gfp.225 - la Contraddizione, 74, Roma 1999
IL SALTO DELLA BARRICATA
derive del falso rivoluzionarismo verso la reazione corporativa
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Si presentano qui alcuni testi - estratti non sistematicamente scelti, ma sufficienti - per mostrare la
necessaria involuzione del “falso rivoluzionarismo”, spesso di matrice borghese (velleitario, massimalista,
erroneamente utopista, soggettivista, cospiratorio, settario, sconsideratamente anarchicheggiante, eversivo,
barricadiero e parolaio - e chi più ne ha più ne metta). Codesta matrice - che Marx stesso attribuiva a
diversi protagonisti del “socialismo rivoluzionario” definiti “avvocati senza cause, medici senza ammalati e
senza scienza, studenti di biliardo, commessi viaggiatori e di commercio, e principalmente giornalisti della
piccola stampa” - ha portato i soggetti di tal fatta a voltar gabbana, apparentemente. Che il precedente
schieramento “rivoluzionario” di costoro - in ogni fase dell’era borghese - fosse pura parvenza è attestato
dal fatto stesso che, nel riferire delle origini storiche culturali di quei tragici protagonisti, mossisi sulle
prime a fianco del popolo (o meglio, al di sopra di esso), si trovino le componenti del pensiero sociale le più
varie, dal pietismo cristiano al terrorismo di sicari e dinamitardi, con tutte le sfumature intermedie: cioè, è
possibile trovare di tutto tranne comunismo e marxismo! Fu naturale per costoro (e per molti loro eredi
assai più recenti) passare sul lato della barricata a difesa di fatto del potere borghese e capitalistico, nelle
forme più assolutistiche, repressive e reazionarie.
Il riferimento nazionale più immediato è al socialismo e sindacalismo “rivoluzionario” che in Italia dopo
il primo novecento è passato armi e bagagli al fronte della grande borghesia finanziaria e agraria nella
costruzione del fascismo corporativo. Sono espliciti gli ascendenti francesi, da Proudhon a Sorel, con il
“socialismo mutualistico” del primo e la tesi della “minoranza rivoluzionaria” del secondo (che rimandava
alla pratica dell’action dirècte propagandata da Bakhunin e al palingenetico “sciopero generale di massa”
quale “mito del socialismo”); ma non si devono far mancare tuttavia gli opportuni richiami, da un lato, allo
stesso anarchismo bakhuniniano incuneatosi in diverse esperienze dell’”estremismo di sinistra” e di “azione
diretta” fino all’eclettismo pansindacalistico degli americani Iww, e, dall’altro, soprattutto ma non solo per
il caso italiano, alla confusa ideologizzazione mestatoria della “pace sociale” tra le classi, agitata dalla
chiesa cattolica con la dottrina sociale di Leone XIII, in chiara direzione del “bene comune” da raggiungere
- come nell’“insulsa favola di Menenio Agrippa” (per dirla con Marx) - attraverso la via del moderno
corporativismo.
Ovviamente, è necessaria una riflessione e una seria discussione sull’intero periodo e sugli eventi politici
e culturali che l’hanno caratterizzato: considerando soprattutto quella deviazione involutiva che, da allora,
il revisionismo aveva cominciato a instillare non solo nei “partiti operai borghesi” ma entro i sindacati
riformisti sempre più integrati nelle istituzioni, protetti dallo stato e corrotti. Senonché, al problema reale si
finì col rispondere con derive avventuriste verso approdi reazionari. Nondimeno vanno riprese
specificamente le considerazioni tanto sul pensiero anarchico (per le diverse sfaccettature sinceramente
proletarie che la sua storia mostra, al di là di equivoci e ambiguità da condannare), quanto, a maggior
ragione, sul “comunismo di sinistra”: quest’ultimo capace di grandi prospettive, ben superiori al suo
“infantilismo”, come “attestano - secondo il preciso apprezzamento critico di Lenin stesso - tanto il partito
degli spartachisti quanto l’ala sinistra proletaria che conducono una lotta inflessibile contro
l’opportunismo; l’errore del dottrinarismo di sinistra nel comunismo è mille volte meno pericoloso e meno
importante dell’errore del dottrinarismo di destra, cioè del socialsciovinismo”. Inoltre tuttavia, ma per
ragioni del tutto opposte, sarà bene scavare le radici del cosiddetto “socialismo cristiano”, per rafforzare le
considerazioni critiche e la lotta contro di esso, a cagione di tutte le sue innegabili ambiguità e incoerenze
fondamentali, che sono purtroppo capaci, almeno in Italia, di una grande presa di massa. Qui ci si limita a
brevissimi cenni.
[gf.p.]
1. “Di fronte a questo socialismo chiassoso, parolaio e mentitore, che viene sfruttato dagli ambiziosi di
ogni risma, che diverte alcuni commedianti, e che i decadenti ammirano, sorge il "sindacalismo
rivoluzionario" che si sforza, al contrario, di non lasciare niente all’indeterminato. Invece di attenuare le
opposizioni, bisognerà, secondo l’orientamento sindacalistico, farle spiccare; i movimenti delle masse
rivoluzionarie si rappresenteranno in modo che l’anima dei ribelli ne riceva un’impressione indelebile. Il
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linguaggio non potrebbe bastare: bisogna fare appello a un insieme di immagini, capaci di evocare in blocco
e con la sola intuizione, prima di ogni analisi riflessa, la massa dei sentimenti. Io proponevo di chiamare miti
le costruzioni la cui conoscenza presenta tanta importanza per lo storico: lo sciopero generale dei sindacalisti
e la rivoluzione catastrofica sono dei miti. Comprendo che questo "mito" dello sciopero generale urta molte
persone sagge a causa del suo carattere di infinità; finché il socialismo resta una dottrina interamente esposta
a parole, è molto facile farlo deviare, ma questa trasformazione è manifestamente impossibile quando si
introduce il "mito dello sciopero generale", che comporta una rivoluzione assoluta. I "sindacalisti" risolvono
perfettamente il problema, concentrando tutto il socialismo nel dramma dello sciopero generale. Lo sciopero
generale è per l’appunto il mito in cui viene a compendiarsi il socialismo nella sua interezza; un organismo
d’immagini capaci di evocare, con la forza dell’istinto, tutti i sentimenti che corrispondono alle diverse
manifestazioni della guerra, impegnata dal socialismo, contro la società moderna. Si può indefinitamente
parlare di rivolta senza mai provocare alcun movimento rivoluzionario, finché non vi sono dei miti accettati
dalle masse; è ciò che dà una sì grande importanza al mito dello sciopero generale, ed è ciò che lo rende sì
odioso ai socialisti che hanno paura di una rivoluzione. I nostri miti attuali conducono gli uomini a prepararsi
a un combattimento per distruggere ciò che esiste. Un mito non potrebbe essere confutato perché è complessivamente identico alle convinzioni di un gruppo, è l’espressione di queste convinzioni in linguaggio di
movimento. Il mito dello sciopero generale è divenuto popolare e si è solidamente stabilito nei cervelli; noi
abbiamo sulla violenza delle idee che Marx non si sarebbe potuto facilmente formare; possiamo dunque
completare la sua dottrina, invece di commentare i suoi testi come fecero per così lungo tempo i suoi
sciagurati discepoli” [Georges Sorel, Considerazioni sulla violenza, 1905].
“Si sarebbe potuto pensare, alcuni anni or sono, che i tempi del marxismo erano passati, e che esso
doveva prendere posto, come molte altre dottrine filosofiche, nella necropoli degli dèi morti; solo
un’accidente storico poteva rendergli la vita. Diverse circostanze condussero alcuni uomini, che avevano
visto da vicino i procedimenti dei politicanti, a tentare uno sforzo in questo senso; è estremamente notevole
che essi non conoscessero il marxismo se non in modo molto superficiale. Uno dei protagonisti del
"sindacalismo rivoluzionario" e antipoliticante fu Fernand Pelloutier. Egli vedeva nelle Borse del lavoro
l’organizzazione più completa delle tendenze rivoluzionarie del proletariato; egli invitava tutti coloro che
non volevano irreggimentarsi nel "partito". Si era fino allora rivendicata per il marxismo l’intelligenza della
preparazione rivoluzionaria del proletariato e si notava che i "dottori del marxismo" erano disorientati
dinnanzi a un’organizzazione concepita secondo il principio della lotta di classe intesa in senso stretto. Per
trarsi d’imbarazzo, questi dottori denunciavano con indignazione un ritorno offensivo dell’anarchismo,
perché molti anarchici erano entrati nei sindacati e nelle Borse del lavoro. Le parole importano poco a chi
vuole andare in fondo alle cose; la nuova scuola non pretendeva di formare un nuovo partito; purgò in tal
modo il marxismo tradizionale e non volle conservare se non quello che era, a suo modo di vedere, il
nocciolo della dottrina: sono le parti simboliche, già considerate (dai critici) di dubbio valore che
rappresentano, al contrario, il valore definitivo dell’opera.
La catastrofe si trova corrispondere perfettamente allo sciopero generale che per i "sindacalisti
rivoluzionari" rappresenta l’avvento del mondo futuro. Non è forse lontano il momento in cui non si troverà
miglior mezzo dello sciopero generale per definire il socialismo. Il tempo delle rivoluzioni dei politicanti è
finito; il proletariato rifiuta che si formino nuove gerarchie. I partigiani dello sciopero generale intendono
fare scomparire l’eloquenza dei tribuni, il maneggio dell’opinione pubblica, le combinazioni dei partiti
politici. Lo sciopero generale non è nato da profonde riflessioni sulla filosofia della storia: è nato dalla
pratica. Le associazioni di idee sono qui talmente semplici che basta indicarle agli operai in sciopero per fare
di loro dei socialisti. Non bisogna sperare che il movimento rivoluzionario possa mai seguire una direzione
convenientemente determinata in anticipo, che possa essere condotta secondo un piano sapiente, che possa
essere studiato scientificamente se non nel suo presente. Perché il proletariato non potrebbe seguire la stessa
via (della borghesia) e andare avanti senza imporsi alcun piano ideale? Tutto è imprevedibile - come dice
Bergson. Bisogna guardarsi dal dare formule diverse da quelle "mitiche".
Non siamo in presenza di fenomeni appartenenti al genere classico. I princìpi qui mancano
completamente; talvolta bisogna perfino guardarsi dall’usare un troppo grande rigore di linguaggio, perché
ciò sarebbe in contraddizione col carattere fluente della realtà, sicché il linguaggio ingannerebbe. Coloro che
si piccano di scienze sociali e di filosofia storica si domandano, con un’inquietudine talvolta comica, dove
porterà tale barbarie. Le teorie, nate dalla riflessione borghese, elaborate in una società pervenuta da tempo ai
gradi più elevati dell’intellettualismo, nascono già vecchie e decrepite. Uomini ardenti, animati da un
sentimento prodigiosamente forte di libertà, tanto ricchi di devozione pel proletariato quanto poveri di
formule scolastiche, traendo dalla pratica degli scioperi una concezione molto chiara della lotta di classe,
lanciavano il socialismo sulla via nuova che esso oggi comincia a percorrere. "Rivoltosi di tutte le ore, uomini veramente senza dio senza padrone e senza patria, nemici irriconciliabili di ogni dispotismo, morale o
materiale, individuale o collettivo, cioè delle leggi e delle dittature (compresa quella del proletariato) e
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amanti appassionati della cultura di se stessi" (Pelloutier, 1900)” [Georges Sorel, La decomposizione del
marxismo, 1907].
2. “Molti sociologi sono andati in cerca delle fonti del pensiero politico di Mussolini, come di tanto in
tanto un qualche esploratore se ne parte alla ricerca delle sorgenti del Nilo. Al padre di Mussolini, che prima
era un anarchico attivo seguace di Bakhunin e poi un attivo socialista della prima ora, Gaudens Megaro
[Mussolini dal mito alla realtà, Iei, Milano 1947] ha dedicato uno dei capitoli più interessanti del suo libro.
Tra gli scritti del padre e quelli del figlio - naturalmente del periodo in cui era ancora un "socialista
estremista" - c’era una sorprendente continuità. "Quegli apologisti e anti-apologisti - scrive assai a proposito
Megaro - che si sono indugiati a tratteggiare la paternità intellettuale di Benito Mussolini, prima di
sballottarla tra Nietzsche, Pareto, Sorel e vari altri pensatori, avrebbero fatto bene a ponderare l’influenza
esercitata su di lui dal suo vero padre". É assurdo far risalire a Sorel le idee di Mussolini sulla necessità della
violenza; Mussolini era un figlio rivoluzionario di quella Romagna "da tempo così famosa per la violenza
delle passioni politiche" e "focolaio e insieme campo di battaglia di dottrine radicali estremiste, e roccaforte
di giacobinismo, carbonarismo, insurrezionalismo e repubblicanesimo mazziniano, anarchismo e socialismo
rivoluzionario". Quando Sorel si distaccò dal movimento "sindacalista rivoluzionario", per unirsi ai clericorealisti della Action française - anticipando un cambiamento che Mussolini doveva compiere quattordici
anni dopo - Mussolini gli scagliò contro un torrente di insulti. Megaro inoltre riduce alle sue giuste
proporzioni, cioè a nulla, l’influenza che Pareto avrebbe avuto su Mussolini, (pur) se Mussolini abbia mai
frequentato le lezioni di Pareto all’università di Losanna. Gli bastava la dottrina della "minoranza
organizzata" che mediante un colpo di mano rovescia la borghesia, (che) risaliva tra i socialisti almeno a
Blanqui. Quando nacque Mussolini, la tradizione cospiratrice era ancora viva in Romagna, e coincideva
perfettamente con le dottrine di Blanqui. Durante la guerra italo-turca del 1911-12, come "socialista
estremista" faceva propaganda antimilitarista e a favore del sabotaggio (e) invitò il "proletariato" italiano a
fare uno sciopero generale: "Noi aspettiamo fiduciosi gli eventi. Quasi sempre la guerra prelude alla
rivoluzione ... La nuova mentalità rivoluzionaria va scrostando e spezzando il pacifismo riformista e calcolatore ... Noi siamo stati i primi a familiarizzare gli operai coll’arma del sabotaggio" [dal settimanale Lotta
di classe, pubblicato da Mussolini a Forlì]”. [Gaetano Salvemini, Scritti sul fascismo, Feltrinelli, Milano
1961].
“(Il programma di Sansepolcro), rivoluzionario perché antidogmatico e antidemagogico: noi poniamo la
valorizzazione della guerra rivoluzionaria al di sopra di tutto e di tutti. Gli altri problemi: burocratici,
amministrativi, giuridici, scolastici, coloniali, ecc., li tracceremo quando avremo creato la classe dirigente.
Per questo noi vogliamo, per il problema politico: a. suffragio universale a scrutinio di lista regionale con
rappresentanza proporzionale, voto ed eleggibilità per le donne; b. minimo di età per gli elettori abbassato ai
18 anni; c. abolizione del senato; d. convocazione di un’assemblea costituente ...; e. formazione di consigli
nazionali tecnici del lavoro, dell’industria, dei trasporti, dell’igiene sociale, delle comunicazioni, ecc., eletti
dalle collettività professionali e di mestiere... Per il problema sociale noi vogliamo: a. sollecita
promulgazione di una legge dello stato che sancisca per tutti i lavoratori la giornata legale di otto ore di
lavoro; b. minimi di paga; c. partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori al funzionamento tecnico
dell’industria; d. affidamento alle stesse organizzazioni proletarie (che ne siano degne moralmente e
tecnicamente) della gestione di industrie e servizi pubblici; e. modificazione della legge di assicurazione
sull’invalidità e vecchiaia... Per il problema finanziario noi vogliamo: a. una forte imposta straordinaria sul
capitale, a carattere progressivo, che abbia la forma di vera espropriazione parziale di tutte le ricchezze; b.
sequestro di tutti i beni delle congregazioni religiose ...; c. revisione di tutti i contratti di forniture di guerra e
sequestro dell’85% dei profitti di guerra” [Milano, 1919].
3. “Durante la guerra, nel maggio 1918, i "sindacalisti rivoluzionari", repubblicani e anarchici, avevano
fondato la Uil, il cui leader era Edmondo Rossoni, che aveva come programma "la guerra contro il sistema
capitalistico e contro tutte le istituzioni che sostenevano tale sistema" [L.R. Franck, L’économie corporative
fasciste en doctrine et en fait, Paris 1934]; come Mussolini, Rossoni prima della guerra era stato un “sindacalista rivoluzionario” di estrema sinistra, e in America aveva fatto parte degli Iww. L’11 giugno 1911, gli
italiani di sentimenti rivoluzionari organizzarono una (controdimostrazione) al monumento di Garibaldi a
New York. L’oratore che parlò al pubblico non era altri che Rossoni. Leggiamo nel Proletario [New York,
12 giugno 1911]: "Rossoni flagella tutta l’immonda ciurma dell’affarismo coloniale, dei fraudolenti, degli
sfruttatori, dei falsari, degli adulteratori che han bisogno del mantello del patriottismo per nascondere la
refurtiva ... dopo sputa a piena bocca sul tricolore del re e ... propone che ciascuno dei presenti passi in
pellegrinaggio davanti alla corona maramalda e la decori con un coscienzioso sputo, il che tutti fanno
applaudendo". La tattica di Rossoni era di essere più esigente dei socialisti, sperando in tal modo di
conquistare le masse lavoratrici al suo movimento ultra-rivoluzionario-nazionalista. Nel novembre 1918, la
Fiom, condotta dai socialisti, aveva raggiunto un accordo con i datori di lavoro; Rossoni, che era a capo di un
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piccolo gruppo di lavoratori della stessa industria, respinse l’accordo socialista, chiedendo le 44 ore
settimanali, il minimo di paga e il riposo nel pomeriggio del sabato, bollando i sindacalisti socialisti che
avevano accettato le 48 ore settimanali di traditori del proletariato. Mussolini appoggiava Rossoni con tutto il
cuore. (Nel febbraio 1921) ovunque si manifestava la pressione fascista, le organizzazioni operaie crollavano
come castelli di carte. Contemporaneamente si venivano creando nuovi “sindacati fascisti” a cui era dato il
nome di "sindacati economici": il loro principale organizzatore era Edmondo Rossoni”. [Gaetano Salvemini,
Scritti sul fascismo, Feltrinelli, Milano 1961].
“Il partito nazionalista era stato formato nel 1910 da un gruppo di scrittori e di uomini politici provenienti
dalla piccola borghesia intellettuale: Luigi Federzoni, Alfredo Rocco, Enrico Corradini, Roberto Forges
Davanzati, Francesco Coppola, Maurizio Maraviglia, Paolo Orano, tutti destinati a diventare alti papaveri del
regime fascista. Mentre Corradini aveva iniziato la sua carriera nel 1896 come un conservatore e un imperialista assoluto, i più degli altri avevano fatto il loro ingresso nella vita pubblica un po’ più tardi, tra il
1900 e il 1905, come seguaci del "sindacalista rivoluzionario" francese Georges Sorel: - il proletariato si
deve organizzare nei sindacati al di fuori della politica e del meccanismo amministrativo creato dalla
borghesia; i proletari si devono barricare nelle loro organizzazioni come in fortilizi dai quali sferrare la loro
guerra di classe; i sindacati devono essere i pilastri della nuova società "sindacalista" in opposizione alla
vecchia struttura democratica e parlamentare, in modo da essere in grado di liberarsi di essa il giorno della
rivoluzione sociale e mettere in opera la dittatura del proletariato; il proletariato si deve emancipare dalle
illusioni elettorali, dalla tattica evoluzionista e legalitaria dei leaders social-riformisti. Nei sindacati e nel
partito socialista non si prestò molta attenzione al loro vangelo, ed essi si stancarono subito di predicare ai
sordi, e dal sindacalismo passarono al nazionalismo, seguendo anche in questo l’esempio del loro maestro
Georges Sorel. Quando dall’estrema sinistra rivoluzionaria si volsero all’estrema destra conservatrice, non
dovettero far altro che attaccare la democrazia dalla destra con le stesse armi che avevano imparato a usare
quando l’attaccavano da sinistra” [ivi].
4. “Nella presente questione (sociale), l’errore maggiore è questo: supporre una classe sociale nemica
naturalmente all’altra, quasi che la natura abbia fatto i ricchi e i proletari per battagliare fra loro con duello
implacabile. Invece è verissimo che, come nel corpo umano le varie membra si accordano insieme e formano
quel tutto armonico che si chiama simmetria, così natura volle che nella società si armonizzassero tra loro
quelle due classi, e ne risultasse l’equilibrio. L’una ha bisogno assoluto dell’altra. La concordia fa la bellezza
e l’ordine delle cose, mentre un perpetuo conflitto non può dare che confusione e barbarie. Gli scioperi non
recano danno ai padroni solamente e agli operai medesimi, ma al commercio e ai comuni interessi, e per le
violenze e i tumulti, a cui di ordinario dànno occasione, mettono spesso a rischio la pubblica tranquillità. A
dirimere la questione operaia possono contribuir molto i capitalisti e gli operai medesimi, con istituzioni
ordinate a porgere opportuni soccorsi ai bisognosi e ad avvicinare e unire le due classi tra loro: tali sono le
società di mutuo soccorso, molteplici assicurazioni private, i patronati. Tengono però il primo posto le
corporazioni di arti e mestieri che nel loro complesso contengono quasi tutte le altre istituzioni. Evidentissimi furono presso i nostri antenati i vantaggi di tali corporazioni; i progressi della cultura, le nuove abitudini e
i cresciuti bisogni della vita esigono che queste corporazioni si adattino alle condizioni attuali. Vediamo con
piacere formarsi ovunque associazioni di questo genere, sia di soli operai, sia miste di operai e padroni, ed è
desiderabile che crescano di numero e di operosità"” [Leone XIII, Enciclica rerum novarum, 1891].
“La legge comune del lavoro, ossia di un’attività utile e meritoria, dev’essere quella che appresti
colleganza e stabilità di rapporti fra le classi oggidì scisse e fra loro in conflitto. Nella proprietà industriale e
nelle sue imprese urge ricongiungere direttamente il capitalista sovventore all’imprenditore industriale, e poi
l’imprenditore agli operai. E pertanto: a. trasformare il capitalista che presta all’industriale in un socio
d’industria; b. ammesso primamente il "salario giusto", cioè corrispondente al prodotto del lavoro, concedere
all’operaio una parte della rimunerazione sotto la forma della partecipazione agli utili; c. elevare l’operaio
stesso alla compartecipazione al capitale dell’impresa, mediante l’impiego dei risparmi in azioni nominative
dell’impresa medesima. Questo programma concreto (è) un’opera di giustizia e poi di carità sociale; ma la
guarentigia più solida (è) nella ricostituzione di unioni professionali - o corporazioni - che non hanno uno
scopo economico solamente, ma mirano nel loro risultato alla composizione organica della società”
[Giuseppe Toniolo, 1894].
“Mentre la critica socialista si rivolgeva contro la sostanza stessa dell’ordinamento sociale presente e
contro il capitalismo, i cattolici sociali appuntarono invece i loro sforzi contro il liberalismo; e invece di
colpire l’organizzazione economica presente alle sue radici, condannarono mali e difetti transitori, come la
disorganizzazione delle classi sociali, il perturbamento della vita pubblica, l’utilitarismo dominante, l’apatia
dello stato dinnanzi ai mali dei deboli. Alla tesi socialista dell’ingiustizia radicale della proprietà e del
sistema vigente, fu opposta la legittimità della proprietà, delle differenze di classi e di uffici, del potere
politico, salvo il combattere gli abusi di tali istituti. Ed è facile vedere i vantaggi sociali di questi concetti, i
quali tolgono alla ricchezza e agli alti uffici sociali, investiti così di un carattere etico che ne consacra i valori
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e l’utilità collettiva, l’aspetto di gretto individualismo, e facilitano la pace sociale. Questo modo di intendere
la questione sociale come questione morale (riconduce) la pratica dell’intervento dello stato, nelle questioni
di classe e dell’ampliamento continuo dei compiti dei comuni e delle province, secondo le esigenze del bene
comune” [Romolo Murri, 1903].
Conviene, per finire, rispondere a questa sommaria documentazione rammentando due osservazioni
marxiste: la prima di Engels e Marx, la seconda di Lenin. Già sul Manifesto erano descritte con toni
variopinti le varie scuole di preteso socialismo - reazionario e piccolo borghese, conservatore e borghese, o
critico utopistico. E proprio per le considerazioni qui sopra esposte da ultime, a proposito della confluenza
devastante tra fascismo “rivoluzionario”, agrari e chiesa cattolica, si ricordi l’osservazione engelsmarxiana
per cui “come il prete andò sempre d’accordo coi feudali, così il socialismo clericale va d’accordo col
socialismo feudale”, rappresentato da coloro i quali “nella vita di tutti i giorni si adattano, malgrado il loro
gonfio frasario, a cogliere le mele d’oro che sono cadute dall’albero dell’industria e a barattare fedeltà,
amore e onore, con lana, barbabietola e acquavite. Nulla di più facile che dare all’ascetismo cristiano una
vernice socialista. Il socialismo sacro cristiano è soltanto l’acquasanta con la quale il prete benedice il
dispetto degli aristocratici”.
Il punto d’incontro con la reazionarietà del socialismo piccolo borghese si trova nel fatto che anche quest’ultimo “vuole ristabilire i vecchi mezzi di produzione e di scambio e con esso i vecchi rapporti di proprietà e la vecchia società, oppure vuole per forza imprigionare di nuovo i moderni mezzi di produzione e di
scambio nel quadro dei vecchi rapporti di proprietà che essi hanno spezzato e che non potevano non
spezzare. In entrambi i casi esso è a un tempo reazionario e utopistico. Le corporazioni nella manifattura e
l’economia patriarcale nell’agricoltura sono le sue ultime parole. Quando i testardi fatti storici ebbero
cacciato ogni ebbrezza dell’illusione, questa forma di socialismo degenerò in un miserabile piagnisteo”.
D’altro canto, al preteso “vero” socialismo - che “pigliava così solennemente sul serio i suoi goffi esercizi
scolastici strombazzandoli all’uso dei saltimbanchi” - “si offrì l’auspicata occasione di contrapporre al
movimento politico le rivendicazioni socialiste, di lanciare i tradizionali anatemi contro il liberalismo,
contro lo stato rappresentativo, contro la concorrenza borghese, la libertà di stampa borghese, il diritto
borghese, la libertà e l’uguaglianza borghesi, e di predicare alle masse come esse non avessero niente da
guadagnare da questo movimento borghese, ma piuttosto tutto da perdere”. Questo “socialismo, ampolloso
rappresentante della piccola borghesia si diffuse come un’epidemia”.
Insieme a loro, “una parte della borghesia desidera portare rimedio ai mali della società per assicurare
l’esistenza della società borghese. I borghesi socialisti vogliono le condizioni di vita della società moderna
senza le lotte e i pericoli che necessariamente ne risultano. Vogliono la società attuale senza gli elementi che
la rivoluzionano e la dissolvono. Vogliono la borghesia senza il proletariato. Il socialismo borghese invita il
proletariato soltanto a restare nella società presente, ma a rinunciare all’odiosa rappresentazione che si fa
di essa. Questo socialismo borghese raggiunge la sua più esatta espressione quando diventa semplice figura
retorica (e) consiste nel sostenere che i borghesi sono borghesi nell’interesse della classe operaia”. Del
resto, le manifestazioni primitive e spontanee di lotta “dovevano di necessità fallire, sia per il difetto di
sviluppo del proletariato, sia per la mancanza delle condizioni materiali della sua emancipazione. La
letteratura rivoluzionaria che accompagnò i primi moti del proletariato è, per il suo contenuto,
necessariamente reazionaria. Essa insegna un ascetismo universale e una rozza tendenza a tutto eguagliare.
La storia universale dell’avvenire si risolve, per gli inventori dei sistemi socialisti e comunisti, nella
propaganda e nell’esecuzione pratica dei loro piani sociali. Al posto dell’azione sociale deve subentrare la
loro azione inventiva personale; al posto delle condizioni storiche dell’emancipazione, condizioni
fantastiche; al posto del graduale organizzarsi del proletariato come classe, un’organizzazione della società
escogitata di sana pianta. Il proletariato esiste per loro soltanto sotto l’aspetto di classe che soffre più di
tutte. A poco a poco essi cadono nella categoria dei socialisti reazionari, e si distinguono per la fede fantastica e superstiziosa nella virtù miracolosa della loro scienza sociale”.
La seconda risposta potrà essere quella, più problematica perché ben diversa era la portata non di rado
realmente rivoluzionaria degli avversari, rivolta da Lenin contro l’estremismo, malattia infantile del
comunismo; qui interessa solo mettere in guardia contro le drammatiche involuzioni cui esso ha assai
spesso portato. “Il piccolo borghese inferocito per gli orrori del capitalismo è un fenomeno sociale
caratteristico, come l’anarchismo, di tutti i paesi capitalistici. L’instabilità di questo rivoluzionarismo, la
sua sterilità, la sua proprietà di trasformarsi rapidamente in docilità, apatia, fantasticheria e perfino in folle
passione per questa o quella corrente borghese di moda, tutto questo è universalmente noto. L’anarchismo è
stato non di rado una specie di castigo per i peccati opportunistici del movimento operaio: le due storture si
integravano a vicenda”. La necessità di riprendere “la lotta contro il partito del rivoluzionarismo piccolo
borghese, cioè il partito dei socialisti rivoluzionari” verteva anzitutto sul fatto che “questo partito, che
negava il marxismo, si ostinava a non voler capire (ma forse sarebbe più esatto dire che non poteva capire)
la necessità di valutare con rigorosa obiettività le forze di classe e i loro rapporti reciproci in ogni azione
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politica, (e) ravvisava il suo particolare rivoluzionarismo o sinistrismo nell’accettazione del terrorismo
individuale, negli attentati”. In questo senso, “tutte le chiacchiere sul tema, dall’alto o dal basso, dittatura
dei capi o dittatura delle masse, ecc., non possono non sembrare ridicole e puerili assurdità”.
Il “lungo periodo di anni” che il comunismo richiede per arrivare alla sua mèta è tale per cui “tentare
oggi di anticipare praticamente questo futuro risultato del comunismo pienamente sviluppato, pienamente
consolidato, pienamente dispiegato e maturo, è come voler insegnare la matematica superiore a un bambino
di quattro anni. Possiamo e dobbiamo cominciare a costruire il socialismo con il materiale umano che il
capitalismo ci ha lasciato in eredità. La cosa è molto difficile, ma ogni altro modo di affrontare il problema
è così poco serio che non vale la pena di parlarne”. Che “i sindacati hanno cominciato a rivelare
inevitabilmente alcuni tratti reazionari, una certa angustia corporativa, una certa tendenza all’apoliticismo,
una certa fossilizzazione, ecc.” non sorprende: “è cosa molto più difficile, e molto più preziosa, saper essere
rivoluzionari quando non esistono ancora le condizioni per una lotta diretta, aperta, realmente di massa,
realmente rivoluzionaria, in un ambiente non rivoluzionario”. Una tale situazione rimanda a quanto diceva
Engels a proposito di quei comunisti che vogliono “saltare le stazioni intermedie” e che credono che “se il
potere verrà a trovarsi nelle loro mani, il giorno dopo sarà instaurato il comunismo. Che puerile
ingenuità!”. Costoro sono quelli cui Lenin si rivolge: “vi ritenete terribilmente rivoluzionari, ma in realtà vi
siete spaventati per le difficoltà relativamente modeste di lotta contro le influenze borghesi nelle file del
movimento operaio. Queste sono difficoltà veramente puerili di fronte ai problemi assolutamente dello
stesso genere che il proletariato deve inevitabilmente risolvere per vincere durante la rivoluzione e dopo
aver conquistato il potere politico. Con il potere un numero molto più alto di intellettuali borghesi si intrufolerà nel vostro e nel nostro partito; questi stessi problemi risorgono all’interno”.
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