Gennaio-Marzo 2008 n. 1 Anno XXII Quaderni di Minimondo Rivista culturale Braille Periodico trimestrale Fascicolo II Direzione Redazione Amministrazione Biblioteca Italiana per i Ciechi 20052 Monza - Casella postale 285 c.c.p. 853200 - tel. 039/28.32.71 e-mail: [email protected] Dir. Resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Massimiliano Cattani, Antonietta Fiore, Ilaria De Cristofaro Pietro Piscitelli (Responsabile) Copia in omaggio Stampato in Braille a cura della Biblioteca Italiana per i Ciechi «Regina Margherita» onlus via G. Ferrari, 5/a 20052 Monza Sommario Pascale This: Menopausa addio? («Le Scienze» n. 427/04) Elisabetta Canoro: In cammino con il Che («Tutto Turismo» n. 345/07) Davide Sparti: Jazz: dalle piantagioni alle metropoli («Prometeo» n.100/07) Menopausa addio? - I trattamenti ormonali della menopausa migliorano la qualità di vita e prevengono l'osteoporosi, ma aumentano leggermente il rischio di cancro del seno. Il medico deve valutare benefici e svantaggi per prescrivere terapie calibrate su ciascuna donna. L'obiettivo delle terapie sostitutive a base di estrogeni per le donne in menopausa è la riduzione degli effetti indesiderati dell'arresto di produzione degli ormoni femminili, ma da qualche tempo i risultati di due studi anglosassoni hanno riportato al centro del dibattito la loro eventuale pericolosità e il ruolo che possono svolgere nella vita delle donne. I cicli mestruali ritmano l'esistenza femminile dalla pubertà alla menopausa. Le ovaie liberano un ovocita pronto a essere fecondato da uno spermatozoo, e immettono nel circolo sanguigno gli ormoni femminili, estrogeni e progesterone, che predispongono la matrice uterina all'eventuale gravidanza. Alla fine di ogni ciclo, il calo delle concentrazioni ormonali dà il via alle mestruazioni. La menopausa corrisponde all'estinzione delle due funzioni delle ovaie femminili, vale a dire l'ovulazione e la secrezione ormonale. Ne consegue una perdita di fertilità accompagnata da deficit di estrogeni e progesterone: una carenza che spesso ha effetti spiacevoli. Nel breve periodo possono subentrare vampate di calore, accompagnate a volte da malessere e palpitazioni cardiache. Il sonno può essere turbato da episodi di sudorazione notturna che impediscono un riposo soddisfacente, causando una spossatezza che può portare all'irritabilità. I medici parlano di sintomi del «climaterio», che significa «periodo critico». Un'altra conseguenza della menopausa riguarda la sessualità: private dell'azione nutritiva degli estrogeni, le mucose genitali sono soggette a secchezza, che può rendere dolorosi i rapporti sessuali. Altri sintomi, come la depressione, la stanchezza o l'aumento di peso, sono meno specifici: non è sempre possibile distinguere con chiarezza se siano dovuti alla carenza di estrogeni e non, piuttosto, ai molti sconvolgimenti che si verificano nella vita delle donne attorno alla cinquantina. La carenza ormonale comporta poi, a lungo termine, la demineralizzazione e l'infragilimento delle ossa, che rischiano di fratturarsi al minimo urto: è l'osteoporosi. Verso i settant'anni, possono verificarsi assestamenti delle vertebre lombari (la statura diminuisce di alcuni centimetri) e fratture del polso. E, verso gli ottant'anni, fratture del collo del femore. Tra i clinici, esistono due visioni contrapposte della menopausa. Per alcuni si tratta di una malattia di carenza che richiede una terapia di sostituzione, esattamente come accade ai malati di insufficienza funzionale della tiroide o delle ghiandole surrenali, a cui vengono somministrate terapie ormonali sostitutive. Altri medici vedono invece la menopausa come uno dei vari elementi di un processo generale di invecchiamento, da considerare nella sua globalità. Per molto tempo, la menopausa non ha rappresentato un grosso problema: i parti o le malattie (in particolare quelle infettive) uccidevano un gran numero di donne ben prima che compissero cinquant'anni. Inoltre, le donne che arrivavano alla cinquantina avevano vissuto in condizioni molto diverse da quelle attuali: a cinquant'anni, spesso si era già nonne, se non addirittura bisnonne, e una donna non aveva davanti a sé la stessa aspettativa di vita di cui gode oggi. La svolta è avvenuta negli anni sessanta, quando un medico statunitense, Robert Wilson, si propose di restituire alle donne in menopausa gli ormoni che le loro ovaie non producono più. Dal momento che le donne in menopausa soffrono di sintomi di carenza di estrogeni, Wilson raccomanda un trattamento di sostituzione: il suo libro Feminine for ever, del 1965, fu un immenso successo. «Le donne non saranno realmente emancipate finché non saranno soppresse le costrizioni imposte dalle carenze ormonali. Solo allora potranno realizzarsi pienamente, senza interrompere la ricerca di una salute mentale e fisica duratura», si legge nella prefazione del libro, firmata da un altro specialista della menopausa, R.B. Greenblatt. Elisir di giovinezza? Milioni di donne americane, sedotte da questa possibilità, decisero di assumere estrogeni, ottenendo un miglioramento della qualità della loro vita: le vampate di calore scompaiono, le mucose ritrovano la loro elasticità, il sonno torna a essere ristoratore. Qualche anno più tardi, però, gli epidemiologi iniziarono a riscontrare nelle donne in cura con estrogeni una maggiore incidenza di cancro dell'endometrio (la mucosa che riveste l'utero): si scoprì allora che è indispensabile accoppiare gli estrogeni con il progesterone (l'altro ormone femminile) al fine di scongiurare il pericolo. Nel frattempo, le terapie ormonali sostitutive avevano attraversato l'Atlantico, diffondendosi tra le donne europee; parallelamente, i progressi dell'industria farmaceutica permisero la sintesi di estrogeni e di prodotti «progestinici» (che hanno una certa parentela con il progesterone). Alcuni di essi assomigliano sempre di più agli ormoni naturali, e alcune terapie vengono proposte per via cutanea, sotto forma di gel da spalmare, o di cerotti da applicare, sulla pelle. Oggi, gran parte dei medici privilegia i trattamenti più simili agli ormoni naturali, e la via non orale per gli estrogeni (evitando così un primo passaggio dei composti attraverso il fegato e l'attivazione di certi metaboliti indesiderabili), che consente di imitare al meglio la natura, riproducendo artificialmente il ciclo. Il successo della terapia sostitutiva è legato al miglioramento della qualità della vita garantito dagli ormoni (specialmente all'inizio della menopausa, quando i sintomi del climaterio sono particolarmente sgradevoli) e, probabilmente, a una migliore accettazione della menopausa stessa: malgrado la perdita ineluttabile della fertilità, le donne che seguono una terapia ormonale conservano un buon livello di estrogeni e una sessualità attiva. Oggi, le donne sulla cinquantina sono professionalmente attive, e spesso hanno figli non ancora adolescenti, perché hanno ritardato la maternità fino a 40 anni; l'immagine della nonna rotondetta e paciosa è un ricordo del passato. In realtà, gli inconvenienti della menopausa sono però solo rinviati, e saranno destinati a riapparire al termine del trattamento, sebbene la demineralizzazione delle ossa venga notevolmente ritardata. L'introduzione delle terapie ormonali sostitutive è stata quindi quasi fortuita. La storia della medicina è ricca di scoperte fatte per caso o per necessità, nella solitudine di uno studio medico o su un bancone di laboratorio, e che hanno salvato moltissime vite. Al giorno d'oggi, tuttavia, la messa a punto dei farmaci si basa su una serie di studi, inizialmente in laboratorio, poi su animali e infine su volontari umani, nel corso dei quali si valuta il meccanismo di azione dei composti, il loro profilo farmacologico, la loro tossicità e la loro efficacia. Spesso, ci vogliono parecchi anni prima che una terapia sia messa in commercio (con i vincoli attuali, certi «vecchi» farmaci non avrebbero mai potuto ottenere l'autorizzazione alla commercializzazione). Resta comunque un problema: come valutare gli effetti a lunghissimo termine di un composto in relazione al rischio di comparsa di malattie come le patologie coronariche o l'osteoporosi, o ancora di tumori a lento sviluppo? Una soluzione è osservare l'effetto di queste terapie su popolazioni, valutando la frequenza di una data malattia tra le persone trattate e in quelle che non assumono il trattamento: i cosiddetti studi osservazionali. A partire dagli anni ottanta, sono stati pubblicati numerosi studi di questo tipo sulle terapie ormonali per la menopausa, studi che, nell'insieme, fornivano un quadro piuttosto roseo della situazione: un certo numero di essi confermava che le donne sottoposte a terapia sostitutiva erano meno soggette a malattie cardiovascolari (angina pectoris e infarto del miocardio) di quelle che non seguivano la stessa terapia. Anche la mortalità risultava diminuita rispetto a quella delle donne non trattate, la densità del tessuto osseo più elevata e il rischio di fratture del collo del femore e di assestamento delle vertebre lombari era ridotto. A questi elementi positivi si aggiungeva il fatto che le terapie sostitutive miglioravano la qualità della vita di coloro che, nelle prime fasi della menopausa, soffrivano dei sintomi del climaterio: insomma, grazie a questi trattamenti, le donne avevano trovato uno strumento per spostare in avanti i limiti dell'età. Ma in questo quadro idilliaco c'era un'ombra: tra le donne che seguivano la terapia l'incidenza del tumore del seno risultava leggermente più alta, e il rischio sembrava aumentare con la durata del trattamento. Tuttavia, questo lieve incremento sembrava compensato dal fatto che queste donne, sorvegliate in modo particolarmente attento con screening mammografico, presentavano tumori del seno di piccole dimensioni, perché scoperti precocemente, e quindi avevano una buona prognosi. L'inizio degli anni novanta corrisponde all'età dell'oro delle terapie sostitutive per la menopausa. Una rassegna molto importante degli studi riguardanti i benefici e i rischi di questi trattamenti fu pubblicata nel 1992 sugli «Annals of Internal Medicine» da D. Grady, illustre epidemiologo. Il titolo dell'articolo rispecchia bene l'attitudine del decennio: I trattamenti ormonali per prevenire le malattie e prolungare la vita delle donne in menopausa. I primi motivi di inquietudine Alcuni epidemiologi manifestavano però delle riserve: anche se gli studi osservazionali sono interessanti, comportano l'eventualità di errori di interpretazione. In effetti, le donne che scelgono una terapia di sostituzione ormonale sono un po' diverse dalle altre: per esempio, generalmente sono più snelle e appartengono a un ambiente socio-economico più agiato. La stessa scelta di sottoporsi a un trattamento prolungato seleziona le donne più inclini a curare la propria salute, che vanno spesso dal medico, stanno attente all'alimentazione, e così via. Per evidenziare i possibili errori sistematici nell'interpretazione dei dati vi era una sola soluzione: bisognava realizzare studi sperimentali. In questo secondo genere di indagini sono i ricercatori che intervengono attivamente, definendo sia il profilo delle donne che saranno coinvolte nello studio sia i trattamenti che saranno valutati, che sono confrontati con un trattamento neutro, un cosiddetto placebo, per eliminare il fattore psicologico legato all'assunzione del farmaco. Il trattamento attivo e il placebo, infine, sono assegnati a sorte: né i pazienti né i medici conoscono la natura delle terapie assegnate, e si parla per questo di sperimentazioni in «doppio cieco». Soddisfacendo tutte queste condizioni, si cerca di mettere a confronto gruppi che differiscono solo rispetto al trattamento studiato. In materia di menopausa, esistono poi ulteriori problemi: da una parte, le sperimentazioni terapeutiche riguardano più comunemente donne già avanti nell'età, che non soffrono più dei sintomi del climaterio (è difficile immaginare che una donna afflitta dalle vampate sia disposta ad assumere un placebo per anni!). D'altro canto, è impossibile rispettare il doppio cieco quando basta la comparsa delle perdite periodiche di sangue per sapere con certezza che si sta ricevendo un principio attivo. Infine, queste sperimentazioni sono assai costose e il loro finanziamento è talvolta difficile. A partire dal 1993, negli Stati Uniti è stato varato un grande programma per studiare i benefici e i rischi di differenti strategie di prevenzione delle malattie cardiovascolari, dei tumori del seno e del colon, e dell'osteoporosi nelle donne in menopausa. Tra il 1993 e il 1998, più di 160.000 donne hanno partecipato a sperimentazioni terapeutiche diverse, che riguardavano l'effetto delle diete povere di grassi, delle integrazioni di calcio e vitamina D, e delle terapie ormonali sostitutive. In particolare, è stato varato lo studio WHI (Womens' Health Initiative), una ricerca di prevenzione cosiddetta «primaria», vale a dire condotta su soggetti sani; queste donne assumevano sia una terapia sostitutiva molto utilizzata negli Stati Uniti (estrogeni equini con un progestinico di sintesi chiamato MPA), sia un placebo. L'obiettivo principale dei medici era valutare il rischio di malattie cardiovascolari e di cancro del seno legato al trattamento, ma veniva registrato anche il sopravvenire di altri eventi (tumori del colon, fratture del collo del femore o attacchi vascolari cerebrali). Nel corso di ogni sperimentazione terapeutica, un comitato di sorveglianza indipendente si riunisce regolarmente per confrontare il numero di eventi nei due gruppi. Se in uno di essi appare un effetto positivo o negativo, e se questi effetti sono ritenuti «significativi» (cioè non possono essere spiegati semplicemente dal caso), la sperimentazione viene interrotta per non recare svantaggio a un gruppo o all'altro. Progettando lo studio WHI, a cui hanno partecipato migliaia di donne americane, i clinici erano convinti che le terapie sostitutive proteggessero le donne dalle malattie coronariche, e quindi sarebbero state più efficaci del placebo nel diminuire il rischio di contrarre queste patologie. Ma nel luglio del 2002, poco più di cinque anni dopo l'inizio, lo studio è stato interrotto: non solo i casi di tumori del seno tra le donne che assumevano ormoni superavano il limite fissato dagli organizzatori della sperimentazione, ma tra le volontarie che assumevano il placebo si notava un'incidenza lievemente inferiore di attacchi vascolari cerebrali, malattie coronariche ed embolie polmonari. In compenso, tra le donne a cui veniva somministrato il principio attivo si registravano meno casi di tumori del colon e di fratture del collo del femore, mentre non c'erano cambiamenti nel rischio di cancro dell'utero. L'interruzione (inevitabile) dello studio WHI è stata ampiamente ripresa dai mass media, e il consumo di ormoni sostitutivi è notevolmente calato, specialmente negli Stati Uniti. Tuttavia, a dispetto della sua eccellente progettazione, lo studio aveva dei limiti: le partecipanti erano più anziane, obese e ipertese della media della popolazione femminile. Inoltre gli effetti negativi registrati, particolarmente a livello vascolare, potrebbero essere attribuiti alla natura e al dosaggio dei composti sintetici utilizzati nello studio. Purtroppo non esistono studi analoghi condotti con formulazioni usate in altri paesi, più simili agli ormoni naturali. Il tumore del seno al centro del dibattito Lo studio WHI ha indicato che la terapia ormonale sostitutiva, e, nella fattispecie, quella a base di estrogeni equini e di MPA, aumenta il rischio di cancro del seno. Trattandosi di uno studio sperimentale, dove le donne erano seguite clinicamente in modo analogo in entrambi i gruppi, esiste ormai un argomento forte per pensare a un rapporto causale tra l'assunzione di questo tipo di terapia ormonale e l'aumento di incidenza del tumore del seno. Certo, si tratta di un aumento lieve, ma che va inquadrato in un contesto: il cancro del seno è il primo fra i tumori maligni femminili. In Italia si ammalano ogni anno circa 33.000 donne, corrispondenti al 20-25 per cento di tutti i tumori che colpiscono le donne, e nei 15 paesi dell'Unione Europea vengono diagnosticati oltre 210.000 nuovi casi ogni anno. Inoltre, l'incidenza della patologia sta aumentando a un ritmo dell'uno per cento circa all'anno. Perché questo aumento? Le risposte sono varie, e riguardano sia una maggiore capacità di diagnosi sia l'influenza degli stili di vita. Oggi, per una donna «standard» (cioè senza particolari fattori di rischio), il rischio di cancro del seno nel corso della vita è circa del 10 per cento, ma aumenta con l'età: a 50 anni, il rischio di avere un cancro del seno nei 10 anni successivi è del 2,5 per cento. Esistono situazioni in cui il rischio è più marcato: è il caso delle donne di cui almeno due o tre familiari abbiano avuto un cancro del seno, soprattutto se si tratta di parenti di primo grado (madre, sorelle o figlie). In alcuni casi, questo rischio supplementare è legato alla presenza in ambito familiare di una mutazione genetica che predispone al cancro del seno, e in queste situazioni il rischio è circa da otto a 10 volte superiore a quello della popolazione generale. Alcune patologie della mammella, come il carcinoma lobulare in situ o l'iperplasia atipica, sono anch'esse associate a un incremento del rischio, che diventa da quattro a otto volte superiore alla media. Ai tre principali fattori di rischio (età, precedenti familiari e patologie del seno) se ne potrebbe poi aggiungere un quarto, attualmente allo studio, vale a dire una maggiore densità mammografica del seno (che all'analisi risulta molto «bianco»). Il rischio ormonale è stato separato da questi fattori. In effetti, vi sono situazioni che, in rapporto all'assunzione di ormoni, sembrano associate a una maggiore incidenza del tumore del seno: le donne che hanno avuto un menarca precoce (prima dei 12 anni), una menopausa tardiva (dopo 55 anni), una prima gravidanza tardiva (dopo 30 anni) presentano un rischio di cancro del seno un po' più elevato (da 1,2 a 2 volte) delle altre. Ormoni e anti-ormoni A seconda degli studi, dei composti (soli estrogeni o associazione di estrogeni e progestinici) e della durata della terapia, il rischio di cancro del seno nelle donne che assumono una terapia ormonale sostitutiva appare moltiplicato per un fattore che va da 1,2 a 1,4, a volte a 1,8, quindi un rischio esiguo, se confrontato con quello derivato, per esempio, da una predisposizione genetica, che viene di conseguenza definito «rischio relativo». Il rischio supplementare legato alla terapia sostitutiva è legato agli ormoni. Alcuni studi hanno dimostrato che una donna di 55 anni non ancora in menopausa ha lo stesso rischio di cancro del seno di una sua coetanea che segue il trattamento da cinque anni, ma superiore a quello di una donna della stessa età entrata in menopausa a 50 anni, che però non ha assunto ormoni sostitutivi. L'elemento decisivo sembra quindi la durata dell'esposizione agli estrogeni: più lungo è il periodo più aumenta il rischio. Un punto interessante rilevato dagli studi è che il rischio diminuisce molto rapidamente al termine della terapia e a poco più di un anno dalla cessazione del trattamento, torna identico a quello di chi non ha seguito la terapia. Questo è perfettamente coerente con ciò che si sa del tumore del seno, che gli oncologi definiscono ormoni-dipendente, poiché, nella maggior parte dei casi, le cellule tumorali presentano recettori per gli estrogeni destinati a fissare l'ormone. Il seno è controllato dagli ormoni, e le cellule destinate a recepirli sono sensibili agli effetti positivi, ma anche negativi, di queste sostanze. D'altronde, i clinici hanno notato che la soppressione dell'attività delle ovaie permette la regressione dei tumori del seno già estesi e diminuisce il rischio di recidiva. Attualmente, la terapia dei tumori della mammella in fase precoce si basa quasi sempre sull'associazione di un trattamento locale (chirurgia o radioterapia) e di un trattamento generale che tende a ridurre l'eventualità di recidiva della malattia eliminando eventuali cellule cancerose residue per mezzo di chemioterapia o di un trattamento antiormonale. A questa seconda categoria appartiene il composto tamoxifene, che impedisce agli estrogeni di fissarsi ai propri recettori, contrastando così la loro azione. Altri composti, gli inibitori dell'aromatasi, fanno invece diminuire la produzione di estrogeni. Alcuni di questi trattamenti sono utilizzati anche nelle donne in menopausa, poiché, benché le loro ovaie non producano più direttamente estrogeni, ne esiste tuttavia una produzione indiretta, dovuta ad alcuni enzimi (appunto, le aromatasi), in grado di trasformare in estrogeni gli ormoni androgenici prodotti nelle ovaie o nelle ghiandole surrenali. In definitiva, oggi gran parte della lotta contro il cancro del seno consiste in una lotta contro gli estrogeni. Contemporaneamente all'aumento delle conoscenze sugli effetti delle terapie ormonali sostitutive, hanno cominciato a essere sviluppati alcuni trattamenti per la menopausa non basati su estrogeni. Per esempio, un anti-ipertensivo (la clonidina) e un anti-depressivo (la venfalaxina) attenuano alcuni dei sintomi più fastidiosi del climaterio, come le vampate, mentre la secchezza delle mucose genitali può essere affrontata con prodotti ad applicazione locale contenenti derivati degli estrogeni (il promestriene). Per quel che riguarda la prevenzione delle malattie coronariche, una delle armi principali riguarda lo stile di vita. Uno studio epidemiologico su vasta scala ha mostrato che le donne snelle, non fumatrici, che praticano 30 minuti di attività fisica al giorno, bevono poco alcool e seguono una dieta ricca in fibre e povera in grassi saturi, sono ben protette dalle malattie coronariche. Per le donne con concentrazione elevata di colesterolo, o che mostrano un rischio aumentato di malattie coronariche, c'è una classe particolare di farmaci, le statine, che ha un'efficace azione preventiva. Contro l'osteoporosi, disponiamo di farmaci della classe dei bifosfonati (aledronato e risedronato), che fanno aumentare la densità ossea. Un altro composto che presenta proprietà interessanti è il raloxifene che, come il tamoxifene, appartiene alla classe dei SERM (Selective Estrogen Receptor Modulator, modulatori selettivi del recettore per gli estrogeni). Questo composto presenta un'affinità per il recettore degli estrogeni, sul quale va a fissarsi. La sua azione finisce così col riprodurre (effetto agonista) o viceversa col contrastare (effetto antagonista) l'azione degli estrogeni a seconda dei tessuti. E raloxifene è un agonista degli estrogeni sul tessuto osseo, quindi migliora la densità ossea. Sul tessuto mammario, il raloxifene si comporta al contrario come un anti-estrogeno: uno studio statunitense basato su donne affette da osteoporosi ha dimostrato che le donne in terapia con raloxifene avevano un'incidenza nettamente inferiore di cancro del seno rispetto a quelle che assumevano il placebo. Contrariamente al tamoxifene, il raloxifene non ha effetti di stimolazione sull'utero - il che è un vantaggio ma non ha neppure effetti sui sintomi del climaterio, e in particolare sulle vampate di calore, che tendono anzi ad aumentare. Le nuove regole del gioco La vicenda delle terapie ormonali per la menopausa è un esempio efficace di come alcune pratiche cliniche (in questo caso, la vasta prescrizione dei trattamenti sostitutivi) si possano affermare a partire da nozioni intuitive (la sostituzione degli ormoni ovarici) e da esigenze sociali (il cambiamento di status della donna in menopausa). Per confermare o meno le certezze su cui si fondavano le prescrizioni dei medici è stato necessario un grande studio epidemiologico. Ma oggi emergono nuove regole, che riguardano l'analisi dei dati scientifici secondo il concetto della «medicina fondata sulle prove», le strategie basate sulla valutazione del rapporto costi/benefici, l'informazione ai pazienti e il processo della decisione terapeutica. Il primo a formalizzare il concetto di «medicina fondata sulle prove» è stato, nel 1980, l'epidemiologo americano David Sackett: di fronte a un problema clinico, i medici formulano chiaramente una domanda, passano in rassegna la letteratura relativa, ne valutano la qualità e l'applicabilità delle conclusioni e, solo a questo punto, decidono una linea di condotta. Come abbiamo visto, un grande studio «randomizzato» in doppio cieco avrà un livello di prova elevato, vale a dire che i medici assegneranno a esso un peso notevole. Lo stesso vale per una meta-analisi, che è una sorta di sintesi delle ricerche che sono state effettuate. Gli studi osservazionali, come gli studi di coorte o gli studi caso-controllo, hanno invece un valore di prova inferiore, poiché possono presentare errori sistematici. Gli studi descrittivi (su serie di pazienti) vengono ancora dopo, seguiti a loro volta dalle opinioni dei comitati di esperti e infine dalle esperienze individuali. Oggi, gli approcci clinici (per esempio per il trattamento dei tumori del seno in fase iniziale) sono definiti da esperti di differenti specialità, in funzione delle conoscenze mediche attuali, classificate per livello di valore probante. Quando una terapia ha dato chiaramente prova della propria superiorità, o della sua efficacia nel trattamento di una malattia, diviene il trattamento standard; in compenso, quando non è possibile scegliere perché ciascun trattamento presenta rischi e benefici, il medico sceglierà una delle opzioni terapeutiche in base alle caratteristiche individuali di ogni paziente e alla valutazione del rapporto rischi/benefici. Nel caso specifico, la prescrizione di una terapia sostitutiva ormonale a breve termine (miglioramento della qualità della vita) e a lungo termine (prevenzione dell'osteoporosi) sarà soppesata con i rischi correlati (aumento del rischio di cancro del seno o di malattie cardiovascolari). Scelta condivisa o soluzione ideale? È probabile che, in futuro, ogni donna avrà la possibilità di scegliere, assieme al proprio medico, se astenersi del tutto dalla terapia o se seguire trattamenti differenti (ormonali o no) in funzione dei propri sintomi e del proprio profilo di rischio. Ma lo sviluppo di composti specifici permetterà forse di uscire da questo dilemma, proponendo alle donne il trattamento ideale, efficace al contempo sui sintomi del climaterio e per la prevenzione dell'osteoporosi, ma senza provocare un aumento di rischio del cancro del seno. Tuttavia, poiché come l'etica delle sperimentazioni terapeutiche ne prevede l'interruzione quando uno dei due gruppi di pazienti risulti chiaramente svantaggiato, è facile immaginare che sarà molto difficile allestire grandi studi di lunga durata basati su migliaia di donne e su criteri di giudizio multipli. Per contenere il problema, gli epidemiologi oggi iniziano a ricorrere alle simulazioni informatiche. Per esempio, se si cerca di confrontare l'effetto di un trattamento A e di un trattamento B in 10.000 donne aventi un profilo ad alto rischio di cancro del seno, è il computer, tenendo conto dei dati esistenti in letteratura, a determinare per mezzo di particolari algoritmi il numero di eventi favorevoli e sfavorevoli indotti, calcolando il beneficio netto di ciascun approccio. Purtroppo, questo metodo presenta degli inconvenienti, visto che il computer non fa che utilizzare i dati forniti dai ricercatori, dati che potrebbero essere viziati da errori, oppure insufficienti. Nel campo delle terapie per la menopausa, per esempio, mancano studi rigorosi che prendano in considerazione anche la qualità della vita. Questo parametro, del resto poco quantificabile, viene dunque incluso molto raramente nelle analisi rischi/benefici, mentre spesso si amplifica una visione allarmista dei rischi di cancro. L'applicazione cieca e tirannica di queste strategie non ha quindi molto senso nella pratica quotidiana, ma le scelte dei medici non possono nemmeno fondarsi solo su convinzioni ed esperienze personali. Cosa può fare allora il medico, per aiutare una donna che si avvicina alla menopausa? Anzitutto, informarla sui dati attualmente disponibili in merito alle terapie di sostituzione ormonale, e segnalare le altre possibili opzioni terapeutiche. Ma, anche se questa informazione è assolutamente necessaria, occorre che venga trasmessa nell'ambito di un dialogo tra la donna e il medico: l'informazione e la scelta sono separate da un lungo percorso, e l'informazione in sé e per sé, avulsa dai problemi specifici della donna che chiede aiuto, è di scarso interesse. L'atteggiamento migliore, e più utile, sarà quindi quello che chiama in causa, al di là di tutti i progressi scientifici, l'«arte» del medico, che dovrà essere capace di aiutare la donna, in funzione delle priorità da lei poste, e dei suoi valori, a scegliere con piena cognizione di causa, la strada migliore per vivere la menopausa. Pascale This («Le Scienze» n. 427/04) In cammino con il Che - Per scoprire i luoghi dove ha vissuto e combattuto il più amato paladino della libertà. E per cogliere i frutti della sua Revolución. «Da bambina era soprattutto l'affetto delle persone per papà che mi ricordava di essere la figlia del Che». Aleida Guevara aveva sei anni quando suo padre morì, l'8 ottobre 1967. Di lui non ricorda il combattente, ma la tenerezza dei rari momenti strappati alla storia e trascorsi insieme. Ci accoglie nella piccola anticamera della casa dell'Avana che per ultima, a Cuba, ospitò il Che. «Aleidita», come viene soprannominata, è fiera e risoluta come suo padre, nei suoi occhi c'è lo stesso sguardo ipnotico, anche se sostiene: «Non gli somiglio per niente». Ci apre le porte del Centro de Estudios Che Guevara che, in fase di completamento, è frutto di un progetto per sostenere i bambini bisognosi. Disposto su due piani, ospiterà, tra l'altro, una mostra permanente sulle imprese del Comandante e rassegne temporanee che approfondiranno singole fasi della sua vita. Ernesto Guevara de la Serna è l'emblema di ogni movimento di liberazione perché, come disse egli stesso, «sarei pronto a dare la vita per la liberazione di un qualunque Paese latinoamericano, senza chiedere nulla a nessuno, senza pretendere nulla...». Di Cuba, però, fece la sua seconda patria: «Sono nato in Argentina, non è un segreto per nessuno», disse. Ma aggiunse: «Sono cubano e sono anche argetino...». Il Che è l'emblema dell'Eroico Guerrigliero, modello di virtù, simbolo dell'amore disinteressato, dello spirito di sacrificio estremo, archetipo sottratto alla storia per diventare, come scrive Giovanni Sole in Che Guevara. Il sogno rivoluzionario, un «eroe solitario, un cavaliere errante che sogna di cambiare il mondo e se stesso». Proprio come Don Chisciotte, folle mito letterario del romanzo di Miguel de Cervantes che il Che lesse ben sette volte. A 40 anni dalla sua morte la forza del ricordo di Che Guevara e di quello che ha rappresentato per intere generazioni è ancora viva. Ed è per tornare alle origini del mito e ritrovarlo là dove questo si è costruito che siamo andati sulle sue tracce. Abbiamo attraversato Cuba ripercorrendo il suo camino rivoluzionario, spingendoci nei boschi della Sierra Maestra e dell'Escambray, dove i ribelli si nascosero per organizzare la lotta armata. Con loro siamo entrati vittoriosi a Santa Clara e abbiamo proseguito la lunga marcia fino a L'Avana e poi ancora oltre... Per scoprire che cosa è cambiato e cosa c'è da cambiare, quello che del loro sogno è rimasto e ciò che deve ancora avverarsi. L'Avana, capitale della revolución Dall'ultimo piano dell'Hotel Habana Libre si gode una delle migliori panoramiche sulla capitale. La vista sorvola i palazzi e accarezza le onde che s'infrangono sul muraglione del Malecón, il lungomare che costeggia la città per sette chilometri dal Castello de la Punta alla foce dell'Almendares. E ancora oltre, fino al porto, al Castello el Morro e, quando il cielo è terso, anche fino a Miami, lontana ma vicina. Battezzato Habana Libre dai ribelli che lo occuparono dopo el triunfo de la Revolución, l'ex Havana Hotel è uno dei simboli della Cuba del dopo Batista da quell'8 gennaio 1959 quando Fidel Castro entrò vittorioso in città. Il suo ufficio si trovava alle spalle del Memorial José Martí, eroe nazionale, che domina la maestosa plaza de la Revolución, palcoscenico delle adunate nel corso delle quali Castro ha infiammato centinaia di migliaia di cubani. A L'Avana, Guevara era entrato qualche giorno prima, il 2 gennaio 1959, su ordine del Comandante in capo e aveva occupato la Fortaleza de La Cabaña, la fortezza spagnola posta a guardia del porto, per farne il suo quartier generale. Addentrandosi per le vie del centro storico, l'Habana Vieja, oggi dichiarato dall'Unesco «patrimonio dell'umanità», il volto del Che si ritrova ovunque: sulle cartoline, i dipinti e le magliette in vendita nel colorato mercado artigianale. Sulle copertine dei libri esposti nel mercatino dei libri usati di plaza de las Armas, la più antica piazza cittadina. Sui murales insieme al volto sorridente, la famosa sonrisa, di Camilo Cienfuegos, inseparabile amico e compagno di battaglia, accanto all'immagine di Fidel e degli altri protagonisti della Revolución. Del Che parla con orgoglio la gente che s'incontra per strada. «Se ci fosse stato il Che questo non sarebbe successo», si sente spesso dire. «Per capire che cosa rappresenti davvero mio padre per la nostra gente bisogna entrare nelle loro case e ascoltare la loro musica», ci aveva spiegato Aleida Guevara. I cubani, infatti, lo ricordano nelle loro canzoni e non c'è appartamento senza un ritratto del Generale. Lo amano perché era uno di loro, che con il popolo ha sofferto e lottato. Fino alla fine. «Hasta la victoria siempre, patria o muerte». Rotta su Cuba È nelle sale del Museo de la Revolución, a L'Avana e, in modo ancor più dettagliato, nel Museo de la Lucha Clandestina, a Santiago de Cuba, che si può ripassare la storia della rivoluzione cubana da quel 26 luglio del 1953, quando un gruppo di 119 ribelli attacca il Cuartel Moncada, una base militare a Santiago de Cuba. L'agguato fallisce. Arrestati e condannati, i sopravvissuti - tra questi anche Fidel Castro e il fratello Raul - vengono liberati nel 1955 ed esiliati in Messico, dove si riorganizzano. Il 25 novembre 1956 82 rivoluzionari condotti da Castro salpano da Tuxpàn a bordo dello yacht Granma. Tra di loro c'è anche il Che, arruolato come medico di spedizione. Il 2 dicembre sbarcano sulla costa sudorientale di Cuba, ma sulla spiaggia Las Coloradas vengono sorpresi e sconfitti. I 12 sopravvissuti si rifugiano sui monti della Sierra Maestra: un muro impenetrabile di verde e rocce che durante la lotta armata divenne il quartier generale di Fidel. Oggi il Granma è custodito (con altri reperti di guerra) a L'Avana, nell'involucro in ferro e vetro del Memorial Granma, alle spalle del Museo de la Revolución. Quegli inaccessibili rilievi montuosi che hanno nascosto i ribelli costituiscono, invece, il Gran Parque Nacional de la Sierra Maestra, dove si trova anche il Pico Turquino, che con i suoi 1974 metri è la più elevata vetta del Paese. Anche le pinete della Sierra del Escambray offrirono riparo ai rivoluzionari. La seconda catena di Cuba prende slancio dalla costa orientale di Cienfuegos, «la perla del Sud». In questi boschi, dove l'aria è umida e fresca e i pini e gli eucalipti sono ricoperti di muschio, Guevara recluta il Secondo Fronte rivoluzionario. Qui conosce e s'innamora di Aleida March, che di quel periodo ricorda: «Così, semplicemente, entrai nella lotta armata. Davanti ai miei occhi prendeva forma un mondo nuovo, inimmaginabile, che significò per me una seconda nascita». Oggi queste regioni sono abitate soprattutto da contadini e sono fuori dalle rotte del turismo (inutile cercare un segnale stradale, per esempio). I campesinos distendono il riso sull'asfalto per farlo essiccare al sole, proprio come si faceva una volta, quando era la terra battuta a disegnare la strada. Nei campi si lavora la terra con l'aratro trainato da buoi. Di tanto in tanto attraversiamo dei batei, piccoli e tranquilli villaggi sorti presso gli antichi zuccherifici e circondati da verdissime distese coltivate a canna da zucchero. A Santa Clara, il giorno della vittoria Percorriamo l'Autopista Nacional fino a Santa Clara. I momenti decisivi della battaglia del 29 dicembre 1958 rivivono nel museo allestito nei resti delle carrozze ferroviarie deragliate, oggi spettacolare fulcro del Monumento al Tren Blindado. Sulla facciata dell'Hotel Santa Clara rendono ancora viva quella lotta i fori lasciati dai colpi tirati dai rivoluzionari contro la milizia nazionale. In Plaza de la Revolución, all'angolo di Avenida de los Desfiles, si spalanca il complesso monumentale dedicato a Ernesto Che Guevara. È dominato dalla gigantesca statua in bronzo del Che che porta un fucile, opera dell'artista José Delarra, eretta nel 1987 in occasione del ventennale della sua morte. Appena dietro si trovano il museo, con documenti, ricordi, fotografie sulla vita del Comandante, e il mausoleo con le sue spoglie, poste accanto a quelle dei suoi compagni rivoluzionari. Tra le altre, anche quelle di Tamara Bunke, meglio nota come Tania, coraggiosa compagna morta in battaglia. Alla baia dei Porci trionfa la pace Coccodrilli e fenicotteri popolano numerosi il Parque Nacional Ciénaga de Zapata, la vasta palude a forma triangolare dichiarata Riserva della Biosfera. È un regno intricato di mangrovie, boscaglia di marabú e lagune cristalline. Vi si trova il complesso turistico Boca de Guamà che ospita, tra l'altro, il criadero de cocodrilos, un allevamento con oltre 6 mila esemplari di coccodrilli cubani endemici. A breve distanza corre il Río Jatigüanico che si risale a bordo di comode lance: avvoltoi, falchi e decine di altre specie si svelano senza timori in un autentico paradiso del birdwatching dove si sente cantare anche il tocororo (Trogone di Cuba, Priotelurus temnurus), l'uccello diventato simbolo nazionale per il suo piumaggio rosso, bianco e azzurro come la bandiera cubana. La carretera raggiunge il mare a Playa Larga, luogo d'approdo della cosiddetta invasione della Baia dei Porci (Bahía de Cochinos) del 17 aprile 1961 a opera di esiliati cubani che, supportati dagli Stati Uniti, tentarono di riprendersi l'isola. La guida ci indica alcuni dei 161 obelischi eretti in onore dei caduti durante la battaglia, disseminati lungo la strada nel punto dove furono rinvenuti i corpi. Un alto muro di cemento costruito direttamente in mare nega, purtroppo, allo sguardo la vista dell'orizzonte. In questa parte di Cuba il turismo non è arrivato e i cenagueros (abitanti delle paludi) versano ancora in povertà. L'autopista prosegue fino a Playa Girón, 35 chilometri a sud di Playa Larga. Qui il Museo Storico Playa Girón racconta la battaglia del 1961 con fotografie, cartine, reperti e toccanti testimonianze. Non lontano spicca lo scheletro dello zuccherificio Australia, dove si era installato lo stesso Castro durante quei giorni. Pinar del Río, giardino di Cuba Distese di terra rossa coltivate a tabacco e piantagioni di caffè ricoprono la Cordillera de Guaniguanico. Divisa in Sierra del Rosario e Sierra de los Organos, la barriera attraversa interamente la provincia di Pinar del Río, terza per estensione dell'isola, 50 chilometri a ovest dell'Avana. Case basse color pastello in stile neoclassico caratterizzano Pinar del Río, il capoluogo. Lungo calle Martí, il viale principale, il susseguirsi dei negozi «privati» allestiti nelle verande delle case e autorizzati dallo Stato testimonia la capacità dei cubani di reinventarsi di continuo. Lungo le strade piene di buche che tagliano le vegas, le fertili vallate che disegnano la regione, Chevrolet e Buick arrancano. È da queste parti che i guajiros coltivano il miglior tabacco del mondo. Si riconoscono per i tipici cappelli in paglia, gli immancabili baffi e la pelle bruciata dal sole. «Le foglie da utilizzare per fare i sigari non devono essere né troppo umide né troppo secche», spiega Gustavo, uno di loro, in una tipica casa de tabaco, interamente costruita con materiale vegetale, dove avviene il processo di fermentazione naturale del tabacco. Dai punti panoramici disseminati lungo il tragitto la vista spazia sull'incantevole Valle de Viñales. La vasta pianura dal terreno carsico taglia la Sierra de los Organos, nel Parque Nacional Viñales, dichiarato «paesaggio culturale dell'umanità». La terra roja (rossa) ricca di minerali crea un forte contrasto cromatico con il verde tierno (verde tenero) della palma real (la pianta nazionale), del bambù, della yucca e della malanga, tipica di qui. È un paesaggio unico sull'isola. Enormi massi rocciosi punteggiano la valle. Sono i mogotes, alture coniche dalla punta arrotondata larghe fino a 800 metri e alte fino a 600. Appena oltre, al di là dei «giganti di roccia», nella fitta vegetazione che riveste i rilievi montuosi, visse per qualche tempo il Che prima di partire per la Bolivia, nel 1966. La via ecosostenibile allo sviluppo Ci spingiamo fino alla cittadina di Viñales, tagliata da un lungo viale alberato. Oggi l'estremo ovest dell'isola è tra le aree maggiormente investite dal programma di ricostruzione e riorganizzazione della società e del territorio avviato dal governo Castro che ha ottenuto, per la più grande isola dei Caraibi, sei riserve della Biosfera e otto siti dichiarati «patrimonio dell'umanità». Nel 1978, inoltre, per rimediare a 400 anni di deforestazione e distruzione degli habitat naturali, è stato istituito il Comitato nazionale per la protezione e la conservazione delle risorse naturali e dell'ambiente (Comarna). Protagonista dell'ambizioso progetto è la Sierra del Rosario: un parco di 25 mila ettari, dal 1985 riserva della Biosfera. I pendii montuosi sono coperti di pinete popolate da 98 specie di uccelli come il colibrì zunzunito (Mellisuga helenae), il più piccolo al mondo con i suoi due grammi di peso, cervi e jutìas (Capromys pilorides), un roditore simile a un grosso criceto tipico di quest'area. Nel 1967 è stato avviato un programma di rimboschimento. Sono state impiantate 900 specie di piante e costruiti 1500 chilometri di terrazzamenti. Il Complejo Las Terrazas, il primo esempio di progetto di ecoturismo e turismo sostenibile del Paese, ha coinvolto una sessantina di famiglie che vivevano in condizioni di estremo disagio. Costruito nel 1971 sulle rive del lago San Juan, si raggiunge percorrendo una strada asfaltata una ventina di anni fa. Prima di allora, nel 1962, il Che guidava in queste vallate le truppe della zona occidentale durante la crisi missilistica tra Cuba e Stati Uniti. In una vecchia capanna indios diroccata (bohios) Aleido, un anziano contadino, vive solo coltivando la terra e allevando polli, agnelli e guineos (sorta di tacchini). Il suo terreno è immerso nel verde, l'aria è pulita e il silenzio è rotto solo dalla vivacità di Payaso, il suo cane. «Di qui non me ne vado», confida. Il motivo lo capiamo dai suoi occhi. Perché Cuba è meravigliosa e allegra, perché non ha dimenticato il suo passato e, se ancora non ha costruito il suo futuro, sa di potercela fare. Perché oggi come ieri Cuba vive una nuova rivoluzione: aprirsi al mondo e rimanere se stessa. E nessun cubano rinuncerà alla sfida. Fino alla fine. «Hasta la victoria siempre, patria o muerte». Elisabetta Canoro («Tutto Turismo» n. 345/07) Jazz: dalle piantagioni alle metropoli - Questa forma artistica ha permesso agli afroamericani di sopravvivere, avere un'identità, essere riconosciuti capaci di creare qualcosa di nuovo. Premessa La tesi di fondo che vorrei difendere riguarda la necessità del jazz (per gli afroamericani). Lo sfondo storico della deportazione, della schiavitù, della discriminazione e della segregazione rappresenta una «interruzione» di quelle fonti di riconoscimento mediante le quali gli africani potevano prestarsi reciprocamente un'identità. Volendo dare un nome a ciò che nasce, per l'individuo, nella relazione sociale, ebbene si tratta proprio del riconoscimento della sua identità. Spogliato di quei riferimenti durevoli (lingua, ruoli, proprietà, passato) che permettono di formare e riprodurre un'identità, la domanda diventa: come fu possibile per gli afroamericani sopravvivere, almeno culturalmente? Sosterrò che la musica, ambito espressivo ritenuto irrilevante dai piantatori americani (o forse ritenuto utile per incrementare la produttività degli schiavi nelle piantagioni), rappresenta il contesto all'interno del quale è stato possibile ristabilire relazioni sociali e dunque ricostruire (o costruire) un'identità, uscendo da una situazione di isolamento. Il jazz diventa allora dimora, lingua comune e memoria, un dispositivo identitario per umanizzare e riscattare l'esperienza subita. Chiarirò come la natura di questa tesi non vada confusa con la posizione essenzialista (solo gli afroamericani hanno contribuito alla fioritura del jazz; solo loro hanno il diritto di suonarla): il jazz è musica ibrida formatasi per disseminazioni e diffusasi a prescindere dalle partiture scritte, investendo la comunità allargata di coloro che non si vedono ma si ascoltano reciprocamente per mezzo dei dischi. Tuttavia, il legame fra jazz e musica afroamericana è costitutivo, non a causa della pelle ma in virtù dell'esperienza condivisa dagli afroamericani: la dislocazione imprevista, la coazione ad affrontare l'ignoto, la presenza della morte e la capacità di appropriarsi di quello che viene imposto (o che si trova a disposizione), sono tutte caratteristiche che trapassano nella musica e vengono sublimate esteticamente nella pratica dell'improvvisazione. Il jazz non è certo un paradiso razziale, eppure è grazie a esso che gli afroamericani ottengono una definizione differente da quella loro imposta (sono riconosciuti come capaci di dare inizio a qualcosa di nuovo). Cosa discende da questa tesi sulla necessità culturale del jazz? Un assunto metodologico: non si può affrontare il jazz da una prospettiva solo «internalista», focalizzandosi esclusivamente sulle note, o sugli stili, o sui singoli musicisti. La portata del jazz è più ampia investe l'identità. Ma poiché l'identità non è scelta, coincidendo invece con il prodotto dell'insieme degli atti di un attore riconosciuti da una cerchia sociale, bisognerà chiedersi: come viene riconosciuta l'identità che gli afroamericani proiettano grazie al jazz? Come è stato percepito, quali reazioni ha suscitato il jazz nelle comunità di ricezione che a esso sono state esposte? Analizzando tali effetti culturali del jazz, invece di rinchiuderlo in una definizione univoca, emerge un ritratto al plurale della musica ma anche di coloro che l'hanno generata. Lo sfondo storico Come è noto, gli individui deportati dalle coste occidentali dell'Africa verso le piantagioni americane, furono privati delle condizioni per riconoscersi come si definivano prima della dislocazione. Ad approdare nel nuovo mondo non sono gruppi coesi, tanto meno comunità, ma tenendo conto della separazione forzata aggregati eterogenei nei quali l'unica cosa condivisa è la schiavitù. Nelle cosiddette Indie occidentali e in Brasile gli schiavi si trovano in una situazione diversa: intanto sono in numero nettamente maggiore che non i padroni (francesi e inglesi). In secondo luogo, gli schiavi possono vivere gli uni con gli altri. Per questo insieme di ragioni hanno meno contatti con la cultura di derivazione europea (e comunque non con quella protestante e anglo-celtica, quanto con quella iberico-cattolica). Queste differenze fra gruppi afro-diasporici, probabilmente, spiegano come mai il jazz, musica dell'improvvisazione, sia stato generato dagli afroamericani piuttosto che, poniamo, dagli afrobrasiliani. Gli schiavi afroamericani, non quelli afrobrasiliani, sono dovuti ricorrere al double-talk, il linguaggio cifrato, la parafrasi e il riferimento obliquo attraverso il quale eludere i controlli dei piantatori, nonché alla pratica del signifying (la capacità di riprendere quanto imposto, a partire dagli inni protestanti, «facendoli significare» in modo distintivo), modalità che costituiscono il cuore stesso del jazz. Torniamo alle conseguenze della deportazione. In America le lingue africane furono inibite, l'inglese imposto era minimale e finalizzato all'operatività. Gli unici ruoli assegnati erano quelli di schiavo o, talvolta, di servitore domestico. Nessuna proprietà era concessa. Lo schiavo fu deprivato anche di memoria: poiché il suo passato non ha più valore nel contesto presente, la memoria si fa più velata, lontana e sostituita da una diversa sequenza di ricordi immediati e più duri. Le roots, radici, sono routes, percorsi di trasferimento, di migrazione forzata, deportazione appunto. L'afroamericano è così spogliato di proprietà, lingua, ruoli, passato, ma anche di nomi, vestiti e ornamenti, ossia dei riferimenti durevoli che normalmente funzionano da spunto o segnale attraverso il quale il riconoscimento si può effettuare quotidianamente, permettendo di collocare gli individui in molteplici relazioni sociali, entro le quali emerge un'identità. Le fonti di riconoscimento subiscono una sorta di sospensione, o interruzione, un po' come un titolo elargito per meriti da una società che poi viene dissolta e rimpiazzata da un'altra in cui nessuno riconosce più quel titolo (e il prestigio a esso attribuito), o come una moneta fuori corso: non ha più valore, non è né cumulabile, né scambiabile con altre. In breve, l'afroamericano si trova come denudato da ciò che pensava costituisse la sua più accertabile identità sociale. In fondo la blackness può essere interpretata anche come l'angoscia derivante dall'approdo in una «terra di nessuno» priva di ogni punto di riferimento stabile. Non vorrei essere frainteso. È sbagliato sostenere che gli africani deportati nelle Americhe fossero privi di identità. Il punto è che l'identità conta solo se convertibile in socialità (sia quella vissuta nelle cerchie informali che quella condivisa in contesti istituzionali e professionali), e l'identità dello schiavo è appunto spogliata di tale valore. Dato il «difetto d'origine» della schiavitù, peraltro, il colore della pelle viene collegato a un segno di inferiorità. I neri non hanno la «pelle giusta» per essere riconosciuti come persone. Non è perché la pelle è nera che si è schiavizzati, ma è perché si è stati (costretti a essere) schiavi che il colore diventa rilevante. La «razza nera» non è un dato immediato; ha il suo luogo di incubazione in questo particolare esercizio di potere. L'essere stati prelevati come forza-lavoro da un continente «vecchio» e «primitivo» rende il razzismo un sottoprodotto dell'origine geo-culturale e fa della schiavitù la precondizione per la configurazione di un campo di visibilità attraverso il quale il colore della pelle acquista il ruolo di piastrina di riconoscimento. D'altra parte, la schiavitù reca in sé una componente culturale: il ricorso a schemi di riconoscimento denigranti piuttosto che avvaloranti. La sostituzione del termine «schiavo» con «negro», allora, è tutt'altro che innocua. I due termini non sono equivalenti, ma per effetto di questa vicenda storica il secondo termine si «porta dentro» la connotazione negativa del primo. E poiché tale matrice è invisibile e sospesa nel passato, crea l'illusione che il nero appartenga agli esseri inferiori per via naturale e a prescindere dal suo comportamento (la caratteristica del pregiudizio è proprio quella di trasformare giudizi che non provengono dai fatti in fatti che impongono un giudizio). La pelle, peraltro, è uno di quegli aspetti che mi definisce e anzi mi costituisce, al punto che - in quanto parte della mia stessa corporeità (e dunque della mia vita) - non posso sbarazzarmene: nessuno può adottare la mia carnagione per me, al posto mio. Ma neppure posso averne un controllo. La «superficie» del corpo è il primo strato a imporsi agli occhi e a essere marchiato, riconducendo ogni individuo a specimen di un tipo (l'attributo «nero» si riferisce a una intera classe di individui ritenuti equivalenti e dunque sostituibili), secondo un processo contrario a quello che ci differenzia e ci singolarizza. Questa «derealizzazione» della dimensione individuale, ricondotta unilateralmente a un'unità collettiva, fa sì che i neri subiscano una delle condanne più crudeli: il divenire indistinguibili (agli occhi del bianco). Come se si coprisse quel numero di serie che è il volto delle persone l'aspetto che più le individualizza - rivelando solo i polpacci o i gomiti. Come se si raggruppassero tutte le persone che hanno i capelli castani, quali che siano la loro lingua, la loro storia, e le loro pratiche culturali. Su questo sfondo storico il jazz diventa la prestazione specifica che permette di riprodurre socialità e cercare le condizioni per realizzare la riconoscibilità duratura degli afroamericani, nonché di ottenere una definizione di natura diversa rispetto allo stigma offensivo. Nelle parole del contrabbassista Ron Carter, «La musica, oltre al lavoro coatto, è l'unico contributo dei neri agli Stati Uniti» (Taylor, 1992, p. 61). Detto questo, il mondo del jazz non è certo un paradiso razziale, al contrario, è fin dal suo sorgere segnato da operazioni di white washing (negli anni Venti Paul Whiteman, nome assai eloquente, viene incoronato King of swing, benché, come ha detto una volta il batterista Art Blakey, l'unico modo in cui Whiteman sapesse «oscillare» era appeso a una corda (Enstice, 1992, p. 23). Il pianista Dave Brubeck (Enstice, 1992, p. 87) racconta come nella seconda metà degli anni Cinquanta Ellington potesse esibirsi, anche in televisione, con una all-black orchestra, ma il contrabbassista nero di Brubeck non poteva comparire negli show pubblicamente rilevanti: poteva continuare a suonare, ma nascosto, in modo tale che si sentisse ma non si vedesse, non si vedesse insieme ai bianchi (solo nel 1968 Sidney Poitier è il primo nero a legarsi romanticamente a una donna in una produzione hollywoodiana, Who's coming to dinner). Il trombonista e big band leader Tommy Dorsey, che ammirava Dizzie Gillespie, gli si avvicina dicendogli: «Boy, I'd love to have you in my band, but you're so dark. If you were sort of white...» (Enstice, 1992, p. 178). Ancora nel 1982, nel corso del New Music American Festival a Chicago (sede del collettivo musicale e culturale Association for the Advancement of Creative Music e città al 40% nera), si organizza un dibattito sul tema, «New music and our changing culture», e tutti e sette i partecipanti invitati sono bianchi. Eppure, nonostante le discriminazioni, la musica ha seguito un suo corso, colpendo gli ascoltatori e modellando i corpi di chi danza, rivelandosi un luogo tutto sommato inclusivo (anche ballare il jazz è un segno di coinvolgimento, e di sincronia). E poi dove altro, se non nella musica (e nello sport), è stato riconosciuto - per quanto in modi parziali - il contributo dei neri? Dunque nel complesso è plausibile affermare che in virtù del jazz gli afroamericani hanno finito per essere percepiti non solo come vittime ma come attori creativi (l'improvvisazione è collegata alla dimensione inventiva, al far nascere qualcosa di nuovo), contrassegnati - per usare la terminologia di Hannah Arendt - dalla capacità di azione comune e dal «dare inizio» a qualcosa di nuovo, dalla potenza del cominciare. Che il jazz assolva questa funzione extra-musicale viene sottolineato in vari modi dagli stessi musicisti, per esempio enfatizzando l'analogia fra il jazz e la metafora della dimora. Jazz e identità Un po' come la musica permette al giovane di «cambiare stanza», così il jazz ha offerto un luogo dove entrare e abitare creativamente, a molti afroamericani. Lo esprime bene John Coltrane: il jazz «is a matter of being at home» (cfr. Kofsky, 1997, p. 436). Lo ribadisce il pianista e band leader Sun Ra: «suonavo perché lo trovavo edificante e piacevole in un contesto, quello americano, in cui l'essere neri era tutt'altro che piacevole. Dovevo avere qualcosa, e quel qualcosa consisteva nel creare ciò che nessun altro avesse eccetto noi. Sono venuto così a disporre di una casa del tesoro musicale, una casa che nessun altro possiede» (Szwed, 1997, p. 88). E lo sottolinea infine il pianista sudafricano Abdullah Ibrahim (cit. in Pareles 1990): «Il vantaggio di essere un artista è che in ogni caso non sei mai veramente mandato via da casa» (lo stesso gruppo di Ibrahim si chiamava proprio Ekaja, ossia casa in lingua sudafricana). Il jazz non solo allontana dalle pressioni della vita quotidiana, fungendo da scudo contro l'insicurezza di uno spazio urbano spesso disprezzato e abbandonato. In contrasto con questo ambiente ostile e incerto, offre un luogo dove ridiventa possibile stabilire rapporti sociali negati all'esterno, riappropriandosi simbolicamente - per sé e per l'intera cultura afroamericana - di quello spazio che era stato negato. Una seconda figura in cui si condensa l'immagine del jazz è quella della lingua comune, una lingua franca attraverso la quale articolare un ideale di società fondato sul mutuo riconoscimento. Si dirà che a differenza di una lingua naturale la musica, pur disponendo di un sistema fonologico, non dispone di un lessico, né può contare sulla funzione referenziale. Eppure, anche se la musica non «dice» qualcosa, una musica generata collettivamente nel suo svolgersi come il jazz rende tangibile l'intreccio originario dell'essere-con-l'altro, precondizione di ogni comunicazione determinata. Che il jazz possa dunque, nonostante tutto, essere pensato come surrogato di una lingua lo suggeriscono pure le seguenti caratteristiche. Al pari del parlato, la performance musicale improvvisata è un processo orale che si svolge nel tempo (cfr. Sparti 2007b). Al pari del parlato, l'improvvisazione collettiva del jazz è una forma di interazione, contrassegnata da chiamate e risposte, ma anche da una capacità di dialogo che, come in una conversazione, può trascinare là dove non ci saremmo immaginati di poter andare (si ascolti lo straordinario «dialogo» musicale fra Eric Dolphy al clarinetto basso e Charles Mingus al contrabbasso, a partire dall'ottavo minuto del brano «What love», inciso il 20 ottobre del 1960). Infine, come il parlato, il jazz dispone di indizi semiotici come la citazione, mediante la quale, nel corso di un brano che si svolge nel tempo attuale, il musicista si riferisce intertestualmente a un brano appartenente a un tempo precedente. A proposito del nesso fra jazz e linguaggio, non è neppure un caso che le espressioni utilizzate dall'uditorio per descrivere un assolo (riuscito) comprendano termini quali storytelling e testfying (ma anche shouting, preaching, telling it like it is). Detto fra parentesi, oltre a essere pensabile come un surrogato di lingua, il jazz è stato di fatto rivestito di parole, e non soltanto da critici e interpreti. Per fare un esempio, come racconta l'arrangiatore canadese Gil Evans, l'appartamentino seminterrato dove egli viveva a New York era accessibile 24 ore su 24: la porta era aperta, c'erano un giradischi, un registratore e un pianoforte, e i musicisti, come altri esponenti della jazz community, entravano e uscivano, ascoltavano ma anche parlavano e discutevano di musica, in continuazione (cfr. Enstice, 1992, p. 154). In terzo luogo, il jazz assolve una funzione identitaria rielaborando la memoria del passato, non il passato africano ma la vicenda dello schiavismo e della discriminazione subita, un passato che non passa, che continua a ripresentarsi ossessivamente, come un fantasma. A questo proposito si possono ascoltare un brano come Freedom, di Charles Mingus, registrato il 12 ottobre del 1962, o Alabama, di Coltrane, inciso il 18 novembre del 1963, poche settimane dopo l'attentato dinamitardo alla Sixteenth Street Baptist Church di Birmingham (Alabama, appunto). In quest'ultimo caso il lutto e il dolore per l'assenza delle bambine uccise viene ricreato musicalmente. L'effetto di brani come questi è quello di portare una collettività a riconoscersi radicata in una continuità e in un tempo proprio, per quanto doloroso. Il jazz diventa così produttore della coscienza di una continuità, conferma di una identità che perdura nel tempo. Naturalmente il jazz è stato anche, e forse prima di ogni altra cosa, un mestiere, più o meno remunerato e prestigioso, a seconda dei luoghi e dei tempi. È qui che si inserisce la critica del francofortese Th.W. Adorno, che consiste nel mostrare vari indizi dell'assoggettamento del jazz allo show business (per esempio l'obbligo di suonare certi brani ripetitivi, preconfezionati dall'industria delle canzoni e riproposti alla radio quanto ai jukebox). In un'epoca, la nostra, in cui il jazz serve come musica di sottofondo per la pubblicità e in cui persino le automobili adottano il suo nome, non ci si può appellare unilateralmente all'innocenza o al potenziale sovversivo del jazz, facendo finta che Adorno non sia «passato», per quante riserve si possano avere. Per Adorno le sole opere musicali autentiche sono quelle che si misurano con le forme più estreme dell'orrore, eludendo quell'incubo di un mondo totalmente amministrato di cui i prodotti dell'industria culturale sarebbero già il preludio: «La verità [della] musica appare esaltata [quando] essa smentisce (...) il senso della società organizzata che essa ripudia, piuttosto che per il fatto di essere di per se stessa capace di un significato positivo. Nelle condizioni attuali essa è tenuta alla negazione determinata» (Adorno, 1959, p. 25). Uno dei limiti di Adorno, però, è che non ha saputo cogliere il lato «oscuro» del jazz. Senza disturbare Mingus o Coltrane, vi sono canzoni i cui temi non riguardano affatto le coppiette innamorate. Gloomy Sunday, per esempio, parla di suicidio, e Strange fruit, di linciaggio. Come ha detto una volta Sun Ra (tracciando una piccola apologia dell'urto sonoro che sarebbe dovuto piacere ad Adorno): «A me piacciono i suoni che mettono a disagio la gente, perché la gente è troppo compiaciuta, e vedi, devi scioccarla per scacciarla da quello stato, affinché prenda atto del fatto che questo mondo è molto brutto. Devi svegliare la gente in modo che possa vedere il mondo per quello che è; poi, forse, farà qualcosa per porvi rimedio». Ibridazione musicale Vorrei chiarire la natura della tesi qui tracciata. Essa non va confusa con una forma di essenzialismo (solo i neri hanno contribuito a sviluppare il jazz, e solo loro godono del diritto di suonarlo). Certo, vi sono dispositivi musicali presenti sia nel jazz che in molte culture musicali africane, per esempio la poliritmia, l'articolazione della musica per chiamate e risposte, la vocalizzazione del timbro e l'uso strumentale della voce. Neppure bisogna misconoscere la presenza tematica dell'Africa (le composizioni jazz dedicate al continente africano sono moltissime - e non si tratta solo di titoli estemporanei). Ma i deportati non discesero dalle navi negriere suonando il jazz, e l'Africa dei jazzisti corrisponde più a una sua immagine o versione retorica che non a un fattore che si è riprodotto strutturalmente nella musica. Lo scrittore Richard White scrive del proprio disappunto nell'ascoltare il coro di una chiesa in Ghana, che non richiamava in alcun modo la tradizione canora del gospel afroamericano. In alcuni stati africani oggi si suona del jazz, certo. Si presti tuttavia attenzione agli scambi nell'altro senso: a partire dagli anni Trenta i dischi e i film americani, così come la radio e il giradischi, ebbero un impatto enorme su musica, danza e moda africane, soprattutto in Sudafrica, in Nigeria e in Ghana. In Senegal, per esempio, il jazz si è diffuso in seguito alla presenza di Duke Ellington (invitato da Senghor) al festival panafricano delle arti negre svoltosi a Dakar nel 1966. Vi è stato qualche - isolato - musicista africano che si è inserito creativamente nella jazz community americana. Abbiamo già menzionato Abdullah Ibrahim. Il percussionista Michael Olatunji è un altro nome. Yoruba nigeriano venuto a New York con una borsa di studio, ha fondato nel 1967 il Center of African Culture in Lexington Avenue, a Harlem. Ma Olatunij ha trasformato il proprio stile collaborando prima con il batterista Max Roach, poi con Coltrane (è grazie all'impegno - pure finanziario - di Coltrane che Olatunij ha potuto aprire il suo centro, inaugurato da una serie di performance domenicali realizzate dal tenorista, che poco prima di morire vi registrerà la sua ultima esibizione dal vivo, il cosiddetto Olatunji concert). Così come non ha un luogo di nascita, il jazz non ha neppure una data di compleanno. La New Orleans dei primi anni del Novecento, dirà qualcuno, ma non si dimentichi che New Orleans è città di porto, aperta verso l'America Latina, in cui confluiscono e convivono molti generi musicali (inni, marce, blues, ragtime). Il jazz, peraltro, si forma non solo a New Orleans ma nel corso di una disseminazione che lo porta a Chicago e a New York (per limitarsi ai centri più significativi), ricontestualizzandosi di volta in volta. Non basta. Gli strumenti del jazz sono di origine perlopiù europea (nel caso della batteria, i piatti e i triangoli sono turchi, la grancassa cinese, il drum-kit americano) e i songwriters del repertorio da cui derivano la maggior parte dei cosiddetti standard sono in maggioranza ebrei (ricordiamo i fratelli Gershwin, Irving Berlin e Jerome Kern). E poi le razze non suonano, solo gli individui lo fanno. Gli stessi afroamericani, peraltro, non rappresentano una collettività uniforme e omogenea. Black, brown and beige, la famosa suite di Duke Ellington, riflette criticamente sui pregiudizi fra neri, che si distinguono a seconda del tono della pelle (o dello stile di vita; Ornette Coleman ha detto una volta di Miles Davis: è certamente nero, ma vive come un bianco). Come spiega il tenorista Benny Golson, «la musica, di per sé, non è connotata etnicamente. Le note sono documenti sonori di una certa altezza, tutto qua. Ma quello che facciamo di esse, be', quella è un'altra cosa. È lì che si trovano i veri eroi» (citato in O'Meally, 2004, p. 51). Quest'ultima indicazione di Golson è decisiva: ciò che conta è il modo in cui gli strumenti - o gli standard - sono valorizzati nel corso della performance. Un'indicazione sfuggita ad Adorno, il quale non ha saputo cogliere il ruolo determinante della creatività secondaria. Charlie Parker o Thelonious Monk effettivamente suonano e risuonano un numero tutto sommato circoscritto di brani, un po' come Monet che affronta innumerevoli volte lo stagno del suo giardino, o il monte Saint-Victoire dipinto e ridipinto da Cézanne. Con la differenza, però, che i jazzisti non stavano cercando di «catturare l'essenza» di un paesaggio o di una forma, ma di creare ogni volta le condizioni per una (per quanto minima) epifania musicale. Incontriamo qui la pratica del signifying, che consiste nel prendere le mosse da qualcosa di imposto o di semplicemente disponibile (una melodia, un ritmo, un ciclo di accordi, uno strumento, ma anche un nome, o un modo di dire) per poi prenderne parzialmente le distanze, modificarlo e in tal modo appropriarsene. Tale capacità di coabitare con - e di assimilare universi simbolici in tensione con il proprio è incardinata nella storia della comunicazione dei neri in America. Essa ha le sue radici nelle work songs degli schiavi (che erano al tempo stesso espressioni indirette a cui ricorrere per eludere i controlli e nondimeno indicare la disumanità delle loro condizioni di vita), nonché nelle pratiche canore e nei sermoni ritmati della chiesa afrocristiana. Abbiamo visto come il potere dei nomi possa diventare terribile nella sua asimmetria e negli effetti che esercita su quanti vengono sottoposti a uno stigma denigrante (che peraltro non offende solo me singolo, ma la collettività che rappresento, un'offesa di identità): non concede la possibilità di rifiutare l'identità attribuita, né offre la possibilità di ottenere una definizione di altra natura rispetto a quella imposta. Il processo dell'inventare e acquisire per merito nomi nel corso della vita (frequentissimo fra i jazzisti) rappresenta l'antidoto alla spersonalizzazione imposta dalla schiavitù o dal misnaming (la denominazione offensiva). Un esempio di signifying esercitato sul proprio nome ce lo offre il poeta, attivista politico e critico jazz Leroy Jones, che trasforma il proprio nome in Le$Roi, il re, per poi convertirsi all'islamismo e diventare Amiri Baraka, che può essere pronunciato ameer o amir baraka in swahili, e che, se letto al contrario, diviene ak arab, assumendo una connotazione più marcatamente musulmana. A proposito del signifying la scrittrice e antropologa afroamericana Zora Neal Hurston (in O'Meally, 1998, p. 304) invitava a prestare attenzione al particolare modo in cui gli afroamericani si rapportano a quanto acquisito (the borrowed material): «Pur vivendo in seno a una civiltà bianca, tutto quello che il nero sfiora viene re-interpretato per i suoi scopi (reinterpreted for his own use)». Benché usufruissero della possibilità di fare musica, e di farla in gruppo, non bisogna dimenticare che agli afroamericani era spesso negato l'accesso agli strumenti di qualità, alle scuole musicali più prestigiose, ai corsi di composizione, alle orchestre. Hanno dunque dovuto sfruttare quanto era loro concesso per ricreare qualcosa di proprio. Sbaglia chi pensa al jazz come all'espressione spontanea di un individuo o di un popolo. Suonare e improvvisare significa giocare con le possibilità di una situazione, il che presuppone non certo mera emotività quanto la capacità di valutare il contesto per estenderlo e trasformarlo. «A contare - osserva lo studioso di musica afroamericana Albert Murray - non è tanto quello che i musicisti estraggono da se stessi, quanto quello che fanno con le convenzioni esistenti» (Murray, 1976, p. 126). Collegare la matrice nera del jazz non alla sua origine, né al colore della pelle, facendone dunque qualcosa di esclusivo, ma - culturalmente alla necessità di sopravvivere, ci è utile anche per chiarire il rapporto fra la pratica organizzata dell'improvvisazione e l'esperienza afroamericana. Che vi sia un intreccio fra la dislocazione imprevista (delle persone) e quella dislocazione imprevista che, nella musica, viene chiamata improvvisazione (il potere di sorprendere, lo slittamento inatteso), lo attesta l'altista Marion Brown: «Essere riusciti a venire a capo della transizione dall'Africa all'America senza disporre delle necessarie istituzioni culturali è segno di un raro potenziale adattivo nonché un atto di improvvisazione collettiva [societal improvisation]» (Brown, 1973, p. 15). Lo stato di transitorietà e la negazione di un futuro su cui contare (l'interruzione delle fonti di riconoscimento), l'obbligo di tollerare viaggi rischiosi - la cui destinazione era difficile da raffigurare - e di convivere con il rischio di una situazione mobile e imprevedibile, genera negli afroamericani il senso del «provvisorio duraturo» e dell'improvvisazione, due qualità che sublimeranno musicalmente. Come spiega lo scrittore Ralph Ellison in uno dei saggi raccolti nel volume intitolato Going to the territory, «gli schiavi avevano imparato [...] che per ottenere la libertà occorreva spostarsi geograficamente, e rischiare la propria vita affrontando l'ignoto» (Ellison 1987, p. 131). In quanto dispositivo per umanizzare il caos e organizzare l'esperienza, il jazz diventa una forma di sopravvivenza in condizioni ostili. Nelle parole della scrittrice Toni Morrison, «i neri hanno sviluppato delle strategie di sopravvivenza: l'invenzione, l'improvvisazione» (Marmande, 1994, pp. 34-35). Non a caso anche Albert Murray considera l'improvvisazione un corredo estetico vitale («aesthetic equipment for living», 1976, p. 58): «l'improvvisazione non è solo ciò che permette di convivere con lo strappo [disjunction] e il mutamento; fornisce una tecnica di sopravvivenza fondamentale, peraltro compatibile con lo sradicamento e la discontinuità così tipici dell'esistenza umana nel mondo contemporaneo». Conseguenze metodologiche Cosa discende dalla tesi della necessità culturale del jazz? Un assunto metodologico: per comprendere il jazz è rilevante cogliere la valenza anche socio-antropologica della musica. Ciò significa affrancarsi da una prospettiva esile, puramente internalista, che analizza solo le note (come ha detto una volta Luciano Berio, i giovani musicologi che abdicano a tale prospettiva «perdono i migliori anni della loro vita per spremere una grammatica generativa dall'ascolto di un minuetto di Mozart», Berio, 2007, p. 16). Ma significa pure emanciparsi da un'impostazione centrata solamente sui singoli musicisti; una sorta di agiografia, con i suoi beati o santi, che finisce per relegare l'intera vicenda qui narrata a un effetto di drammatizzazione (finendo pure per abbracciare un approccio molto americano: il trionfo dell'individuo solitario che asserisce se stesso trascendendo esteticamente le discriminazioni subite). Una prospettiva sul jazz che ignori o trascuri le vicende storiche e le implicazioni culturali qui delineate appare non solo inadeguata a comprendere il fenomeno, ma anche insultante. Dalla tesi finora illustrata discende anche un suggerimento metodologico. Non si tratta di chiedere: «cosa è» il jazz?, domanda non solo difficile ma indiscreta, che chiede di tracciare in due parole il senso di una forma di vita in the making - per questo i jazzisti reagiscono in modo recalcitrante o elusivo (Louis Armstrong ha risposto così a una signora impaziente di sapere cosa fosse il jazz: «Signora mia, se lo deve chiedere, non lo saprà mai...», dando a intendere che il jazz è certamente conoscibile ma non necessariamente spiegabile con poche parole). Bisognerà invece chiedersi: come è stato riconosciuto il jazz? Ossia, in quali modi si è risposto alla sua presenza? I discorsi e le rappresentazioni sociali emerse intorno alla musica, pur non esistendo a prescindere dalla musica, possono essere analizzati nei loro termini peculiari (se poi tali codici simbolici abbiano reso giustizia - agevolato o distorto - chi generava la musica, è altra questione). L'idea chiave è che per stabilire il significato di una pratica occorre ricostruire le reazioni che essa ha suscitato presso un uditorio o una comunità di ricezione (in Sparti 2007a illustro quattro dei campi discorsivi che hanno organizzato la percezione - e l'ascolto - del jazz). È così che quanto detto all'inizio sull'identità si ripresenta in maniera circolare. Il jazz ha permesso di riprodurre quelle condizioni di socialità e interazione in virtù delle quali molti afroamericani hanno potuto configurare una identità. Ma l'identità non è una proprietà incapsulata negli individui, quanto piuttosto un attributo che si rivela in forma retrospettiva attraverso il riconoscimento. L'identità, lo abbiamo ricordato, dipende da operazioni in cui altre persone, sulla base di passate relazioni sociali con noi, ci giudicano suscettibili di essere compresi in quanto contrassegnati da caratteristiche quali la relativa continuità nel tempo e la distinzione rispetto ad altri individui o collettività. Per questo capire il jazz significa ricostruire situazioni di risposta alla sua presenza che siano rivelatrici dei riconoscimenti (o misconoscimenti) a cui è andato incontro. Il jazz diventa infine un osservatorio privilegiato per illuminare la tensione dinamica fra identità e riconoscimento. Davide Sparti («Prometeo» n. 100/07)