inesistenza, all’epoca dei fatti e della domanda giudiziaria (rispettivamente, 1970 e 1980),
di norme chiare ed accessibili tanto in ordine alle conseguenze dell’apprensione illegale del bene quanto
in ordine alla prescrizione del diritto alla reintegrazione pecuniaria.
Situazione di incertezza non più attuale, dal momento che oggi le conseguenze patologiche delle
procedure espropriative sono state chiarite da una giurisprudenza univoca e costante (si vedano per
tutte: Cass., sez. un., 6 maggio 2003, n. 6853, in Danno e resp., 2004, I, 92; Cons. di Stato, sez. iv, 10
novembre 2003, in Danno e resp., 2004, I, 100 e segg.)OCCUPAZIONE ACQUISITIVA CASS. 1983 (VEDI
Cass. sez. un. 5902/2003, li cita tutte le sentenze in tema); al tempo stesso anche le norme di legge
(art. 11, commi 5, 6 e 7 L. 413/1991; art. 5 bis, comma 7 bis (comma introdotto dall’art. 3, comma 65,
L. 662/1996) L. 359/1992) che ne hanno recepito i principi chiaramente ed univocamente indicano il dies
a quo ed il termine della prescrizione.
Prima di esaminare la denunzia di contrasto dell’art. 5 bis della Legge n. 359/1992 con la Convenzione ed
escludere che il detto contrasto risultasse, inequivocamente, dai citati precedenti della Corte di
Strasburgo, le Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza 14 aprile 2003, n. 5902 (cit.) tenevano,
tuttavia, a fissare i seguenti principi: i) le clausole della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo,
sottoscritta e ratificata dall’Italia, costituiscono norme di diritto interno sovraordinate, rispetto alle legge
interna ordinaria; ii) in caso di contrasto, la norma ordinaria deve essere disapplicata e ciò spetta al
Giudice Ordinario, senza ricorso alla Corte Costituzionale, alla quale deve essere denunziato soltanto il
contrasto della legge ordinaria con norme costituzionali; iii) il Giudice Ordinario, per valutare se il
contrasto sussista, o meno, deve riferirsi ai precedenti della Corte di Strasburgo, perché, anche se le sue
sentenze valgono per il caso singolo, quella Corte è il più alto interprete della Convenzione.
Alla pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite 14 aprile 2003, n. 5902 (cit.), è seguita quella dell’11
giugno 2004, n. 11096 (Cass., 11 giugno 2004, n. 11096, in Foro Amm. CDS, 2004, 1610; in CED
Cassazione, 2004), anch’essa contraria alla disapplicazione dell’art. 5 bis della Legge n. 359/1992.
Riaffermando i principi espressi nella decisione del 2003, i giudici di legittimità nel 2004 così si
pronunciano: i) la Convenzione ha vigore diretto nell’ordinamento interno e rango sovra ordinato rispetto
alla legge ordinaria; ii) il giudice disapplica la norma interna in contrasto con la convenzione; che, per
individuare l’eventuale contrasto, deve riferirsi alla giurisprudenza di Strasburgo; iii) tuttavia né
Carbonara e Ventura c. Italia, né Belvevedere Alberghiera S.r.l. c. Italia, indicano chiaramente il preteso
contrasto né inducono a mutare il consolidato orientamento della Suprema Corte (confortato dalle
decisioni della Corte Costituzionale che assolvevano l’articolo 5 bis della Legge n. 359/1992 dalle
denunzie di contrasto con gli articoli 3 e 42 della Costituzione). I Supremi Giudici, pertanto, ritengono
non soltanto equa la misura dell’indennità accordata dall’art. 5 bis, ma pure giusta tanto la distinzione tra
occupazione acquisitiva e occupazione usurpativa quanto la riparazione più contenuta accordata alla
prima figura in ragione dell’esistenza, a monte della stessa, di una legittima dichiarazione di pubblica
utilità, mancante nella seconda.
Dopo le due decisioni della Cassazione (Cass., Sez. Un., 14 aprile 2003, n. 5902, cit. e Cass., 11 giugno
2004, n. 11096, cit.) è stata depositata la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo Scordino
contro Italia (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sent. 29 luglio 2004, ric. 36813/97, in Il Fisco, 2004, n.
34, I, pag. 5945 e segg.).
I giudici di Strasburgo affermano inequivocabilmente che l’art. 5 bis della Legge n. 359/1992 è in
contrasto con l’art. 1 del Protocollo 1 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, in quanto il ristoro
pecuniario che la stessa assicura al proprietario, privato del diritto di proprietà, non è “ragionevolmente
in rapporto con il valore della proprietà espropriata”; nonché in contrasto con l’art. 6 del paragrafo 1 della
stessa Convenzione, in quanto applicabile al contenzioso pendente al momento della sua entrata in vigore
e, perciò, costituente indebita interferenza del legislatore per determinare un esito di giudizi pendenti
difforme da quello che le parti si attendevano, in base alla legislazione vigente al momento della
proposizione della domanda giudiziale.
Per inciso si ricorda che l’art. 1 del Protocollo 1 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo dispone
che “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni”. Il secondo paragrafo aggiunge che
“Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni
previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale”. E’ precisato che “Le disposizioni
precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute
13
necessarie per disciplinare l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale o per assicurare il
pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende.”
Nella decisione dell’Appello fiorentino che qui si annota –e che sinteticamente si rifà alla sentenza della
Corte di Strasburgo Scordino c. Italia, ma che rivaluta, altresì, le indicazioni ricavabili dalla pronuncia
Carbonara e Ventura c. Italia e Belvederere Alberghiera S.r.l. c. Italia in motivato dissenso dalle Sezioni
Unite che avevano sottovalutato i moniti ed i giudizi fortemente negativi nei confronti della situazione
italiana già espressi dalla CEDU nelle dette due sentenze- si legge testualmente che “in relazione al
principio, pure espresso dal giudice di Strasburgo, che l’espropriazione per finalità legittime di pubblica
utilità può giustificare un rimborso inferiore al valore di mercato integrale (CEDU 25 marzo 1999
Papachelas, decisione reperibile sul sito internet della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo), il
riconoscimento del diritto all’integrale risarcimento del danno riconosciuto nel caso Carbonara e Ventura
parifica in modo netto ed inequivocabile le ipotesi di occupazione illegittima che la Corte di Cassazione
continua invece a distinguere agli effetti risarcitori. E’ difficile pertanto non prendere atto della più incisiva
tutela apprestata al diritto dominicale dal diritto sovranazionale rispetto alla giurisdizione nazionale, tesa
ad attenuare -fino ad eliderla- la linea di confine fra occupazione acquisitiva ed espropriazione legittima
che appare invece netta al giudice di Strasburgo, il quale afferma il principio della restitutio in integrum.
(...omissis...) Una volta accertato che il sistema normativo-convenzionale sopranazionale, come
interpretato dal giudice europeo, offre una tutela maggiore di quella costituzionalmente garantita, al
giudice italiano spetta il compito ineludibile di scelta tra i diversi assetti normativi-convenzionaligiurisprudenziali”.
Del resto è la stessa Corte Costituzionale che, con la decisione 19 gennaio 1993, n. 10 (Corte
Costituzionale, 19 gennaio 1993, n. 10, in Foro It., 1993, I, 1374; in Giur. It., 1993, I,1, 1613, nota di
Rivello; in Giur. It., 1993, I, 1, 2048, nota di D'Amico; in Giur. It., 1993, I,1, 1144), ha affermato la
supremazia della normativa comunitaria su quella interna, in ciò avvallata dalla Corte di legittimità, la
quale con le decisioni a Sezioni Unite 14 aprile 2003, n. 5902 (cit.) e 6 maggio 2003, n. 6853 (Cass. 6
maggio 2003, n. 6853, in Foro Amm. CDS, 2003, 1527; in Arch. Civ., 2004, 379; in Danno e Resp.,
2004, 1, 92; in Gius, 2003, 19, 2119) ha ritenuto che “la normativa recata dalla convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (ratificata e resa esecutiva in Italia con l. 4
agosto 1955 n. 848) è stata introdotta nell’ordinamento italiano con la forza di legge propria dell’atto
contenente il relativo ordine di esecuzione, onde ha valore di fonte normativa primaria, in coerenza con la
struttura della convenzione medesima, che affida in primo luogo a ciascuno stato il compito di assicurare
il godimento dei diritti riconosciuti al singolo (art. 1), richiedendo poi la garanzia dell’esistenza, nel diritto
interno, di un ricorso effettivo, dinanzi ad un’istanza nazionale, che consenta di avvalersi dei diritti e delle
libertà consacrati dalla normativa convenzionale (art. 13)”.
La decisione della Corte d’Appello di Firenze di disapplicare, seppure non in maniera espressa, l’art. 5 bis,
comma 7 bis, della Legge n. 359/1992 e quindi di liquidare il danno da occupazione acquisitiva nella
misura corrispondente al valore venale integrale del bene, per le ragioni esposte, è da condividersi.
Da questa decisione scaturiscono però tre ulteriori problemi che dovranno essere presi in considerazione
e governati: i) se si possa ottenere, con la disapplicazione dell’art. 5 bis, una indennità o un risarcimento
non ragguagliati ai criteri prescritti da quella norma, nell’ipotesi in cui la domanda giudiziale originaria ne
avesse previsto l’applicazione e non fosse stata modificata entro i termini previsti dall’art. 183 c.p.c.; ii)
se la disapplicazione possa intervenire anche dopo una sentenza non definitiva, che abbia pronunciato
sull’an debeatur e rinviato per la liquidazione, disponendo che la stessa avvenisse secondo il dettato di
quella norma; iii) con quali criteri, disapplicata la norma, si debba liquidare l’indennità di espropriazione.
Quanto ai primi due quesiti, propenderemmo per la soluzione affermativa. Ci pare infatti che il Giudice
non possa, in nessun caso, decidere applicando una norma che egli ritenga doversi disapplicare, perché in
contrasto con altra norma di rango potiore. Sicché, nel definire il giudizio, dovrebbe considerare non
mutata, in ragione della successiva richiesta di disaplicazione, la domanda risarcitoria o indennitaria, pur
originariamente indirizzata all’ottenimento di un quantum regolato dall’art. 5 bis della Legge n. 359/1992,
tanto più che, a tale disapplicazione, una volta ritenuto il contrasto con norma sovraordinata, egli
dovrebbe pervenire anche d’ufficio.
Persino la sentenza parziale, o addirittura il giudicato interno, non dovrebbero poter costringere
all’applicazione di una norma che si ritiene dover essere disapplicata.
In altri termini ci si dovrebbe regolare come in seguito ad una sentenza della Corte Costituzionale, che
avesse dichiarato l’illegittimità di una norma, rendondola non più applicabile dopo la pronunzia.
La differenza starebbe nel fatto che mentre la decisione della Corte Costituzionale espunge
definitivamente la norma giudicata in contrasto con i principi costituzionali, il giudizio del Giudice
ordinario vale per il caso singolo.
L’ultimo problema, ossia quello relativo ai criteri per liquidare l’indennità di espropriazione una volta
disapplicato l’art. 5 bis, si deve risolvere con l’applicazione dell’articolo 39 della Legge 25 giugno 1865, n.
14
2359 e cioè con riferimento al valore di mercato. Detta norma (art. 39) è stata abrogata dall’art. 58 del
Testo Unico sulle espropriazioni (D.P.R. n. 327/2001); tuttavia poiché l’articolo 57 dello stesso Testo
Unico prevede l’appicabilità delle norme previgenti alle procedure ablatorie la cui dichiarazione di pubblica
utilità sia anteriore al 30 giugno 2003, è evidente che l’abrogazione non vale per dette procedure.
Quanto alle procedure regolate dal Testo Unico è evidente che l’articolo 37 (che ripete letteralmente l’art.
5 bis della legge n. 359/1992), soffre degli stessi contrasti con l’articolo 1, protocollo 1 della
Convenzione.
La giurisprudenza di Strasburgo non impedisce al legislatore italiano di emanare nuove norme che
prevedano una indennità espropriativa non completamente coincidente con il valore di mercato; ma se e
fino a quando una nuova normativa non sarà emanata, la disapplicazione dell’art. 5 bis della Legge n.
359 /1992 e dell’art. 37 del T.U. sulle espropriazioni, non può che far ragguagliare al valore di mercato
l’indennità.
La nuova norma, per non essere giudicata ancora in contrasto con la tutela che la Convenzione accorda
alla proprietà -evidentemente più intensa di quella accordata dall’art. 42 della nostra Costituzionedovrebbe, probabilmente, in primo luogo, cancellare le limitazioni di cui al terzo comma dell’art. 5 bis
Legge n. 359/1992, riprodotte nell’art. 37 del T.U. sulle espropriazioni (specialmente dopo la enorme
dilatazione impressa dall’ultima giurisprudenza della Cassazione alla figura dei cosiddetti “vincoli
conformativi”) e, in secondo luogo, limitare la percentuale di scostamento dell’indennità dal valore di
mercato che, alla stregua della norma attuale, varia dal 50 al 70%.
Naturalmente il risarcimento da “occupazione acquisitiva” non potrà assolutamente discostarsi dal valore
di mercato.
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