INTERVISTA A JUDITH MALINA DEL LIVING THEATRE
di Maria Dolores Pesce
Judith, nel settembre del 1994, in occasione del trentesimo
compleanno dell’Odin Teatret, sei stata invitata a Holstebro
quale figura tra le più importanti del teatro del secondo 900,
insieme a Jerzy Grotowski, Kazuo Ohno, Sanjukta Panigrahi.
Questo è stato l’ultimo, in ordine di tempo, segno di una vita
dedicata al teatro. Mi vuoi raccontare come hai iniziato e,
soprattutto, quali sono stati i tuoi maestri ?
Il mio primo maestro, quello con cui in vero ho iniziato, mi ha iniziato
al teatro, è stato Piscator 1] . Ho lavorato con lui, nella sua scuola
negli anni 45/47, e dopo questa ho collaborato in varie attività
drammaturgiche. Adesso sto scrivendo un libro sulla sua vita. Lui era,
insieme a Bertolt Brecth, l’inventore del teatro politico moderno. Io
ho appreso e ho preso molto sul serio le sue idee e le sue lezioni e
spero di essere tra quelli che seguono le strade che lui ha aperto.
Nella tua biografia racconti di avere incontrato Julian Beck a
16 o 17 anni. Cosa faceva Julian all’epoca e quando si è
manifestata tra voi la volontà di fare teatro assieme ?
Julian Beck allora faceva pittura e, ancora adesso, i suoi quadri sono
considerati una delle principali voci dell’espressionismo astratto della
scuola di New York. Ha fatto mostre, in quel tempo, al Peggy
Guggenheim insieme a quelli che sono ora reputati i maestri di quel
movimento artistico.2]
Solo dopo anni le mie idee, le idee sue le idee su cos’è il teatro, cosa
è l’arte, a cosa possono entrambe servire, ci hanno condotto tra
lunghe discussioni al punto in cui abbiamo deciso di fare il nostro
teatro, perché l’altro teatro non serve per gli scopi che ci volevamo
porre. Il teatro di Broadway, pensavamo, è eminentemente una
operazione commerciale e non aveva in sé uno spirito, una forza di
sperimentazione. Uno sperimentalismo interessante c’era già nel
teatro di Provincetown 3] e in alcuni teatri regionali, ma noi eravamo
più legati ed ispirati dalla sperimentazione drammaturgica europea,
quella dell’immediato dopoguerra. In particolare ci sentivamo di
ispirarci al lavoro di Cocteau, di Camus, di Pirandello anche, insomma
alle sperimentazioni di forme che venivano tentate e sviluppate in
Europa. Abbiamo dunque cominciato da questo punto di vista, da un
teatro che fa ricerca intorno alla forma del teatro e, anche, del
soggetto. Un teatro tematico e di significazione.
Da subito, dunque, mi sembra abbiate pensato ad una forma di
teatro di avanguardia, sperimentale, di rottura della
tradizione. Durante questi primi anni quali testi drammaturgici
avete scelto, per quale ispirazione e, soprattutto, in quali
luoghi li avete rappresentati e perché, se c’è un perché, avete
scelto proprio quei luoghi ?
Per quanto riguarda i testi preferisco rimandarti alla lista che già hai
potuto leggere nei testi sul Living che esistono. Lo stesso per i luoghi,
certo non erano luoghi usuali del teatro, ma era sempre il teatro.
Erano piccoli luoghi che noi sceglievamo per fare il teatro e così
diventavano il teatro. Invece per quanto riguarda il perché, è una
domanda interessante cui voglio provare a rispondere anche se non
so se c’è una risposta. Eravamo così entusiasti, nei nostri 18 anni, di
fare “La macchina infernale” o di fare spettacoli di Paul Witmann, era
un desiderio così bruciante, non una discussione razionale. Dovevamo
trovare il modo e il luogo per realizzare quello spettacolo.
Proprio perché venute sulla spinta di un desiderio così
bruciante e necessario, credo che le
vostre scelte non siano state
consapevoli e motivate. Da cosa ?
casuali
ma
siano
state
La domanda non è, credo, posta correttamente perché forse ha un vizio di
razionalità. Noi non discutevamo per poi scegliere tra le diverse opportunità. Noi
eravamo costretti a fare quella scelta, la scelta di quel testo e di quel luogo,
costretti da motivazioni interiori ma anche esteriori quali il colore dei capelli di una
persona, dalla sua faccia, dalla posizione e dal movimento delle cose. Noi facciamo
quello che dobbiamo fare. Noi siamo costretti da certe idee e certi posti a fare
quello che facciamo, se non lo facciamo moriamo e muoiono le idee. E’ la vita che ci
indica la via e questo non è cambiato.
Siamo ad un punto importante per capire il vostro teatro e voi
stessi. La passione e la necessità che guida la vostra attività.
Affinché io e chi leggerà nei sia consapevole, vuoi
approfondire questo aspetto ?
Eravamo posseduti da certi testi e da certe idee. Attraverso quei testi particolari
potevamo esprimere in maniera adeguate le nostre idee fondamentali per il nostro
lavoro e questo non è cambiato, è così anche oggi. L’idea che è possibile creare una
società anarchica, pacifista, umanistica, vegetariana, femminista, è possibile perché
nella realtà non ci sono ostacoli effettivi, naturali, alla creazione di questa società.
Generalmente, invece, la gente ha il dubbio, ha interiorizzato il dubbio che questa
nuova società sia effettivamente irrealizzabile, e questo dubbio rappresenta il vero
ostacolo verso il cambiamento. L’ostacolo è il cinismo, il finto realismo che fa
pensare sia impossibile cambiare verso una società più giusta. E così ogni testo che
può aiutare a capire, mostrandolo, che questo mondo può in effetti essere, che
queste idee non sono utopistiche, che può dunque aprire nel pubblico e nella gente
la speranza che un cambiamento è possibile, anzi è necessario, questi testi ci fanno
bruciare. E questa la storia da cinquant’anni, è la storia di oggi, è la storia del
Living Theatre.
In America, durante quegli anni, avete avuto difficoltà, anche
gravi, con la Società che vi hanno portato anche in carcere e
che, alla fine, vi hanno indotto alla scelta dell’esilio . In quel
periodo quali artisti, se vi sono stati, vi hanno appoggiato ed
aiutato ?
Forse più di oggi l’ambiente degli artisti di New York era una comunità
e tutti, ricordo, condivisero e ci aiutarono. Danzatori, pittori, musicisti
si ritrovavano due, tre volte, la settimana tutti in una stanza per
vedere l’ultimo lavoro, l’ultima creazione, uno dell’altro. Per dire
Jackson Mac Low, John Cage, Pollock o Rocco Parilli e Paul Goodman
oppure attivisti come Dorothy Day 4] o tanti altri che non posso qui
elencare. Eravamo un gruppo numeroso di persone che hanno creato
una visione del futuro che è ancora valida, ma che è ancora nel
futuro, per cui, dunque, continuiamo a lottare.
Ho avuto l’impressione, studiando la documentazione
riguardante il vostro teatro che tu, oltre naturalmente a
recitare, ti sia occupata in particolare della regia mentre Julian
Beck ha curato in prevalenza la scenografia. Esisteva
veramente una strutturata divisione dei compiti o, nella realtà,
le cose erano più sfumate ? E dall’ensamble del Living, quale
contributo veniva a tutto questo ?
In effetti Julian, visto che era pittore, ha fatto molto per la scenografia ma ha dato
anche un grande contributo alle scelte di regia e nella selezione dei lavori e degli
indirizzi generali. Non erano così rigidamente strutturate le funzioni, ma sempre
abbiamo cercato di rendere collettiva la nostra creazione, attraverso il contributo
della creatività di tutti. Questo, ora che abbiamo una sede proprio qui dove ti trovi,
continua con più facilità e tranquillità. Continua qui la ricerca e la sperimentazione
per rispondere alle domande che dall’inizio ci siamo posti e continuiamo a porci :
“come possiamo creare un teatro veramente rivoluzionario ?, come possiamo fare
un teatro con un impatto sociale ? come possiamo creare un teatro in cui gli
spettatori abbiano veramente uno spazio creativo non solo di partecipazione ? come
possiamo creare un teatro in cui noi siamo non solo e sempre una finzione ma
possiamo anche essere noi stessi ? “ Tutti questi quesiti problematici che abbiamo
affrontato per cinquant’anni, continuiamo ad affrontarli ancora oggi per cercare di
vederli più approfonditamente.
Per esprimere queste idee, per approfondire questa ricerca e
ricercare la comunicazione migliore per i vostri obiettivi penso
abbiate utilizzato e voi stessi elaborato delle tecniche teatrali.
Me ne vuoi parlare ? Mi vuoi dire se e come si sono modificate
od evolute nel tempo ?
Ogni nostro spettacolo è pensato come comunicazione verso il
pubblico, la nostra visione è verso il pubblico. Quando abbiamo deciso
cosa vogliamo dire al pubblico, quale è la cosa più importante che
abbiamo da trasmettere, quali sono gli impegni che vogliamo
assumere, le idee che vogliamo esprimere, le proposizioni che
vogliamo rappresentare, allora noi cerchiamo oppure creiamo i testi e
le forme migliori per farlo. Allo stesso tempo, prima, proprio per
ottenere le modalità migliori della nostra espressione, elaboriamo
esercizi che ci insegnino a farlo nel modo più appropriato. Esercizi che
rispondano a questa esigenza, alla domanda “come possiamo
spiegarlo, come possiamo mostrare le nostre idee?”. Tutti i nostri
esercizi sono specificamente finalizzati a trovare l’occhio teatrale per
spiegare le idee che vogliamo esprimere.
Dunque il vostro è un lavoro di continua ricerca, di sperimentazione
legata alle diverse circostanze, con l’unico scopo di rappresentare
correttamente le idee che si vogliono esprimere. Se il fine di
liberazione è la continuità nella storia del vostro teatro, c’è stata, per
tornare alla domanda precedente, una evoluzione nel vostro operare
?
E’ difficile da spiegare “è sempre diverso perché è sempre diverso”,
non è la stessa cosa come sono diversi Edda Gabler e Max Ernst,
come sono diversi uno spettacolo del Living da un altro. Perché se,
come ovvio, abbiamo sempre qualcosa di comune, di nostro,
nell’operare, ogni spettacolo è sempre un’altra esperienza, una nuova
ricerca. Quando il nostro scopo è la ricerca del modo più appropriato
per esprimere, per far capire, l’oppressione culturale che c’è, che crea
mostri alla Frankenstein nelle nostre teste, nel nostro ambiente,
dobbiamo usare modalità diverse rispetto a quando vogliamo
esprimere l’opposizione di Antigone alla forza smisurata dello stato
militare facendo capire anche come può ogni individuo farlo. E’
sempre un’altra cosa, io non so dire, così semplicemente quale sia la
differenza nelle modalità tecniche tra l’una esperienza e l’altra. Forse
questa differenza c’è ma è una cosa accademica che in fondo non mi
interessa. Io faccio ciò che nel momento mi interessa, mi sembra
importante, e non dico mai questo si può storicamente inserire o
definire; no, dico cosa vuole esprimere quello che sto facendo, cosa
voglio dire ora e, in tutto ciò, non ha significato per me una domanda
su come si è evoluto, come si è modificato il mio modo di operare, io
vivo nel lavoro, nel significato del momento, che è già, di per se
stesso, inclusivo di tutto quello che è passato. Sono, credo, più
esistenziale che accademica.
Voi avete portato i vostri spettacoli nei luoghi più inusuali, le
strade, le fabbriche, gli ospedali psichiatrici, le favelas
brasiliane. Ovunque avete ritenuto di trovare un luogo da
sperimentare avete portato il vostro contributo, la vostra
parola. In particolare vorrei chiederti quale è stata
l’esperienza, il lavoro all’interno degli ospedali psichiatrici, sia
per te che per il vostro gruppo?
E’ stata una esperienza molto emozionante, molto importante per noi,
e forse abbiamo più imparato che insegnato. Abbiamo avuto un buon
rapporto con i cosiddetti “pazzi”, termine insultante e non
politicamente corretto perché anche noi siamo pazzi come loro, o loro
sono sani come noi, abbiamo e usiamo solo un linguaggio diverso. La
prima cosa che generalmente facciamo tra di noi, quando entriamo in
un ospedale psichiatrico, è di sperimentare quei comportamenti
estremi caratteristiche degli attori, comportamenti che sono pazzi
perché fuori dalla razionalità, perché espressione degli impulsi
immediati. Impulsi non pensati. Facciamo piccole azioni teatrali
insieme a loro, movimenti non “normali” ma pazzi in un senso
leggero, in un senso gioioso, accessibili ad ognuno di noi ma che in
ognuno di noi normali sono generalmente nascosti, cancellati come
tende ad essere soppresso ogni nostro impulso fisico spontaneo. E’
un problema che non hanno quelli che sono rinchiusi, che non
controllano i modi di espressione quando vogliono esprimere
interamente quello che sentono, che preme sulla loro coscienza,
perché essendo rinchiusi non trovano senso, non danno senso alle
loro azioni. Noi rompiamo questo tabù e cominciamo una
comunicazione in termini di azione teatrale, di suono, di attività, di
corpo, voce e tatto non tradizionale. E poi cominciamo a comunicare
con l’esterno portandoli fuori, con l’onore di qualche “guardiano”, e
poi, certamente, riportandoli all’interno dell’ospedale. Facciamo così
varie azioni teatrali con loro, generalmente con un buon spirito ma
sempre con una certa tristezza a causa della situazione, perché non
abbiamo saputo curare la nostra civiltà, non sappiamo dare un
qualche giusto benvenuto a coloro che sono usciti, per così dire, dalla
strada normale, quotidiana. Dobbiamo trovarlo ancora un modo di
accettare questa sofferenza, questa alienazione evitando di trattarla
esclusivamente con le diverse prigionie.
Certamente sai che in Italia sono stati chiusi gli Ospedali
Psichiatrici….
Sì, sì, in un certo senso abbiamo partecipato e siamo stati partecipi di
quel periodo e di quel movimento. Ma non tutta la società ha
partecipato a questo movimento e non ha saputo creare una forma
diversa di ospitalità per queste persone che hanno bisogno di un
particolare aiuto e di un certo ambiente. Ho visto anche molta
sofferenza in relazione a ciò. Sono d’accordo sul punto di chiudere
questi ospedali psichiatrici e che fosse una cosa da fare, ma era
anche necessario creare socialmente un nido di possibilità per quelli
che hanno bisogno di un nido, di un ambiente sociale in grado di
accoglierli. Hanno bisogno di vari posti, perché alcuni sono in grado di
vivere in famiglia, altri sono troppo turbolenti. Abbiamo bisogno di
trovare, è un nostro obbligo di trovare alternative. Anche se reinserirli
in questa Società è difficile se si considera che anche noi che siamo i
cosiddetti sani facciamo fatica a sopravvivere in una Società che ci
schiaccia. E’ difficile per chi ha tutte le sue forze non essere coinvolto
e travolto dalla rivalità, dalla concorrenza, non essere nauseato dalla
situazione complessiva. Siamo tutti schiacciati e possiamo
sopravvivere perché siamo forti, perché siamo artisti o perché
abbiamo avuto dei buoni genitori. Ma chi è rinchiuso ha perso le sue
forze e cerca di ritrovarle. Alcuni le ritrovano, ma altri non le
ritrovano mai più. Come possono dunque loro vivere in questa
Società in cui anche per i più forti è quasi impossibile. Dobbiamo
perciò fare qualcosa per dare ospitalità anche a loro nella nostra
Società. Sono necessari dunque molti meno pregiudizi riguardo ai loro
comportamenti. Il fare teatro in quei luoghi e con loro voleva
insegnare che la differenza è minore di quanto i pregiudizi lasciano
credere.
Ad esempio ho appena finito di recitare in una rappresentazione
tratta da un romanzo di Doris Lessing 5], non prodotta dal Living
Theatre, nella quale interpreto il ruolo di una barbona che incontra
una giornalista di moda, elegante, ricca e affermata. Nonostante le
apparenze emerge infatti che le distanze non sono così grandi perché,
alla fine, una ha bisogno dell’altra. Nella Società dunque il ricco ha
bisogno del povero.
Proprio con quanto mi hai detto, confermi la volontà, il
tentativo da parte vostra di cercare il coinvolgimento del
pubblico. In proposito, secondo te, che differenza c’è tra attori
in scena e pubblico ?
La differenza, semplice ma per questo feconda, è che noi attori siamo
preparati, studiamo, mentre il pubblico improvvisa, è spontaneo.
Come dicevo prima il lavoro dell’attore è preparato, perfezionato
attraverso mesi di training, esercizi con i quali cerca il modo migliore
di esprimere ciò che vuole comunicare, ma nell’incontro con il
pubblico questo lavoro si apre ad esiti sempre diversi. L’incontro con
il pubblico ci aiuta a creare, anzi a rendere lo spazio creativo, con
risultati spesso unici.
Dunque avete anche cambiato delle azioni sceniche dopo e a
causa dell’incontro con il pubblico ?
Sempre noi cambiamo, continuamente il nostro lavoro si evolve e si
modifica e cambia la sua struttura nella relazione con luoghi e
pubblico.
E adesso cosa state rappresentando con il Living Theatre ?
Stiamo portando in giro lo spettacolo “1460 – 1470 IL COMPLESSO
CAPITALE”, che ormai è in tournée dal 1994. Inoltre il Living è
impegnato in uno spettacolo di protesta contro la pena di morte,
intitolato “Noth in My Name”. A New York, per esempio, scende per
Time Square nei giorni in cui vengono eseguite condanne capitali.
In queste occasioni come vengono accolte dai Newyorchesi le
vostre performance ?
Oh, molto male, si arrabbiamo molto e ci insultano, gridandoci anche
molte oscenità. Però io sono sicura che, la sera, quando il
capofamiglia si riunisce con la moglie, il figlio e la figlia e racconta di
quegli stupidi del Living, forse suscita una reazione inattesa e
positiva, forse la figlia si alza e gli dice “aspetta, parliamone”, e così
anche lui comincia a ragionare. Questo è quello che in fondo
vogliamo.
Gli americani, infatti, vogliono la pena di morte perché hanno paura,
paura ad esempio del serial killer, e pensano che così lo stato li
difenda. Forse se cominceranno a pensare e a capire, cominceranno
anche ad avere meno paura. Voi italiani su questo avete capito prima,
siete stati più intelligenti, e avete da tempo abolito la pena capitale.
Nonostante queste e le difficoltà degli anni passati, come
riuscite a lavorare in America ?
In America lavoriamo grazie al lavoro che facciamo in Europa e, in
particolare in Italia, attraverso il quale ci finanziamo 6]. In America,
infatti, non ci sono finanziamenti per teatri come il nostro. Per
rappresentare dovremmo vendere i biglietti a prezzi molto alti e noi
non vogliamo, e neanche il nostro pubblico vuole e capirebbe. Là
continuiamo a lavorare per l’entourage che da anni ci segue e ci
conosce. In Italia invece abbiamo trovato spazi e possibilità maggiori,
e soprattutto più interesse. Qui a Rocchetta Ligure abbiamo potuto
aprire il nostro laboratorio, dove possiamo preparare i nostri lavori
per poi portarli in tournée in tutto il mondo.
Nel 1985 è scomparso Julian Beck. Cosa è cambiato da allora
per il Living Theatre e come avete proseguito il lavoro ?
Julian era un grande spirito e naturalmente ha lasciato un vuoto,
insomma ci manca molto. Da allora però abbiamo voluto e cercato di
portare, comunque, avanti i suoi, anzi i nostri ideali. Con Hanon
Reznicov, che è poi diventato mio marito, abbiamo proseguito. Lui si
è assunto con me il compito di proseguire il lavoro con il Gruppo,
senza di lui e senza sostituirlo.
Vorrei ora parlare delle tue più recenti performance. Hai
interpretato una parte nel Macbeth Remix di Sanguineti e
Liberovici. Stai conducendo o hai in mente altre collaborazioni
con Andrea Liberovici ?
Si, nella prima settimana di aprile 7] esordirà a Parigi un lavoro sul
Living Theatre ispirato alle musiche, in parte inedite, di Cage e
preparato da Andrea. Andrea ha raccolto, registrato e montato, su
quel filo rosso musicale, brani di quasi tutti gli spettacoli del Living.
Ne è risultato un lavoro molto interessante.
Con queste ultime parole, l’intervista si chiude materialmente, ma
solo materialmente, perché idealmente il dialogo con Judith e, tramite
lei, con il Living non ha conclusione, è un cammino intrapreso, aperto
sul futuro come aperto sul futuro, teso a rappresentare il futuro per
renderlo realizzabile è il teatro del Living.
Questo inatteso miscuglio di razionalità e spontaneità
testardamente Judith continua ad alimentare e a giustificare.
che,
La razionalità di identificare e avere chiaro un mondo tout court
giusto e la fede che attraverso la liberazione qui e ora delle forze
spontanee dello spirito, attraverso certamente esercizi e lavoro
creativo, può indicare la strada per rappresentarlo, mostrarlo
possibile ed esistente inizialmente nel teatro perché possa essere poi
realizzato anche nella Società e nella Storia.
Certo ho sentito in Judith Malina, nel corso del nostro incontro, una
forza interiore non comune. Durante gli oltre cinquant’anni di vita del
Living, è in effetti passata attraverso esperienze spesso molto difficili,
come carcere ed esilio. La sua convinzione è stata più forte.
Il teatro dell’utopia ha continuato a vivere e proprio per la
convinzione che quella utopia è più reale del mondo quale ce lo
rappresentiamo. Si doveva cercare in tutti i modi di svelare l’inganno
che ci circonda e rende ciechi, opprimendoci.
Così Judith, Julian ed il Living Theatre, sono passati attraverso alti e
bassi, ostacoli e successi, perché hanno cercato di essere presenti
laddove pensavano, sentivano di essere spesso necessari, nei modi e
con i gesti che sentivano ineludibili pena anche la morte (teatrale).
Nei tempi attuali può far sorridere, come può far sorridere l’idea di
un’arte al servizio di un idea e non di un portafogli, ma la coerenza di
un’opera di cinquant’anni, credo, non possa che affascinare.
Coerenza peraltro sostenuta dalla fiducia che il lavoro sotterraneo di
smascheramento del presente e di rappresentazione di un possibile
mondo giusto, prosegue al di là anche della consapevolezza dei
singoli e dovrà avere uno sbocco.
In effetti le ultime parole pronunciate da Judith nel corso del nostro
incontro sono state :
“Le cose adesso in America non vanno bene, loro hanno
bisogno del nostro teatro. Io vorrei lavorare sei mesi in Italia
e sei mesi in America. Sono convinta che le cose in futuro
cambieranno e voglio essere presente quando inizierà questo
cambiamento”
NOTE
1] Erwin Piscator, Ulma 1893-Baviera 1966, regista e teorico del teatro tedesco
considerato con Bertolt Brecht il fondatore del teatro politico.
2] I suoi lavori sono stati esposti alla Art of This Century Gallery dove nel 1945
aveva partecipato ad una importante mostra collettiva insieme a Jackson Pollock e
ad altri tra i più importanti artisti della Action Painting.
3] Teatro di Provincetown, dove negli anni 20 avevano lavorato Eugene O’Neill,
Robert Edmund Jones, James Ligth, Edna St.Vincent Millay.
4] Fondatrice del Catholic Worker, con lei fu incarcerata dopo una manifestazione
pacifista.
5] Maudie e Jane, prodotto dalla Società Teatrale Alfieri di Asti, diretto da Luciano
Nattino, che ha debuttato al festival di Santarcangelo l’8 luglio 1994, testo tratto da
“Il diario di Jane Somers” di Doris Lessing.
6] Per finanziare gli spettacoli ed il teatro della Terza Strada, che poi comunque ha
dovuto chiudere, Judith Malina ha accettato ruoli nei film : Dog Day Afternoon (Quel
pomeriggio di un giorno da cani, 1965) di Sidney Lumet, China Girl di Abel Ferrara,
Radio Days di Woody Allen, Enemies, a Love Story (Nemici, una storia d’amore,
1989) di Paul Mazursky, Awakeniengs (Risvegli, 1990) di Penny Marshall, The
Addams Family (La famiglia Addams, 1991) di Barry Sonnenfeld, Household Saints
(1993) di Nancy Savoca.
7] 64, concerto per attori in 64 movimenti, attori, canto e suoni fissi. Ha debuttato
a Parigi, alla sala Olivier Messiaen della maison de Radio France il 5 aprile 2000. Lo
spettacolo è tratto da un inedito do John Cage, un nastro che il compositore
americano aveva creato nel 1959 per uno spettacolo del Living Theatre dal titolo
“The Marrjng Maiden”.