INTRODUZIONE L'abitudine ci porta a identificare le comunità musulmane -le minoranze musulmane, perché di ciò si tratta- presenti in Europa come prodotto di un'immigrazione più o meno recente. Esse sono viste alla stregua di fattori estranei inseriti in società la cui legislazione e il cui assetto costituzionale e legislativo non era stato pensato per loro, e che di conseguenza deve essere modificato, dove necessario, tenendo conto della loro esistenza, dapprima, e di conseguenza delle loro esigenze e richieste. Si avverte sempre di più la necessità che ai principi costituzionali che in più o meno tutte le Costituzioni della seconda metà del novecento prevedono la tutela della libertà e del pluralismo religioso ora facciano seguito previsioni legislative che allarghino questo pluralismo e questa libertà anche all' islam. Queste nuove esigenze di normazione coprono ambiti vasti e diversi, dalla disciplina dei luoghi di culto a quella dell'igiene e della sicurezza in campo alimentare, dall'insegnamento della religione ai giorni di ferie distribuiti secondo diversi calendari e diverse festività religiose. A ciò si aggiungono le spinose questioni della tutela della condizione femminile e dell'utilizzo dei simboli religiosi in rapporto con il principio di laicità, variamente affermato negli stati di arrivo. Significative sezioni di questa popolazione musulmana, inizialmente di certo, non erano particolarmente interessate ad affermare le differenze religiose nello spazio pubblico, essendo più preoccupate riguardo ad altri ambiti (miglioramento economico, ritorno o, per molti, assimilazione). Come dire, comunità che fino a pochi anni fa non avevano tra i loro obiettivi primari il riconoscimento dell'identità religiosa, ora lo pongono con forza tra le richieste avanzate ai legislatori degli stati di domicilio1. Si crea in molti casi un conflitto, generato dal contatto di comunità provenienti da modelli istituzionali e normativi non basati sull'idea di società secolare, nuovi alla distinzione tra norma civile e norma religiosa, nuovi alla previsione che il fattore religioso nella vita di ciascun cittadino sia relegato nella maggioranza dei casi alla sfera del privato e non rivesta un ruolo determinante sul 1 G. NONNEMAN, T. NIBLOCK, B. SZAJKOWSKI (a cura di)“Muslim communities in the new Europe” Ithaca Press, Reading, 1996. 1 piano dell'ufficialità. I cittadini della umma2 si trovano a dover rispettare le norme degli stati che li ospitano prima dei precetti del Corano, e nonostante con essi confliggano. Gli stati di domicilio affrontano la novità del riconoscimento e della istituzionalizzazione di minoranze, caratterizzate dall'appartenenza ad una religione che come nessun'altra investe e regola ogni ambito della vita, privata e pubblica, dei propri fedeli, si inserisce in ambiti che nell'attuale assetto normativo e sociale europeo sono tendenzialmente di competenza del legislatore statale, e soprattutto prevede regole dotate di una tale forza coercitiva da scontrarsi inevitabilmente, sul piano giuridico oltre che nell'animo del fedele, con quelle dell'ordinamento statale. Allora, che fare? Francia, Belgio, Germania e Italia hanno optato per soluzioni differenti, basate su differenti concezioni del riconoscimento dei diritto delle minoranze e su diverse applicazioni dei principi di pluralismo religioso e di laicità, che verranno prese in considerazione esaminando distintamente le normative di ogni paese, dal dettato costituzionale alle norme ordinarie conseguenti. Tuttavia, le comunità musulmane presenti negli stati europei -e soprattutto in quelli che sono da poco entrati o che prossimamente entreranno a far parte dell'Unione- non sono solamente frutto dei flussi migratori intensificatisi negli ultimi decenni. Negli stati dell'Europa sud-orientale, infatti, sono da secoli presenti comunità di religione musulmana che si possono definire come “autoctone”, da tanto sono radicate nel tessuto sociale. Questo grazie a molteplici fattori: la vicinanza con l'Oriente, i rapporti commerciali e, soprattutto, la funzione svolta dalla secolare dominazione ottomana. Sotto l'impero dei sultani compatte enclaves di religione islamica si radicarono fortemente nel territorio europeo, soprattutto nell'area balcanica, divenendo nei secoli parte integrante della popolazione e favorendone la conversione. Il periodo ottomano fu caratterizzato, a partire da una certa epoca, da una particolare forma di convivenza tra le diverse e molteplici minoranze presenti sul territorio. I sultani infatti introdussero infatti l'istituto giuridico del millet, il quale consentiva in sostanza una completa autonomia religiosa e culturale alle diverse minoranze compresenti, garantendo inoltre alle comunità religiosamente caratterizzate un completo autogoverno interno. Come questa impostazione ha 2 Umma: la totalità dei fedeli musulmani, concepita come un'unica comunità. Vedi F. HASSAN, “The concept of state and law in Islam”, University Press of America, New York, 1981. 2 influito sull'assetto attuale? Come si collega alle attuali separazioni su base etnica e religiosa che, nella stragrande maggioranza dei casi, coincidono perfettamente? Ne sono un esempio la minoranza turca nella Grecia ortodossa e la popolazione albanese in Macedonia. Il millet è stato persino invocato come possibile soluzione ai conflitti etnici tra croati, serbi e bosniaci musulmani all'alba della guerra nei Balcani. Un elemento che contraddistingue la condizione delle comunità musulmane presenti negli stati dell'Europa sud-orientale è, senza dubbio, la questione dell'appartenenza su base etnica. La questione si declina in diversi modi. Innanzitutto, come già accennato in precedenza, l'elemento religioso e quello etnico molto spesso si fondono e si sovrappongono quando si cercano i parametri che determinano l'appartenenza ad una minoranza piuttosto che ad un'altra. Così la maggior parte dei musulmani macedoni sono di origine albanese e come albanesi vengono identificati, nonostante in Macedonia sia presente anche una minoranza musulmana di origine turca. I musulmani bulgari sono rom e turchi. Censimenti sulla popolazione della Bosnia Erzegovina risalenti al 1988 menzionano voci come “musulmani-etnicamente indeterminati” e “musulmani-in senso etnico”. La sovrapposizione si riflette nei diversi dettati costituzionali che riguardano le minoranze e le libertà loro riconosciute, si riflette nelle normative che riguardano il riconoscimento degli status, si riflette nel sistema partitico (come distinguere in questo caso tra partiti a base etnica e partiti a base religiosa?). In altri casi opera il meccanismo inverso: in alcuni casi una comunità viene identificata come “islamica” proprio per impedire che venga identificata come minoranza etnica: il fattore religioso viene utilizzato per “coprire” e neutralizzare la componente etnica. Ad esempio, questo sistema si applica alla minoranza turca in Grecia, etichettata come “musulmana”, senza tenere conto della presenza di gruppi etnici pure musulmani ma ben distinti come i Pomak e i Rom. Quando si parla di minoranze musulmane in Europa, dunque, la differenza fondamentale da tenere presente è quella tra comunità insediate nell'Europa occidentale e comunità dell'Europa sud-orientale: da questa distinzione fondamentale derivano anche, di conseguenza, diversi modelli di analisi e diversi parametri sulla base dei quali valutare le condizioni e lo status delle comunità 3 musulmane . L'elemento caratterizzante che accomuna le minoranze musulmane presenti nell'Europa occidentale deve essere individuato nel fatto che esse sono il risultato di fenomeni migratori, i quali si sono svolti seguendo diverse direttrici in diversi momenti storici, a partire dai più risalenti, che hanno riguardato la Francia e le sue antiche colonie, fino ad arrivare a situazioni verificatesi piuttosto recentemente, ad esempio in Italia, paese interessato da fenomeni migratori relativamente “giovani”. Per analizzare la situazione delle comunità musulmane in Francia, in Belgio, in Germania e in Italia, quindi, sarà opportuno basarsi sulle problematiche che maggiormente derivano dal “fattore immigrazione “, considerando soprattutto il rapporto tra l'appartenenza religiosa e le questioni della cittadinanza o, più in generale, dell'integrazione, attraverso alcune questioni che si pongono con una certa costanza. Un problema che si verifica spesso, nei rapporti istituzionali tra stato di domicilio e comunità musulmane, è quello della rappresentanza, o meglio degli interlocutori: il culto musulmano infatti non è organizzato secondo un'impostazione gerarchica o verticistica come, ad esempio, quella delle chiese cristiane e in particolar modo di quella cattolica. Il musulmano, infatti, non necessita di intermediari nel suo rapporto con il divino. Gli studiosi possono indicare quali sono le giuste interpretazioni della lettera del Corano e gli imam possono guidare la preghiera del venerdì, ma è l'individuo che cerca e ottiene il contatto con Allah. Gli imam a capo delle diverse comunità locali, dunque, hanno la sola funzione di guide spirituali e non ricoprono ufficialmente un vero e proprio ruolo istituzionale o gerarchico, né nei confronti degli altri fedeli né nei rapporti esterni. Certo, negli stati di provenienza l'assenza di figure di mediazione tra la divinità ed il fedele non impedisce che emergano “figure eccezionali di intercessori”3 , quali i maestri (sheikh) delle confraternite spirituali sufi, o i Santi Imam che l'islam sciita eleva al rango di veri e propri sacerdoti ed 3 F. FREGOSI, “Islam, una religione senza clero? Una riflessione comparata”, in “Daimon. Annuario di diritto comparato delle religioni”, 2003, n.3, pp.80 ss. La posizione dell'autore sembra piuttosto discutibile nella parte in cui definisce l' affermazione della struttura non verticistica della religione musulmana uno dei “luoghi comuni e (de)gli stereotipi che circolano a proposito dell'islam [...]utilizzato nelle società occidentali per dimostrare la difficoltà d'inserimento dell'islam in società e regimi giuridici secolarizzati o laici”, quando proprio l'assenza di interlocutori che rappresentino le intere comunità costituisce uno dei maggiori ostacoli alla comunicazione costruttiva tra minoranze ed istituzioni. 4 intercessori presso Dio. Anche nell'islam sunnita, tradizionalmente privo di figure sacerdotali-guida, particolare importanza assumono gli appartenenti alla categoria dei Dottori della legge e dei giudici competenti per la giurisprudenza sciaraitica.4 Questo però vale nei paesi di provenienza. All'arrivo negli stati di domicilio, la maggior parte delle gerarchie salta, per lo meno nei rapporti con le istituzioni statali. Inoltre, il fatto che nelle comunità islamiche immigrate si concentrino persone o gruppi immigrati da diverse aree geografiche in cui é praticata la religione musulmana ha il suo peso: diverse provenienze significano infatti diversi islam. L'islam sunnita differisce in diversi aspetti fondamentali dall'islam sciita. L'islam praticato negli stati del Maghreb è diverso da quello che si è sviluppato nell'area sahariana o, ancora, da quello dei paesi sauditi, a causa delle molteplici scuole di interpretazione affermatesi e delle diverse evoluzioni avvenute nei rapporti tra religione e potere politico5. Le differenze presenti tra gli stati di provenienza si riflettono di conseguenza nella composizione e nei rapporti delle comunità presenti negli stati di domicilio. La mancanza di una vera e propria “chiesa” crea dunque due ordini di conseguenze: 1) impedisce l'individuazione di un rappresentante ufficiale del culto musulmano negli stati di arrivo, creando non poche difficoltà di tipo teorico e pratico nei rapporti tra le comunità e le istituzioni. La creazione di consulte e consigli nazionali dei rappresentanti dell'islam, come per le esperienze francese e belga, si è rivelata il più delle volte poco fruttuosa sul piano della collaborazione, se non addirittura del tutto fallimentare. 2) crea, come già accennato in precedenza, una situazione di frammentazione all'interno delle comunità stesse, all'interno delle quali alla presenza di molti islam diversi corrispondono diversi gruppi che si riconoscono in altrettanti rappresentanti, i quali portano allo stato di arrivo diverse istanze e richieste (é ciò che, come si vedrà, si sta verificando in Italia, dove almeno tre associazioni musulmane hanno presentato 4 F. FREGOSI, “Islam, una religione senza clero? Una riflessione comparata”, in “Daimon. Annuario di diritto comparato delle religioni”, 2003, n.3, pp. 80 ss. 5 Le principali scuole interpretative della shari'a sono quattro: hanafita, sciafiita, malikita e hanbalita; tutte si rifanno all'islam sunnita, fornendo diverse interpretazioni (più o meno elastiche) della lettera del Corano e delle Tradizioni maomettane. Ciascuna è diffusa principalmente in una diversa zona del mondo musulmano: le divergenze interpretative si riflettono anche, inevitabilmente, nei nuclei immigrati, a seconda della provenienza. Per uno studio approfondito sulle scuole di interpretazione, cfr. I. EDGE (a cura di) “Islamic law and legal theory”, Dartmouth, Aldershot, 1996. 5 allo stato altrettante differenti proposte di intesa.) Un'analisi della condizione delle minoranze musulmane negli stati dell' Europa occidentale deve necessariamente prevedere tra i suoi punti di partenza lo studio dei principi e delle norme costituzionali che ciascun ordinamento tra quelli considerati ha previsto in questo ambito. Così, in ciascuna Costituzione si devono verificare il riconoscimento ed il grado di tutela (anche solo a livello programmatico) previsto per le minoranze presenti sul territorio dello Stato. Un altro parametro importante è costituito dai principi che definiscono la condizione giuridica dello straniero e, in stretta connessione, le differenti concezioni di nazione e di identità nazionale che sottendono a diverse regole per l'ottenimento della cittadinanza (le quali seguono prevalentemente i due criteri principali dello ius sanguinis e dello ius soli). Assai rilevante è anche la presenza e il ruolo di principi quali la libertà di professare la propria fede, l'eguaglianza delle confessioni religiose nei confronti dello Stato, e di conseguenza la previsione di strumenti specifici che ne regolino i rapporti con le autorità pubbliche. Si può forse affermare che la problematica più importante che si deve affrontare nell'analizzare il rapporto tra gli stati di arrivo e le minoranze musulmane è proprio il posto occupato dalla religione, o meglio la rilevanza assegnata (a livello giuridico e sociale) all'appartenenza religiosa degli individui presenti sul territorio. Il processo di secolarizzazione avvenuto negli ordinamenti europei negli ultimi secoli ha portato da un lato alla garanzia della libertà nelle scelte religiose degli individui, dall'altro alla neutralizzazione della religione, che non solo ha smesso di essere il punto di riferimento privilegiato dell'organizzazione sociale ma soprattutto non rappresenta più un presupposto fondamentale per il conferimento di diritti individuali. Basandosi su questo tipo di parametri è possibile distinguere, in Europa (ma non solo), categorie di ordinamenti differenti a seconda dell'atteggiamento che essi assumono nei confronti dei “diritti religiosi”, e in particolare nell'ambito del riconoscimento giuridico delle minoranze religiose, questione che si inserisce all'interno della problematica del riconoscimento dei 6 gruppi in generale e ne costituisce un aspetto specifico.6 É dunque importante definire quali conseguenze derivano dal contatto degli ordinamenti dell'Europa occidentale con il sistema islamico (considerato nei suoi tratti generali e comuni a tutte le differenti declinazioni dell'Islam), caratterizzato da una separazione tra religione e politica, e quindi tra norma religiosa e norma giuridica “secolare” molto meno netta rispetto ai cosiddetti sistemi “di diritto ecclesiastico”. Un altro terreno di scontro tra stato di arrivo e minoranze di religione musulmana, che per l'importanza del ruolo rivestito nella questione delle minoranze musulmane in Europa è opportuno analizzare separatamente dagli altri principi costituzionali, è rappresentato dal principio di laicità7, il quale è presente, anche se in modo più o meno esplicito e in differenti gradazioni (con notevoli differenze, ad esempio, tra la Costituzione francese e quella italiana) da tutti i testi costituzionali che verranno analizzati in questo ambito. Forse si può affermare che è su questo principio che corre la linea di demarcazione principale, il fattore di differenziazione più evidente, sul quale si incontrano (e a volte si scontrano) ordinamenti occidentali e minoranze islamiche. Anche tramite l'analisi del ruolo e dell'importanza che viene attribuita al principio di laicità all'interno di un ordinamento, sia nel testo costituzionale che poi a livello pratico, possiamo distinguere quattro grandi categorie in cui collocare i diversi ordinamenti, a seconda del loro orientamento in materia di diritti religiosi. Infatti, se attualmente la maggior parte dei Paesi musulmani si inserisce nella categoria degli ordinamenti confessionali, caratterizzati dal mancato riconoscimento, se non dalla vera e propria repressione, delle differenze religiose, e dalla presenza di unico “paradigma religioso”8creatosi in seguito allo sviluppo unitario di autorità politica e potere religioso, gli ordinamenti giuridici degli stati di arrivo si caratterizzano per un'impostazione del rapporto con le minoranze religiose piuttosto diversa. Per rimanere nell'ambito degli ordinamenti qui presi in considerazione, quello francese costituisce l'esempio classico di ordinamento indifferente o laicista, la 6 F. PALERMO, J. WOELK “Diritto costituzionale comparato dei gruppi e delle minoranze”, Cedam, 2008, pp.192 ss. 7 R. BISTOLFI, F. ZABBAL (a cura di) “Islams d' Europe. Insertion ou intégration communautaire?” Editions de l'Aube, Paris, 1995. 8 F. PALERMO, J. WOELK “Diritto costituzionale comparato dei gruppi e delle minoranze” Cedam, 2008, p.195. 7 cui caratteristica principale è costituita dalla sostanziale negazione di qualsiasi ruolo all'appartenenza religiosa nella dimensione pubblica , mentre gli ordinamenti italiano e tedesco si inseriscono nel modello promozionale o concordatario, nel quale i rapporti tra lo stato e le confessioni religiose riconosciute dall'ordinamento sono disciplinati da accordi variamente denominati, dalla tipologia del concordato (come per i rapporti tra chiesa cattolica e stato italiano, o tra stato tedesco e chiese cattolica ed evangelica) a quella più recente dell'intesa, che costituisce proprio lo strumento con cui le comunità musulmane e le istituzioni italiane stanno cercando di giungere ad un punto di incontro. Il quarto gruppo è infine costituito dagli ordinamenti multiconfessionali, caratterizzati da un atteggiamento decisamente pluralistico nei confronti dei gruppi religiosi,atteggiamento basato sul riconoscimento esplicito delle differenze e sul riconoscimento di uguali diritti i diversi gruppi. Vedremo un esempio di questo atteggiamento nell'esperienza dell'Impero ottomano, che con il sistema del millet avrebbe contribuito a disegnare rapporti ed equilibri tra gruppi religiosi che ancora oggi persistono negli stati balcanici e in generale dell'Europa sudorientale.9 Pur declinandosi in modi diversi, pur essendo affermato con forza differente a seconda dell'ordinamento considerato, dal modello francese permeato dal concetto di “laicità forte” al modello concordatario e basato sulle intese che caratterizza i rapporti tra lo stato italiano e i culti presenti sul suo territorio, fino al principio di non ingerenza che finora ha caratterizzato l'approccio belga, tuttavia il principio di laicità sottende una comune concezione del rapporto tra appartenenza religiosa e istituzioni, caratterizzato in questo senso da una sostanziale separazione se non addirittura, nelle forme più rigorose, da una vera e propria mancanza di riconoscimento del fattore religioso tra le componenti sociali ed i soggetti con personalità giuridica. Di conseguenza negli ordinamenti caratterizzati dalla presenza del principio di laicità si verifica anche una netta distinzione tra norme provenienti dal potere legislativo statuale, caratterizzate dall'essere cogenti e dall'avere portata erga omnes, e norme religiose, la cui valenza non opera nei confronti della totalità dei cittadini, ma vincola solamente i fedeli, appartenenti alla comunità religiosa, per lo più senza invadere la sfera di competenza del diritto statuale. Lo stato, in sostanza, si pone in una 9 Per un'analisi completa del la questione dei diritti religiosi , completa di numerosi esempi, cfr. il capitolo “I diritti religiosi” in F. PALERMO, J. WOELK “Diritto costituzionale comparato dei gruppi e delle minoranze”. Cedam, 2008, pp.189 ss. 8 condizione di neutralità nei confronti della religione, anzi delle religioni, praticate dai propri cittadini. Al contrario, l'islam è una confessione che tende ad influenzare ogni aspetto della vita dei fedeli, compresi ambiti che negli stati di arrivo sono esclusiva prerogativa del legislatore statale. In questo senso l'inserimento delle comunità musulmane all'interno delle società degi stati di arrivo presenta degli elementi di difficoltà, dati dal conflitto tra le caratteristiche secolari e, appunto, tendenzialmente “neutrali” degli stati dell'Europa occidentale nei confronti delle religioni, con la natura coercitiva e vincolante delle norme contenute nei precetti dell'islam. La condizione delle minoranze musulmane va analizzata, oltre che con riguardo ai principi costituzionali, anche dal punto di vista della legislazione ordinaria; sono di particolare interesse alcuni ambiti specifici. Le regole per la cittadinanza: qual è il peso dell'appartenenza all'islam nel processo di acquisizione della condizione di cittadino dello stato di domicilio? Ciò che contraddistingue gli appartenenti all'islam è proprio il fatto di essere cittadini di una comunità più estesa di quelle nazionali: la Umma, la comunità dei musulmani nel mondo, verso la quale essi hanno obblighi vincolanti allo stesso modo, se non in misura maggiore degli obblighi derivanti dal loro status di cittadini di stati nazionali. Si verifica dunque un contrasto tra ordinamenti? Essere musulmano significa veramente allora essere cittadino di due comunità? Comporta davvero un conflitto (eventuale) tra norme che sarebbero percepite come provviste di eguale forza cogente? Non a caso in questo senso si parla di una “immigrazione islamica”, e le minoranze in questione vengono identificate come islamiche10, sulla base dell'appartenenza religiosa quindi, e non secondo parametri di nazionalità o provenienza geografica. Religione e scuola11: negli ordinamenti europei presi in considerazione, la maggior parte dei bambini e ragazzi in età scolare frequentano la scuola pubblica, nella quale l'istruzione è laica, o non-religiosa. In alcuni di essi (per esempio non in Francia) è 10 S. FERRARI, A. BRADNEY (a cura di) ”Islam and european legal systems”, Dartmouth Ashgate, Aldershot, 2000 11 S. FERRARI, A. BRADNEY (a cura di) ”Islam and european legal systems”, Dartmouth Ashgate, Aldershot, 2000. 9 prevista un'ora settimanale di insegnamento della religione; in alcuni casi (per esempio nella scuola primaria italiana), con “insegnamento della religione” ci si riferisce precisamente alla religione cristiana, nella forma cattolica (o anche nella forma protestante, come nel caso delle scuole tedesche). L'istruzione privata, inoltre, è nella grande maggioranza dei casi impartita in strutture dalla precisa appartenenza confessionale, ancora una volta facenti capo alle istituzioni ecclesiastiche cristiane, cattoliche o protestanti. Questa situazione porta a due ordini di problemi: per quanto riguarda l'istruzione privata e in modo particolare le scuole confessionali, si pone la questione dell'apertura di scuole a base confessionale musulmana. Per quanto riguarda l'istruzione pubblica, le occasioni di discussione sono molteplici, dalla proposta di formare classi separate in base al sesso alla richiesta di introdurre nelle mense scolastiche cibo halal, cioè macellato correttamente secondo le previsioni coraniche. La questione che però sembra avere la maggiore importanza, per l'ampiezza del dibattito e per l'importanza dei diritti in gioco, e che non riguarda solamente il rapporto tra islam e scuola , è quella della presenza di simboli religiosi negli ambienti pubblici. Certamente l'ambiente scolastico è uno dei luoghi in cui il problema si fa maggiormente tangibile, in misura diversa (come si vedrà) a seconda della forza con cui vengono affermati i caratteri di neutralità e laicità dello Stato e a seconda del grado di autonomia conferito nei diversi ordinamenti alle istituzioni scolastiche12. Strettamente intersecata con le altre linee direttrici dell'analisi è dunque la questione dei simboli religiosi e della loro posizione nello spazio pubblico: il valore coercitivo delle norme coraniche impedisce al musulmano che voglia definirsi tale di relegarle nella propria sfera privata, in quanto ad essere regolata dalla dottrina (anzi, dalle dottrine) dell'islam è anche la vita pubblica degli individui13, attraverso misure che implicano l'espressione e l'affermazione della propria confessione nelle relazioni intersoggettive, nei ruoli sociali uomo-donna, nell'abbigliamento e nella “costruzione”di un aspetto esteriore che non neutralizzi, ma al contrario spieghi con forza la propria appartenenza religiosa. In Francia la discussione a proposito di una 12 G. NONNEMAN, T. NIBLOCK, B. SZAJKOWSKI (a cura di) “Muslim communities in the new Europe” Ithaca Press, Reading, 1996. 13 S. FERRARI, A. BRADNEY (a cura di) ”Islam and european legal systems”, Dartmouth Ashgate, Aldershot, 2000. 10 legge che vieta la presenza di simboli religiosi nei luoghi pubblici è balzata agli onori delle cronache con il nome di “affaire del velo”, a dimostrazione di quanto la religione musulmana, più di altre confessioni, sia interessata dalla questione. L'approccio opportuno per un'analisi della condizione delle comunità musulmane negli stati dell'Europa sud-orientale, invece, come già si è accennato nelle pagine precedenti, deve partire da presupposti totalmente diversi14. Il principale fattore distintivo rispetto alla presenza dell'islam nell'Europa occidentale è l'origine autoctona delle minoranze musulmane; questo fattore sarà dunque uno degli elementi principali dell'analisi sulla condizione delle comunità musulmane presenti in questa parte d' Europa. La loro presenza in stati quali Grecia, Bulgaria, Macedonia o Bosnia non è il risultato di una recente immigrazione. Esse sono presenti in quel territorio dall'epoca della dominazione ottomana, che con i propri istituti giuridici ha radicato modelli di convivenza e rapporti tra comunità presenti ancora oggi nel tessuto sociale. La conquista ottomana dei Balcani nel quindicesimo secolo non portò solamente un influsso da parte dei conquistatori musulmani, ma anche, infine, una presenza “indigenizzata” dell'islam. La struttura non solo religiosa, ma anche etnica della zona fu così sottoposta ad un processo di cambiamento. L'islam non rimase semplicemente la religione dei conquistatori: al contrario, vi si convertirono anche molte delle popolazioni indigene, probabilmente soprattutto per ragioni pratiche, inclusi benefici sociali, politici ed economici. Vaste porzioni di popolazione, comunque, accolsero il sistema di governo ottomano, che sostituì il sistema feudale precedente. Le comunità non convertite vennero incorporate nell'impero ottomano in qualità di dhimmi, o “comunità protette”. Questo sistema ben si accordava con la tradizionale concezione che l'islam ha di cristiani ed ebrei, detti “genti del libro”, appartenenti a religioni basate su testi rivelati diversi dal Corano. L'impero era amministrato secondo linee direttrici religiose, piuttosto che etniche o linguistiche: alle diverse comunità religiose era concesso di amministrare i propri affari socio-culturali, in quello conosciuto come sistema del millet. Fino alle riforme del diciannovesimo secolo, quindi, ciò significò che nel governo delle varie comunità, basate sull'appartenenza religiosa, non interferiva direttamente l'apparato 14 G. NONNEMAN, T. NIBLOCK, B. SZAJKOWSKI ( a cura di)“Muslim communities in the new Europe” Ithaca Press, Reading, 1996. 11 statale ottomano: il rapporto tra potere centrale e comunità era mediato dai leader locali. Questo sistema, basato sulla non- assimilazione, aveva come conseguenza il fatto che i membri di ogni diversa comunità potevano, in qualche misura, mantenere identità separate. L'altra importante caratteristica che distingue la presenza musulmana nell'Europa sud-orientale dalle comunità presenti negli stati europei occidentali, caratteristica cui non è del tutto estranea la secolare vigenza del sistema del millet, è la tendenziale sovrapposizione, all'interno dei vari gruppi, dell'appartenenza religiosa con l'appartenenza etnica. Come si è detto, nella stragrande maggioranza dei casi queste due appartenenze si fondono dando vita a minoranze in cui ad una determinata religione viene automaticamente associata una determinata nazionalità, secondo combinazioni variabili a seconda dell'ordinamento che si prende in considerazione. A questa diffusa tendenza conseguono spesso un certo uso “identitario” del fattore religioso e non raramente anche una certa confusione dei due aspetti, non solo sul piano della percezione sociale e relazionale ma anche, ed è quello che qui interessa sottolineare, sul piano degli strumenti normativi e di produzione legislativa, dalle previsioni contenute nelle varie carte costituzionali alle caratteristiche delle assemblee parlamentari. La questione della sovrapposizione etnia-religione verrà esaminata principalmente da due punti di vista: - l'approccio costituzionale: le costituzioni esaminate riconoscono e tutelano in diversa misura le minoranze, e tra queste le minoranze di religione islamica; per analizzare il loro status all'interno di ciascun ordinamento, può essere opportuno verificare l'esistenza della sovrapposizione religione-etnia nei vari testi, e successivamente esaminarne gli effetti: l'approccio potrà rivelarsi laico o meno, improntato all'assimilazione delle minoranze o meno, anche attraverso una chiara distinzione tra appartenenza religiosa e origine etnica. - religione e partiti: spesso la questione dell'appartenenza etnica e religiosa si rispecchia nella composizione delle assemblee parlamentari: vale a dire, spesso si formano partiti di ispirazione religiosa che, di conseguenza, raggruppano militanti ed elettori appartenenti ad una precisa etnia, nonostante la formazione di gruppi politici su tali basi possa essere fatta oggetto di divieto dai testi costituzionali analizzati ; esemplare è il caso bulgaro, con la formazione del “Movimento per i diritti e le 12 libertà”. Altri parametri quali le applicazioni nella legislazione ordinaria e, soprattutto nell'analisi della vicenda bosniaca, l'analisi della storia recente, verranno utilizzati in misura diversa a seconda della loro rilevanza all'interno dei diversi ordinamenti presi in considerazione. A questo proposito, prima di procedere alla trattazione è forse opportuno fare una piccola precisazione di metodo: le categorie elencate, che costituiscono le principali direttrici lungo le quali si svolgerà l'analisi dei diversi ordinamenti, sono, appunto, delle linee guida. Se nella parte della trattazione riguardante gli ordinamenti dell'Europa occidentale sarà più semplice seguire uno schema di analisi costante, che si svolge sempre secondo una struttura precisa, le considerazioni relative invece all'Europa sud-orientale dovranno, a seconda del caso trattato, di volta in volta dare maggior rilievo ad alcuni elementi piuttosto che ad altri tra quelli in precedenza elencati, a seconda dell'importanza che rivestono nella storia e nell'attuale assetto di ogni singolo ordinamento e del ruolo che ricoprono in ciascuna di queste diverse situazioni, spesso molto problematiche. PRIMA PARTE L'EUROPA OCCIDENTALE: L'ISLAM, L'ALTRO CAPITOLO I FRANCIA 1.1 L'origine della comunità musulmana in Francia e l'approccio francese alle minoranze La popolazione di religione musulmana residente in territorio francese è estremamente diversificata. Sebbene non sia possibile basarsi su dati statistici 13 precisi15 riguardo l'appartenenza religiosa, si può affermare che per la maggior parte i musulmani residenti in Francia sono originari del Maghreb, mentre in misura minore provengono dal Medio Oriente, dalla Turchia, dall'Africa subsahariana e dall'Asia. Una piccola percentuale è costituita da francesi convertiti all'islam16. Dunque, la comunità musulmana francese, come del resto tutte le minoranze islamiche presenti negli stati dell'Europa occidentale, è una comunità immigrata. Prevalentemente sunnita, numerosissima ed in aumento costante, giustifica pienamente l'affermazione che l'islam sia senza dubbio la seconda religione di Francia, nel cui territorio, secondo dati statistici, si concentrerebbe poco meno della metà dei musulmani presenti nell'Europa occidentale17. Prima degli anni '60 del 1900, la questione islamica in Francia è stata legata soprattutto alla storia coloniale del paese, senza tradursi in un impatto diretto sul territorio e sulle sue dinamiche sociali e politiche. I primi segni di un'immigrazione musulmana in Francia risalgono all'epoca della Prima guerra mondiale, quando molti nordafricani combatterono nelle fila dell'esercito francese. Ma di veri e propri flussi migratori si può parlare solo dalla Seconda guerra mondiale in poi. Infatti, a partire da quell'epoca, diverse ondate migratorie si riversarono principalmente dal Maghreb sulla Francia: in particolare, tra il 1962 ed il 1967 decine di migliaia di immigrati giunsero dall'Algeria, dopo il conseguimento dell'indipendenza dalla Francia18. La maggior parte di essi giungevano in Francia essenzialmente per motivi legati all'occupazione, e con l'intenzione di rimanervi solo temporaneamente. Nel volgere di un decennio, però, la situazione mutò radicalmente: la crisi del 1974 spinse il governo francese a bloccare ufficialmente il reclutamento di manodopera straniera. 15 Poiché non è possibile, data la particolare relazione tra lo stato francese e le confessioni religiose, effettuare statistiche sulla base dell'appartenenza religiosa. Di conseguenza, nei censimenti non sono previste domande riguardanti la religione. Perciò le stime sull'ammontare della popolazione musulmana sono effettuate a partire da categorie come quella di “persona di cultura musulmana”, che si basa sull'origine dei genitori o dei nonni. Cfr. “The situation of Muslims in France. Monitoring the EU accession process: minority protection”, Open Society Institute 2002, p.74. 16 Cfr. “The situation of Muslims in France. Monitoring the EU accession process: minority protection”, Open Society Institute 2002, p.74; B. BASDEVANT-GAUDEMENT, “The legal status of Islam in France”, in S. FERRARI, A. BRADNEY (a cura di), “Islam and european legal systems”, Dartmouth Ashgate, Aldershot, 2000, pp. 97 ss. 17 F. DASSETTO, “The new european Islam”, in S. FERRARI, A. BRADNEY (a cura di), “Islam and european legal systems”, Dartmouth Ashgate, Aldershot, 2000, pp. 31 ss. 18 “[...]le rapatriement après la guerre d'Algérie de 80.000 harkis crée la première communauté de Français musulmans sur le sol métropolitain. L'Islam est alors, pour les autres Français, l'une des caractéristiques de cette communauté.” Haut Conseil à l'integration, report “L'Islam dans la République”, 2000, p. 18, www.hci.fr. 14 Nel frattempo, le prospettive erano cambiate: l'idea del ritorno in patria si faceva sempre più lontana tra gli immigrati giunti in Francia negli anni '60, ed il processo di ricongiungimento familiare che ebbe luogo nel periodo successivo sicuramente rivestì un ruolo molto importante nei cambiamenti strutturali che caratterizzarono in quel periodo l'islam francese19. La minoranza musulmana ormai radicata stabilmente nel paese iniziò a porsi questioni del tutto nuove, che nel periodo precedente non avevano costituito punti di particolare interesse né per gli immigrati musulmani, né per le autorità francesi: la presenza di intere famiglie, e non più solamente di singoli lavoratori, ed in seguito, negli anni '80, l'arrivo di una seconda generazione, nata in Francia da genitori musulmani, rese l'islam una componente sempre più visibile della società francese. Se fino agli anni '70 i pubblici poteri non si erano dati molta preoccupazione in relazione all'islam in quanto tale e di conseguenza le relazioni con gli immigrati del Maghreb avevano toccato gli aspetti religiosi solo accidentalmente, la situazione mutò piuttosto profondamente da quel momento: in quel periodo infatti, ad esempio, aumentò vistosamente la tendenza degli appartenenti alla minoranza musulmana a riunirsi in associazioni, ed a richiedere alle autorità francesi che fossero loro messi a disposizione dei luoghi adatti all'esercizio del culto20. Alcuni autori sottolineano l'importanza che ebbe in questa transizione il ruolo ricoperto dal cosiddetto “islam dei giovani”, dei musulmani nati o diventati adulti in Francia, come contrapposto all' “islam dei padri”, elemento di appartenenza ad una società etnicamente e tradizionalmente connotata, che, sradicata dal proprio ambiente originario, rischiava di trasformarsi in un tradizionalismo privo di significato. Si deve probabilmente identificare quel momento di passaggio come quello in cui, in particolare dunque per la nuova generazione, la religione islamica cominciò ad apparire sotto una nuova luce, come l'elemento che, scrostato degli elementi di differenziazione etnica e nazionale, poteva costituire il fulcro di una comune identità basata sull'appartenenza religiosa.21 19 Cfr. “The situation of Muslims in France. Monitoring the EU accession process: minority protection”, Open Society Institute 2002, p.74. 20 B. BASDEVANT-GAUDEMENT, “The legal status of Islam in France”, in S. FERRARI, A. BRADNEY (a cura di), “Islam and european legal systems”, Dartmouth Ashgate, Aldershot, 2000, p.98. 21 “[ I giovani musulmani] necessitavano, infatti, di ben altro: di un islam svincolato dalle tradizioni familiari e che, universalizzato, li rendesse parte dell'unica Umma musulmana. A differenza di quello dei padri, in questo islam non si nasce, ma si sceglie, liberamente, di entrare.” Per una 15 I musulmani, dunque, in quel periodo guardavano alla Francia in una prospettiva molto diversa: anche l'acquisizione della cittadinanza francese non era più vista come una rinuncia alla propria identità, ma come uno strumento di partecipazione alla vita politica e sociale del paese in cui vivevano. Il graduale rafforzarsi di questi elementi rendeva lampante la necessità di un nuovo tipo di dialogo tra lo stato francese e la minoranza musulmana: un dialogo che avrebbe dovuto tenere in considerazione l'islam non come un elemento marginale o accidentale ma nella sua qualità di fattore unificante di una popolazione immigrata che differiva al suo interno per provenienza, lingua, tradizioni culturali, e che trovava nella comune appartenenza al culto islamico un fortissimo elemento di identificazione22. Stiamo parlando di una minoranza religiosa, dunque, al cui interno il comune denominatore dell'islam funge da collante tra componenti enormemente diversificate e lontane tra loro23. Lo sviluppo di questo dialogo non può essere compreso a fondo senza fare un breve cenno al rapporto tra l'ordinamento francese e le minoranze in generale, rapporto che inevitabilmente si riflette anche nella questione del riconoscimento dei diritti religiosi e delle minoranze religiose stesse: quello francese può essere descritto come un ordinamento dove l'unica dimensione in cui i diritti sono riconosciuti e tutelati è quella individuale24, basato sul meccanismo dell'integrazione diretta dell'individuocittadino alla nazione25, in qualità di singolo e mai come appartenente ad una 22 23 24 25 riflessione su alcuni aspetti, non solo giuridici, della questione, cfr. A. FERRARI, “Velo musulmano e laicità francese: una difficile integrazione”, in S. FERRARI (a cura di), “Islam ed Europa: i simboli religiosi nei diritti del Vecchio continente”, Carocci editore, Roma, 2006, pp. 94-95. “For successive generations of Muslims born in France, religious belonging and upbringing is part of their inherited culture. Even as they increasingly assert the right to public and collective recognition of their religion, young Muslims today refer to Islam in different ways – as a heritage, a tradition, and an origin. Even for non-practising Muslims, Islam often remains a strong element of their identity; it is[…]the only cultural and symbolic good that they can specifically assert vis-àvis the Français de souche (“French by extraction”) […] which enables them, at the same time, to transform exclusion into a voluntarily assumed difference.” The situation of Muslims in France. Monitoring the EU accession process: minority protection”, Open Society Institute 2002, pp.7576. “This population of Muslim culture is not homogeneous. Around half of these Muslims have French nationality, but their origin differ widely. [...] French Muslims as a whole account for 123 different nationalities. The influence of various foreign countries remains strong.” B. BASDEVANT-GAUDEMENT, “Islam in France”, in R. ALUFFI BECK-PECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, pp.6364. Cfr. F. PALERMO, J. WOELK “Diritto costituzionale comparato dei gruppi e delle minoranze”, Cedam, 2007, p. 199. Cfr. A. FERRARI, “Velo musulmano e laicità francese: una difficile integrazione”, in S. FERRARI (a cura di), “Islam ed Europa: i simboli religiosi nei diritti del Vecchio continente”, 16 26 minoranza specifica, almeno in via di principio. L'approccio francese si traduce dunque nella promozione di una identità francese “individuale, nazionale, pubblica”, per quegli immigrati che aspirano alla cittadinanza: un meccanismo difficile da conciliare con la richiesta del riconoscimento di diritti collettivi da parte delle minoranze27 presenti nel paese, tra le quali spicca quella musulmana, le cui caratteristiche sono state spesso considerate totalmente confliggenti con i valori della République28, in particolare riguardo all'aspetto (che analizzeremo più diffusamente in seguito) della laicità dello stato29, strettamente connesso alla questione del riconoscimento individuale dei diritti. 1.2 Gli islam: un problema di rappresentanza istituzionale. Le esperienze del CFCM e del CORIF Un'altra questione che caratterizza il rapporto dell'islam francese con le istituzioni statali, e che rappresenta inoltre una costante nelle relazioni delle comunità musulmane immigrate con gli ordinamenti dell'Europa occidentale, è l'estrema frammentazione che caratterizza le comunità musulmane stesse: essa è causata da molteplici fattori. In grande misura, sicuramente, influisce la provenienza estremamente diversificata Carocci editore, Roma, 2006, pp. 93 ss. 26 The situation of Muslims in France. Monitoring the EU accession process: minority protection”, Open Society Institute 2002, p. 77. 27 “France has ratified the major international agreements guaranteeing protection against discrimination. However, it has consistently entered reservations on articles relating to the rights of individuals belonging to ethnic, religious or linguistic minorities, and so far has refused to ratify either the Framework Convention for the Protection of National Minorities (FCNM) or the European Charter for Regional or Minority Languages (CRML).” The situation of Muslims in France. Monitoring the EU accession process: minority protection”, Open Society Institute 2002, p. 86. 28 The situation of Muslims in France. Monitoring the EU accession process: minority protection”, Open Society Institute 2002, p. 78. 29 “L'atteggiamento di rigida separazione, puntellato da leggi ostili alle confessioni religiose come quella del 1882 sulla laicità nelle scuole e quella del 1901 sulle associazioni, culmina nella legge sulla separazione tra stato e Chiesa del 1905. Questa legge supera la distinzione tra culti riconosciuti e non riconosciuti e interrompe le sovvenzioni automatiche agli stessi, prevedendo solo il pagamento da parte dello Stato dei servizi di interesse pubblico resi dalle organizzazioni religiose [...]. si afferma così in modo netto il primato della libertà individuale di coscienza rispetto alla libertà di culto (ad esercizio collettivo), sottoposta al limite dell'ordine pubblico. Paradossalmente, tuttavia, la legge apre anche un maggiore spazio di auto-organizzazione per le confessioni religiose.” F. PALERMO, J. WOELK “Diritto costituzionale comparato dei gruppi e delle minoranze”, Cedam, 2008, p. 199. 17 degli immigrati musulmani. L'islam marocchino o algerino non è identico all'islam praticato dagli immigrati provenienti dall'Africa subsahariana; anche se a prevalere in Francia è l'islam sunnita, questo a sua volta è diviso in quattro principali scuole giuridiche30 e ulteriormente diviso in molteplici correnti interpretative, caratterizzate da una visione dei principali aspetti della pratica religiosa estremamente differenziata, che convivono in un'unica comunità immigrata assieme all'islam asiatico ed a quello contaminato dalla mistica sufi degli immigrati turchi31, in una rappresentazione locale di ciò che dovrebbe costituire la comunità di tutti i musulmani in tutto il mondo: la Umma. Inoltre, alle tradizionali divisioni dottrinali se ne sono aggiunte di più recenti, collegate alla storia politica di ciascuno degli stati di provenienza, i quali “nazionalizzando” ognuno il proprio islam hanno creato quelle differenze nel credo e nella pratica religiosa che permangono anche nelle comunità emigrate32. A questi fattori di frammentazione, per così dire, “fisiologici” se ne aggiunge uno, a sua volta assai rilevante, che riguarda più da vicino le strutture sociali ed istituzionali proprie della religione musulmana: ciò che la caratterizza è l'assenza di una struttura gerarchica all'interno della comunità religiosa. O almeno, questo è quanto caratterizza le comunità musulmane immigrate: se, come accade nella maggior parte dei casi, nei paesi di origine le comunità di fedeli musulmani sono organizzate e guidate da persone che ricoprono un ruolo preciso in una gerarchia conosciuta ed accettata anche a livello istituzionale, con ruoli di primo piano anche in ambiti non strettamente religiosi33, ma anche e soprattutto giuridici, queste strutture organizzative, una volta che spostiamo l'osservazione alle comunità immigrate dell'Europa occidentale, saltano completamente, lasciando la scena agli imam, 30 Cfr. Introduzione. 31 “Although Islam is the single faith of the great Muslim community, it is manifested through its cultural and linguistic traditions: Maghreb-Arab, Turkish, Indian, Balkan and black African.” F. DASSETTO, “The new european Islam”, in S. FERRARI, A. BRADNEY (a cura di), “Islam and european legal systems”, Dartmouth Ashgate, Aldershot, 2000, p. 35. 32 Cfr. F. DASSETTO, “The new european Islam”, n S. FERRARI, A. BRADNEY (a cura di), “Islam and european legal systems”, Dartmouth Ashgate, Aldershot, 2000, p. 35. 33 Basti pensare ai sistemi di corti islamiche organizzati parallelamente alla giurisdizione dei tribunali statali in alcuni paesi africani o balcanici, e quindi al ruolo del kadi, figura tradizionale di giudice, o del mufti, non solo guida religiosa della comunità ma anche funzionario amministrativo: le due cariche, tradizionalmente presenti nei paesi arabi ed africani oltre che, seppure in misura limitata, nelle esperienze dell'islam balcanico, sono totalmente assenti nell'organizzazione delle comunità islamiche degli stati dell'Europa occidentale. 18 tradizionali guide della preghiera che, nelle situazioni appena illustrate, assumono senza dubbio un ruolo di primo piano all'interno delle comunità o delle singole moschee. L'estrema frammentazione caratterizza anche la comunità musulmana francese: ci sono circa 1560 associazioni musulmane in Francia, alcune isolate, alcune organizzate in comunità più grandi. In questo gruppo ampiamente diversificato emergono tre grandi organizzazioni, decisamente predominanti nel panorama francese anche se non rappresentative della totalità dei musulmani di Francia: La Moschea di Parigi: costruita dal governo francese dopo la Prima guerra mondiale in segno di gratitudine per i servigi resi dai musulmani del Maghreb durante la guerra; è considerata proprietà dell'Algeria e attorno ad essa gravita, più o meno ufficialmente, una galassia di associazioni di fedeli musulmani e di altri luoghi di culto, tutti sotto l'influenza dell'Algeria. L'UOIF, Unione delle organizzazioni islamiche di Francia: istituita nel 1983, comprende diverse associazioni che si riferiscono alla Fratellanza Musulmana, organizzazione nata in Egitto.34 La FNMF, Federazione nazionale dei Musulmani di Francia: istituita nel 1985, fa parte invece della sfera di influenza del Marocco. La questione della rappresentanza istituzionale della minoranza musulmana ha conosciuto negli ultimi anni una notevole evoluzione, ed è stata notevolmente influenzata dai diversi elementi di diversità e frammentazione in precedenza sottolineati. Non sono mancati, inoltre, tentativi concreti di organizzare l'islam francese in forma unitaria, in modo da rendere più semplice il dialogo con le istituzioni francesi e la partecipazione alle strutture istituzionali del paese35. Il primo tentativo in questa direzione fu fatto nel 1990 dall'allora Ministro degli interni e responsabile per le religioni Pierre Joxe, il quale richiese che venisse istituito un organismo rappresentativo che potesse da un lato interloquire con le 34 Cfr. M.CAMPANINI, “Storia del Medio Oriente, 1789-2005”, Il Mulino, Bologna, 2006, e “Il pensiero islamico contemporaneo”, Il Mulino, Bologna, 2005. 35 “The desire to organise the Muslim religion dates back a long time. The main aim was to set up a structure representative of Islam in France, and of French Muslims, so that this body could enter into a dialogue with the public authorities. The difficulty is comparable to that encountered in most European countries.” B. BASDEVANT-GAUDEMENT, “Islam in France”, in R. ALUFFI BECKPECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, p. 64. 19 autorità francesi, dall'altro costituire il vero e proprio organo rappresentante dell' islam in Francia. L'idea si concretizzò nel CORIF, il Consiglio di Riflessione sull'Islam in Francia, il quale si riunì per la prima volta nel marzo 1990 e, durante il ministero di Joxe, funzionò prevalentemente come organo consultivo, esprimendosi su questioni riguardanti le ricadute concrete dei precetti coranici nella vita quotidiana dei musulmani francesi36. Ill CORIF, tuttavia, sebbene non sia mai stato abolito né sciolto, smise semplicemente di riunirsi a partire dalla fine della legislatura socialista. Nel 1992 Dalil Boubakeur, medico di nazionalità francese, divenne Rettore della Moschea di Parigi. Su esortazione dell'allora Ministro degli interni Charles Pasqua, Boubakeur iniziò a lavorare alla creazione di un organismo che rappresentasse tutte le tendenze ed i movimenti dell'islam francese. Nel 1993 fu istituito un Consiglio consultivo composto da diversi rappresentanti delle organizzazioni musulmane del paese, che ben presto si trasformò in un Consiglio rappresentativo dei musulmani in Francia. Tra il 1994 ed il 1995 questo organismo partecipò ad incontri ufficiali con il Ministro degli interni, in rappresentanza dell'islam francese. Tuttavia, nemmeno questa istituzione riusciva a raggruppare al suo interno tutte le tendenze dell'islam francese, come dimostrava l'avversione di diverse grandi organizzazioni musulmane: in particolare, l'UOIF e la FNMF continuarono a proclamare la propria ostilità nei confronti della Moschea di Parigi, e rifiutarono esplicitamente di essere rappresentate dall'organismo fondato da Boubakeur.37 Nel dicembre 1994 Il Consiglio adottò la Carta della religione musulmana in Francia, la quale riconosceva espressamente la laicità dello stato francese e chiedeva che l'organizzazione della religione islamica fosse messa in atto nel rispetto del complesso delle leggi statali, compresa la legge sulle associazioni del 1905, e nell'osservanza dei valori fondamentali della repubblica. Tuttavia, nonostante questo atto formale, era evidente la parzialità della funzione rappresentativa svolta da questo organismo. 36 In particolare le questioni riguardanti il Ramadan, le sepolture musulmane ed il problema dell'alimentazione dei militari francesi di religione musulmana. Cfr. B. BASDEVANTGAUDEMENT, “Islam in France”, in R. ALUFFI BECK-PECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, pp. 64-65, e “The legal status of Islam in France”, in S. FERRARI, A. BRADNEY (a cura di), “Islam and european legal systems”, Dartmouth Ashgate, Aldershot, 2000, pp. 102-103. 37 Cfr. B. BASDEVANT-GAUDEMENT, “Islam in France”, in R. ALUFFI BECK-PECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, pp. 64-65. 20 Nel 1996, l'atteggiamento del Ministero degli interni mutò con la nomina del ministro Jean Pierre Chevènement, meno “interventista” rispetto ai suoi predecessori. Dopo aver dichiarato la propria volontà di riconoscere ufficialmente tutte le personalità che gli si sarebbero proposte come rappresentanti, senza dover operare lui stesso una scelta, nel 1999 diede inizio ad una serie di consultazioni ufficiali con le principali organizzazioni islamiche, diverse personalità appartenenti al mondo musulmano, le principali moschee ed i centri islamici regionali, allo scopo di promuovere l'individuazione di un gruppo universalmente approvato, che avrebbe permesso la creazione di una organizzazione rappresentativa della religione musulmana in Francia. Nell'autunno dello stesso anno una prima dichiarazione fu sottoposta al vaglio delle diverse personalità e dei vari rappresentanti della comunità musulmana, interpellati da Chèvenement ancora in modo “informale”. L'atto, intitolato “Dichiarazione di intenti riguardante i diritti e i doveri della religione musulmana”, sollevò un certo scalpore e fu accolto molto male dalla comunità musulmana, innanzitutto a causa del fatto che le si richiedesse una dichiarazione di intenti38, e, per quanto riguardava i contenuti, soprattutto perché il documento menzionava anche il diritto di cambiare religione39. A dicembre, l'accordo fu raggiunto su un nuovo documento, dal titolo “I principi legali disciplinanti le relazioni tra le pubbliche autorità e la religione musulmana in Francia”, che rispecchiava “tutti i provvedimenti legali disciplinanti le relazioni tra la Repubblica e tutte le religioni”. Il documento fu firmato da 18 personalità di spicco della comunità musulmana nel gennaio 2000.40 38 Cfr. B. BASDEVANT-GAUDEMENT, “Islam in France”, in R. ALUFFI BECK-PECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, p. 67. 39 Azione che integra uno dei reati più gravi previsti dal diritto islamico: l'apostasia, punita in alcuni ordinamenti anche con la pena di morte. Cfr S. TELLENBACH, “L'apostasia nel diritto islamico”, in “Daimon. Annuario di diritto comparato delle religioni” 2001, n.1, pp. 132 ss.. 40 Il preambolo del documento si riferiva alla laicità dello stato e dichiarava la piena accettazione della legge del 1905 ed era seguito da otto punti relativi ad altrettante questioni di rilievo nei rapporti con lo Stato. 1-Associazioni religiose: i musulmani erano invitati ad istituire un singolo organismo nazionale rappresentativo della religione musulmana, alla maniera delle altre religioni presenti in Francia. 2-Moschee: i sindaci erano invitati a trovare soluzioni simili a quelle utilizzate, ad esempio, nei rapporti con la Chiesa cattolica, o a mettere a disposizione dei locali utilizzabili dai musulmani nello stesso modo in cui lo facevano per i partiti politici, i sindacati ed altre associazioni. 3-La questione dei ministri del culto viene considerata attinente all'organizzazione interna delle 21 Infine, nel luglio 2001, i partecipanti a questa lunga consultazione riuscirono a concludere un accordo che prevedeva l'elezione di un Consiglio francese della religione musulmana, organizzata per l'anno successivo, a partire dalle moschee. Nel 2002 sopravvennero nuovi cambiamenti: l'allora Ministro degli interni Nicolas Sarkozy propose la costituzione di un organismo denominato Consiglio francese del culto musulmano (CFCM), che sarebbe stato formato per mezzo di un doppio sistema, basato sia sull'elezione sia sulla cooptazione: ogni moschea avrebbe nominato un certo numero di delegati, proporzionale all'estensione territoriale ed al numero di fedeli della struttura stessa. I delegati avrebbero partecipato alle elezioni dell'organismo rappresentativo, votando a nome della propria moschea di provenienza. Le strutture così elette sono ormai all'opera dal 2003: si tratta del CFCM, operante a livello nazionale, che comprende una Assemblea Nazionale, un Consiglio di amministrazione ed un'Agenzia, mentre per ognuna delle 25 regioni francesi è previsto un corrispondente Consiglio Regionale del culto musulmano (CRCM), provvisto a sua volta di una sua Assemblea Nazionale, di un Consiglio di amministrazione e di un'Agenzia. Presidente del CFCM è invariabilmente il Rettore religioni, in cui lo Stato non può intervenire. Comunque, il testo afferma “A meno che non ci siano buono motivi per agire diversamente, [i ministri] verranno reclutati e stipendiati in futuro dalle associazioni che li impiegano. Sarebbe auspicabile che la maggioranza di loro fosse di nazionalità francese, e detenesse un livello culturale e religioso appropriato ai loro compiti.” 4- I cappellani (?) devono essere nominati dall' “unione delle associazioni culturali musulmane”. 5- Gli istituti educativi musulmani sono soggetti alle stesse regole degli altri istituti educativi privati. 6- Riguardo ai codici di abbigliamento, il testo stabilisce che “i segni di appartenenza non devono essere ostentati nei casi previsti dalla giurisprudenza delle corti europee”. Riguardo alle regole alimentari, le autorità dovrebbero offrire la possibilità di usufruire di pasti speciali (il testo ne parla solo come di una possibilità; potrebbero dover essere i tribunali nazionali, in un prossimo futuro, a stabilire se e quando questa offerta è obbligatoria o facoltativa). La macellazione rituale deve essere compatibile con “le condizioni imposte dalla legislazione sulla protezione degli animali, sulla salute pubblica e sulla protezione dell'ambiente”. Anche in questo punto, il testo esprime implicitamente il desiderio di poter rispettare le norme alimentari islamiche, pur nella compatibilità con le leggi nazionali. 7- Per quanto riguarda i luoghi di sepoltura, il testo afferma che sono stati concessi dei terreni per la sepoltura dei musulmani, ma lascia intendere che la legalità di queste sepolture potrebbe non essere incontestabile. In caso di dubbio sul fatto che il defunto sia o meno musulmano, la competenza a decidere sulla questione viene data alle autorità religiose e non al sindaco, 8- Durante le festività religiose, “ai pubblici impiegati dovrà essere garantito il diritto di assentarsi, anche se condizionato alle esigenze di servizio, per prendere parte alle cerimonie celebrate in occasione delle maggiori festività delle rispettive religioni.” Questa disposizione risponde ad una richiesta che le comunità musulmane avanzavano ormai da lungo tempo. Cfr. B. BASDEVANT-GAUDEMENT, “Islam in France”, in R. ALUFFI BECK-PECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, p.66, nota 11. 22 della Moschea di Parigi, pur se appartenente ad un movimento tra quelli rappresentati che non ottiene la maggioranza dei voti alle elezioni degli organi rappresentativi. Uno dei primi obiettivi che il Consiglio si è impegnato a perseguire, al fine di trovare una soluzione al problema della frammentazione, è l'istituzione di una scuola di formazione per gli imam, così da far emergere un vero e proprio “Islam francese”. 1.3 L'assetto costituzionale, le leggi del 1901 e del 1905 e le leggi regionali: il concetto di laicitè La relazione tra la repubblica francese e le religioni è espressa dal testo dell'art. 2 della Costituzione del 4 ottobre 1958, in cui si affermano al contempo sia il rispetto dell'ordinamento francese per “toutes les croyances”, sia la natura laica dello stato francese41. In Francia dunque tra lo Stato e le religioni non vige alcun rapporto di reciproco riconoscimento: la repubblica è laica ed in quanto tale al suo interno nessun culto gode di uno statuto speciale o di un rapporto privilegiato con le autorità statali, né rispetto alle altre religioni né rispetto alle organizzazioni non religiose. La laicità dello stato è considerata e tutelata come uno dei principali valori repubblicani: l'esclusione del fattore religioso dalla dimensione pubblica rientra a pieno titolo nel novero dei principi fondamentali dell'ordinamento francese. In quest'ottica, non esente da critiche42, la libertà di coscienza ed il libero esercizio del culto sono garantiti e protetti proprio grazie a questo sistema di separazione tra lo stato e gli affari religiosi. Senza prevedere alcuno strumento per l'organizzazione dei culti in quanto tali dal punto di vista legale, l'ordinamento francese li pone tutti sullo stesso piano, grazie a strumenti giuridici che permettono alle organizzazioni religiose di darsi una struttura 41 Art. 2: “La France est une République indivisible, laïque, démocratique et sociale. Elle assure l’égalité devant la loi de tous les citoyens sans distinction d’origine, de race ou de religion. Elle respecte toutes les croyances.” Questa concezione dei rapporti tra ordinamento e fede si trova anche nella Costituzione del 1946. Cfr. www.legifrance.gouv.fr/constitution. 42 “ A rigid interpretation of laïcité makes it difficult to embrace multiculturalism, as culturally (and religiously) specific characteristics and differences are considered secondary to the concept of equality for all individuals[...]”The situation of Muslims in France. Monitoring the EU accession process: minority protection”, Open Society Institute 2002, p. 80. 23 istituzionalizzata.43 Questa concezione dei rapporti religione-stato, tuttavia, risale ad un epoca precedente la Costituzione; anzi, è più esatto affermare che dalla Costituzione è stata recepita, in quanto presente all'interno della legislazione francese già da tempo44. I principi generali che regolano questo rapporto sono contenuti in due leggi dell'inizio del XX secolo, le quali offrono una duplice soluzione al problema dell'inquadramento istituzionale delle religioni. La prima è la Legge sulle associazioni del 1901, la quale riconosce la libertà di associazione come una libertà pubblica fondamentale45. Secondo questa disciplina le associazioni possono formarsi liberamente; acquisiscono personalità giuridica grazie ad una semplice dichiarazione, e possono essere sciolte per una serie assai limitata di motivi, generalmente attinenti al contrasto con gli interessi nazionali.46 Se corrisponde a determinati criteri, l'associazione così strutturata può essere dichiarata “di pubblica utilità” e godere di particolari benefici fiscali. La legge prevedeva anche un particolare regime, piuttosto restrittivo, applicabile alle congregazioni religiose, che le sottometteva ad una sorta di “statuto speciale” e rendeva necessaria nei loro confronti l'approvazione di entrambe le camere del Parlamento.47 In epoche successive, la disciplina di riconoscimento delle associazioni subì ulteriori restrizioni: un decreto legge del 1939 prevedeva che per la costituzione di associazioni straniere dovesse essere dato in via 43 B. BASDEVANT-GAUDEMENT, “The legal status of Islam in France”, in S. FERRARI, A. BRADNEY (a cura di), “Islam and european legal systems”, Dartmouth Ashgate, Aldershot, 2000, p. 99. 44 “Le corpus juridique en matière de laicité est plus réduit que ce que l'on pourrait croire. Depuis la Constitution de 1946, le principe de laicité a acquis une valeur constitutionnelle […]mais, au niveau constitutionnel, le principe de laicité n’a pas fait objet d’une jurisprudence du Conseil Constitutionnel aussi abondante que pour la liberté de conscience et d’opinion. Des grandes lois ont marqué l’affirmation juridique du principe de laicité[…]Hors de ces textes fondateurs, le corpus juridique est fait de dispositions disséminées dans divers textes de loi.’’ Dal rapporto Stasi preparatorio della legge del 2004, cit. in A. FERRARI, “Velo musulmano e laicità francese: una difficile integrazione”, in S. FERRARI (a cura di), “Islam ed Europa: i simboli religiosi nei diritti del Vecchio continente”, Carocci editore, Roma, 2006, p. 113, nota 11. 45 Quindi, naturalmente, non si tratta solo di associazioni religiose; tuttavia questo strumento è ancora oggi molto utilizzato dalle organizzazioni religiose che vogliano acquisire personalità giuridica. 46 B. BASDEVANT-GAUDEMENT, “Islam in France”, in R. ALUFFI BECK-PECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, pp.60 ss. 47 Le previsioni in questione risultano molto influenzate dalle vicende politiche dell'epoca: dopo l'affare Dreyfus, le istanze laiche si fanno più forti e mirano a scardinare le strutture congregazioniste, a quell'epoca assai diffuse in Francia, che in seguito alla rigorosa applicazione di questa legge vedranno il loro numero decisamente ridotto. Haut Conseil à l'integration, report “L'Islam dans la République”, 2000, p. 11, www.hci.fr. 24 preventiva il parere favorevole del Ministro degli interni, revocabile, tra l'altro, in qualsiasi momento.48 In ogni caso, dal momento in cui la presenza dell'islam in Francia ha iniziato ad assumere forme maggiormente strutturate, la disciplina contenuta in questa legge è stata frequentemente utilizzata per dare rilievo istituzionale alle organizzazioni facenti capo al culto musulmano, soprattutto dopo l'approvazione di una nuova legge in materia nel 1981 da parte del governo Mauroy, durante il primo mandato di François Mitterrand: la legge eliminava il requisito del parere favorevole preventivo per la costituzione di associazioni straniere, che da quel momento in poi furono soggette alla procedura ordinaria. La prima delle conseguenze della riforma fu un notevole incremento del numero delle associazioni che si definivano musulmane o islamiche. Uno dei motivi per cui molte associazioni (il discorso qui è concentrato su quelle di matrice musulmana) hanno scelto di costituirsi secondo la disciplina della legge del 1901 è probabilmente il particolare regime fiscale previsto: notevoli esenzioni fiscali sono garantite sui beni che vengono devoluti a queste associazioni per mezzo di donazioni o per disposizione testamentaria, se le associazioni in questione vengono riconosciute “di pubblica utilità”: una sorta di “discriminazione positiva” nei confronti delle associazioni così disciplinate, il cui numero attualmente si aggira attorno alle 1500. In aggiunta alla legge sulle associazioni del 1901, nel dicembre 1905 venne approvata la legge Combes relativa alla separazione tra Chiese e Stato, che fa riferimento in modo più specifico alle organizzazioni religiose e conferma, esprimendoli in modo più dettagliato, i principi costituzionali di laicità e di uguale rispetto dell'ordinamento francese per ogni tipo di credo, determinato appunto dal regime di totale separazione che la legge garantisce. Viene così definitivamente superato il regime concordatario che era rimasto in vigore fino al XIX secolo.49 L'orientamento dell'ordinamento francese si coglie soprattutto negli articoli iniziali50: 48 Originariamente pensata per porre limiti alla propaganda nazista, l'impostazione pensata con il decreto è poi stata mantenuta anche negli anni successivi, sempre riguardo alla disciplina per la costituzione di associazioni straniere. B. BASDEVANT-GAUDEMENT, “Islam in France”, in R. ALUFFI BECK-PECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, p.60, nota 2. 49 Per una ricostruzione storica dettagliata. Cfr. Haut Conseil à l'integration, report “L'Islam dans la République”, 2000, pp. 9-12, www.hci.fr. 50 Art. 1: “La Repubblica garantisce la libertà di coscienza. Essa garantisce la libera pratica delle 25 la legge, nata come tentativo di risoluzione del secolare conflitto tra lo Stato francese e la Chiesa cattolica, si fonda essenzialmente sul principio di libertà religiosa come precedentemente delineato, principio che si può articolare in tre aspetti: in primo luogo quello della libertà di coscienza individuale, affermata all'art.1 del testo normativo, che riprende le previsioni costituzionali; in secondo luogo, quello della libertà collettiva dell'esercizio del culto, ugualmente affermato all'art. 1 della legge; a questa osservazione si deve aggiungere che modifiche successive apportate alla norma hanno ampliato il raggio d'azione della garanzia prevista all'art. 1; se inizialmente l'esercizio del culto fu previsto solo con riferimento alle associazioni istituite con la disciplina della legge Combes, la riforma del 1907 estese la tutela della libertà della pratica religiosa anche alle associazioni sottoposte alla disciplina della legge del 1901. Il terzo aspetto è quello dell'uguaglianza e della non discriminazione tra le religioni, enunciate all'art. 2 della legge, che ugualmente riprende il primo articolo della Costituzione e l'art. 14 della CEDU. Un altro importante principio su cui si basa la legge del 1905 è quello della separazione: l'uguaglianza delle diverse religioni nei confronti dello stato si concretizza, nella concezione francese, nell'astensione dello Stato stesso dall'intervento nei confronti di ognuna di esse, come afferma l'art. 2 della legge.51 Questa affermazione si traduce nella previsione, contenuta nel testo di legge e confermata da una giurisprudenza costante del Consiglio di Stato52, che lo Stato non debba intervenire in alcun modo nell'organizzazione interna delle chiese. Nella pratica, si tratta di due diversi aspetti, disciplinati all'art. 4.53 In primo luogo, la legge sancisce la separazione tra chiese e stato dal punto di vista immobiliare: da una parte, gli edifici e le proprietà che avevano sempre fatto parte del patrimonio delle chiese e che erano stati nazionalizzati dalla Rivoluzione religioni, soggetta solo alle restrizioni previste nel pubblico interesse [...]” 51 Art. 2: “La Repubblica non riconosce né finanzia alcuna religione. [...]Tuttavia, le spese relative ai servizi di assistenza religiosa e quelle previste per assicurare il libero esercizio del culto negli stabilimenti pubblici quali scuole, ospizi e carceri rientrano nei bilanci dello Stato, dei Départements o dei Consigli Municipali.” 52 28 luglio 9, sent, Rougepré; 17 ottobre 80, sent. Pont. 53 Art. 4: “Entro un anno dall'entrata in vigore di questa legge, i beni immobili e mobili [...]dovranno essere trasferiti dai rappresentanti autorizzati di questi stabilimenti, con tutti gli incarichi e gli obblighi di cui sono gravati e per il loro speciale uso, alle associazioni legalmente istituite secondo l'art. 19, conformemente alle regole dell'organizzazione generale della religione la cui pratica intendono garantire, per la pratica di quella religione nelle precedenti aree di attività dei detti stabilimenti.” 26 avrebbero continuato ad essere considerati beni appartenenti alla collettività, le cui spese sarebbero rimaste a carico delle autorità pubbliche, sebbene messi a disposizione delle associazioni in questione; dall'altra, gli immobili posseduti dalle chiese prima dell'approvazione della legge del 1905 sarebbero stati attribuiti definitivamente alla proprietà delle associazioni costituitesi secondo la stessa legge, secondo quanto prevedono gli artt. 18 e 19, i quali richiamano per quanto riguarda la disciplina istitutiva la già citata legge del 1901.54 Inoltre l'art. 19, dopo aver stabilito che dette associazioni devono perseguire unicamente scopi relativi alla religione ed alla pratica del culto, sancisce nei loro confronti il divieto di ricevere alcun finanziamento statale, regionale o comunale, specificando ulteriormente il principio già enunciato all'art.2; aspetto, questo, che rappresenta il secondo ambito in cui si concretizza il principio di separazione tra chiese e Stato.55 La situazione è tuttavia complicata dall'esistenza di regimi derogatori in alcuni dei 25 Départements56: i tre distretti alsaziani (Basso ed Alto Reno, Mosella), occupati dalla Germania tra il 1870 ed il 1918, nel tornare sotto l'amministrazione francese mantennero però il regime concordatario che aveva caratterizzato il ruolo delle religioni nell'ordinamento in conseguenza delle modifiche operate dalla legislazione tedesca nel periodo dell'occupazione, e che opera una distinzione fondamentale tra culti riconosciuti e culti permessi . Quel regime è ancora in vigore: di conseguenza, le religioni cattolica, protestante (luterana e calvinista) ed ebraica godono dello status 54 Art. 18: “Le associazioni istituite per coprire i costi, il mantenimento ed il pubblico esercizio di un culto sono costituite in conformità agli art. 5 e seguenti della Legge del primo luglio 1901. Sono inoltre soggette ai termini previsti da tale legge.” Art. 19: “Queste associazioni devono perseguire il solo scopo della pratica del culto [...] In aggiunta ai finanziamenti stabiliti all'art. 5 della Legge del primo luglio 1901, le associazioni devono ricevere il prodotto delle collette e delle operazioni di raccolta di fondi per coprire i costi dell'esercizio della religione, e ricevere pagamenti per i servizi religiosi e le cerimonie [...]. I loro finanziamenti, effettuati grazie al loro reddito in eccesso, ad altre associazioni costituite per gli stessi scopi, non sono soggetti a tassazione. Non ricevono finanziamenti dallo Stato, dai Départements e dai Consigli Municipali sotto forma alcuna. Le somme stanziate per la manutenzione dei suddetti edifici non sono classificate come finanziamenti.” 55 I principi in questione vengono affermati in modo piuttosto draconiano. Tuttavia, non è difficile notare come vengano spesso applicati in maniera abbastanza elastica: un esempio di questa tendenza è costituito dall'approvazione della Legge del 19 agosto 1920, con la quale il Parlamento autorizzò un versamento di 50.000 franchi per sovvenzionare la costruzione, terminata nel 1926, della Moschea di Parigi. Cfr. B. BASDEVANT-GAUDEMENT, “The legal status of Islam in France”, in S. FERRARI, A. BRADNEY (a cura di), “Islam and european legal systems”, Dartmouth Ashgate, Aldershot, 2000, e Haut Conseil à l'integration, report “L'Islam dans la République”, 2000, pp. 14-15, www.hci.fr. 56 Con qualche ricaduta anche nei Départements d'oltremare, quale ad esempio la Guyana. Haut Conseil à l'integration, report “L'Islam dans la République”, 2000, p. 15, www.hci.fr. 27 di culti riconosciuti, il che comporta notevoli vantaggi soprattutto dal punto di vista economico, visto che i rispettivi ministri sono stipendiati dallo stato, o meglio dalle amministrazioni regionali. L'islam invece non gode di tale riconoscimento, né si prevedono mutamenti in questo senso57. Di conseguenza il culto musulmano è nella condizione di culto “permesso”, ma non riconosciuto, status che implica, oltre all'assenza di finanziamenti secondo la disciplina regionale, l'impossibilità di accedere automaticamente alla legge ordinaria legge sulle associazioni del 1901 come emendata nel 198158, nonostante una recente riforma abbia facilitato questo meccanismo, consentendo anche alle organizzazioni non riconosciute di conseguire la personalità giuridica. Insomma, l'ordinamento francese costituisce uno dei più chiari esempi di quella categoria di ordinamenti denominati indifferenti, o laicisti, che negano qualsiasi rilievo alla dimensione religiosa in ambito pubblico, a cui corrisponde però una forte tutela dei diritti individuali, anche in ambito religioso, e dell'uguaglianza di tutti i cittadini che non vengono differenziati in base all'appartenenza religiosa.59 Questo tipo di approccio alla tutela dei diritti, tuttavia, negli ultimi anni ha iniziato ad incontrare serie difficoltà di fronte alla richiesta sempre più diffusa di riconoscimento di diritti anche collettivi60. Nel caso della comunità islamica francese, questa difficoltà è sorta soprattutto in relazione a due motivi. Il primo è rappresentato dal passato coloniale della Francia, e dalla conseguente fisiologica tensione che corre nelle relazioni tra autorità statali ed immigrati musulmani delle ex colonie. A questo si aggiunge una diffusa percezione dell'islam stesso come fondamentalmente incompatibile, per la sua stessa natura, con i valori repubblicani, in particolare con il concetto di laicità: come relazionarsi con questa religione così pervasiva, che penetra in ogni aspetto della vita sociale e quotidiana 57 Cfr. B. BASDEVANT-GAUDEMENT, “The legal status of Islam in France”, in S. FERRARI, A. BRADNEY (a cura di), “Islam and european legal systems”, Dartmouth Ashgate, Aldershot, 2000, p. 100. 58 Dato che, in conformità all'art. 61/II del locale Codice civile, il prefetto può opporsi alla registrazione di qualsivoglia gruppo politico, socio-politico o religioso nel registro delle associazioni.B. BASDEVANT-GAUDEMENT, “The legal status of Islam in France”, in S. FERRARI, A. BRADNEY (a cura di), “Islam and european legal systems”, Dartmouth Ashgate, Aldershot, 2000, p. 118, nota 5. 59 F. PALERMO, J. WOELK “Diritto costituzionale comparato dei gruppi e delle minoranze”, Cedam, 2008, pp. 198-200. 60 F. PALERMO, J. WOELK “Diritto costituzionale comparato dei gruppi e delle minoranze”, Cedam, 2008, p. 200. 28 degli individui, giungendo a disciplinare aspetti ed ambiti - come vestirsi, cosa mangiare e cosa no, come uccidere gli animali, e così via...- che le religioni occidentali, in particolare quella cristiana, trascurano quasi completamente? 61 A sollevare interrogativi è anche la differenza nella vincolatività delle norme religiose islamiche rispetto a quelle delle religioni occidentali, sempre con riferimento particolare al cristianesimo. Il contrasto tra i precetti islamici ed il concetto di laicità francese è percepito soprattutto nella misura in cui questi due ordini di norme, per il fedele musulmano dotati della stessa forza coercitiva, si pongono in conflitto l'uno con l'altro nella disciplina di un medesimo campo della vita pubblica: come conciliare un ordinamento che presuppone la totale separazione tra dimensione religiosa e vita pubblica con una religione i cui precetti disciplinano anche, in grande misura, proprio gli aspetti pubblici e sociali dell'esistenza? Certo, il conflitto non riguarda solo l'islam. Tuttavia, questo tipo di contrasti hanno coinvolto in grande misura la religione musulmana, e si sono verificati in diversi ambiti che sarà opportuno analizzare dettagliatamente. 1.4 La legislazione ordinaria 1.4.1 Velo e simboli religiosi Uno degli ambiti in cui è più intenso il conflitto tra l'ordinamento francese e la comunità islamica è sicuramente quello della presenza dei simboli religiosi nella sfera pubblica: si tratta di una questione che rappresenta in modo molto chiaro gli aspetti più problematici del rapporto tra il concetto di laicità e la presenza islamica nello stato francese. Il sistema di netta separazione tra dimensione religiosa e sfera pubblica incappa in un cortocircuito quando a scontrarsi sono la già citata concezione di laicità e, ad esempio, i precetti islamici sull'abbigliamento, che il fedele musulmano considera vincolanti almeno quanto le norme dell'ordinamento 61 “Questa diversità sta alla base di molte difficoltà che le comunità musulmane incontrano in Europa occidentale dove si è consolidata una nozione di libertà religiosa e un sistema di relazioni tra Stati e religioni che è modellato sulle esigenze del cristianesimo ma non si adatta ugualmente bene alle caratteristiche delle altre religioni.” S. FERRARI, “Lo statuto giuridico dell' islam in Europa occidentale”, in S. FERRARI (a cura di), “Islam ed Europa: i simboli religiosi nei diritti del Vecchio continente”, Carocci editore, Roma, 2006, pp. 19. 29 francese62. La questione non rappresenta certo una novità: naturalmente le norme e la giurisprudenza che disciplinano il rapporto tra sfera pubblica e simboli dell'appartenenza religiosa hanno carattere neutrale e non si rivolgono ad un culto in particolare; tuttavia, l'ordinamento francese si è trovato ad avervi a che fare soprattutto con riguardo al problema dell'uso del velo63 da parte di donne e ragazze di religione musulmana, in tutti gli ambienti pubblici ma in particolare nelle scuole 64: in Francia circa l'80% degli studenti frequenta la scuola pubblica, che in quanto tale è caratterizzata dall'applicazione del principio di laicità65. A definire i termini della questione, tuttavia, non sono stati strumenti di tipo legislativo, ma, soprattutto all'inizio, si è trattato di interventi della giurisprudenza amministrativa, chiamata a dare risposta a conflitti sorti soprattutto in ambiente scolastico. La vicenda muove i primi passi nel 1989 con l'emissione di un parere da parte del Consiglio di Stato, interpellato nella sua funzione di organo consultivo, datato 27 novembre66, nel quale si afferma che simboli religiosi e principio di laicità come 62 “La vicenda francese del foulard musulmano risulta paradigmatica, da una parte, delle aporie tuttora esistenti nella costruzione di uno Stato costituzionalmente laico, e, dall'altra, di come certe reazioni ispirate dalla volontà di difendere il patrimonio repubblicano a fronte di una religione che ne disvela le contraddizioni possano rendere più incerto l'approdo dell'islam a quelli che si sono individuati come i due esiti principali della sua inculturazione in terra d'Europa: la centralità dell'individuo fedele e la progressiva trasformazione in 'discorso razionalmente comprensibile' del contenuto etico-politico del suo messaggio.” A. FERRARI, “Velo musulmano e laicità francese: una difficile integrazione”, in S. FERRARI (a cura di), “Islam ed Europa: i simboli religiosi nei diritti del Vecchio continente”, Carocci editore, Roma, 2006, pp. 96-97. 63 “Per hijab pare che si possa intendere un velo che copre la testa, in particolare i capelli, ma forse anche il corpo dai polsi alle caviglie, incluso il petto fino al collo. In questo secondo significato, si possoon io lasciare scoperte le mani, il viso ed eventualmente i piedi. Altre forme sciite di chador, niqab (velo anche sul volto) e burqa (copertura totale di colore nero, guanti compresi), sono considreate non riconducibili al Corano ed alla Sunna. [...] A differenza di altri simboli religiosi, l'obbligo è incondizionato dal punto di vista delle norme religiose, cioè non circoscritto nel tempo e nello spazio, ad esempio ad orari di preghiera, a periodi di ramadan o a luoghi sacri.” J. LUTHER, “Il velo scoperto dalla legge: profili di giurisprudenza costituzionale comparata”, in S. FERRARI (a cura di), “Islam ed Europa: i simboli religiosi nei diritti del Vecchio continente”, Carocci editore, Roma, 2006, p. 65. 64 “La tenue vestimentaire est le signe le plus spectaculaire d'appartenance religieuse. Si le fait que certains jeunes garçons cherchent à être identifiés comme musulmans en se laissant pousser la barbe, même naissante, ne pose guère de problème, le port, par certaines jeunes filles, d'un voile leur enserrant le visage et leur couvrant les oreilles, le cou et les cheveux est beaucoup plus délicat à gérer. La question du foulard symbolise, plus que toute autre, les tensions qu'est susceptible de provoquer la réception de l'Islam par l'école française.” Haut Conseil à l'integration, report “L'Islam dans la République”, 2000, p. 49, www.hci.fr. 65 Dati contenuti in B. BASDEVANT-GAUDEMENT, “Islam in France”, in R. ALUFFI BECKPECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, p. 73. 66 Il parere era stato richiesto dall'allora ministro della Pubblica Istruzione Lionel Jospin, in seguito 30 inteso dall'ordinamento francese non sono di per sé tra loro aprioristicamente incompatibili, in quanto il diritto di esporre ed indossare tali simboli costituisce uno degli aspetti dell'esercizio della libertà di espressione e della pratica della propria religione. Tuttavia, questi due elementi giungono ad un contrasto quando i segni dell'appartenenza religiosa vengono “inalberati” in modo da costituire un'ostentazione provocatrice ed impositiva della propria appartenenza religiosa, trasformandosi in proselitismo o propaganda.67 Il parere del Consiglio di Stato dunque prefigura una sorta di “compromesso” tra la tutela della libertà religiosa e il rispetto del principio di laicità, che fino ad allora era stato inteso come separazione netta tra le espressioni di appartenenza ad una comunità religiosa e la dimensione pubblica. Ciò che emerge dall'opinione del Consiglio di Stato è l'idea che sì, i simboli religiosi portati in pubblico sino accettabili, in nome del rispetto della libertà di espressione, anche religiosa, ma fino ad un certo punto: quando la loro ostensione diventa eccessiva in quanto appare imporsi nell'ambito pubblico in modo provocatorio, impositivo, propagandistico, ecco che il limite posto dal principio di laicità è superato, e la presenza del simbolo religioso nell'ambiente pubblico non è più tollerata dall'ordinamento68. Il parere del Consiglio di Stato viene seguito a distanza di pochi giorni da una circolare del Ministro della pubblica istruzione, datata 12 dicembre 1989, la quale, conformandosi alle raccomandazioni contenute nel parere del 27 novembre, vieta l'ostentazione di segni che contraddicano i principi di uguaglianza e non discriminazione ampiamente tutelati nell'ordinamento francese, rivolgendosi ad una questione sorta in una scuola media di Creil in relazione al comportamento di tre studentesse musulmane. A. FERRARI, “Velo musulmano e laicità francese: una difficile integrazione”, in S. FERRARI (a cura di), “Islam ed Europa: i simboli religiosi nei diritti del Vecchio continente”, Carocci editore, Roma, 2006, p. 106. 67 “Le port par les élèves de signes par lesquels ils entendent manifester leur appartenance à une religion n'est pas par lui-même incompatible avec le principe de laïcité dans la mesure où il constitue l'exercice de la liberté d'expression et de manifestation de croyances religieuses mais cette liberté ne saurait permettre aux élèves d'arborer des signes d'appartenance religieuse qui, par leur nature, par les conditions dans lesquelles ils seraient portés individuellement ou collectivement, ou par leur caractère ostentatoire ou revendicatif, constitueraient un acte de prosélytisme ou de propagande, porteraient atteinte à la dignité ou à la liberté de l'élève ou d'autres membres de la communauté éducative, compromettraient leur santé ou leur sécurité, perturberaient le déroulement des activités d'enseignement et le rôle éducatif des enseignants, enfin troubleraient l'ordre dans l'établissement ou le fonctionnement normal du service public.” Avis n. 346839, 27.11.1989, www.conseil-etat.fr. 68 Cfr. J. LUTHER, “Il velo scoperto dalla legge: profili di giurisprudenza costituzionale comparata”, in S. FERRARI (a cura di), “Islam ed Europa: i simboli religiosi nei diritti del Vecchio continente”, Carocci editore, Roma, 2006, pp. 63 ss. 31 soprattutto agli insegnanti, cui viene fatto presente l'obbligo, imposto dal principio di laicità, di “evitare ogni marchio distintivo di natura filosofica, religiosa o politica che reca pregiudizio alla libertà di coscienza dei minori e al ruolo educativo riconosciuto alle famiglie.69” La circolare di Jospin fu seguita a breve da altri documenti dello stesso tipo, che ne confermarono sostanzialmente l'orientamento, precisandone alcuni aspetti: la circolare del ministro Bayrou, succeduto a Jospin al Ministero della Pubblica Istruzione, specifica ulteriormente il ruolo degli insegnanti, cui viene richiesto di compiere una valutazione che distingua i simboli religiosi palesemente ostentati, che costituirebbero “elementi di proselitismo di per sé”, dunque non accettabili, dai simboli definiti “discreti”, al contrario ammissibili70. Negli anni successivi, il contenzioso sulla questione letteralmente esplode, e nel volgere di qualche anno il Consiglio di Stato è chiamato a pronunciarsi, non più in veste di organo consultivo ma nel ruolo di giudice, su numerosi casi di conflitto verificatisi proprio all'interno degli istituti scolastici pubblici, tra autorità scolastiche ed alunne musulmane che rivendicavano il proprio diritto a portare il velo anche nel tempo trascorso a scuola71. La definizione dei concetti di laicità e di intento di “provocazione, proselitismo o [...]propaganda” nell'uso dei simboli religiosi non erano affatto definiti in modo preciso nel parere del 1989: il Consiglio di Stato in quell'occasione non aveva fornito precisi criteri di valutazione né per il personale scolastico che avesse avuto a che fare con situazioni di questo genere, né per i tribunali che avessero dovuto decidere su ricorsi proposti in seguito a conflitti di questo tipo. Non vincolato da precise 69 J. LUTHER, “Il velo scoperto dalla legge: profili di giurisprudenza costituzionale comparata”, in S. FERRARI (a cura di), “Islam ed Europa: i simboli religiosi nei diritti del Vecchio continente”, Carocci editore, Roma, 2006, p. 75. 70 Cfr. B. BASDEVANT-GAUDEMENT, “Islam in France”, in R. ALUFFI BECK-PECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, p. 73. “The Bayrou circular of 20 September 1994 sought to affirm headmasters’ competence to take such decisions as part of their responsibility to instil and maintain school discipline, of which ensuring laïcité is a part. Overall, interpretations of the circular have led to a hardening of headmasters’ policy; the internal regulations of colleges and high schools clearly have become more hostile to the practice of wearing a veil.”The situation of Muslims in France. Monitoring the EU accession process: minority protection”, Open Society Institute 2002, p. 93. 71 Tra il 1992 ed il 1999, si contano 49 cause relative non solo all'uso del velo islamico nelle scuole, ma a diversi ambiti, specialmente l'educazione fisica e l'attività del nuoto in particolare, su cui si è pronunciato il Consiglio di Stato. Cfr. The situation of Muslims in France. Monitoring the EU accession process: minority protection”, Open Society Institute 2002, p. 93. 32 definizioni, il Consiglio di Stato, nelle sentenze successive e soprattutto in alcuni casi divenuti paradigmatici, giunge a definire il concetto di laicité tolerante, grazie al quale si afferma il diritto di ciascuno ad esprimere sia nella collettività che come individuo l'appartenenza ad una comunità religiosa, in una visione temperata del principio di laicità72. I casi Kheroua del 2 novembre 1992, Yilmaz del 14 marzo 1994, Aoukili del 10 marzo 1995 e M.lle X del 9 ottobre 1996 contribuiscono all'affermazione, in via giurisprudenziale, del principio per cui la scuola attraverso i propri regolamenti non può imporre un divieto indiscriminato, ma promuovere la tolleranza nei confronti della diversità dei simboli religiosi, in particolare del velo.73 Nel 2003, l'evoluzione del problema compie passi decisivi: in aprile il ministro degli Interni Sarkozy si dichiara contrario all'utilizzo di fotografie in cui si indossa il foulard nei documenti di identità in un incontro con i musulmani dell'UOIF, l'Unione delle Organizzazioni Islamiche Francesi, aprendo un dibattito che sfocerà in quella che è conosciuta ormai come la “legge sul velo” del 2004.74 Nei mesi successivi, la riflessione sul rapporto tra laicità e simboli religiosi viene affidata a due commissioni diverse per finalità e composizione. Il 18 novembre la Commissione parlamentare Debré, istituita dal Presidente dell'Assemblea Nazionale e composta da deputati, pubblica il proprio rapporto sulla “questione dei segni religiosi nella scuola”. Il il 12 dicembre la Commissione Stasi, voluta dal Presidente della Repubblica e composta da venti esperti della materia, pubblica il “Rapporto sulla laicità”: in esso oltre ad affermare una visione non dogmatica del principio di laicità75 si definisce la scuola 72 “This principle has been applied in a majority of the 49 cases which reached the Council of State between 1992 and 1999; in 41 of these cases, a school administration’s decision to restrict the right to wear the veil was overruled.” “The situation of Muslims in France. Monitoring the EU accession process: minority protection”, Open Society Institute 2002, p. 93. 73 Cfr. J. LUTHER, “Il velo scoperto dalla legge: profili di giurisprudenza costituzionale comparata”, in S. FERRARI (a cura di), “Islam ed Europa: i simboli religiosi nei diritti del Vecchio continente”, Carocci editore, Roma, 2006, p. 75. “The Council of State has affirmed repeatedly that religious belonging and laïcité should be considered compatible, and case-law since 1989 has tended to favour the plaintiffs (i.e. the girls wishing to wear the veil).” The situation of Muslims in France. Monitoring the EU accession process: minority protection”, Open Society Institute 2002, p. 94 74 Cfr. A. FERRARI, “Velo musulmano e laicità francese: una difficile integrazione”, in S. FERRARI (a cura di), “Islam ed Europa: i simboli religiosi nei diritti del Vecchio continente”, Carocci editore, Roma, 2006, p. 115, nota 55. 75 Il rapporto imposta la questione della laicità affermando la necessità di una “[...] scelta precisa tra due modelli di laicità concretamente sperimentati: uno 'combattivo, anticlericale'; l'altro 'mirante alla reciproca separazione tra Stato e religioni nel rispetto di tutte le opzioni spirituali'. [...]Così, se 33 pubblica in particolare come il luogo che consente ai propri studenti la formazione di una libera coscienza, e proprio la tutela di questa libertà, assicurata in via principale dal principio di laicità, fonda nel parere della Commissione la possibilità di limitare la manifestazione della libertà religiosa in ambito scolastico, compresa l'esibizione dei segni religiosi. Tuttavia, nonostante le premesse improntate ad un notevole grado di pluralismo, il Rapporto affronta poi il problema del velo, attorno a cui ruota l'intera questione dei simboli religiosi, come attinente non tanto alla libertà di coscienza ma all'ordine pubblico, poiché “troppo spesso fonte di conflitti, di divisioni ed anche di sofferenze.”76 Insomma, se fino a quel momento una legge che regolamentasse l'utilizzo e l'esposizione dei simboli religiosi negli ambienti pubblici era stata ritenuta non necessaria, se non addirittura nociva, a partire dalla fine del 2003 in pochi mesi ne viene stilato un progetto, che diventa definitivo con l'approvazione della Legge n. 2004-228 del 15 marzo 200477, che disciplina “[...]in applicazione del principio di laicità, l'esposizione di segni o tenute che manifestano una appartenenza religiosa nelle scuole, nei collegi e nei licei pubblici”. La legge in sostanza modifica il testo dell'art. L141-5-1 del Codice dell'Educazione, che dopo l'approvazione della legge prevede appunto il divieto di portare, nelle scuole, nei collegi e nei licei pubblici, segni o tenute di abbigliamento che “manifestino ostentatamente una appartenenza religiosa”; per le eventuali infrazioni viene espressamente prevista una procedura disciplinare, preceduta da un tentativo di conciliazione con lo studente.78 Rimangono tuttavia i problemi che avevano caratterizzato l'applicazione dei principi affermati dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato: la legge non fornisce alcun appiglio interpretativo per definire più precisamente il concetto di ostentazione nel da una parte 'la difesa della libertà di coscienza dell'individuo contro ogni proselitismo completa [...]le nozioni di separazione e di neutralità centrali nella legge di separazione del 1905' dall'altra, la laicità francese rifiuta ogni 'velo d'ignoranza' rispetto al fatto spirituale o religioso collettivamente inteso, [...]legittimato al pari di ogni altro fatto sociale[...]a manifestarsi liberamente nello spazio pubblico.” A. FERRARI, “Velo musulmano e laicità francese: una difficile integrazione”, in S. FERRARI (a cura di), “Islam ed Europa: i simboli religiosi nei diritti del Vecchio continente”, Carocci editore, Roma, 2006, p. 117. 76 A. FERRARI, “Velo musulmano e laicità francese: una difficile integrazione”, in S. FERRARI (a cura di), “Islam ed Europa: i simboli religiosi nei diritti del Vecchio continente”, Carocci editore, Roma, 2006, p. 120. 77 Cfr. D. TEGA, “Il parlamento francese approva la legge 'anti-velo'”, in “Quaderni Costituzionali”, 2004, n.2, pp. 398 ss. 78 Il testo della legge in tutte le sue versioni ed il Codice dell'educazione sono consultabili al sito www.legifrance.gouv.fr. 34 modo di indossare o portare su di sé particolari simboli di appartenenza religiosa79, rendendo le cose particolarmente difficili agli insegnanti ed ai presidi che devono compiere tale valutazione80. La legge, inoltre, ha finora sollevato molte perplessità e non poche critiche da parte delle chiese e delle comunità religiose francesi81, in special modo, come si può facilmente intuire, da parte dei rappresentanti dei musulmani di Francia, proprio perché la legge è percepita come direttamente finalizzata a proibire l'uso del velo, e perché in effetti le sue ricadute pratiche più importanti si sono verificate in quell'ambito82: da più parti si è sottolineato come la genericità dei termini in cui viene impostata la questione rendono molto difficoltoso per i pubblici funzionari, e per i presidi e gli insegnanti in modo particolare, specificarne il significato e d i contenuti a livello regolamentare; e non si è potuto non notare come appunto il rinvio fatto ai regolamenti interni degli istituti comporti il 79 “La scelta di rinunciare a fondare l'interdizione dei segni religiosi sulla base della loro semplice 'visibilità', optando, invece, per una più indefinita 'ostensibilità' è dipesa dalla consapevolezza del legislatore di muoversi all'interno di un ordinamento complesso.[...]Per alcuni, infatti, con il riferimento all'ostensibilità non si fa che identificare 'tenute o segni che oggettivamente sono esteriorizzati', destinati, dunque, ad essere interdetti, 'anche se (non presentino) nulla di ostentatorio o di provocante.” A. FERRARI, “Velo musulmano e laicità francese: una difficile integrazione”, in S. FERRARI (a cura di), “Islam ed Europa: i simboli religiosi nei diritti del Vecchio continente”, Carocci editore, Roma, 2006, p. 130. 80 Mentre al contrario il filosofo Jean Baubérot, componente della Commissione Stasi, si era astenuto dall'approvare il testo finale del rapporto proprio a causa di quel passaggio sui segni religiosi, ritenuto formulato in modo tale da non consentire uno spazio abbastanza ampio all'interpretazione. Cfr. A. FERRARI, “Velo musulmano e laicità francese: una difficile integrazione”, in S. FERRARI (a cura di), “Islam ed Europa: i simboli religiosi nei diritti del Vecchio continente”, Carocci editore, Roma, 2006, p. 124. 81 “Con una lettera al capo dello Stato(9 dicembre) le Chiese cristiane (cattolica, protestante, ortodossa) hanno infatti riaffermato la loro opposizione a una legge che vieti i simboli religiosi nelle scuole: le difficoltà non si risolvono legiferando e il dibattito politico in corso induce a pensare che si sia tornati all'antica laicité de combat. Anche il presidente del Consiglio islamico, il gran rabbino di francia ed il presidente del Consiglio ebraico si sono pronunciati nello stesso senso.” F. MARGIOTTA BROGLIO, “La legge francese sui simboli religiosi un anno dopo”, in A. FERRARI, “Velo musulmano e laicità francese: una difficile integrazione”, in S. FERRARI (a cura di), “Islam ed Europa: i simboli religiosi nei diritti del Vecchio continente”, Carocci editore, Roma, 2006, p. 135. 82 “The law of 15 March 2004 stipulated that the wearing of signs or apparel whereby pupils openly display a religious allegiance is forbidden in state primary, lower secondary and upper secondary schools. The law provides that disciplinary action in the matter must be preceded by dialogue with the pupil. The law has been extensively debated, and there has been anxiety in some quarters about its possible ill-effects in that Muslim girls of school age who wear the headscarf as a religious symbol may be driven to social exclusion and radicalisation of their position. The French authorities have informed ECRI that the law was enacted with a view to upholding the principle of secularity in France. ECRI hopes that there will be no negative consequences for young Muslim females wearing the veil, who form the majority of the population concerned. In this connection, ECRI encourages the French authorities to assess this measure from the perspective of indirect discrimination, particularly at the time of carrying out an evaluation of the law’s implementation as provided for in the law.” European Commission against Racism and Intolerance, “Third report on France”, n. CRI(2005)3, 15.2.2005, p. 22, punto 79. 35 rischio dell'applicazione di discipline differenziate in ogni scuola, sia per quanto riguarda l'ambito di applicazione delle sanzioni sia in relazione alla gravità delle stesse. Neppure l'emanazione, da parte del ministro della Pubblica istruzione Fillon, della circolare del 18 maggio sull'applicazione della legge, pur specificando maggiormente il ruolo dei docenti, ha dissipato i dubbi esistenti soprattutto sul significato dei simboli e sulla valutazione delle intenzioni di chi li espone, lasciando irrisolta la questione della differenza tra simboli religiosi “ostentati” e “discreti”, lasciando aperta la possibilità della formazione di una ulteriore giurisprudenza del Consiglio di Stato in materia. Una legge rivolta alla generalità dei simboli religiosi, dunque, ha finito per interessare soprattutto la comunità musulmana francese, proprio per la natura e l'importanza che ricoprono i simboli religiosi islamici, quale è il velo, nella vita sociale dei fedeli musulmani, caratteristica che contrasta nettamente con l'idea di reigida separazione tra appartenenza religiosa e sfera pubblica che la legge del 2004, nonostante i precedenti giurisprudenziali e l'impostazione “elastica” delle relazioni preparatorie, sembra esprimere, secondo l'opinione delle comunità religiose interessate. 1.4.2 Religione e scuola: l'islam nei programmi scolastici e l' “ora di religione” Negli ultimi anni, la scuola pubblica francese sembra essere stata più di ogni altra istituzione il luogo in cui laicité ed istanze rivendicative dell'appartenenza ad una comunità, una minoranza, un gruppo religioso (in particolare quest'ultimo aspetto) si sono scontrate in modo particolarmente aspro: perché dunque proprio la scuola? Perché non un altro spazio pubblico? É stato spesso sottolineato, a questo proposito, il particolare ruolo dell'istruzione pubblica in Francia: simbolo dell'emancipazione della Repubblica dalla Chiesa, la scuola pubblica è vista come luogo di formazione dei cittadini e simbolo di una più estesa società politica volutamente astratta ed impersonale, dove i diritti sono riconosciuti agli individui in quanto cittadini: “La scuola pubblica e laica è sorta per 36 svolgere la funzione di istitutrice della Nazione, per ripetere nei confronti di ogni singolo individuo la stessa opera di emancipazione svolta a favore della patria intera.”83 La scuola, dunque, come campo di applicazione per eccellenza del principio di laicità, secondo il principio della “neutralizzazione dello spazio scolastico, sottratto alle pressioni commerciali, politiche, religiose”84: non sorprende quindi, alla luce di queste motivazioni, che proprio nell'ambiente scolastico il conflitto tra laicité ed espressione religiosa abbia raggiunto il grado massimo di tensione. Proprio per questo, oltre all' affaire del velo, che ha suscitato il maggiore scalpore e le più forti reazioni dell'opinione pubblica, ma che non per questo costituisce l'unico aspetto del problema degno di essere analizzato, é interessante analizzare il ruolo della religione all'interno della scuola stessa, non limitando l'osservazione al trattamento dei segni esteriori ma rivolgendo l'attenzione ad altre e diverse ricadute pratiche della questione. Per iniziare, ci si può concentrare dapprima sull'analisi dell'art. 10 della legge del 10 luglio 1989, n. 89-486, altrimenti nota come “legge Jospin” o Legge di orientamento sull'educazione. Tale articolo, oggi incorporato nell'art. L511-2 del Codice dell'educazione, da una parte riconosce la libertà di informazione e di espressione agli studenti degli istituti di istruzione secondaria inferiore e superiore; questa libertà però, d'altro canto, risulta subordinata al rispetto del pluralismo, del principio di neutralità e delle attività di insegnamento.85 Un' ulteriore specificazione del principio in questione si trova (paradossalmente) nel primo articolo della Legge del 1959 sull'insegnamento privato86, che ha modificato, con i commi 1 e 3, l'art. L141-2 del Codice dell'educazione, e che si è rivelato, in misura maggiore rispetto ad altre disposizioni, lo strumento attraverso il quale la manifestazione delle appartenenze, anche religiose, degli studenti ha trovato spazio nell'ambiente scolastico.87 La natura 83 A. FERRARI, “Velo musulmano e laicità francese: una difficile integrazione”, in S. FERRARI (a cura di), “Islam ed Europa: i simboli religiosi nei diritti del Vecchio continente”, Carocci editore, Roma, 2006, p. 102. 84 R. DEBRAY, “Ce que nous voile le voile”, Gallimard, Paris, 2003, p. 21. 85 I testi di legge ed i codici sono tutti consultabili al sito www.legifrance.gouv.fr. 86 In Francia pressoché interamente confessionale. Cfr. A. FERRARI, “Velo musulmano e laicità francese: una difficile integrazione”, in S. FERRARI (a cura di), “Islam ed Europa: i simboli religiosi nei diritti del Vecchio continente”, Carocci editore, Roma, 2006, p. 104. 87 Art. L141-2: “Suivant les principes définis dans la Constitution, l'état assure aux enfants et adolescents dans les établissements publics d'enseignement la possibilité de recevoir un 37 laica ed il carattere non religiosamente connotato dell'istruzione pubblica in Francia sono così chiaramente delineati. Queste caratteristiche, però, oltre ad essere rilevanti nell'ambito dell'esposizione dei simboli religiosi, rilevano anche con riguardo ai contenuti stessi dei programmi di insegnamento. La cosiddetta “ora di religione” è prevista nell'ambito dei programmi di insegnamento solamente nei distretti dell'Alsazia-Mosella, in forza del regime concordatario di origine tedesca ancora in vigore, come già accennato nei paragrafi precedenti. La previsione è applicata diffusamente con riguardo alla religione cattolica e con una certa frequenza per la religione protestante. Lo stesso avviene se un numero sufficiente di studenti di religione ebraica ne fa richiesta. Ciò si verifica invece piuttosto raramente con riguardo alla religione islamica, sebbene questo non dipenda dal fatto che in quelle regioni l'islam non goda dello status di religione riconosciuta, dato che la possibilità di ottenere l'insegnamento religioso non dipende dalla condizione del culto in questione ma piuttosto dalla legislazione in ambito scolastico88. Al di fuori del particolare regime giuridico che caratterizza questi tre Départements, comunque, nei programmi delle scuole pubbliche francesi non è in alcun modo previsto l' insegnamento delle religioni, in nome del principio di neutralità precedentemente delineato. Chi desidera ricevere un'istruzione che preveda anche l'insegnamento religioso, deve rivolgersi alle scuole confessionali, le quali rappresentano la quasi totalità degli istituti privati del paese. La loro istituzione ed il loro funzionamento sono regolamentati dalla già citata legge Debré del 1959, che prevede una duplice disciplina per i rapporti tra Stato e scuole private, che possono scegliere, a seconda del contratto di finanziamento che concludono con lo Stato, quale grado di autonomia conservare nella scelta dei programmi e quale tipo di enseignement conforme à leurs aptitudes dans un égal respect de toutes les croyances. L'état prend toutes dispositions utiles pour assurer aux élèves de l'enseignement public la liberté des cultes et de l'instruction religieuse.” www.legifrance.gouv.fr. 88 “The situation can be explained by historical considerations. The Roman Catholic, Protestant and Jewish religious hours have become part of local tradition. This is not so for the religious teaching for Muslims which have would be started up from scratch, and which would run into the usual difficulties (not enough qualified teachers, absence of financing, little understanding between the various Muslim communities)” B. BASDEVANT-GAUDEMENT, “The legal status of Islam in France”, in S. FERRARI, A. BRADNEY (a cura di), “Islam and european legal systems”, Dartmouth Ashgate, Aldershot, 2000, pp. 121-122, nota 38. 38 supporto economico ricevere. Per avere accesso a tali finanziamenti, tuttavia, l'istituto privato deve dimostrare di di aver operato autonomamente per un periodo minimo di cinque anni, senza alcun tipo di finanziamento statale.89 Così, sebbene in teoria l'islam non occupi nell'organizzazione del sistema scolastico francese una posizione inferiore rispetto a quella delle altre religioni, le condizioni concrete fanno sì che l'insegnamento religioso musulmano sia molto poco diffuso anche nell'ambito dell'istruzione privata. Altra cosa sono le scuole coraniche: ma queste ultime, che sono spesso in funzione presso i locali delle moschee o delle sale di preghiera, ed effettivamente sono frequentate da un numero di persone, sia adulti che bambini, non indifferente, non hanno alcun legame con il sistema dell'istruzione nazionale, né sono riconosciute o controllate dallo stato in alcun modo. Di conseguenza non possono costituire un esempio di interazione tra istruzione religiosa e istituzioni nazionali, in quanto costituiscono un fenomeno, seppure assai diffuso, totalmente sotterraneo. Piuttosto, il conflitto tra religione musulmana e pubblica istruzione, tralasciando i prevedibili casi di contestazioni relative ai contenuti dei programmi di storia e di materie scientifiche quando in contrasto con i principi fondamentali dell'islam, diventa evidente quando si parla dell'obbligo di frequenza alle lezioni per ogni tipo di attività: in molti casi le studentesse musulmane non partecipano alle lezioni di educazione fisica o ai corsi di nuoto in ossequio alle proibizioni contenute nei precetti islamici. L'alto consiglio per l'integrazione, tuttavia, nel report sulla situazione dell'islam in Francia presentato al Ministro degli interni nel 2000 ha notato che l'assenza da queste lezioni non viene motivata esplicitamente sulla base delle 89 “Officially, private schools cannot benefit from public financial support of more than one tenth of their annual expenses. For many years, private schools were sponsored exclusively by private sponsors, though several forms of indirect assistance were available, such as allocation of rooms, State social grants for pupils (children attending private schools are eligible for these grants since 1951). The Debré Law of 1959 introduced two possibilities for a private school to receive State funding: the simple contract (contrat simple) and the contract of association (contrat d’association). Under a simple contract, staff expenses are covered by the State for teachers and State-accredited professors; though private schools with a simple contract have autonomy in determining the content of their curricula, they retain the obligation to prepare students for official degrees, and must use authorised books and organise the teaching programme in line with the programmes and schedule of public schools. The contract of association allows for more significant financial support: the State pays for staff expenses and also for material expenses on the basis of costs in the public sector. It also allows more freedom in defining the content of the teaching programme.” The situation of Muslims in France. Monitoring the EU accession process: minority protection”, Open Society Institute 2002, p. 92. 39 motivazioni religiose, ma che le bambine giustificano in seguito le assenze grazie a certificati rilasciati da medici compiacenti, pratica che ha fatto partire una serie di indagini in seno all'Ordine dei medici90. 1.5 Valutazioni Il rapporto dell'islam francese con le istituzioni statali e locali, dunque, incontra alcuni dei suoi aspetti più problematici proprio in ambito scolastico: da un lato per l'idea stessa che dei concetti di “istruzione” e di “pubblico” ha l'ordinamento francese; dall'altro, per quelle caratteristiche di pervasività e di valore coercitivo molto forte che presenta l'islam se paragonato, per esempio, al cattolicesimo o al protestantesimo, e, non meno importante, per quella funzione identitaria che ha assunto negli ultimi decenni proprio nelle comunità immigrate negli stati dell'Europa occidentale, prima tra tutti la Francia. Gli sforzi in ambito legislativo e giurisprudenziale per dare una risposta al problema sono stati molti negli ultimi anni: tuttavia, la situazione appare ancora molto conflittuale, sia per la difficoltà del dialogo tra le parti sia per le caratteristiche stesse delle soluzioni legislative. Tuttavia, i problemi in ambito scolastico riflettono un disagio più esteso, che riguarda in generale l'atteggiamento dell'ordinamento francese nei confronti del fenomeno religioso. Le difficoltà emerse soprattutto negli ultimi anni nella gestione della presenza nella sfera pubblica di una religione così diffusa in Francia quale è l'islam, e collegate alla difesa del principio di laicità come uno degli elementi caratterizzanti l'ordinamento francese, sono state rilevate anche dagli osservatori internazionali, nelle cui raccomandazioni si fa spesso riferimento al rischio che si verifichino quei fenomeni che rientrano nei casi di “discriminazione indiretta”91. 90 Cfr. Haut Conseil à l'integration, report “L'Islam dans la République”, 2000, p. 52, www.hci.fr. 91 “According to ECRI's General Policy Recommendation no. 7 on national legislation to combat racism and racial discrimination, indirect racial discrimination exists in cases where an apparently neutral factor such as a provision, criterion or practice,cannot be as easily complied with, or disadvantages, persons belonging to a group designated by a ground such as “race”, colour, language, religion, nationality or national or ethnic origin, unless this factor has an objective and reasonable justification. This latter would be the case if it pursues a legitimate aim and if there is a reasonable relationship of proportionality between the means employed and the aim sought to be realised.” European Commission against Racism and Intolerance, “Third report on France”, n. CRI(2005)3, 15.2.2005, p. 22, punto 79, nota 12. 40 CAPITOLO II BELGIO 2.1 La minoranza musulmana in Belgio Dal punto di vista storico, il Belgio non ha avuto a che fare con l'islam prima degli anni '60, nemmeno nel periodo coloniale; solo con l'intensificarsi del fenomeno migratorio l'ordinamento belga ha dovuto confrontarsi con una comunità musulmana piuttosto numerosa e radicata nel territorio. Infatti, se fino agli anni '50 in territorio belga i dati statistici92 riguardo la popolazione musulmana si limitano a rilevare qualche decina di studenti93, dal decennio successivo i lavoratori, provenienti soprattutto da Turchia e Marocco94, ed in misura minore da Algeria e Tunisia95, incrementano notevolmente le dimensioni della comunità islamica in Belgio, fino a renderla la seconda religione del paese, anche se notevolmente distanziata dal cattolicesimo, nettamente prevalente sugli altri culti96. All'aumento delle dimensioni della comunità corrisponde una sempre maggiore richiesta di riconoscimento sul piano istituzionale: infatti, l'evoluzione della posizione della minoranza musulmana all'interno dell'ordinamento belga si può dividere in tre momenti, ognuno dei quali 92 Dati, secondo alcuni autori, non troppo precisi, anche perché non in grado di differenziare tra i diversi modelli di islam presenti nella comunità degli immigrati musulmani: “It is impossible to quantify the number of Muslims in Belgium exactly, anymore than in others countries. There is no accurate census of religious practice, and this practice varies widely. For some Muslims it only means observing the Ramadan fast and a few dietary prohibitions, while for others it means performing the five pillars of Islam.” J. HALLET, “The status of Muslim Minority in Belgium”, in R. ALUFFI BECK-PECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, p. 39. 93 Cfr. J. RATH, R. PENNINX, K. GROENENDIJK, A. MEYER, “Western Europe and its Islam”, Brill, Leiden, 2001, e R. TORFS, “The legal status of Islam in Belgium”, in S. FERRARI, A. BRADNEY (a cura di), “Islam and european legal systems”, Dartmouth Ashgate, Aldershot, 2000. 94 Grazie anche alla conclusione da parte dello stato belga, nel 1964, di due convenzioni con gli stati di provenienza dei lavoratori, appunto Tirchia e Marocco, proprio in vista dell' aumento dei flussi migratori da questi due stati. Cfr. R. BISTOLFI, F.ZABBAL, “Islams d' Europe”, Editions de l'Aube, Paris, 1995. 95 Dati in J. HALLET, “The status of Muslim Minority in Belgium”, in R. ALUFFI BECK-PECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, pp. 39-40. 96 I dati statistici si basano essenzialmente sulla provenienza dei soggetti intervistati, dato che i principi costituzionali di laicità e libertà religiosa impediscono di svolgere indagini statistiche sull'appartenenza religiosa. L'omogeneità etnica piuttosto accentuata della comunità musulmana belga rende più semplice la deduzione. Cfr. R. TORFS, “The legal status of Islam in Belgium”, in S. FERRARI, A. BRADNEY (a cura di), “Islam and european legal systems”, Dartmouth Ashgate, Aldershot, 2000. 41 segna un passo successivo nel processo di riconoscimento istituzionale: una prima fase precedente il riconoscimento ufficiale, durante la quale, nel 1969, fu fondato il Centro Islamico e Culturale di Bruxelles, evento che viene indicato come una sorta di “primo passo” verso l' istituzionalizzazione dell'islam belga, avvenuta nel 1974. Il secondo periodo, che coincide con gli anni '80, vede una maggior consapevolezza della presenza dell'islam da parte della società belga: la comunità islamica diventa sempre più “visibile”, ed a questo mutamento sociale corrispondono maggiori sforzi per quanto riguarda il processo di istituzionalizzazione, in cui il ruolo principale è rivestito dal Centro Islamico e Culturale, il quale detiene in quel periodo una sorta di monopolio dei contatti con le autorità governative. Il terzo periodo, iniziato alla fine degli anni '80, è caratterizzato da un dibattito più aspro riguardo al ruolo dell'islam nell'ordinamento belga, dall'adozione di nuovi provvedimenti relativi alle politiche di immigrazione da parte del governo belga e dalla perdita da parte del CIC della sua posizione di supremazia nella rappresentanza della comunità islamica. Anche nel caso dell'islam belga, inoltre, non va dimenticato il problema della frammentazione all'interno della minoranza religiosa: infatti, sebbene la comunità islamica non sia caratterizzata da una grande varietà etnica, poiché, come già accennato in precedenza, gli immigrati musulmani si concentrano in due grandi blocchi di provenienza, essenzialmente la Turchia ed il Marocco, a cui si aggiunge una scarsa percentuale di immigrati algerini e tunisini, il problema della difficile armonizzazione tra le diverse tendenze e scuole di interpretazione si è posto anche nel corso del processo di istituzionalizzazione della comunità musulmana belga, soprattutto a causa della particolare posizione del Centro Islamico e Culturale all'interno della comunità stessa. Ne analizzeremo in seguito e più dettagliatamente la composizione: qui basti sapere che, fin dagli inizi “non ufficiali” della propria attività, il CIC fu finanziato ed influenzato nelle idee e nelle scelte dall'Arabia Saudita. Di conseguenza, il suo islam wahabita, influenzato dalla scuola giuridica hanbalita, non tardò a contrapporsi nettamente all'islam praticato dalla maggioranza degli immigrati turchi e marocchini,97causando ovviamente non pochi conflitti 97 Le contrapposizioni in questione si riferiscono alle diverse scuole di interpretazione giuridica, tutte riconducibili all'islam sunnita, che sono alla base delle principali differenziazioni nella pratica religiosa e nell'interpretazione dei precetti. Nate tutte dopo il 700, si riconoscono a vicenda come “ortodosse” e si sono diffuse in zone diverse del mondo islamico e costituiscono uno dei fattori della “frammentazione” anche nell'islam immigrato. La più importante, diffusa e sistematica è la 42 interni, data anche la sua posizione iniziale di unico rappresentante della comunità musulmana. 2.2 L'assetto costituzionale: i culti riconosciuti ed il rapporto tra istituzioni e religioni Prima di vedere nel dettaglio come la posizione istituzionale della comunità islamica belga si sia evoluta nel corso degli ultimi cinquant'anni, è opportuno analizzare l'evoluzione dell'ordinamento dal punto di vista costituzionale, per potervi collocare più precisamente il rapporto tra stato e religioni, il riconoscimento delle minoranze religiose, l'esercizio dei diritti e delle libertà religiose in generale. Il testo costituzionale risale al 1830, e in particolare per quanto riguarda lo status delle religioni si tratta del risultato di un compromesso tra liberali e cattolici, che ottennero congiuntamente l'indipendenza dall'Olanda98. Il testo in questione è stato modificato significativamente nel 1994: le libertà in ordine all'esercizio dei diritti religiosi sono tutelate a partire dall'art. 19, che garantisce la libertà sia di esercizio del culto sia di espressione più in generale, con il solo limite della repressione di delitti commessi in occasione dell'esercizio di queste libertà.99 Un ulteriore aspetto della tutela delle libertà religiose è specificato all'art. 20, nel quale si vieta la partecipazione forzata a qualsivoglia cerimonia o festività religiosa.100 La relazione tra Stato e chiese si basa sulla separazione e sulla reciproca scuola shafi'ita, diffusa in India ed Africa occidentale. In Maghreb è diffusissima la scuola malikita, fortemente influenzata dalle consuetudini locali, mentre l'islam turco è di tradizione hanafita, considerata la prima tra tutte le scuole di interpretazione, basata soprattutto sull'interpretazione individuale e sull'argomentazione. Dalla scuola hanbalita è derivato invece il movimento di riforma wahabita, tendenzialmente conservatore e tradizionalista, che ha da sempre appoggiato la monarchia saudita. In Arabia saudita è ancora oggi molto influente. Cfr. R. SACCO, “Il diritto africano”, Utet, Torino, 1995; H. HALM, “L'Islam”, Laterza, Bari, 2003; J. CESARI, “Muslims identities in Europe: the snare of exceptionalism”, in A. AL-AZMEH, E. FOKAS (a cura di), “Islam in Europe: diversity, identity and influence”, Cambridge University Press, Cambridge, 2007. 98 Cfr. J. HALLET, “The status of Muslim Minority in Belgium”, in R. ALUFFI BECK-PECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, p.40. 99 Art. 19: “La liberté des cultes, celle de leur exercice public, ainsi que la liberté de manifester ses opinions en toute matière, sont garanties, sauf la répression des délits commis à l'occasion de l'usage de ces libertés.” 100 Art. 20: “Nul ne peut être contraint de concourir d'une manière quelconque aux actes et aux cérémonies d'un culte, ni d'en observer les jours de repos.” 43 indipendenza: la Costituzione non riconosce alcuna religione ufficiale o di Stato, e tantomeno quest'ultimo può intervenire nell'organizzazione e nella gestione dei culti o nella designazione dei ministri, come prevede l'art. 21, il quale, oltre a disciplinare il ruolo dello Stato nei confronti dei ministri dei diversi culti, stabilisce anche la precedenza del matrimonio civile su quello religioso.101 Tuttavia, all'art. 181 è garantito un supporto finanziario da parte dello stato ai diversi culti, in particolare tramite il pagamento degli stipendi di alcune categorie di ministri102; alle comunità religiose sono tuttavia equiparate, nel rispetto del principio di neutralità, le “organizzazioni riconosciute dalla legge che offrono una assistenza morale secondo una concezione filosofica non-confessionale”, i cui delegati ricevono finanziamenti statali al pari dei ministri del culto.103 La corresponsione di finanziamenti da parte dello Stato104, tuttavia, come per altri aspetti dei rapporti tra stato e comunità religiose, quale ad esempio la possibilità che la religione in questione sia insegnata nelle scuole, è subordinata ad alcune condizioni. In particolare, è necessario non solo che la religione sia riconosciuta dall'ordinamento mediante l'approvazione di una legge, ma deve essere designato un organo rappresentativo della comunità che possa collaborare con i ministeri competenti nelle diverse occasioni di interazione tra stato e comunità religiosa ( ad esempio, il Ministro della giustizia per la conferma delle nomine dei ministri del culto stipendiati dallo stato, oppure il Ministro della pubblica istruzione per la 101 Art. 21: “L'État n'a le droit d'intervenir ni dans la nomination ni dans l'installation des ministres d'un culte quelconque, ni de défendre à ceux-ci de correspondre avec leurs supérieurs, et de publier leurs actes, sauf, en ce dernier cas, la responsabilité ordinaire en matière de presse et de publication. Le mariage civil devra toujours précéder la bénédiction nuptiale, sauf les exceptions à établir par la loi, s'il y a lieu.” 102 “The ministers of religion referres to in art. 181 only include ordinary clergy (bishops and priests), not the members of religious orders (monks) or congregations.” J. HALLET, “The status of Muslim Minority in Belgium”, in R. ALUFFI BECK-PECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, p.42. 103 Art. 181: “§ 1er. Les traitements et pensions des ministres des cultes sont à la charge de l'État; les sommes nécessaires pour y faire face sont annuellement portées au budget. § 2. Les traitements et pensions des délégués des organisations reconnues par la loi qui offrent une assistance morale selon une conception philosophique non confessionnelle sont à la charge de l'État; les sommes nécessaires pour y faire face sont annuellement portées au budget.” 104 “Recognition brings a number of advantages for the religious communities in question. The government provides the person adminisering the religious rites not only with a salary, but also with accommodation. The community also qualifies for consideration for subsidies for part of the cost of buying, building or converting places of worship, for favourable fiscal treatment, and for free postage.” J. RATH, R. PENNINX, K. GROENENDIJK, A. MEYER, “Western Europe and its Islam”, Brill, Leiden, 2001, p. 206. 44 nomina degli insegnanti di religione indicati dalle comunità stesse). 105 Dunque, dall'analisi delle disposizioni costituzionali emerge un approccio alla questione religiosa per alcuni aspetti non molto distante dal modello francese, improntato alla neutralità delle istituzioni statali ed al rispetto delle concezioni filosofiche e religiose degli individui. A differenza dell'ordinamento francese, però, quello belga prevede il riconoscimento dei diversi culti in quanto tali, e non grazie alla costituzione in particolari forme associative. Alla base di questo diverso atteggiamento vi è l'idea che anche il culto rappresenti uno degli aspetti morali e sociali della vita degli individui che debba essere tutelato in quanto rientrante nell'interesse generale.106 La procedura è piuttosto semplice, anche se abbastanza particolare: in virtù di quanto stabilisce la legge del 21luglio 1921, la comunità religiosa può ottenere un primo riconoscimento direttamente dalle autorità di governo, con il quale assume all'interno dell'ordinamento una posizione che si può definire di “status legale”107, condizione che non presenta una vera e propria corrispondenza con lo staus di “culto riconosciuto”; dopo questo primo atto di riconoscimento, attraverso una legge del parlamento o un decreto regio viene solitamente istituito un Comitato rappresentativo della comunità stessa, con la principale funzione di fare da supervisore delle proprietà e dei beni della comunità collegati all'esercizio del culto. Questo organo “amministrativo” costituisce il principale canale ufficiale per le comunicazioni tra la comunità religiosa e le autorità statali. In alternativa, il riconoscimento ufficiale può essere richiesto ed ottenuto direttamente tramite un decreto regio: tuttavia, la procedura è stata oggetto di critiche, dato che fino a tempi recenti i criteri da applicare per valutare se un culto possa essere o meno riconosciuto non sono stati disciplinati in alcuna fonte normativa, dando luogo a potenziali disparità e comportamenti discriminatori.108 Un processo di chiarificazione e sistematizzazione, 105 Cfr. J. HALLET, “The status of Muslim Minority in Belgium”, in R. ALUFFI BECKPECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, p.43. 106 Cfr. J. RATH, R. PENNINX, K. GROENENDIJK, A. MEYER, “Western Europe and its Islam”, Brill, Leiden, 2001, p. 206. 107 “[...]legal status is possible for most of the religions that are not recognized. Nothing prevents the authorities from extending certain advantages or enacting specific legislation applicable to a religion which is not recognized. [...] the payment by the State of the salaries of the Anglican ministers of religion since Belgian independence constitutes the first precedent [...]” R. TORFS, “The legal status of Islam in Belgium”, in S. FERRARI, A. BRADNEY (a cura di), “Islam and european legal systems”, Dartmouth Ashgate, Aldershot, 2000, p. 75 e p. 90, nota 17. 108 Cfr. J. RATH, R. PENNINX, K. GROENENDIJK, A. MEYER, “Western Europe and its 45 anche se non formalizzate in un testo normativo, dei criteri per il riconoscimento è iniziato nel 1985, quando l'allora Ministro della giustizia Jean Gol, in risposta ad un'interrogazione parlamentare, elencò quattro punti fondamentali che dovevano costituire la base per valutare l'opportunità del riconoscimento di un culto: in primo luogo, il numero dei fedeli, che deve essere piuttosto consistente, nell'ordine delle decine di migliaia, per poter considerare l'ipotesi del riconoscimento. Poi, l'esistenza di una struttura pregressa alla quale poter fare riferimento per i rapporti istituzionali. In terzo luogo, la presenza sul territorio nazionale per un tempo che viene definito “sufficientemente lungo”. Infine, il culto in questione deve rappresentare un interesse sociale rilevante per poter aspirare al riconoscimento.109 Il ruolo delle religioni all'interno dell'ordinamento belga si può comprendere piuttosto chiaramente anche dalle previsioni costituzionali che riguardano l'istruzione pubblica: l'art. 24 sancisce la “neutralità” dell'insegnamento, nel rispetto del principio generale e della pluralità delle convinzioni filosofico-religiose della popolazione; nel caso del Belgio neutralità e pluralismo vengono promossi non escludendo la cosiddetta “ora di religione” dai programmi delle scuole pubbliche, ma offrendo a genitori ed alunni la scelta tra l'insegnamento di una delle religioni riconosciute e l'insegnamento di quella che il testo costituzionale definisce come etica laica, non connotata dal punto di vista confessionale. Anzi, proprio al co. 3 dello stesso articolo viene affermato il diritto di ciascuno a vedersi impartito un insegnamento religioso o morale.110 Islam”, Brill, Leiden, 2001, p. 206. 109 Cfr. R. TORFS, “The legal status of Islam in Belgium”, in S. FERRARI, A. BRADNEY (a cura di), “Islam and european legal systems”, Dartmouth Ashgate, Aldershot, 2000, pp. 73-74 e nota 7, p. 89. 110 Art. 24. “§ 1er. L'enseignement est libre; toute mesure préventive est interdite; la répression des délits n'est réglée que par la loi ou le décret. La communauté assure le libre choix des parents. La communauté organise un enseignement qui est neutre. La neutralité implique notamment le respect des conceptions philosophiques, idéologiques ou religieuses des parents et des élèves. Les écoles organisées par les pouvoirs publics offrent, jusqu'à la fin de l'obligation scolaire, le choix entre l'enseignement d'une des religions reconnues et celui de la morale non confessionnelle. § 2. Si une communauté, en tant que pouvoir organisateur, veut déléguer des compétences à un ou plusieurs organes autonomes, elle ne le pourra que par décret adopté à la majorité des deux tiers des suffrages exprimés. § 3. Chacun a droit à l'enseignement dans le respect des libertés et droits fondamentaux. L'accès à l'enseignement est gratuit jusqu'à la fin de l'obligation scolaire. Tous les élèves soumis à l'obligation scolaire ont droit, à charge de la communauté, à une éducation morale ou religieuse. § 4. Tous les élèves ou étudiants, parents, membres du personnel et établissements d'enseignement 46 Dunque, sebbene l'ordinamento belga, attraverso le disposizioni costituzionali sull'insegnamento, si definisca “neutrale” nei confronti della questione religiosa e sancisca così un principio di “non ingerenza”111, esiste lo strumento del riconoscimento quale mezzo che garantisce la presenza delle religioni nella sfera pubblica, alla presenza di determinati criteri, e che pone l'ordinamento belga tra quelli cosiddetti concordatari, i quali effettivamente considerano e riconoscono la dimensione pubblica del fenomeno religioso.112 Infatti, come si può capire chiaramente dall'art. 24 della Costituzione, i principi di neutralità e di pluralismo affermati dall'ordinamento belga non vengono applicati operando una netta distinzione, alla francese, tra sfera pubblica e dimensione religiosa. L'aspetto religioso o morale (o etico, come lo si voglia definire) viene preso in considerazione come una delle molte sfaccettature della dimensione pubblica dell'individuo, ed in quanto tale entra a far parte dell'ordinamento ed interagisce con le istituzioni. Si potrebbe obiettare che le istituzioni interagiscono, tutto sommato, con delle strutture di tipo amministrativo preposte alla gestione degli aspetti meramente “temporali” dei diversi culti. Tuttavia l'approccio che l'ordinamento belga utilizza nel disciplinare il ruolo dell'insegnamento religioso nelle scuole pubbliche dovrebbe far propendere per una conclusione diversa, poiché tutela la dimensione filosofico-religiosa dell'individuo come diritto, ed in quanto tale se ne interessa e, soprattutto, se ne fa carico. 2.3 L'evoluzione della rappresentanza istituzionale L'acquisizione da parte della comunità islamica belga dello status di culto riconosciuto è stato tutt'altro che immediato: anzi, è frutto di una vicenda storica durata parecchi decenni e segnata da contrasti sia tra la comunità e le autorità statali, sont égaux devant la loi ou le décret. La loi et le décret prennent en compte les différences objectives, notamment les caractéristiques propres à chaque pouvoir organisateur, qui justifient un traitement approprié. § 5. L'organisation, la reconnaissance ou le subventionnement de l'enseignement par la communauté sont réglés par la loi ou le décret.” 111 Cfr. R. BISTOLFI, F. ZABBAL, “Islams d' Europe”, Editions de l' Aube, Paris, 1995. 112 Cfr. F. PALERMO, J. WOELK “Diritto costituzionale comparato dei gruppi e delle minoranze”, Cedam, 2008. 47 sia all'interno della comunità stessa. I primi tentativi di organizzazione politica da parte della minoranza musulmana, finalizzati all'ottenimento del riconoscimento ufficiale, risalgono agli anni '60: all'epoca la comunità di immigrati musulmani era di formazione recentissima e la richiesta di istituzionalizzazione ancora scarsa. All'epoca il Centro Islamico e Culturale era l'unico ente associativo che rappresentava, in una forma che si potesse definire istituzionalizzata, la comunità musulmana in Belgio. Una sorta di ufficializzazione della posizione del CIC si ebbe nel 1968, quando, grazie ad un decreto reale, il CIC acquisì il possesso del Padiglione orientale nel Parco del cinquantenario a Bruxelles, assicurandosene l'uso per i 99 anni a venire. La struttura avrebbe funzionato come luogo di culto e centro di coordinamento delle moschee situate in territorio belga, nonché come centro culturale. L'iniziativa presentava però delle peculiarità; infatti, i promotori egli organizzatori non erano i rappresentanti delle comunità religiose locali, come accade di solito, bensì i rappresentanti istituzionali dei paesi “islamici” in Belgio: il 13 giugno 1969 il monarca saudita Faysal ricevette le chiavi del Padiglione orientale dall'allora Ministro della giustizia Wigny. Inoltre, il primo consiglio di amministrazione del Centro non consisteva di personalità religiose, ma era composto da quattro rappresentanti di altrettanti paesi musulmani: l'ambasciatore saudita lo presiedeva, quello senegalese era alla vicepresidenza, mentre l'ambasciatore del Marocco e quello del Pakistan ricoprivano rispettivamente le cariche di segretario generale e di tesoriere.113 Veniva così portata alle estreme conseguenze quella forma di frammentazione interna che caratterizza le comunità islamiche europee, dovuta non solo alle differenze nell'interpretazione della dottrina e nella pratica religiosa, ma relativa soprattutto a quel fenomeno di “nazionalizzazione” dell'islam che differenzia ulteriormente le forme dell'islam immigrato, portando ulteriori elementi di frammentazione all'interno delle comunità islamiche presenti negli stati dell' Europa occidentale.114 113 Cfr. J. RATH, R. PENNINX, K. GROENENDIJK, A. MEYER, “Western Europe and its Islam”, Brill, Leiden, 2001, p. 207. 114 “The new countries have 'nationalized' their own Islam and they intend to maintain, for as long as possible, their particular form among their emigrants. [...] Such an articulation of Islam on the basis of those political facts that are the national states is a great politico-religious novelty. A religion like Islam gives a religious form to every aspect of political and social life , making it a religious duty, and for the first time in its history Islam possesses a powerful instrument on the national and international level: the modern state.” F. DASSETTO, “The new european Islam”, in 48 Di conseguenza, in quel periodo il CIC strinse numerosi contatti con i paesi i cui rappresentanti lo amministravano, in particolare con l' Arabia Saudita. Inoltre, dalla fine degli anni '60 il CIC assunse una sorta di informale monopolio nei rapporti con le istituzioni, grazie alle consultazioni iniziate tra il Ministro della giustizia ed il direttore responsabile degli imam, che operava all'interno del centro, in merito al riconoscimento del culto islamico in Belgio. Tuttavia, in questa prima fase i rapporti rimasero ad un livello di pressoché totale informalità, e si sarebbe dovuto attendere ancora qualche anno prima che la religione musulmana in Belgio acquisisse una posizione ufficiale all'interno dell'ordinamento. Un primo progetto di legge del 1971, proposto da due deputati del Partito cristiano popolare cadde letteralmente nel vuoto a causa del concomitante scioglimento delle camere. La legge che sanciva il riconoscimento ufficiale della religione islamica venne approvata il 19 luglio 1974 a larga maggioranza115. Essa equiparava la religione musulmana agli altri culti riconosciuti; tuttavia presentava alcuni aspetti che non coincidevano con le soluzioni adottate per l'istituzionalizzazione dei rapporti con gli altri culti riconosciuti. Innanzitutto, nel 1974 la comunità islamica era ancora ben lontana dall'aver trovato un'istituzione o un organismo amministrativo che fosse universalmente riconosciuto come suo rappresentante: il ruolo del CIC era sì di primo piano, ma non ufficializzato ed ancora meno condiviso. Come già accennato, gli stretti legami del Centro con l'Arabia Saudita erano oggetto di controversie soprattutto con le componenti magrebine e turche (queste ultime nemmeno rappresentate nel Consiglio di amministrazione del CIC) della comunità islamica. La legge prevedeva inoltre un modello organizzativo leggermente diverso: se tutte le altre comunità religiose, con cui le istituzioni statali intrattenevano rapporti formali riguardo agli aspetti “temporali” e pratici dei culti, erano organizzate sulla base di una struttura che faceva riferimento ai comuni, quindi i comitati di controllo erano organizzati su base comunale ed anche i finanziamenti dipendevano dalle strutture municipali, per il culto musulmano invece la legge del 1974 prevedeva inspiegabilmente un'organizzazione su base provinciale: a livello provinciale si S. FERRARI, A. BRADNEY (a cura di), “Islam and european legal systems”, Dartmouth Ashgate, Aldershot, 2000, p. 35. 115 Legge del 19 luglio 1974 disciplinante il riconoscimento degli organi incaricati del controllo degli aspetti temporali del culto islamico. Cfr. J. RATH, R. PENNINX, K. GROENENDIJK, A. MEYER (a cura di), “Western Europe and its Islam”, Brill, Leiden, 2001. 49 sarebbero organizzati i comitati di gestione e dai bilanci provinciali avrebbero dovuto provenire i sussidi economici. Le ragioni della scelta, in ogni caso, sono spiegate da alcuni autori con motivazioni di politica economica e relativa all'immigrazione che rimangono allo stato di ipotesi.116 In ogni caso, a partire dal 1974 la religione islamica, pur se attraverso una disciplina peculiare, venne formalmente riconosciuta e posta sullo stesso piano rispetto alle religioni cattolica, ebraica, protestante ed anglicana.117 Una volta dato il via al riconoscimento formale ed equiparato l'islam agli altri culti più importanti presenti in Belgio, rimaneva il grande problema della rappresentanza istituzionale, che fino ad allora era stato trattato solamente in termini ufficiosi. Il governo belga, tuttavia, mostrava tutte le intenzioni di proseguire sulla strada intrapresa fino a quel momento, e si impegnò in una serie di iniziative che rendevano evidente la volontà di assegnare al CIC il ruolo di rappresentante dell'islam belga. Subito dopo il riconoscimento del culto nel 1974, le autorità approvarono una serie di misure che lasciavano intravedere una sorta di “riconoscimento di fatto” del CIC. Nel 1975 una circolare del Ministero della pubblica istruzione indicava il direttore responsabile degli imam del CIC -personalità che aveva ricoperto un ruolo importantissimo per la definizione degli aspetti tecnici del processo di riconoscimento del culto musulmano- come il soggetto istituzionale cui avrebbero dovuto essere indirizzate tutte le richieste per la nomina degli insegnanti di religione islamica.118 Inoltre, ulteriori previsioni legislative, che davano esecuzione alla legge del 1974 sul riconoscimento, affidavano al Centro Islamico e Culturale un ruolo di primo piano: 116 “This specific form of organization for the Islamic rite was the result of a recommendation by Alouini, the Imam-Director of the ICC. The reasons behind it are not entirely plain. The literature gives the impression that the ICC, which was orthodox and Saudi-oriented, thought that this would better enable it to retain its hold on the Muslim community. Other Muslim variants, particularly those from Turkey and Morocco, were much stronger in some local communities. [...]recognition could also have served as political compensation for the general ban on immigration imposed by the Belgian government in 1974 [...] Dassetto and Bastenier suggested that the Belgian state, by its recognition of Islam and the role assigned to the ICC, assured itself of 'a permanent religious supervision of the popular masses successively transplanted into the country'” J. RATH, R. PENNINX, K. GROENENDIJK, A. MEYER , “Western Europe and its Islam”, Brill, Leiden, 2001, p. 208. 117 Il riconoscimento delle Chiese ortodosse greca e russa sarebbe seguito circa dieci anni più tardi, nel 1985. 118 Una volta ottenuto il riconoscimento ufficiale, era previsto anche per la religione islamica l'insegnamento nelle scuole, nell'ambito della scelta offerta agli studenti secondo la disciplina dettata dall'art. 24 della Costituzione. 50 nel 1978 un decreto regio confermò la struttura organizzativa già delineata dalla legge del 1974, basata quindi sulle strutture istituzionali a livello provinciale; le prime elezioni per la creazione di comitati provinciali, che avrebbero dovuto intrattenere rapporti istituzionali con le autorità, appunto, provinciali vennero organizzate sotto l'egida del CIC. Nel gennaio 1981 venne approvata una nuova legge, questa volta al fine di regolamentare l'erogazione dei finanziamenti relativi agli stipendi dei ministri del culto islamico. In questo ambito, la legge operava una distinzione gerarchica, ispirata dall'organizzazione che caratterizzava i ministri della religione protestante, tra imam, imam capo e direttore responsabile degli imam del Centro Islamico e Culturale. Operazione, questa, che in primo luogo non trovava alcun fondamento nella dottrina giuridica dell'islam, e che in secondo luogo si basava sull'attribuzione al CIC di una posizione di supremazia nell'ambito della rappresentanza che non sembrava essere granché condivisa dai membri della comunità islamica stessa.119 Ed infatti, a questo riconoscimento “sottinteso” seguirono quasi immediatamente i conflitti interni: interni alla comunità islamica, come le reazioni dei rappresentanti turchi e marocchini facevano già da tempo presagire, ma anche al governo belga stesso, nel quale non tutti erano propensi a vedere nel CIC l'unico rappresentante dei nuovi interlocutori musulmani: la controversia sul ruolo del CIC fu piuttosto aspra, e portò all'adozione di comportamenti assai diversi, se non addirittura del tutto contrastanti, persino tra un ministero e l'altro. Ad esempio, mentre il Ministero della pubblica istruzione accettò che fosse il Centro Islamico e Culturale a ricoprire il ruolo di unico rappresentante della comunità islamica120, facendovi quindi riferimento per le nomine degli insegnanti di religione islamica per la scuola pubblica e per tutte le questioni relative a quell'ambito, al contrario il Dipartimento per gli affari religiosi del Ministero della giustizia non riconobbe al CIC tale posizione, arrivando a negare i sussidi statali ai ministri del culto islamico. Nell'ottica di chi (non senza ragione) si opponeva al monopolio del CIC, un riconoscimento vero e proprio sarebbe stato possibile 119 “There was in fact no legal basis for the de facto recognition of the ICC as the exclusive spokesman for Islam in discussion with the Belgian government.” J. RATH, R. PENNINX, K. GROENENDIJK, A. MEYER, “Western Europe and its Islam”, Brill, Leiden, 2001, p. 209. 120 Con l'eccezione di due municipi di Bruxelles, che misero in questione la capacità rappresentativa del CIC rifiutandosi di organizzare l'inserimento dell'istruzione religiosa islamica negli istituti pubblici di loro competenza. Cfr. J. RATH, R. PENNINX, K. GROENENDIJK, A. MEYER, “Western Europe and its Islam”, Brill, Leiden, 2001. 51 solamente se fossero stati istituiti, mediante regolari elezioni, dei consigli locali del culto islamico, i quali avrebbero potuto agire in piena legittimità, poiché rappresentanti degli immigrati musulmani di tutte le nazionalità presenti in Belgio, e di tutte le varianti praticate della religione islamica. Da parte della minoranza musulmana, invece, la reazione al monopolio del CIC si concretizzò in un fiorire di contro-movimenti e di organizzazioni alternative121, quali l'Associazione per la religione e la cultura islamiche, il Comitato per la religione in Belgio, la Federazione islamica, la Federazione islamica turca, nessuna delle quali però raggiunse mai un livello di consenso che potesse dirsi generale. Visto lo scarso consenso di cui godeva il CIC, l'esigenza di creare un'istituzione che potesse dirsi veramente rappresentativa della comunità islamica belga si fece sempre più pressante: tra il 1980 ed il 1989 vennero messi in atto numerosi tentativi di eleggere un organo che rappresentasse i musulmani del Belgio in ambito istituzionale; nessuna di queste iniziative, però, andò a buon fine.122 Nel 1989 il nuovo direttore responsabile per gli imam del Centro Islamico e Culturale prese un'ulteriore iniziativa, il cui obiettivo era la era la creazione di un nuovo organo rappresentativo denominato Alto Consiglio per i Musulmani in Belgio. Nel settembre dello stesso anno, in occasione di un convegno dei rappresentanti delle moschee del Belgio, fu istituito un Comitato123 la cui funzione sarebbe stata quella di preparare le elezioni per l'Alto Consiglio. Il Comitato, composto da 13 membri che rappresentavano le diverse provenienze e particolarità dell'islam belga, si sarebbe dissolto non appena fosse stato istituito il Consiglio. Nel frattempo, il governo belga 121 Dato che il CIC, presieduto da ambasciatori e rappresentanti di governo, era percepito dalla popolazione musulmana come rappresentante dell' “Islam dei potenti”... 122 Nel 1983 il risultato delle elezioni per la creazione di un Comitato Interlocutore delle Autorità Civili non fu mai riconosciuto dal governo belga; nel 1985 il Ministro della Giustizia, Gol, sottopose al vaglio del Consiglio di Stato un disegno di legge per la creazione di un Alto Consiglio dei Musulmani del Belgio; nel parere del Consiglio di Stato si affermava che l'istituzione di un tale organismo non trovava fondamento nella Legge del 1870 sugli aspetti temporali del culto, per cui il progetto venne lasciato cadere; nel 1986 il CIC stesso istituì un consiglio di rappresentanti, costituito dai cinque ambasciatori del Marocco, della Turchia, del Senegal, del Pakistan e dell'Arabia Saudita, da tre rappresentanti della Lega Islamica Mondiale, e da quattro imam di origine turca e marocchina. Evidentemente tale istituzione non poteva dirsi né democraticamente eletta, né rappresentativa di tutte le componenti dell'islam belga. Di nuovo, il Ministro della giustizia rigettò la richiesta di riconoscimento. Cfr. J. RATH, R. PENNINX, K. GROENENDIJK, A. MEYER, “Western Europe and its Islam”, Brill, Leiden, 2001, p. 210 ss. 123 “ [The Committee] consisted of 13 members: four Moroccans and four Turks, chosen during the meeting; two members of the ICC, one of them the Imam-Director; and three Muslims of Belgian origin.” J. RATH, R. PENNINX, K. GROENENDIJK, A. MEYER, “Western Europe and its Islam”, Brill, Leiden, 2001, p. 210. 52 aveva designato un Commissario Reale per le politiche sull'immigrazione ed una Commissione corrispondente124. Le consultazioni con la Commissione Reale per le politiche sull'immigrazione e con i rappresentanti del Dipartimento per gli affari religiosi del Ministero della giustizia iniziarono ad ottobre: il report della Commissione che ne seguì conteneva una raccomandazione al governo di istituire al più presto un organo istituzionale125 che fosse veramente rappresentativo della comunità musulmana, nei cui confronti erano state riscontrate numerose situazioni di discriminazione, proprio a causa di questa ormai decennale carenza di rappresentanti universalmente riconosciuti a livello istituzionale.126 Nel frattempo, il governo belga aveva fatto un passo indietro, annunciando al convocazione di una 'conferenza interministeriale' che avrebbe discusso la questione della rappresentanza ufficiale del culto islamico: la causa di questa “frenata” improvvisa furono probabilmente le diverse reazioni delle Comunità, soprattutto il Distretto di Bruxelles, il cui esecutivo si dichiarò nettamente in disaccordo con le conclusioni cui era giunta la Commissione, provocando in sostanza un'impasse nei rapporti tra CIC, comunità islamica, autorità statali e Commissione per le politiche sull'immigrazione. La situazione di stallo si trascinò, tra iniziative autonome del Centro Islamico e Culturale e corrispondenti dichiarazioni di dissociazione da parte delle autorità governative e della Commissione stessa, fino alla fine del gennaio 1990. A quel 124 “The Royal Commission on Migrants Policy was set up after the October 1988 municipal elections, which were marked by a substantial gain in votes by the extreme right, particularly in Flanders. The Royal Commission was charged with research into the immigrant problem and with making proposals for essential measures. Although the Royal Commission has no special competence to deal with the religious affairs, it has also made a number of concrete recommendations for setting up a representative body and for dealing with the associate problems.”J. RATH, R. PENNINX, K. GROENENDIJK, A. MEYER, “Western Europe and its Islam”, Brill, Leiden, 2001, p. 205, nota 9. Cfr. anche J. HALLET, “The status of Muslim Minority in Belgium”, in R. ALUFFI BECK-PECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, p. 44. 125 La Commissione avrebbe sostenuto l'opportunità di creare un'istituzione così caratterizzata: “[...]having a fundamentally religious character, being carried out in a peaceful manner, with as little publicity in the media or politicizing as possible, and on the basis of the Royal Decree of 3 May 1978.”J. RATH, R. PENNINX, K. GROENENDIJK, A. MEYER, “Western Europe and its Islam”, Brill, Leiden, 2001, p. 211. 126 “Mme D'Hondt and her staff found that discrimination against the Muslim religion constituted a major obstacle to the harmonious integration of numerous immigrants . They undertook diplomatic negotiations between all the parties involved . Numerous consultations followed, leading to the proposal to hold elections with a view to setting up a 'Higher Council of Belgian Muslims'.” J. HALLET, “The status of Muslim Minority in Belgium”, in R. ALUFFI BECK-PECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, p.44. 53 punto, la situazione era a dir poco tesa: il Centro Islamico e Culturale aveva invitato tutti i musulmani maggiorenni, di nazionalità belga o residenti in Belgio da almeno un anno, a registrarsi alle liste elettorali per le votazioni che si sarebbero tenute di lì a poco: la risposta fu notevole, e più di trentamila potenziali elettori risposero all'appello del CIC.127 Nel frattempo, le richieste da parte del governo di fermare l'iniziativa elettorale, e gli avvertimenti che gli organi di rappresentanza eventualmente eletti non sarebbero stati riconosciuti in alcun modo, si facevano sempre più pressanti. Il Ministro della Giustizia propose infine l'istituzione di un Consiglio provvisorio di saggi, cui avrebbero partecipato anche alcuni membri del CIC, il quale sarebbe stato incaricato di “formulare proposte per l'organizzazione della religione islamica”. 128 Il Consiglio provvisorio fu istituito nel luglio del 1990, ed inviò il suo primo rapporto al Consiglio dei ministri sei mesi più tardi, seguito da un secondo documento nel novembre 1991. Entrambi contenevano suggerimenti e progetti sulle modalità di organizzazione della rappresentanza della religione islamica in Belgio: la maggioranza della componente turca approvava le soluzioni proposte dal Consiglio provvisorio,129al contrario della fazione marocchina, che le osteggiava decisamente. Su proposta del Consiglio provvisorio venne anche istituito un Comitato tecnico, preposto alla nomina degli insegnanti che si sarebbero occupati dell'istruzione religiosa islamica nelle scuole pubbliche: veniva sottratta così al Centro Islamico e Culturale una delle funzioni che lo aveva posto fino a quel momento in una posizione di “quasi-ufficialità”, nonostante i contrasti con le autorità di governo e con i 127 Senza dimenticare il fatto che le ambasciate turca e marocchina invitarono a boicottare l'iniziativa, confermando i persistenti disaccordi con la leadership saudita del CIC. Cfr. J. RATH, R. PENNINX, K. GROENENDIJK, A. MEYER, “Western Europe and its Islam”, Brill, Leiden, 2001. 128 J. RATH, R. PENNINX, K. GROENENDIJK, A. MEYER, “Western Europe and its Islam”, Brill, Leiden, 2001, p.212. 129 Anche la componente turca della comunità musulmana, tuttavia, era attraversata da forti divisioni interne, che si possono ricondurre all'influenza esercitata sugli emigrati turchi dalle organizzazioni musulmane, sia partitiche che più marcatamente religiose, operanti in Turchia: le principali sfere di influenza sono due. Una, legata alle istituzioni turche, esercitata dall'Ufficio Statale Turco per le Questioni Religiose o DİYANET, agenzia governativa per la gestione degli affari religiosi fondata ai tempi della trasformazione laica della Turchia ad opera di Ataturk. L'Ufficio comprende anche una sezione speciale per l' islam europeo detta DİTİB. L'altra, non governativa e con obiettivi più marcatamente religiosi è chiamata Milli Görüş: la sua fondazione risale agli anni '60, motivata dall'obiettivo di re-islamizzare la Turchia e caratterizzata da istanze radicali. Cfr. W. SCHIFFAUER, “From exile to diaspora: the development of transnational Islam in Europe”, in A, AL-AZMEH, E. FOKAS, “Islam in Europe: Diversity, Identity and Influence”, Cambridge University Press, Cambridge, 2007, pp.68 ss. 54 correligionari. Nel frattempo, il CIC non era certo rimasto fermo: in seguito alle elezioni del 1990 era stato istituito un Consiglio Generale per i musulmani in Belgio, che a sua volta aveva nominato un Alto Consiglio130. Queste due istituzioni, com'era prevedibile, non vennero in alcun modo riconosciute dal governo belga, che nel 1992 sciolse anche il Consiglio provvisorio, continuando le consultazioni direttamente con le comunità islamiche locali, vista l' urgente necessità di trovare una soluzione condivisa al problema della rappresentanza. Nel frattempo, era stata sciolta anche la Commissione reale per le politiche sull'immigrazione; al suo posto, con la funzione di intermediario tra la minoranza musulamna ed il Ministro dell giustizia, il Parlamento votò la costituzione del Centro per le Pari Opportunità e Contro il Razzismo. Nel 1994, infine, il problema della rappresentanza istituzionale sembrò avviarsi ad una soluzione: l'Alto Consiglio per i Musulmani chiese al governo l'approvazione ed il riconoscimento di un Esecutivo dei Musulmani in Belgio. Nel novembre dello stesso anno, il Ministro della Giustizia approvò, pur sottolineandone la natura provvisoria, l'Esecutivo proposto dall'Alto Consiglio: si trattava di un comitato composto da 17 membri131, rappresentativo della quasi totalità delle nazionalità musulmane in Belgio; tra le sue funzioni (non ancora equiparabili a quelle degli organi rappresentativi degli altri culti riconosciuti), rientravano le nomine degli insegnanti di religione per la scuola pubblica e quelle dei cappellani che avrebbero prestato servizio nelle carceri e negli ospedali. Era, inoltre, autorizzato a consultarsi con il governo belga ed a presentare proposte per la risoluzione del problema della rappresentanza. Nel 1996, il Presidente dell'Esecutivo provvisorio sottopose al Ministro della giustizia un progetto elettorale, che fu approvato dal governo nel 1998. Immediatamente l'Esecutivo organizzò una conferenza dei rappresentanti delle 130 Anche in questa occasione all'interno del CIC non erano certo mancati i contrasti: l'ambasciata turca aveva esortato i propri connazionali a boicottare le elezioni; di conseguenza, nessun aderente della Diyanet era rappresentato nei neoeletti Consigli: la partecipazione turca consisteva essenzialmente di membri della Milli Gorus, cosicché nemmeno questi due organi, pur se risultato di elezioni molto partecipate e diffuse, non potevano dirsi veramente rappresentativi. Cfr. J. RATH, R. PENNINX, K. GROENENDIJK, A. MEYER, “Western Europe and its Islam”, Brill, Leiden, 2001, p.213. 131 Si trattava di 7 marocchini, 4 turchi, 3 di altra nazionalità e 3 belgi. Cfr. J. HALLET, “The status of Muslim Minority in Belgium”, in R. ALUFFI BECK-PECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, p.45. 55 moschee delle diverse comunità per illustrare il modo in cui si sarebbero svolte le elezioni, mentre una Commissione di Supporto, presieduta da un giudice dell' Arbitration Court e composta da tre rappresentanti dei Ministeri della giustizia e degli interni, oltre che dal presidente del Centro per le Pari Opportunità e Contro il Razzismo veniva istituita al fine di monitorare la preparazione delle elezioni e convalidarne i risultati. Avrebbero dovuto esserne parte anche tre membri dell'Esecutivo provvisorio, ma in pratica vi prese parte solamente il presidente dell'Esecutivo stesso. Gli aventi diritto al voto erano i musulmani maggiorenni, residenti in Belgio da almeno un anno, che si erano iscritti alle liste elettorali tenute dall'Esecutivo. In ogni provincia erano state presentate una lista di candidati turchi ed una lista di candidati marocchini, le due etnie maggiormente rappresentate nella comunità islamica belga, mentre per le altre nazionalità o per i musulmani di origine belga era stata istituita una lista per ogni regione. I candidati erano presentati dalle moschee, o nominati dall'Esecutivo. Sarebbe stata eletta un'Assemblea di 51 membri, 17 dei quali avrebbero costituito la Direzione religiosa, corrispondente all'Esecutivo per composizione e funzioni. Era previsto che solo quest'ultima istituzione fosse riconosciuta dal governo, a differenza dell'Assemblea; di conseguenza i requisiti richiesti ai candidati per la Direzione erano più selettivi rispetto a quelli richiesti per i candidati dell'Assemblea.132 La legge del 10 marzo 1999 approvò la costituzione dei Comitati musulmani a livello locale (provinciale, come aveva stabilito la legge del 1974), mentre nel maggio dello stesso anno l'approvazione dei membri dell'esecutivo e la definizione delle sue funzioni venne sancita da un decreto regio. Due anni più tardi, nel 2001, una riforma costituzionale trasferisce ai Consigli regionali la competenza per l'approvazione delle istituzioni delle comunità religiose locali, mentre i contrasti tra istituzioni musulmane ed autorità statali continuano ancora in diversi ambiti quali la composizione delle istituzioni stesse ed il ruolo delle moschee; la Legge contro ogni forma di discriminazione approvata il 25 febbraio 2003 costituisce certamente un passo avanti 132 “A candidate who wished to join the 'Religious leadership had to hold a humanities diploma or equivalent, while candidates for the Religious Leadership called the 'Executive' had to be approved by the Justice Minister before their election.” J. HALLET, “The status of Muslim Minority in Belgium”, in R. ALUFFI BECK-PECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, p.47. 56 nella definizione dello status della comunità musulmana, ma il raggiungimento di un accordo in seno alla comunità stessa costituisce comunque una tappa fondamentale del processo di istituzionalizzazione. 2.4 Velo e simboli religiosi Per quanto riguarda la presenza dell'islam nella sfera pubblica, anche in Belgio uno degli ambiti di maggior conflitto è quello dell'esposizione dei simboli che indicano l'appartenenza religiosa degli individui nei luoghi pubblici. L'ordinamento belga ha essenzialmente seguito la strada francese nella gestione del problema, che anche in Belgio si è presentato con più forza ed evidenza nell'ambiente scolastico. Tuttavia, poiché gran parte delle competenze nell'ambito della pubblica istruzione sono riconducibili alle Comunità e non allo stato federale, risulta alquanto difficile stabilire un orientamento univoco nelle soluzioni giurisprudenziali e legislative adottate.133 Inoltre, ai singoli istituti scolastici è accordata grande autonomia nell'ambito organizzativo e regolamentare. Alcune direttive generali provengono dall'ARGO, il Consiglio autonomo per l'insegnamento delle Comunità, istituito con un decreto del 19 dicembre 1988. L'art. 8 del decreto stabilisce la necessità di creare un clima di tolleranza negli ambienti scolastici, e di proteggere la vita privata degli individui da ogni arbitrio.134 L'art. 24, come già accennato nei paragrafi precedenti, tutela la neutralità dell'insegnamento, che deve svolgersi “nel rispetto delle concezioni filosofiche, ideologiche e religiose di genitori ed alunni”; il principio costituzionale dunque sembra essere finalizzato alla tutela di un principio di neutralità che si applichi soprattutto nei confronti degli alunni, al fine di tutelarli da condizionamenti morali che possono provenire soprattutto dagli insegnanti. Per quanto riguarda invece l'esposizione di simboli religiosi (possiamo concentrarci 133 “ To the best of our knowledge, no clear line regarding local practice has emerged to date.” J. HALLET, “The status of Muslim Minority in Belgium”, in R. ALUFFI BECK-PECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, p. 50. 134 Cfr. R. TORFS, “The legal status of Islam in Belgium”, in S. FERRARI, A. BRADNEY (a cura di), “Islam and european legal systems”, Dartmouth Ashgate, Aldershot, 2000. 57 sulle esperienze in ambiente scolastico, dato che è in questo ambito che si verificano i casi più numerosi, e più interessanti per un'analisi di questo tipo) in Belgio l'esperienza francese è stata un modello molto seguito. In particolare, la giurisprudenza del Consiglio di Stato francese135 dal 1989 in avanti ha costituito una sorta di precedente, che ha esercitato una forte influenza sulle soluzioni adottate dai tribunali del Belgio investiti della questione. Esemplare in questo senso è un'ordinanza del tribunale di Bruxelles del 1989, nella quale si riconosce “il diritto di coprirsi la testa con foulard, seguendo in maniera perfettamente normale i corsi e senza essere obbligati a scoprirsi”, bilanciato però dalla facoltà di vietare l'uso del foulard nelle ore dedicate alle discipline sportive. Un intervento di tipo legislativo risale al marzo del 1994, quando la Comunità francofona approva un decreto che sancisce ancora una volta la neutralità dell'insegnamento pubblico, subordinando l'esercizio della libertà religiosa e di espressione alle condizioni che siano “salvaguardati i diritti umani, la reputazione altrui, la sicurezza nazionale, l'ordine pubblico, la salute e la moralità pubblica, e che sia rispettato il regolamento interno dell'istituzione.”136 Sempre a Bruxelles, qualche anno più tardi, nel 1997, il Tribunal de Première Instance respinge i ricorsi di alcuni studenti contro una disposizione del regolamento interno di una scuola per assistenti sociali, che vietava in modo categorico l'uso di simboli relativi all'appartenenza religiosa, o in ogni modo distintivi, durante gli stages. In questo caso, le argomentazioni della motivazione si fondano anche sul codice deontologico dell'assistente sociale, il quale impone di attribuire “il primato agli interessi e volontà delle persone dei gruppi e delle collettività per le quali è incaricato di intervenire professionalmente.”137 Il Tribunale di Liegi, invece, nel 1995, motiva la propria 135 In Francia prima dell'approvazione della legge sui simboli religiosi del 2004, le soluzioni allla questione dei simboli religiosi, e soprattutto dell'uso del velo, in ambienti pubblici, erano state suggerite in via principale dal Consiglio di Stato, prima in veste di organo consultivo, poi in qualità di giudice. Dal complesso dei pareri e delle decisioni emergeva una visione del principio di laicità non incompatibile con l'esposizione in pubblico di tali simboli, a condizione che questi non fossero stati così ostentati da costituire un atto di proselitismo, da violare l'ordine pubblico o da impedire il regolare svolgimento delle attività. La legge del 2004, invece, avrebbe introdotto una visione del problema in termini molto meno elastici. 136 J. LUTHER, “Il velo scoperto dalla legge: profili di giurisprudenza costituzionale comparata”, in S. FERRARI (a cura di), “Islam ed Europa: i simboli religiosi nei diritti del Vecchio continente”, Carocci editore, Roma, 2006, p. 76. 137 Entrambi i casi sono citati in J. LUTHER, “Il velo scoperto dalla legge: profili di giurisprudenza costituzionale comparata”, in S. FERRARI (a cura di), “Islam ed Europa: i simboli religiosi nei diritti del Vecchio continente”, Carocci editore, Roma, 2006, p. 75. 58 decisione affermando che “è già stato deciso che il divieto di portare segni che manifestano un'opinione politica, religiosa o filosofica non è manifestamente contrario alla libertà di coscienza e di culto degli studenti quando è applicato senza discriminazioni e si fonda su considerazioni oggettive.” Le stesse argomentazioni vengono utilizzate dalla Corte d'Appello di Liegi quando afferma che “[...]il regolamento tratta tutti gli alunni senza discriminazioni, ed è finalizzato a prevenire l'ostentazione della militanza, che può costituire una sfida alla più discreta opinione altrui, ed all'autorità incaricata di mantenere l'ordine nell'istituto e di assicurare la pacifica coesistenza di diverse opinioni.”138 La Corte di Cassazione, per il momento, si è limitata ad intervenire per dichiarare ammissibile l'uso del velo nelle fotografie per i documenti di identità, nell'ambito di una querelle simile a quella sollevata in Francia nel 2003 dall'allora Ministro degli interni Sarkozy.139 2.5 Scuola e religione Il principio di neutralità affermato dalla Costituzione belga si traduce, in ambito scolastico, nella pluralità dell'offerta formantiva per quanto riguarda l'insegnamento della religione o dell'etica non confessionale negli istituti pubblici140. L'insegnamento si limita prevedibilmente ai culti riconosciuti: perciò l'avvio del processo di riconoscimento dell'islam da parte dell'ordinamento belga, iniziato nel 1974, ha comportato come conseguenza anche l'inserimento della religione musulmana nel novero di quelle inserite nei programmi di insegnamento delle scuole statali. 138 J. HALLET, “The status of Muslim Minority in Belgium”, in R. ALUFFI BECK-PECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, p. 52. 139 Arret n. C.99.0164.N, 22 dicembre 2000. www.juridat.be. 140 Per quanto riguarda invece le scuole private, la cui istituzione e disciplina sono ugualmente regolate dalla legge del 1959 all'art. 24, il solo istituto privato facente capo alla confessione musulmana è la scuola Al-Ghazali a Bruxelles, aperta nel 1989 e fortemente contestata da pressoché tutte le forze politiche e di governo, sia nell'ambito dell'opportunità di tale iniziativa in un'ottica che mira all'integrazione, sia, come al solito, contestando il ruolo del CIC, che anche questa volta, nella persona del suo dimissionario Direttore responsabile per gli imam, aveva assunto la guida delle operazioni. Cfr. J. RATH, R. PENNINX, K. GROENENDIJK, A. MEYER, “Western Europe and its Islam”, Brill, Leiden, 2001, pp. 221-225, e R. TORFS, “The legal status of Islam in Belgium”, in S. FERRARI, A. BRADNEY (a cura di), “Islam and european legal systems”, Dartmouth Ashgate, Aldershot, 2000, pp. 83-84. 59 L'inserimento sarebbe stato confermato nel 1978, con la modifica, grazie ad una legge approvata il 20 febbraio, della Legge sul Patto scolastico del 29 maggio 1959. In sostanza ne venne emendato l'art. 8, ed all'elenco di culti riconosciuti che già comprendeva le religioni cattolica, protestante, anglicana ed ebraica venne aggiunto l'islam, il quale in teoria godeva ora degli stessi diritti: la scuola pubblica ha l'obbligo di dedicare almeno due ore settimanali dei propri programmi all'insegnamento della religione o dell'etica non confessionale per gli studenti che ne facciano richiesta; l'art. 9 della stessa legge del 1959 prevede che la scelta venga effettuata dai genitori dell'alunno minorenne al momento dell'iscrizione, e che l'insegnamento venga impartito da ministri del culto o da insegnanti nominati dalle autorità statali (cioè i Ministri della Pubblica istruzione delle Comunità linguistiche) su raccomandazione dei rappresentanti istituzionali del culto. Prima dell'emendamento che aggiungeva l'islam all'elenco dei culti riconosciuti, cioè nel periodo dal 1974 al 1978, l'insegnamento della religione islamica nelle scuole pubbliche venne organizzato in modo sperimentale, seguendo approssimativamente le istruzioni contenute in una circolare ministeriale del 1975 che invitava gli istituti pubblici, rivolgendosi in particolare ai presidi, ad inserire nei propri programmi anche l'insegnamento della religione islamica per quegli studenti le cui famiglie ne avessero fatto richiesta. Se fino al 1978 l'insegnamento dell'islam nelle scuole era stato organizzato in via sperimentale, non si può fare a meno di osservare che il riconoscimento ufficiale del 1978 non cambiò di molto la situazione dal punto di vista sostanziale: la storia delle istituzioni rappresentative dell'islam belga è stata ripercorsa nei precedenti paragrafi anche con l'intento di rendere evidente la difficoltà estrema che ha sempre caratterizzato il processo di istituzionalizzazione di questa religione, difficoltà che nei rapporti con l'ordinamento belga si è materializzata in una serie di infinite e poco concludenti consultazioni, i cui risultati si rivelavano puntualmente guastati e resi di difficile applicabilità soprattutto a causa della provvisorietà degli stessi organi rappresentativi che li concludevano. In ambito scolastico non andò diversamente, anzi, le conseguenze furono particolarmente pesanti dato che una delle ricadute pratiche più importanti del riconoscimento istituzionale consisteva appunto nell'inserimento di insegnanti di religione ed etica musulmana all'interno del corpo docenti, e della presenza dell'islam nei programmi di insegnamento. 60 Nei primi anni del processo di affermazione dell'islam sul piano ufficiale, il Centro Islamico e Culturale aveva ricoperto un ruolo di assoluta supremazia nei rapporti con le autorità statali, anche nell'ambito dell'organizzazione scolastica: il Centro si occupava degli insegnanti da nominare, intrattenendo rapporti con la minoranza marocchina e reclutando professori in Turchia grazie alle strette connessioni che lo legavano all'ambasciata turca in Belgio.141 Già nel 1986, però, alcuni comuni iniziarono a rifiutarsi di organizzare l'insegnamento dell'islam negli istituti pubblici, giustificando questa scelta con il rifiuto di riconoscere carattere istituzionale al CIC,142il quale decadde poi definitivamente dal suo monopolio quando negli anni '90 venne finalmente eletto l'Esecutivo dei musulmani in Belgio: questa istituzione pare aver messo fine alle dispute sulle nomine degli insegnanti e sulla legittimità dell'insegnamento, ed aver risolto questioni pratiche quali la formazione degli insegnanti, la fissazione dei requisiti per l'assunzione e l'organizzazione delle ispezioni sul lavoro dei docenti.143 2.6 Valutazioni Il raggiungimento di un accordo sulla questione della rappresentanza istituzionale sembra essere, per la comunità islamica belga, un nodo fondamentale da scogliere nel più breve tempo possibile: la situazione della comunità islamica belga, tuttavia, per quanto riguarda la questione della rappresentanza istituzionale e dei rapporti con le autorità statali, sembra tutt'altro che risolta, e suscettibile di ulteriori modificazioni 141 Anche queste scelte, naturalmente, portarono a contrasti interni al corpo docenti, in seguito ai quali dapprima il disaccordo con i metodi di designazione del governo turco si limitò ad essere espresso tramite proteste formali, ed in seguito provocò una scissione all'interno del CIC stesso, cui seguì la creazione dell'Associazione dei docenti musulmani delle Fiandre nel 1989. Cfr. J. RATH, R. PENNINX, K. GROENENDIJK, A. MEYER, “Western Europe and its Islam”, Brill, Leiden, 2001, pp. 218-219. 142 “[...]the Brussels municipalities of Sint-Gillis and Schaarbeek had refused to organize Islamic religious instruction because there was no competent authority to appoint teaching staff. Both municipalities questioned the legitimacy and unofficial recognition of the ICC. Some 20 Muslim parents of children in Schaarbeek municipal schools refused to accept this and in October 1989 started proceedings against the local authority. They demanded the immediate introduction of Islamic religious instruction [...] invoking the constitutional principle of freedom of religion and the European Convention on Human Rights.” J. RATH, R. PENNINX, K. GROENENDIJK, A. MEYER, “Western Europe and its Islam”, Brill, Leiden, 2001, p. 218. 143 J. HALLET, “The status of Muslim Minority in Belgium”, in R. ALUFFI BECK-PECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, p. 56. 61 dipendenti sia dalle continue evoluzioni della composizione interna della minoranza musulmana, sia dalle carenze nell'interazione con le istituzioni statali e delle Comunità, caratterizzate da una forte instabilità a seconda dei cambiamenti nel quadro politico e della qualità dei rapporti individuali tra rappresentanti dello Stato belga ed autorità musulmane. L'approvazione della legge del 25 febbraio 2003 contro ogni forma di discriminazione è indicata dagli osservatori internazionali, in particolar modo dal Consiglio d'Europa144, come un passo avanti nella definizione dello status della minoranza musulmana; tuttavia, pur essendo uno strumento utile, non incide direttamente nel campo della rappresentanza istituzionale, ambito in cui le parti in causa, in vista della soluzione di un conflitto che dura ormai da cinquant'anni, dovrebbero raggiungere un accordo definitivo al più presto. CAPITOLO III 144 “ECRI is pleased to note that the Act of 25 February 2003 "aimed at combating discrimination and modifying the Act of 15 February 1993 which establishes the Centre for Equal Opportunities and the Fight against Racism" (hereafter: Act of 25 February 2003) provides for such a specific aggravating circumstance: Articles 7-14 of the Act provide that hatred, contempt or hostility based, inter alia, on supposed race, on colour, on descent, on religious convictions, and on national or ethnic origin are aggravating circumstances in respect of a certain number of offences. These offences are : indecent assault and rape; murder, battery and assault; non-assistance to a person in danger; violation of the personal liberty and of the inviolability of private property committed by private individuals; harassment; insulting the honour or the reputation of a person; arson; destruction of movable property.” Council of Europe-European Commission against Racism and Intolerance, “Third report on Belgium”, n. CRI(2004)1, 27.06.2003, p. 9, punto 16, www.coe.int. 62 GERMANIA 3.1 La comunità islamica tedesca e la minoranza turca La storia della presenza dell'islam in Germania è per molti versi simile a quella di molti altri paesi europei. L'esperienza coloniale tedesca non ha un ruolo di primo piano nella vicenda del rapporto con il mondo musulmano, collegato in maggior misura alla questione dell'immigrazione e del lavoro. I primi veri contatti tra la Germania e l'islam possono essere fatti risalire al periodo posteriore al 1960, quando un consistente aumento dei flussi migratori portò diverse centinaia di migliaia di lavoratori stranieri in territorio tedesco. La Germania aveva concluso in quegli anni diversi “Accordi sull'impiego”, il primo del 1961 con la Turchia, altri due con Marocco e Tunisia alla fine del decennio: questi patti bilaterali prevedevano la permanenza temporanea in Germania di gruppi di lavoratori che si sarebbero alternati secondo un meccanismo basato sulla rotazione, e che non prevedeva in alcun modo un tipo di immigrazione “permanente”. Tuttavia questo modello venne ben presto abbandonato, e dalla metà degli anni '70 in poi il fenomeno migratorio si trasformò da temporaneo ed individuale in permanente, e fortemente caratterizzato dai ricongiungimenti familiari. In pochi decenni l'islam divenne la terza religione tedesca, che poteva contare su una comunità piuttosto numerosa, i cui fedeli ammontavano a circa tre milioni.145 L'islam delle comunità immigrate negli stati dell'Europa occidentale solitamente non presenta una forte caratterizzazione di tipo etnico; anzi, una delle sue funzioni principali è quella di fungere da collante, in quanto elemento di unità culturale, ancora prima che religiosa, in una miriade di nazionalità e provenienze che non potrebbero essere più diverse. L'islam tedesco in questo senso presenta notevoli elementi di diversità, in quanto fortemente connotato dal punto di vista etnico: la 145 Cfr. M. ROHE, “The legal treatment of Muslims in Germany”, in R. ALUFFI BECKPECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, pp. 83 ss., e Y. KARAKAŞOGLU, G. NONNEMAN, “Muslims in Germany, with special reference to the Turkish-Islamic Community”, in G. NONNEMAN, T. NIBLOCK, B. SZAJKOWSKI (a cura di)“Muslim communities in the new Europe” Ithaca Press, Reading, 1996, pp. 241 ss. 63 quasi totalità della minoranza musulmana tedesca, infatti, è di nazionalità turca.146 Dunque, questa analisi della condizione della comunità musulmana tedesca riguarda essenzialmente la minoranza turca, proprio a causa della sua posizione di schiacciante maggioranza nei confronti delle altre minoranze di religione musulamna presenti in Germania. Di conseguenza, l'islam tedesco non ha conosciuto la frammentazione estrema che ha caratterizzato le comunità musulmane presenti in altri stati europei, causa di conflitti interni e di grandi difficoltà nel trovare degli interlocutori ufficiali che si occupassero nel consenso generale del rapporto con le istituzioni147. Sicuramente la comunità islamica tedesca ha conosciuto a sua volta i conflitti interni. Tuttavia, essi risultano legati, più che alla pluralità di correnti interpretative e centri di potere dovuta alle molteplici provenienze, piuttosto ai partiti presenti sulla scena politica turca ed alla diversità delle associazioni, organizzazioni e fratellanze musulmane, sia legate all'esecutivo sia indipendenti, presenti in Turchia, che hanno esteso le loro zone di influenza fino alle comunità di immigrati europei.148 Alcune di esse si sono addirittura sviluppate proprio in Germania, poiché dichiarate illegittime dalle autorità turche. L'inizio di questo fenomeno può essere fatto risalire all'incirca agli anni '80, momento di “stabilizzazione” della minoranza musulmana in Germania. Attualmente vengono individuate alcune “organizzazioni-ombrello” principali, che raggruppano nella propria sfera di influenza numerose associazioni musulmane: DİYANET, la più diffusa in assoluto: è l'Ufficio statale turco per le questioni religiose, presente soprattutto attraverso il proprio dipartimento europeo, o DİTİB, creato piuttosto tardi, negli anni '80, come riferimento per le comunità 146 Una percentuale di musulmani provenienti dal Maghreb o dall'India alla ricerca di asilo politico, o emigrati dal Medio Oriente per svolgere professioni altamente specializzate, o fuggiti dai conflitti in Bosnia, Macedonia o Kosovo va sicuramente menzionata, ma rimane decisamente bassa. Cfr. M. ROHE, “The legal treatment of Muslims in Germany”, in R. ALUFFI BECKPECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, p. 83-84. 147 Infatti, le divisioni classiche tra sunniti e sciiti (questi ultimi presenti in Germania ma in posizione minoritaria rispetto ai primi) non presentano grande rilevanza. Notevole, data la provenienza turca della maggior parte degli immigrati musulmani, l'influenza del Sufismo. Cfr. M. ROHE, “The legal treatment of Muslims in Germany”, in R. ALUFFI BECK-PECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, p. 83-84. 148 Come insegna ad esempio l'esperienza della comunità islamica belga, in cui le spaccature all'interno della fazione collegata all'ambasciata turca erano legate alle contrapposizioni originarie tra le diverse organizzazioni, in particolare DİYANET e Milli Görüş. 64 musulmane turche formatesi in Europa149. Si tratta appunto di un ufficio legato al governo turco e promotore di un'interpretazione dell'islam fortemente laicista, che intende il ruolo della religione come rigorosamente ristretto alla sfera privata. Consiste essenzialmente in un'unione di moschee coordinate dall'incaricato per le questioni religiose dell'ambasciata turca e beneficia di molte agevolazioni fornite dal governo turco, quale ad esempio l'invio dalla Turchia di imam istruiti e stipendiati. Milli Görüş, o “Organizzazione della Visione nazionale”: anch'essa molto diffusa, non fa riferimento al governo turco, anzi si tratta di un'organizzazione che sostiene la teoria dello stato islamico, molto critica nei confronti del governo turco e del suo coinvolgimento nella gestione delle questioni legate all'islam europeo. Fondata negli anni '60 all'insegna dello slogan “Il giusto ordine”, ha dato origine a molti partiti di ispirazione ultraconservatrice ed islamista, puntualmente sciolti in Turchia e riformati immediatamente dopo sotto un altro nome, come ad esempio il Partito della salvezza nazionale, sciolto nel 1972 per aver invocato la creazione di uno stato islamico, in contrasto con i principi kemalisti fondatori della Turchia moderna, e ricostituito nel 1983 come Partito dello stato sociale. Unione dei Centri Culturali Islamici, ispirata dalle teorie islamiste ed antikemaliste della setta Suleymanci, fondata da un religioso turco oppositore di Ataturk. La principale funzione dell'unione è l'organizzazione dell'istruzione coranica. Lupi grigi, organizzazione nazionalista turca, braccio europeo del partito del Movimento nazionale turco, fondata su teorie che fondono nazionalismo turco ed islam. Tabligh, organizzazione radicale separatasi da Milli Görüş nel 1984 e guidata, fino alla sua morte, dall'autoproclamato “califfo” Cemalettin Kaplan, il quale nel 149 “The DİYANET did not take action on its own in the early years (even if the faithful could the office for help in founding mosques). Thus, the Turkish state largely left his realm to the communities of political Islam. This changed only in the beginning of the 1980s, when Turkey shifted from a policy of effectively ignoring the migrants to a conservative cultural policy whose aim was to increase the tie of Turks abroad to the Turkish state.” W. SCHIFFAUER, “From exile to diaspora: the development of transnational Islam in Europe”, in A, AL-AZMEH, E. FOKAS, “Islam in Europe: Diversity, Identity and Influence”, Cambridge University Press, Cambridge, 2007, p. 73. 65 1992 aveva invitato alla rivoluzione islamica sul modello di quella iraniana e dichiarato la costituzione di uno Stato islamico della Turchia in esilio150. Il movimento Nurculuk, costituito da circa 30 istituti scolastici ed organizzato non come federazione di moschee ma nella forma della fratellanza. Nato clandestinamente in Turchia all'epoca della rivoluzione, attualmente si occupa soprattutto di attività legate alla scuola. L'elenco naturalmente non pretende di essere esaustivo: le organizzazioni sopraccitate, comunque, risultano essere tra le più estese dal punto di vista della partecipazione e rappresentano in modo abbastanza completo (tralasciando la minoranza sciita degli Aleviti e le associazioni dei musulmani tedeschi) il mosaico di influenze politiche e divergenze interpretative che caratterizza l'islam tedesco. Una volta resa chiara la propria posizione (cosa che avvenne circa a metà degli anni '80) queste organizzazioni iniziarono a distinguersi proprio in base al ruolo che attribuivano all'islam nei confronti della Turchia. Le organizzazioni con una concezione dello stato turco prevalentemente laica presero le distanze dalle comunità e dalle formazioni partitiche che promuovevano la teoria dello stato islamico e l'introduzione della shari'a, alcune attraverso l'istruzione, altre inserendosi nel sistema parlamentare; altre ancora proclamando la rivoluzione islamica151. Tutte quante, in ogni caso, nell'ambito di un legame estremamente forte con lo stato di origine, la Turchia. La loro capacità di rappresentare la comunità dei musulmani in Germania è stata molto spesso messa in dubbio, dato che la maggior parte dei musulmani residenti in Germania non è associata ad alcuna organizzazione o centro di cultura in particolare, per cui risulta difficile individuare un'organizzazione o un'associazione che possa definirsi veramente rappresentativa della comunità islamica nel suo complesso, anche in vista di un futuro (e necessario) processo di istituzionalizzazione. 150 Cfr. W. SCHIFFAUER, “Islamic vision and social reality: the political culture of Sunni Muslims in Germany”, in S. VERTOVEC, C. PEACH (a cura di) “Islam in Europe: the politics of religion and community”, Macmillan Press, London, 1997, pp.156 ss. 151 “By the mid-1980s, the field had been sorted out. Nearly all mosques had classified themselves under one or other organisation. The representation of the Islam of the worker migrants which [...] all stemmed from Turkey had far-reaching consequences. The need for a defensive religiosity that turned his back on Europe was taken up and honed into a clear orientation towards Turkey. The communities were distinguished by what role they saw for Islam in Turkey.” W. SCHIFFAUER, “From exile to diaspora: the development of transnational Islam in Europe”, in A, AL-AZMEH, E. FOKAS, “Islam in Europe: Diversity, Identity and Influence”, Cambridge University Press, Cambridge, 2007, pp. 73-74. 66 Negli ultimi anni, infatti, dall'unione di numerosi gruppi si sono costituite due federazioni “dirigenti” (per quanto nel caso islamico abbiamo visto che a parlare di rappresentanza o dirigenza ci si avventuri sempre su di un terreno minato): il Consiglio dell'Islam della Repubblica federale tedesca ed il Consiglio centrale dei musulmani di Germania. A nessuna delle due federazioni si è associato l'ufficio del DİTİB, fatto notevole poiché quest'ultimo riveste un ruolo di rilievo nella vita associativa della comunità musulmana tedesca, se non altro per l'influenza che gli garantiscono i suoi legami organici con il governo turco. Nemmeno queste due federazioni sono però state in grado di ottenere il riconoscimento come enti o corporazioni di diritto pubblico, proprio per la composizione nebulosa ed indefinita che le caratterizza e, naturalmente, per l'annosa questione della rappresentanza che nemmeno queste due nuove e più allargate organizzazioni sono state per ora in grado di risolvere. L'islam tedesco, dunque, si caratterizza in modo molto forte dal punto di vista etnico e nazionale e sin dai primi passi della sua organizzazione è stato segnato dai forti legami con la Turchia, sia a causa dei conflitti interni che hanno portato numerose organizzazioni a fuoriuscire dal paese, sia a casa del controllo più o meno diretto che il governo turco è riuscito ad esercitare sulla comunità musulmana immigrata attraverso le proprie agenzie o tramite l'ambasciata. Alla fine degli anni '80 praticamente ogni moschea ed associazione musulmana sul suolo turco si era posizionata nella sfera di influenza di una delle organizzazioni precedentemente citate, tutte, in vari modi, provenienti dalla Turchia o con essa collegate: l'islam dunque non solo come collante culturale tra popolazioni immigrate, ma anche e soprattutto, nel caso tedesco, e con riferimento soprattutto ad alcune delle organizzazioni citate, come forte legame con l'identità nazionale ed il paese di origine.152 3.2 L'assetto costituzionale e la tutela della libertà religiosa 152 “The transmission of Islamic norms and values was identified with socialisation as a Turk and transmission of love of the fatherland.”W. SCHIFFAUER, “From exile to diaspora: the development of transnational Islam in Europe”, in A, AL-AZMEH, E. FOKAS, “Islam in Europe: Diversity, Identity and Influence”, Cambridge University Press, Cambridge, 2007, p. 76. 67 L'ordinamento tedesco non prevede una religione ufficiale, né particolari legami o rapporti con una comunità religiosa in particolare153. Inoltre, lo Stato non interviene in ambito religioso se non per regolarne gli aspetti “temporali” ed organizzativi sul piano pubblico. Oltre agli strumenti nazionali, non va dimenticata l'influenza nell'ordinamento tedesco degli strumenti di diritto internazionale ratificati, quali la CEDU, il cui art. 9 tutela la libertà religiosa, e la Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali, ratificata dalla Germania nel , la quale a sua volta contiene disposizioni (in particolare l'art. 8) relative alla libertà di culto ed ai diritti religiosi.154 La Legge Fondamentale tedesca tutela il libero esercizio della religione all'art. 4, intitolato alla “libertà di fede e di coscienza”. La disposizione prevede al co.1 l'inviolabilità della “libertà di fede e di coscienza” e della “libertà di confessione religiosa e ideologica”, mentre il co. 2 garantisce il libero esercizio del culto. L'art. 3 tutela l'uguaglianza di tutti gli uomini di fronte alla legge e sancisce il divieto di discriminazione, anche per motivi legati all'appartenenza religiosa. L'art. 7 tutela i diritti religiosi per quanto riguarda l'ambito dell'istruzione: al co. 2 si prevede che “le persone che hanno la patria potestà hanno il diritto di decidere in ordine alla partecipazione del fanciullo all'insegnamento religioso”, mentre il co. 3 stabilisce che l'insegnamento religioso debba essere “materia ordinaria di insegnamento nelle scuole pubbliche, ad eccezione delle scuole non confessionali”, e che tale insegnamento debba essere impartito “in conformità ai principi delle comunità religiose”; afferma inoltre il carattere volontario di tale insegnamento, stabilendo che 153 Come prevedeva già la Costituzione di Weimar all'art. 136, poi recepito dall'art. 140 della Legge Fondamentale del 1949. Cfr. G. ROBBERS, “The legal status of Islam in Germany”, in S. FERRARI, A. BRADNEY (a cura di), “Islam and european legal systems”, Dartmouth Ashgate, Aldershot, 2000, p. 150. 154 Però, nei due reports presentati dalla Germania e nelle osservazioni effettuate dall'Advisory Committee sull'applicazione della Convenzione, non si fa quasi cenno ad una presenza turca , o musulmana, in Germania, assenza giustificata dal fatto che la minoranza turco-musulmana è presente in Germania da tempo relativamente breve e che deve piuttosto considerarsi alla stregua di comunità religiosa, nonostante l'importanza del fattore etnico ed i legami con lo stato turco. Tuttavia nella seconda opinione sulla Germania, adottata nel marzo 2006, l'Advisory Committee sottolinea l'importanza di prendere in considerazione ulteriori gruppi che i precedenti reports del governo tedesco non avevano memmeno menzionato, e fa riferimento a “componenti turche”, anche se non direttamente in relazione a problemi riguardanti l'esercizio delle libertà religiose. Cfr. soprattutto: Advisory Committee on the Framework Convention for the Protection of National Minorities, “Second opinion on Germany” , n. ACFC/OP/II(2006)001, 02.2007; “Second report submitted by Germany”, n. ACFC/SR/II(2005)002, 04.2005, www.coe.int. 68 nessun insegnante possa esservi obbligato contro la propria volontà. La possibilità di istituire scuole private confessionali è garantita al co. 4, e condizionata alla corrispondenza a determinati criteri, quali la parità degli obiettivi didattici e della formazione degli insegnanti a quelli delle scuole pubbliche. Inoltre, l'art. 140 recepisce nel testo costituzionale gli articoli 136, 137, 138, 139 e 141 della Costituzione di Weimar del 1919. L'art. 136 sancisce il principio della libertà religiosa, mentre gli articoli dal 137 al 141 vietano l'istituzione di una chiesa di stato, garantiscono alle comunità religiose la libertà dalle ingerenze governative, e in particolare all'art. 137 prevedono una disciplina per quanto riguarda lo statuto legale delle associazioni religiose, consistente in una particolare forma di riconoscimento: tali associazioni infatti vengono disciplinate sotto forma di corporazioni di diritto pubblico. In virtù di tali accordi alle organizzazioni religiose vengono riconosciuti alcuni importanti vantaggi, non ultimi quelli di tipo fiscale, sia sui finanziamenti privati, che costituiscono una delle maggiori fonti delle entrate delle comunità religiose, sia sui beni immobili appartenenti alle comunità religiose, le quali anche in questo caso usufruiscono di importanti benefici fiscali.155 Alcuni altri aspetti non meno rilevanti, tuttavia, come il diritto all'insegnamento religioso nelle scuole, non sono legati allo status della comunità religiosa in questione: le forme associative ordinarie vengono considerate un requisito sufficiente. Tuttavia, anche in questo caso il problema della rappresentanza istituzionale ha non poche ricadute pratiche, non legate alla legittimità della pretesa in sé, ma alla necessità, per le autorità statali, di trovare un interlocutore universalmente ed ufficialmente riconosciuto.156 All'entrata in vigore della Costituzione, le chiese cristiane157, già presenti 155 “The organisational form of a corporation by public law provides a number of fa-reaching rights, such as the right to levy taxes from members of the community and to organize a parish, the right to employ people under a belief-orientated labour law, the placement of property under public property law which grants tax-reductions and the exemption of other taxes and costs, the right to nominate members to broadcast-councils etc.” M. ROHE, “The legal treatment of Muslims in Germany”, in R. ALUFFI BECK-PECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, p. 87 156 Cfr. G. ROBBERS, “The legal status of Islam in Germany”, in S. FERRARI, A. BRADNEY (a cura di), “Islam and european legal systems”, Dartmouth Ashgate, Aldershot, 2000, pp. 151152. 157 “In the past it has been argued that religious freedom guaranteed under the Constitution should be applicable only to the religions traditionally present within Western Europe thus excluding Islam [...] Such idea would be in contradiction with Artcle 9 of the European Convention on Human Rights. This provision, in Germany, has the equivalent legal status of 69 storicamente in territorio tedesco, ottennero automaticamente il riconoscimento.158 Più recentemente il riconoscimento è stato ottenuto anche dalla Comunità ebraica, mentre nessuna organizzazione musulmana fino ad oggi è riuscita a raggiungere tale status. Nel 1954, infatti, una conferenza dei ministri dell'interno aveva stabilito, tra i requisiti necessari per l'acquisizione dello status di ente pubblico, la necessità di dimostrare il proprio carattere di stabilità, tramite una permanenza stabile di almeno 30 anni in territorio tedesco 159. La comunità musulmana tedesca, così divisa secondo le sfere di influenza di organizzazioni e formazioni partitiche facenti capo alla politica turca, sembra ancora lontana dal raggiungimento degli standard necessari per poter accedere al riconoscimento160, tanto che le richieste in questo senso di alcuni singoli gruppi musulmani sono state respinte, data la mancanza dei requisiti fondamentali stabiliti per il riconoscimento e delle condizioni previste dalle disposizioni della Costituzione di Weimar recepite nella Legge fondamentale.161 Le comunità musulmane, attualmente, si organizzano dunque nelle forme associative ordinarie previste al paragrafo 21 e seguenti del Codice civile, o secondo la disciplina prevista per le fondazioni di diritto privato prevista al paragrafo 80 del Codice civile: la forma organizzativa per i gruppi religiosi, infatti, è libera; nella pratica, si tratta di associazioni senza scopo di lucro. Queste forme associative, naturalmente, non garantiscono diritti equivalenti a quelli previsti dal regime disciplinato all'art. 140, mutuato dalla Costituzione di Weimar e subordinato alle condizioni già accennate. Quello tedesco si può dunque definire un ordinamento concordatario; la dimensione statute, coming below the federal constitution but forming part of the legal system of Germany.” G. ROBBERS, “The legal status of Islam in Germany”, in S. FERRARI, A. BRADNEY (a cura di), “Islam and european legal systems”, Dartmouth Ashgate, Aldershot, 2000, p. 148. 158 Attualmente esistono due concordati conclusi dallo Stato tedesco, uno con la chiesa cattolica ed uno con la chiesa luterana. Cfr. F. PALERMO, J. WOELK “Diritto costituzionale comparato dei gruppi e delle minoranze”, Cedam, 2008, pp.206 ss. 159 Cfr. M. ROHE, “The legal treatment of Muslims in Germany”, in R. ALUFFI BECKPECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, pp. 83-84. 160 “Logically such far-reaching rights require clear structures of organization including transparent procedures for decision-making and a reliable body or bodies which authentically and authoritatively decide about doctrine and order. Until now Muslims in Germany are far from fulfilling all these prerequisites.” M. ROHE, “The legal treatment of Muslims in Germany”, in R. ALUFFI BECK-PECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, p. 88. 161 Cfr. G. ROBBERS, “The legal status of Islam in Germany”, in S. FERRARI, A. BRADNEY (a cura di), “Islam and european legal systems”, Dartmouth Ashgate, Aldershot, 2000, p. 148. 70 religiosa è accettata come parte integrante non solo degli aspetti privati della vita degli individui, ma anche nella sua dimensione collettiva, appunto attraverso lo strumento del riconoscimento, che incide soprattutto negli aspetti temporali ed organizzativi della vita delle comunità religiose, senza influire negli aspetti più strettamente collegati alla pratica religiosa. La materia culturale, nella quale è compreso anche l'aspetto religioso, rientra nella competenza dei diversi Länder, ai quali dunque, pur nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento, è lasciata non poca autonomia nella trattazione delle questioni religiose. Il riconoscimento nelle forme previste all'art. 140 della Legge fondamentale avviene infatti sotto forma di accordi conclusi tra le comunità religiose ed i singoli stati, con notevoli differenze tra le discipline e nella pratica, date anche dalla diversità delle concezioni contenute nelle costituzioni dei Länder stessi.162 Nell'ambito di questa autonomia, di conseguenza, l'atteggiamento nei confronti del fenomeno religioso varia in maniera significativa, a seconda anche dell'orientamento delle diverse amministrazioni. Così, nei Länder meridionali, particolarmente legati alle comunità religiose cristiane, ed in particolar modo alla religione cattolica, vengono solitamente attuate politiche di tipo promozionale nei confronti di queste comunità; al contrario nei Länder della Germania orientale e settentrionale si deroga alla previsione costituzionale dell'art. 7 co.3 per cui l'insegnamento religioso è considerato materia ordinaria nelle scuole pubbliche, sostituendolo con forme di 162 “Based on the framework provisions of the Weimar Constitution,religious organizations are either corporations of public law or non-profit associations. The status of a corporation of public law is granted on historic grounds to the major religions that have had this status for a long time. In addition, other religious communities may apply for such status, which is to be granted if the number of members and the constitution of the organization offer an assurance of permanency. The decision on recognition is made by the individual states and practices differ. In many instances, the corporate status is established or defined through agreements between the state governments and the religious communities. Such agreements have been concluded primarily with the Roman Catholic Church and the German Protestant Church and with subdivisions of these organizations. In recent years, some of the states have concluded agreements with smaller religious communities. Religious communities that are recognized as corporations of public law have a special relationship of cooperation with the government. In particular, they have the right to have member contributions collected in the form of levied taxes. In addition, they have rights with regard to religious education in public schools, and chaplains in the military, prisons, and hospitals; they also cooperate with governmental agencies to provide social services through their charitable organizations. However, some of these rights may also be granted to religious communities that are lawful non-profit organizations. In this context, much depends on state law and on the case law of the administrative courts.” “Religious liberty: the legal framework in selected OSCE countries”, 05.2000, p. 46, www.house.gov/csce. 71 insegnamento etico o morale di tipo laico, o pluriconfessionale.163 3.3 Le recenti evoluzioni nel campo della rappresentanza istituzionale: la Conferenza tedesca dell'islam In tempi recenti le esigenze di istituzionalizzazione e di allargamento del consenso nell'ambito della rappresentanza si sono fatte più pressanti all'interno della comunità musulmana turca: tra gli innumerevoli motivi di queste necessità, vanno sottolineati il rifiuto del riconoscimento secondo la disciplina dell'art. 140 della Costituzione, ricevuto da alcune associazioni islamiche164, e le difficoltà ad organizzare l'insegnamento religioso nella scuola pubblica, due ambiti che rivestono un ruolo di primaria importanza nella “vita pubblica” della comunità religiosa. Recentemente sono state prese alcune iniziative per giungere ad un accordo in merito alla struttura rappresentativa della comunità musulmana, in un'ottica che guarda a superare le barriere etniche tra musulmani ed a raggiungere un consenso diffuso sulle istituzioni che dovrebbero rappresentare l'islam all'interno dell'ordinamento tedesco e nei rapporti con le autorità. Degna di nota è l' istituzione, nel 2006, della Conferenza tedesca dell'Islam (DKI), inaugurata a Berlino il 27 settembre dello stesso anno, che ha da poco concluso la sua seconda sessione plenaria. Inaugurata dal Ministro degli interno federale ormai un anno e mezzo fa, questa conferenza di dialogo, della durata prevista di almeno due o tre anni, vuole essere nell’intenzione degli organizzatori uno strumento per migliorare il rapporto tra le istituzioni tedesche e l'oramai numerosissima comunità musulmana, favorendone l’integrazione e contrastando la diffusione del terrorismo di matrice islamica. Le organizzazioni islamiche sperano dal canto loro di ottenere nel corso delle trattative il riconoscimento di uno status politico e giuridico paragonabile a quello delle comunità cristiane ed ebraiche, anche grazie alla creazione di strutture rappresentative ed istituzionali che possano dirsi condivise da tutte le componenti 163 Cfr. F. PALERMO, J. WOELK “Diritto costituzionale comparato dei gruppi e delle minoranze”, Cedam, 2008, pp.206 ss. 164 Cfr. M. ROHE, “The legal treatment of Muslims in Germany”, in R. ALUFFI BECKPECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, p. 88. 72 dell'islam tedesco e che siano anche in grado di allentare gli strettissimi legami con lo stato turco, ulteriore elemento di difficoltà nella creazione di istituzioni che siano realmente rappresentative della comunità islamica tedesca.165 Vi partecipano, per lo Stato, rappresentanti dei ministeri federali, dei singoli Länder e dei comuni. Per i musulmani sono schierati invece, oltre ad una serie di personalità indipendenti che rappresentano le diverse sfumature della società civile ed intellettuale tedesco-musulmana (sociologi, avvocati, scrittori), le varie organizzazioni islamiche più influenti, che si sono da poco raccolte in un Consiglio di Coordinazione dei Musulmani: l’Unione Turco-Islamica dell’Istituto per la Religione, il Consiglio Centrale dei Musulmani in Germania, il Consiglio Islamico e l’Unione dei Centri di Cultura Islamica. Tuttavia risulta difficile al momento definire questa istituzione come rappresentativa della totalità dei musulmani tedeschi, la grande maggioranza dei quali, invece, non è affiliata ad alcuna associazione o centro culturale religioso o direttamente riconducibile alla religione islamica. Uno dei motivi di conflitto più importanti è dato dall'annosa questione della legittimità della rappresentanza: la discussione verte su chi sia legittimato a partecipare alla conferenza, a titolo di rappresentante della comunità musulmana166. Oltre al problema della scarsa rappresentatività delle organizzazioni presenti, per i motivi già citati, ha fatto molto discutere la presenza ai lavori della DIK di personaggi tenuti sotto osservazione dai servizi di sicurezza federali per presunti legami con gruppi eversivi, oltre che per atteggiamenti e posizioni incompatibili con l’ordinamento costituzionale democratico. Tra questi, il presidente della “Comunità Islamica in Germania”, Ibrahim El-Zayat, contestato per i suoi collegamenti con la Fratellanza Musulmana, ed il leader del Consiglio Islamico, Ali Kizilkaya. Desta preoccupazione l’influenza che su questi gruppi esercita anche l’ultraconservatrice “Comunità Islamica Milli Görüs”.167 In ogni caso, le autorità tedesche hanno precisato che non intendono per ora riconoscere alla Conferenza così composta il ruolo di rappresentante generale dell'islam tedesco, e che d'altra parte non è ancora prevista la creazione di un 165 Cfr. M. LANDRICINA, “Islamkonferenz: primi passi di un percorso lunghissimo”, in “Dialogues on civilizations”, www.resetdoc.org. 166 G. ROBBERS, “The legal status of Islam in Germany”, in S. FERRARI, A. BRADNEY (a cura di), “Islam and european legal systems”, Dartmouth Ashgate, Aldershot, 2000, pp. 152 ss. 167 Come già evidenziato all'inizio del capitolo, sia Milli Görüs che le altre “organizzazioniombrello” tendono ad esercitare una grande influenza sulle numerose associazioni islamiche presenti in Germania, mantenendo forti i legami con la Turchia, o quantomeno con l'islam turco sia nelle sue forme più strettamente religiose, sia più politicamente connotate. Cfr. W. SCHIFFAUER, “From exile to diaspora: the development of transnational Islam in Europe”, in A, AL-AZMEH, E. FOKAS, “Islam in Europe: Diversity, Identity and Influence”, Cambridge University Press, Cambridge, 2007. 73 organismo di rappresentanza centralizzato, ispirato al modello francese, dell'islam tedesco. Nonostante la partecipazione e gli sforzi fatti per trovare un accordo su una piattaforma di valori comuni che permetta una più facile e proficua collaborazione tra rappresentanti dell'islam ed autorità tedesche, dunque, i lavori sembrano per ora essere giunti ad un'impasse, dato che pochi giorni dopo la chiusura della seconda sessione rappresentanti delle organizzazioni islamiche presenti alla conferenza hanno ritirato il proprio assenso ad alcuni documenti approvati nel corso della sessione stessa, che non solo pendevano le distanze dall'islam radicale, ma affermavano anche la completa adesione delle comunità musulmane tedesche ai valori costituzionali espressi dalla Legge Fondamentale. 3.4 Simboli religiosi e dimensione pubblica Per gli altri ordinamenti europei, uno degli ambiti in cui la presenza in ambito pubblico dell'islam ha creato maggiori contrasti è stata anche in Germania la questione collegata all'esposizione pubblica dei simboli religiosi. Anche in Germania, inoltre, l'ambiente pubblico dove la questione si è manifestata con più evidenza è stato quello scolastico, proprio per il ruolo che l'ordinamento attribuisce alla scuola pubblica nel rappresentare e trasmettere i propri valori, e che è divenuta, soprattutto negli ultimi anni, il campo su cui si sono combattute molte battaglie in nome di principi quali la neutralità, se non la laicità, e la tutela della libertà religiosa e di coscienza degli alunni e degli operatori scolastici. Nel caso tedesco, come si è già detto il campo dell'educazione rientra nelle competenze dei Länder: cosicché è necessario riferirsi alle singole legislazioni e soprattutto ai casi giurisprudenziali locali per avere un'idea della posizione dell'ordinamento tedesco in questo ambito. Se in Baviera la controversia più aspra e anche la più conosciuta verte sull'esposizione del crocifisso nelle scuole, ed in particolare sulla legge che ne rendeva obbligatoria la presenza, appunto, nelle aule scolastiche, controversia che ha visto l'intervento del Tribunale costituzionale federale, il quale ha dichiarato 74 l'incostituzionalità di questa legge in quanto, nella parte in cui rendeva obbligatoria l'esposizione del crocifisso, essa violava la libertà religiosa tutelata all'art. 4 della Legge fondamentale,168 particolarmente interessante per la comprensione dell'approccio dell'ordinamento tedesco nei confronti del fattore religioso in generale, ma nello specifico nei confronti del simbolo musulmano per eccellenza, il velo femminile, è un caso giunto ugualmente davanti al Tribunale Costituzionale e deciso nel 2003.169 Fereshta Ludin170, immigrata di origine afgana aspirante ad un impiego nella scuola pubblica nel Baden-Württemberg, supera il tirocinio e l'esame di Stato. Tuttavia, l'assunzione le viene negata, poiché nei colloqui precedenti aveva espresso la sua intenzione di portare il velo durante lo svolgimento delle proprie funzioni di insegnante. Esauriti i rimedi della giustizia amministrativa -la donna aveva presentato ricorso al Tribunale amministrativo di Stoccarda, poi alla Corte di giustizia amministrativa del Land, successivamente al Tribunale federale amministrativo di Berlino, tutti respinti- il caso viene portato davanti al Tribunale costituzionale, che accoglie il ricorso. Nelle motivazioni della sentenza si fa riferimento al fatto che qualificare come causa di inidoneità per la professione di insegnante elementare la scelta di manifestare la propria appartenenza religiosa, oltre che la propria identità personale di donna musulmana, violerebbe sia il diritto di accedere senza discriminazioni all'impiego pubblico, sancito all'art. 33 co. 2 della Legge fondamentale, e la libertà religiosa tutelata all'art. 4, co. 1 e 2 della Legge fondamentale. L'affermazione del principio di “neutralità ideologico-religiosa”, si afferma nella sentenza, non passa attraverso un separazione totale tra Stato e religioni, ma deve 168 Cfr. F. PALERMO, J. WOELK “Diritto costituzionale comparato dei gruppi e delle minoranze”, Cedam, 2008, pp. 206-207. Sono state risolte diversamente, invece, le controversie relative alle leggi sulla “scuola cristiana comune” nel Baden ed alla preghiera nelle scuole elementari dell'Assia, non giudicate costituzionalmente illegittime poiché nell'opinione del Tribunale garantivano comunque una “sufficiente opportunità di scelta alternativa.” Cfr. J. LUTHER, “Il velo scoperto dalla legge: profili di giurisprudenza costituzionale comparata”, in S. FERRARI (a cura di), “Islam ed Europa: i simboli religiosi nei diritti del Vecchio continente”, Carocci editore, Roma, 2006, pp. 80 ss. 169 Cfr. Cfr. J. LUTHER, “Il velo scoperto dalla legge: profili di giurisprudenza costituzionale comparata”, in S. FERRARI (a cura di), “Islam ed Europa: i simboli religiosi nei diritti del Vecchio continente”, Carocci editore, Roma, 2006, pp. 78 ss. 170 Cfr. B. RANDAZZO “L'insegnante col velo alla Corte di Karlsruhe”, in “Quaderni costituzionali”, 2004, n. 1, pp.147-148. 75 tradursi in un atteggiamento di uguale apertura verso ognuna di esse: “[...]la scuola pubblica [...] deve essere aperta anche ad altri contenuti e valori filosofici e religiosi. In questa apertura lo Stato che si ispira alla legge fondamentale, improntato alla libertà, conserva la propria neutralità religiosa e filosofica. Tra le tensioni, inevitabili nell'educazione comune di studenti di orientamenti filosofici diversi, deve essere cercato un equilibrio, rispettando il precetto della tolleranza come manifestazione della dignità umana.” Il compito educativo che spetta allo Stato è posto sullo stesso piano del diritto dei genitori ad educare i propri figli: la disciplina relativa a questo compito, afferma la sentenza, rientra nelle competenze del legislatore di ogni singolo Land, nel rispetto dell disposizioni della Legge fondamentale, la quale “ [...] lascia decidere l'individuo quale simbolo religioso riconoscere e venerare e quale rifiutare. In una società che dà spazio a convinzioni religiose diverse, certo non ha un diritto ad essere risparmiato da atti di professione di fede, di culto e simboli religiosi [...] Risolvere l'inevitabile rapporto di tensione tra libertà religiosa positiva di un insegnante, da un lato, e dovere statale di neutralità ideologico-religiosa, diritto di educazione dei genitori e libertà religiosa negativa degli alunni, dall'altro lato, tenendo in considerazione l'imperativo della tolleranza, spetta al legislatore democratico del land che deve cercare tramite procedure pubbliche di formazione della sua volontà un compromesso accettabile per tutti.” La sentenza inoltre mette in relazione diretta le due disposizioni costituzionali a tutela della libertà religiosa, affermando che “[...]da un lato nell'ambito scolastico l'art. 7 ammette influenze filosofico-religiose nel rispetto del diritto educativo dei genitori, dall'altro l'art. 4 impone di eliminare il più possibile le coercizioni filosofico-religiose nella decisione sulla forma istituzionale della scuola. Tali disposizioni devono essere considerate insieme, la loro interpretazione e portata devono essere armonizzate.” Nell'affermare questo principio di armonizzazione la sentenza costituzionale sottolinea anche il fatto che in quest'ottica diviene accettabile che i diversi Länder adottino discipline differenziate, poiché nel quadro appena delineato vanno necessariamente considerate anche, oltre alle tradizioni scolastiche, la composizione 76 confessionale del paese ed il ruolo della religione in una determinata area.171 La motivazione passa poi, dall'analisi della posizione dello stato e del legislatore nei confronti dei simboli religiosi in generale, ad un tentativo di definire il significato del velo stesso e del suo impatto particolare negli ordinamenti occidentali, affermandone la natura di simbolo religioso solo in connessione ad una persona, una donna, che lo indossi e che contemporaneamente adotti determinati comportamenti, e differenziandolo in questo dal crocifisso, simbolo affisso nelle aule scolastiche in seguito ad un preciso ordine dello Stato. La sentenza coglie in questo senso alcuni aspetti dell'islam che vanno al di là dell'appartenenza religiosa, in quanto “ [...]accanto al desiderio di rispettare regole di abbigliamento sentite come vincolanti e fondate sulla religione, può essere interpretato anche come segno per la conservazione di tradizioni della società di origine. In tempi più recenti viene considerato maggiormente come simbolo politico del fondamentalismo islamico che esprime il distacco da valori da valori della società occidentale quali l'autodeterminazione individuale e, soprattutto, l'emancipazione della donna.” Il Tribunale costituzionale conclude con un'osservazione sul ruolo di questo tipo di rapporti nella determinazione delle relazioni tra Stato e religioni, il cui indirizzo, 171 Questa affermazione ha fatto sì che alcuni Länder adottassero politiche particolarmente promozionali nei confronti delle confessioni cristiane (in particolare nelle regioni a maggioranza cattolica), con ricadute anche di tipo discriminatorio nei confronti delle altre espressioni religiose o filosofiche e quindi in sostanziale contrasto con il principio di neutralità affermato dalla sentenza. Cfr. F. PALERMO, J. WOELK “Diritto costituzionale comparato dei gruppi e delle minoranze”, Cedam, 2008, pp. 206-207. Ad esempio, nell'aprile 2004 il Landtag del Baden-Württemberg ha approvato un disegno di legge il cui testo prevede che al personale insegnante nelle scuole pubbliche non siano consentite nell'ambiente di lavoro “manifestazioni politiche, religiose o ideologiche o simi li se idonee a mettere a rischio o turbare la neutralità del Land nei confronti di alunni e genitori o la pace politica, religiosa o ideologica della scuola. [...]L'adempimento del mandato di educazione [...]e la corrispondente rappresentazione di valori formativi e culturali o di tradizioni cristiane e occidentali non è in contrasto con la prescrizione di condotta di cui al periodo primo. La prescrizione di neutralità[...]non si applica all'insegnamento della religione [...]”; disegni di legge sostanzialmente identici sono stati presentati nello stesso periodo anche in Bassa Sassonia e nel NordrheinWestfalen. In Assia invece la CDU ha presentato un disegno di legge a proposito del dovere di neutralità in generale previsto per i funzionari pubblici, ed in particolare nell'ambito dell'organizzazione scolastica: “In particolare non possono portare o usare capi di abbigliamento, simboli o altri distintivi che sono oggettivamente idonei a menomare la fiducia nella neutralità della gestione dell'ufficio o mettere a rischio la pace politica, religiosa o filosofica. La decisione sulla sussistenza dei requisiti [...] deve tenere conto della tradizione occidentale, ad impronta cristiana ed umanistica, del Land dell'Assia.” Cfr. J. LUTHER, “Il velo scoperto dalla legge: profili di giurisprudenza costituzionale comparata”, in S. FERRARI (a cura di), “Islam ed Europa: i simboli religiosi nei diritti del Vecchio continente”, Carocci editore, Roma, 2006, pp. 86-88. 77 come già detto, va affermato ad opera del legislatore e, sottolinea il tribunale, non può mai diventare competenza dell'esecutivo al fine di scongiurare il rischio di abusi. La sentenza afferma la possibilità di una “rideterminazione del margine di liceità dei riferimenti religiosi nella scuola” tramite disposizioni legislative, dalle quali può derivare una “concretizzazione di doveri d'ufficio per gli insegnanti del pubblico impiego, anche con riguardo al loro modo di presentarsi esteriormente, rendendo trasparente un legame con determinate convinzioni religiose o concezioni del mondo.” La scuola viene presentata come “il luogo nel quale le diverse concezioni religiose entrano inevitabilmente in contatto e in cui il loro accostamento produce effetti particolarmente sensibili” con un ragionamento simile a quello che si faceva per spiegare l'importanza del fenomeno religioso nella scuola riguardo all'esperienza francese. La sentenza conclude presentando al legislatore una scelta, tra “recepire il crescente pluralismo religioso nella scuola e per utilizzarlo come strumento per l'apprendimento della tolleranza reciproca”, come sembra auspicare la sentenza stessa, o “attribuire all'obbligo di neutralità statale in ambito scolastico un senso più rigido e di maggiore distanza, allontanando dagli allievi anche i riferimenti religiosi mediati dall'immagine della presentazione esteriore dell'insegnante, al fine di prevenire sin dall'inizio i conflitti con allievi genitori o altri insegnanti.” La giurisprudenza costituzionale non decide, dunque, ma si limita, una volta posto il problema, ad offrire al legislatore due vie d'uscita alternative che rappresentano due modi diversi di rapportarsi con la questione del pluralismo religioso, e di conseguenza in questi ultimi anni anche con l'islam: la presenza dell'islam nello spazio pubblico passa anche, distogliendo un momento l'attenzione dalle tematiche più strettamente connesse alla rappresentanza istituzionale, attraverso la posizione che si decide e di accordargli nell'ambiente scolastico. 78 3.5 Principio di neutralità ed educazione religiosa Il diritto ad una determinata educazione di tipo confessionale o filosofico nella scuola pubblica è affermato in particolare all'art. 7 della Legge fondamentale 172, e non dipende in alcun modo dallo statuto legale della religione in questione: i dettagli delle differenti discipline dipendono dalla legislazione in ambito scolastico dei singoli Länder, dato che la materia rientra tra le loro competenze173, ma a livello di regole generali è sufficiente che vi sia in primo luogo un numero piuttosto consistente di alunni e genitori che lo richiedono, ed in secondo luogo una comunità religiosa disposta a farsi carico del contenuto e dell'organizzazione dei programmi di istruzione religiosa da inserire in quelli ordinari di insegnamento. Gli insegnanti sono nominati e stipendiati dallo Stato, ma approvati dalle comunità religiose.174 Ancora una volta, il principio di neutralità affermato dall'ordinamento tedesco si concretizza in un atteggiamento pluralista nei confronti delle diverse espressioni religiose, piuttosto che in una netta separazione tra dimensione religiosa e sfera pubblica; nello specifico, ambiente scolastico e contenuti dei programmi di istruzione.175 La questione dell'educazione religiosa è di grande rilievo per una valutazione della condizione dell'islam e delle comunità musulmane nei rapporti con l'ordinamento. Abbiamo visto che qualsiasi organizzazione religiosa, anche non riconosciuta dallo 172 Art. 7 co. 3: “L'insegnamento religioso è materia ordinaria di insegnamento nelle scuole pubbliche, ad eccezione delle scuole non confessionali. Restando salvo il diritto di sorveglianza dello Stato, l'insegnamento religioso è impartito in conformità ai principi delle comunità religiose. Nessun insegnante può essere obbligato contro la sua volontà ad impartire l'insegnamento religioso.” 173 Ed infatti, alcuni Länder delle regioni settentrionali ed orientali sostituiscono l'educazione religiosa tradizionale con forme di insegnamento pluriconfessionale o laico: ad esempio, il Land di Brema viene impartito un insegnamento non confessionale di storia biblica, mentre l'insegnamento religioso vero e proprio viene tenuto al di fuori della scuola pubblica. Anche a Berlino il regime in vigore è di tipo derogatorio: l'amministrazione scolastica infatti mette a disposizione solamente i locali per le lezioni. La deroga è possibile in forza dell'art. 141 della Legge Fondamentale, che la prevede per i Länder nei quali “al 1° gennaio 1949 vigeva una diversa disciplina giuridica territoriale.” Cfr. F. PALERMO, J. WOELK “Diritto costituzionale comparato dei gruppi e delle minoranze”, Cedam, 2008, pp. 206-207,“Religious liberty: the legal framework in selected OSCE countries”, 05.2000, p. 48, www.house.gov/csce. , e B. GUNTAU, “La condizione giuridica dell'Islam in Germania”, in S. FERRARI (a cura di), “Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche”, Il Mulino, Bologna, 2000, pp.277-278. 174 Cfr. “Religious liberty: the legal framework in selected OSCE countries”, 05.2000, www.house.gov/csce. 175 Cfr. B. GUNTAU, “La condizione giuridica dell'Islam in Germania”, in S. FERRARI (a cura di), “Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche”, Il Mulino, Bologna, 2000, p.279, sul concetto di Stato “imprenditore”dell'insegnamento religioso ai sensi dell'art. 7.3 della Legge Fondamentale. 79 Stato come ente pubblico tramite lo strumento del concordato, può veder impartito il proprio insegnamento all'interno dei programmi scolastici, a patto che il numero dei richiedenti sia sufficientemente ampio; le autorità statali non hanno nessun potere di controllo sul contenuto dei programmi di istruzione religiosa, per quanto riguarda il merito dell'insegnamento. Da queste premesse non si può che affermare il diritto indiscutibile degli alunni musulmani, data la loro ingente presenza nelle scuole pubbliche tedesche, a vedersi impartire, qualora lo richiedano, l'insegnamento della religione islamica.176 Il problema, se vogliamo, sta altrove, e ci conduce sempre allo stesso nodo fondamentale: la questione irrisolta della rappresentanza istituzionale. Chi si occupa dell'organizzazione dell'insegnamento religioso nei vari Länder sono le comunità religiose: ad esse lo stato affida il compito di elaborare i contenuti stessi dei programmi, e di approvare le nomine degli insegnanti. Ma le amministrazioni statali devono poter interloquire con dei portavoce della comunità religiosa in questione che siano universalmente riconosciuti come rappresentanti ufficiali della comunità stessa. Il problema della rappresentanza affligge molte delle comunità islamiche dell'Europa occidentale, e anche la comunità musulmana tedesca non è da meno: in sostanza, nella maggior parte dei casi in cui sono state avanzate richieste di inserire l'educazione alla religione musulmana nei programmi scolastici, e l'amministrazione si è rivolta a personalità del mondo islamico per concordare dei programmi e organizzare le nomine degli insegnanti, un coro di proteste si è levato dalle organizzazioni musulmane a cui le sopraccitate personalità non appartenevano.177 Abbiamo visto come il governo tedesco stia tentando di trovare una soluzione al problema degli interlocutori ufficiali, anche se non si è ancora giunti a delle risposte definitive. Dal canto loro, per risolvere il problema dell'istruzione religiosa nelle scuole pubbliche, i diversi Länder hanno elaborato soluzioni diverse. In alcuni casi, come ad esempio nel Baden-Württemberg o in Baviera, le 176 “Lo Stato è tenuto solamente ad assicurare che l'istruzione religiosa sia materia di insegnamento con la stessa collocazione e lo stesso trattamento delle altre [...]sussiste un interesse costituzionale dello Stato a che venga impartito i generale e anche uno islamico in particolare.” B. GUNTAU, “La condizione giuridica dell'Islam in Germania”, in S. FERRARI (a cura di), “Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche”, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 280. 177 Cfr. M. ROHE, “The legal treatment of Muslims in Germany”, in R. ALUFFI BECKPECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, pp. 96-97. 80 amministrazioni hanno istituito delle conferenze permanenti, o “tavole rotonde”, alle quali erano chiamate a partecipare tutte le personalità del mondo musulmano ed i rappresentanti delle diverse organizzazioni che lo desiderassero, al fine di discutere i nodi fondamentali della questione e trovare soluzioni condivise (almeno per quel che riguarda i programmi scolastici!), facendo poi partire dei cicli di lezioni sperimentali sulla base di questi programmi concordati e caratterizzati dall'armonizzazione di diverse forme di manifestazione della religione musulmana.178 In altri casi si è cercato di offrire una diversa soluzione al problema istituendo nelle scuole pubbliche dei corsi di lingua e storia turca, che avrebbero dovuto comprendere anche l'istruzione religiosa, grazie ad una collaborazione tra governo tedesco ed autorità turche, responsabili sia dei programmi sia dell'invio di insegnanti direttamente dalla Turchia. Tuttavia, questo tipo di soluzione ha posto sin dall'inizio una serie di problemi: in primo luogo, non si può veramente definire un insegnamento religioso, dato che è organizzato dai due governi in cooperazione e la partecipazione delle comunità religiose all'iniziativa è pressoché nulla: si viola inoltre l'art. 7 della Legge fondamentale, dato che lo Stato in questo caso non può affatto dirsi neutrale, e che le comunità religiose hanno ben poco peso nell'organizzazione dei programmi di insegnamento. Inoltre il fatto che l'insegnamento si svolga in turco e non in lingua tedesca si pone in contrasto con le disposizioni sull'insegnamento delle materie curricolari.179 Inoltre, si finiva per escludere da tali lezioni tutti gli studenti musulmani non di origine turca: il cortocircuito tra appartenenza etnico-nazionale ed appartenenza religiosa diventava in questo caso lampante, rendendo evidente il monopolio turco nella rappresentanza dell'islam in Germania, non solo tramite le associazioni ed organizzazioni turche sul territorio, ma grazie a contatti con il governo turco stesso. L'iniziativa è stata tuttavia criticata anche da una buona parte dei musulamani turchi praticanti, i quali costituiscono anche la categoria più interessata ad avere nelle 178 Cfr. M. ROHE, “The legal treatment of Muslims in Germany”, in R. ALUFFI BECKPECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, pp. 96-97. 179 Dato che, viene osservato, nell'ottica dell'art. 7 della Legge Fondamentale è la comunità religiosa stessa che deve provvedere alla stesura dei programmi, con la mera supervisione dello Stato, che deve garantire solo la compatibilità dei programmi stessi con le leggi dell'ordinamento e con gli standard pedagogici attuali. Cfr. M. ROHE, “The legal treatment of Muslims in Germany”, in R. ALUFFI BECK-PECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, pp. 96-97. 81 scuole dei corsi di religione islamica: spesso infatti essi sono parte di quelle organizzazioni e fratellanze musulmane piuttosto ostili al governo turco stesso, criticato per la sua impostazione laica. Il fatto che venisse contestata l'organizzazione dei corsi di religione islamica gestita proprio dal governo turco in collaborazione con quello tedesco costituiva quindi una conseguenza piuttosto prevedibile: l'iniziativa del governo turco veniva criticata poiché intesa principalmente come un modo per controllare l'islam degli immigrati turchi, come è controllato l'islam in Turchia.180 3.6 Valutazioni In relazione alla situazione dell'islam tedesco e della sua presenza nella sfera pubblica possono essere dunque individuate due questioni principali e strettamente connesse l'una all'altra. La prima è relativa al nodo fondamentale che rende, o ha reso, difficili i rapporti di qualsiasi comunità musulmana dell'Europa occidentale con le istituzioni dello stato di arrivo: anche la comunità musulmana in Germania, come accade con più o meno intensità in tutti gli stati dell'Europa occidentale, risulta essere caratterizzata da un alto grado di frammentazione e divisione interna. Questa frammentazione, tuttavia, presenta qualità singolari rispetto ad altre esperienze europee, in quanto più che farla risalire alle diverse provenienze ed alle peculiarità confessionali degli immigrati musulmani è necessario fare riferimento ad una madre patria, per così dire, predominante: la Turchia, da cui proviene la stragrande maggioranza degli immigrati musulmani in Germania, secondo elemento caratterizzante la situazione dell'islam tedesco. La frammentazione in molteplici correnti e zone di influenza si svolge pressoché totalmente, ed è questo il punto fondamentale in cui i due elementi si intrecciano, all'interno del gioco di influenze che fa capo alla Turchia: l'organizzazione più 180 “La gestione diretta dei corsi da parte della Turchia non è stata [...] una scelta gradita da una parte consistente della popolazione musulmana: essa è stata infatti criticata in generale da tutti gli immigrati non turchi, che non riconoscevano una particolare autorità in materia religiosa allo stato turco, ma anche da una parte consistente dei musulmani turchi praticanti.” A. PACINI, I musulmani in Italia”, in S. FERRARI (a cura di), “Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche”, Il Mulino, Bologna, 2000, pp. 27-28. 82 grande e strutturata dell'islam tedesco, DİTİB, é il dipartimento europeo di un ufficio del governo turco. Organizzazioni come Milli Görüş e Nurculuk sono nate in opposizione al governo stesso e si sono sviluppate anche grazie alle attività delle comunità islamiche europee. L'islam tedesco, dunque, si presenta sì come estremamente frammentato, ma anche, a differenza delle altre esperienze europee, fortemente connotato in senso etnico e nazionale: elemento che ha permesso al governo turco, in alcune occasioni, di sostituirsi alla comunità islamica tedesca nei rapporti con le istituzioni statali e federali, in luogo degli inesistenti rappresentanti della comunità stessa, in iniziative, come quelle riguardanti l'educazione religiosa, che nella pratica si sono rivelate di forte impronta nazionalistica, escludendo di fatto dall'usufruirne quella parte, pur se minoritaria, di musulmani non turchi o che, anche se turchi, si dissociavano dalle condotte del governo del proprio stato di origine. L'obiettivo urgente per la comunità musulmana tedesca sembra dunque essere quello di trovare l'accordo sulla designazione di rappresentanti istituzionali che siano riconosciuti da tutte le componenti dell'islam tedesco, anche quelle minoritarie o che sfuggono alla sfera di influenza del governo turco: personalità che possano intrattenere un dialogo con le istituzioni tedesche in qualità non di rappresentanti di quella che è in effetti una minoranza nazionale, ma della più ampia minoranza religiosa dei musulmani in Germania. 83 CAPITOLO IV ITALIA 4.1 La novità dell'islam italiano A dispetto di quanto ha scritto Leonardo Sciascia, e cioè che “gli abitanti della Sicilia iniziarono a comportarsi da siciliani solo dopo la conquista araba”, la presenza dell'islam in territorio italiano legata a quel periodo storico sembra essere stata completamente dimenticata.181 L'islam in Italia, infatti, viene percepito come un fenomeno sostanzialmente nuovo, anzi, c'è chi ha parlato di un vero e proprio “terremoto religioso”182: la sua presenza nell'ambito sociale e pubblico si è manifestata in tempi relativamente rapidi rispetto a quanto è accaduto in altri stati dell'Europa occidentale, considerato quanto è recente l'inizio di una immigrazione proveniente dai paesi musulmani e diretta verso l'Italia. Quantificare la presenza di immigrati musulmani risulta attualmente difficile183, e l'operazione non può spingersi oltre il livello di congettura, data l'elevata incidenza sui dati ufficiali esercitata dall'arrivo sulle coste italiane di numerosissimi immigrati clandestini. Peraltro i dati statistici, oltre a non tenere conto (forzatamente) dei numeri dell'immigrazione illegale, si basano sull'assunto che gli immigrati (regolari) 181 “[...]today's presence of Islam in Italy is not new: to speak of a 'return' is more accurate. Italy, indeed, witnessed an occasional Arab presence in Sicily since the 7 th century [...]and a real Islamic domination of the island from the 9th to the 11th century.” S. ALLIEVI, “The Muslim Community in Italy”, in G. NONNEMAN, T. NIBLOCK, B. SZAJKOWSKI (a cura di)“Muslim communities in the new Europe” Ithaca Press, Reading, 1996, pp.315 ss. 182 S. ALLIEVI, F. CASTRO, “The Islamic Presence in Italy: Social Rootedness and Legal Questions”, in S. FERRARI, A . BRADNEY (a cura di), “Islam and European Legal Systems”, Dartmouth Ashgate, Aldershot, 2000, p. 159. 183 “Lack of data presents a significant challenge both to identifying the levels of religious and racial discrimination against members of vulnerable groups, and to challenging such discrimination in courts, which are legally empowered to take statistical evidence into consideration in employment cases related to hiring and firing. ”“The situation of Muslims in Italy. Monitoring the EU accession process: minority protection”, Open Society Institute 2002, p. 227. 84 provenienti da determinati paesi siano di religione musulmana e non su studi basati specificamente sull'appartenenza religiosa, cosicché sarebbe più corretto parlare di “immigrati provenienti da paesi dove si pratica la religione musulmana”, piuttosto che di “musulmani” tout court;184 la maggioranza di essi proviene dalle coste del Nordafricana, in particolare dal Marocco.185 Nonostante l'incertezza dei dati, però, si può senz'altro affermare che l'islam rappresenta ormai la seconda religione in Italia per numero di fedeli.186 L'islam italiano è legato ad una comunità immigrata187, dunque, come per la maggioranza degli stati dell'Europa occidentale; un importante elemento di differenziazione è costituito però dalla velocità con cui si è presentato sulla scena pubblica, e che ha caratterizzato anche la sua strutturazione “interna”. Se all'inizio del fenomeno migratorio la religione musulmana non costituiva che uno dei tanti aspetti dell'identità culturale che ogni migrante porta con sé, ben presto l'islam ha assunto anche all'interno della comunità immigrata presente in Italia quel ruolo di “collante” religioso e culturale che abbiamo notato già nell'analisi della situazione di altri paesi. Anche in Italia questo fenomeno è legato a quello della “stabilizzazione” di una comunità che si credeva immigrata solo temporaneamente, e che coltivava la prospettiva del ritorno in patria come certa ed attuabile in tempi piuttosto brevi. Questo atteggiamento, tuttavia, è stato ben presto sostituito dalla consapevolezza 184 “As far as immigrants are concerned, official statistics do not consider their religious affiliation nor concern illegal aliens. Estimates are based on the assumption that people coming from certain countries are Muslim. The same can be said for those naturalised. Even more hazarded are the data about conversions.” R. ALUFFI BECK-PECCOZ, “The legal treatment of the Muslim minority in Italy”, in R. ALUFFI BECK-PECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, p.133. 185 Cfr. R. ALUFFI BECK-PECCOZ, “The legal treatment of the Muslim minority in Italy”, in R. ALUFFI BECK-PECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, p.133 e A. PACINI, “I musulmani in Italia”, in S. FERRARI (a cura di), “Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche”, Il Mulino, Bologna, 2000, pp.22 ss. 186 “Muslims are presently the second largest and fastest growing religious community among immigrants,1 and in popular perception have become a symbol of and synonym for immigration. At the same time, the integration of Muslims – as a group that is culturally and religiously distinct from the majority population – poses a challenge to a society that has long been largely religiously and culturally homogeneous.” “The situation of Muslims in Italy. Monitoring the EU accession process: minority protection”, Open Society Institute 2002, p. 227. 187 Ad eccezione di una piccola percentuale di italiani convertiti alla religione musulmana, circa il dieci per cento del totale. Cfr. A. PACINI, “I musulmani in Italia”, in S. FERRARI (a cura di), “Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche”, Il Mulino, Bologna, 2000, pp.22 ss., e “The situation of Muslims in Italy. Monitoring the EU accession process: minority protection”, Open Society Institute 2002, p. 227. 85 della difficoltà, o dell'impossibilità, del ritorno. La prima conseguenza di questo cambiamento di prospettive è stato l'inizio dei ricongiungimenti familiari, e successivamente della comparsa di una seconda generazione musulmana in Italia. In Italia, dunque, la presenza musulmana si è costituita in modo progressivo: se non consideriamo gli studenti presenti in Italia già dagli anni '70, ma poco rilevanti sul piano numerico e statistico, l'inizio del fenomeno in quantità consistenti si può collocare all'inizio degli anni '80, e la progressiva stabilizzazione della comunità può essere fatta risalire al decennio successivo, caratterizzato anche da un significativo incremento dal punto di vista della quantità di presenze, sempre senza tenere conto del fenomeno dell'immigrazione clandestina, che senza dubbio farebbe variare in modo significativo i dati disponibili. La comunità musulmana italiana è caratterizzata anche da un altro fenomeno, presente in generale in tutte le comunità musulmane immigrate negli stati dell'Europa occidentale ma in quello italiano in particolare: la frammentazione interna, data dalla diversa provenienza degli immigrati musulmani. 188 Nella comunità189 islamica italiana, infatti, si mescolano l'islam malikita del Maghreb e quello shafi'ita190 dell'Africa centrale con l'islam balcanico degli immigrati bosniaci, albanesi, croati o macedoni, e con l'islam indiano o pakistano, solo per citare alcuni dei paesi di provenienza degli immigrati che compongono la comunità islamica italiana;191 per cui, parlare semplicemente di “comunità islamica” può a questo punto apparire una mera semplificazione che non coglie le complessità insite nel 188 “Novità di questa ripresa di contatti è costituita dal fatto che le diverse provenienze nazionali di questi immigrati rimanda a retroterra politici, culturali, religiosi, notevolmente diversi fra Stato e Stato, (l’Albania non è l’Arabia Saudita, il Marocco è diverso dalla Libia), implica cioè il misurarsi con non marginali diversità comportamentali di questi soggetti, troppo frettolosamente accomunati sotto la generica etichetta di islamici'.” V. TOZZI, “Il modello democratico costituzionale della disciplina del fenomeno religioso e gli insediamenti di cultura islamica in Italia”, Relazione tenuta al Congresso “Il Libro, la Bilancia e il Ferro. L’Islam tra dimensione giuridica e realtà sociale”, organizzato dall’Università degli Studi del Molise (Facoltà di Giurisprudenza, Centro ‘Andrea d’Isernia’ per lo studio della tradizione romanistica e l’unificazione dei diritti europei) e dall’Università degli Studi di Roma ‘Tor Vergata’ (Facoltà di Giurisprudenza, Dipartimento di Storia e Teoria del Diritto) (Isernia, 25-26 febbraio 2004), disponibile al sito www.olir.it. 189 “This diversity has lead to an extensive academic debate as to whether Muslims in Italy should be considered a 'community' at all.” “The situation of Muslims in Italy. Monitoring the EU accession process: minority protection”, Open Society Institute 2002, p.229. 190 Cfr. R. SACCO, “Il diritto africano”, Utet, Torino, 1995; H. HALM, “L'Islam”, Laterza, Bari, 2003. 191 Cfr. A. PACINI, “I musulmani in Italia”, in S. FERRARI (a cura di), “Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche”, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 31. 86 fenomeno,192 dato che le differenti provenienze nazionali contribuiscono in grande misura a definire le modalità e le strategie di integrazione della popolazione appartenente alla comunità musulmana in Italia; la complessità è data anche, naturalmente, dalla grande diversità di tipo sia dottrinale, dogmatico, sia presente nella vera e propria pratica religiosa, dell'islam professato dagli appartenenti a queste diverse tradizioni religiose di provenienza.193 La funzione aggregante della comune appartenenza religiosa, infatti, pur svolgendosi proprio grazie a quel substrato comune di pratiche, valori e comuni riferimenti culturali insita nella religione musulmana, non le impedisce di arrivare filtrata dalle diverse culture etniche e nazionali.194 Un Islam diversificato e plurale, dunque, e non solo a causa delle diverse provenienze nazionali degli immigrati, ma anche in relazione alle diverse forme attraverso le quali ognuno di essi si rapporta alla religione islamica: è intuitiva infatti la differenza (come abbiamo visto in precedenza anche nell'analisi delle situazioni di altri paesi) che corre tra il cittadino straniero proveniente da un paese di tradizioni culturali legate all'islam, e l'individuo che definisce se stesso come musulmano praticante a prescindere dall'identità etnica o nazionale, e che esprime la propria appartenenza tramite l'affiliazione alle organizzazioni musulmane presenti nello stato di arrivo. 195 192 “L’etichettatura generalizzante di “islamici”, poi, implica un rimando alla cultura religiosa che dovrebbe costituire patrimonio comune di queste molteplici comunità, laddove la “cultura civile e sociale” di ciascuna di queste comunità si compone di fattori spesso molto diversi e contraddittori. Essa perciò rappresenta una inaccettabile semplificazione, capace di orientare in maniera non corretta il comune sentire dell’opinione pubblica e l’azione delle stesse istituzioni pubbliche, con gravissime conseguenze sulle decisioni politiche e di governo.” V. TOZZI, “Il modello democratico costituzionale della disciplina del fenomeno religioso e gli insediamenti di cultura islamica in Italia”, Relazione tenuta al Congresso “Il Libro, la Bilancia e il Ferro. L’Islam tra dimensione giuridica e realtà sociale”, 25-26.02.2004, in www.olir.it. 193 Come è già stato osservato anche a proposito dell'esperienza belga: “The new countries have 'nationalized' their own Islam and they intend to maintain, for as long as possible, their particular form among their emigrants. [...] Such an articulation of Islam on the basis of those political facts that are the national states is a great politico-religious novelty. A religion like Islam gives a religious form to every aspect of political and social life , making it a religious duty, and for the first time in its history Islam possesses a powerful instrument on the national and international level: the modern state.” F. DASSETTO, “The new european Islam”, in S. FERRARI, A. BRADNEY (a cura di), “Islam and european legal systems”, Dartmouth Ashgate, Aldershot, 2000, p. 35. 194 Cfr. A. PACINI, “I musulmani in Italia”, in S. FERRARI (a cura di), “Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche”, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 33. 195 Cfr. A. PACINI, “I musulmani in Italia”, in S. FERRARI (a cura di), “Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche”, Il Mulino, Bologna, 2000, pp. 33-34. 87 4.2 Gli islam italiani ed il problema degli interlocutori: la rappresentanza imperfetta196 Questa frammentazione particolarmente accentuata all'interno della minoranza musulmana in Italia si riflette non solo nella sua composizione interna, ma anche, ed è ciò che risulta più interessante nell'ambito di questa analisi, nelle forme di organizzazione istituzionale della comunità islamica italiana stessa, le quali riflettono nelle loro strutture e correnti interpretative le diverse zone di influenza che segnano le principali linee di demarcazione all'interno, appunto,dell' organizzazione dell'islam italiano. Il processo di istituzionalizzazione dell'islam italiano è caratterizzato da due elementi che lo rendono peculiare, pur se all'interno di un contesto sostanzialmente simile, rispetto alle esperienze verificatesi negli altri stati europei: -la velocità con cui si è avviato ed evoluto il processo di stabilizzazione, emersione in ambito pubblico e conseguente ricerca di forme organizzative ed istituzionali. Se in altre esperienze europee quali quella francese o belga i risultati sul piano della rappresentanza conseguiti negli ultimi anni sono il frutto di una ormai quarantennale presenza massiccia dell'islam in quei paesi, il fenomeno islamico in Italia risale a tempi molto più recenti, come è già stato notato nel paragrafo precedente197. -il particolarmente elevato grado di frammentazione che caratterizza la presenza musulmana in Italia198, caratterizzata dalla compresenza delle forme di religiosità islamica più disparate sia per la provenienza sia per gli aspetti dottrinali ed interpretativi. Questa estrema diversificazione ha portato come conseguenza 196 Cfr. R. GUOLO, “La rappresentanza dell'islam italiano e la questione delle intese”, in S. FERRARI (a cura di), “Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche”, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 78 197 “If it was possible to deduce that sooner or later Islam would strongly emerge in the heart of the immigrant communities, we cannot say the same about the speed with which this has happened. There is no doubt that it has surfaced far faster in Italy than in the other European countries. [...]Islam almost immediately became an important component of the immigrants' socialization processes.”S. ALLIEVI, F. CASTRO, “The Islamic Presence in Italy: Social Rootedness and Legal Questions”, in S. FERRARI, A . BRADNEY (a cura di), “Islam and European Legal Systems”, Dartmouth Ashgate, Aldershot, 2000, p. 163. 198 Cfr. A. PACINI, “I musulmani in Italia”, in S. FERRARI (a cura di), “Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche”, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 31. 88 principale quella delle consuete difficoltà in ordine alla soluzione del problema della rappresentanza istituzionale, solo piuttosto accentuata, come vedremo, dalla grande diversità degli orientamenti ideologici, dogmatici e politici delle diverse strutture che desiderano rappresentare l'islam italiano.199 Un primo tentativo di trovare dei rappresentanti istituzionali può essere fatto risalire agli anni '70, con l'istituzione, in alcuni centri universitari italiani, di sezioni distaccate dell' Unione degli studenti musulmani in Italia, parte dell' International Islamic Federation of Student Organizations, che ha la sua sede principale in Kuwait.200 La finalità principale dell'associazione consisteva nel rendere disponibili agli studenti di religione musulamna dei luoghi di culto dove potessero esercitare la pratica religiosa. All'operato dell'Usmi si deve dunque l'apertura di numerose sale e centri di preghiera, ma non solo. L'associazione attraverso le proprie attività era finalizzata anche a promuovere una presa di coscienza dal punto di vista religioso degli studenti che ne facevano parte, grazie alla pubblicazione degli scritti di autori musulmani in lingua italiana, dalla scelta dei quali si comprendeva anche l'orientamento politico-ideologico dell'Usmi, influenzato dai movimenti dell'islam radicale al-Jihad e al-Jama'a al islamiyya, oltre che dalla più antica Fratellanza Musulmana,201 tuttavia sempre portatrice di istanze radicali che nel periodo di maggiore attività dell' Usmi, gli anni '70 ed '80, conoscevano una nuova espansione nei paesi arabi del Mediterraneo, ed alle cui dinamiche l'Usmi fa riferimento per la sua attività in Italia. Tuttavia, l'Usmi non è riuscita in seguito a mantenere un ruolo di primo piano nell'organizzazione e nella rappresentanza dell'islam italiano, soprattutto a causa della modificazione dei flussi migratori avvenuta appunto negli anni '80: da quel periodo in avanti, infatti, la comunità musulmana italiana non fu più composta prevalentemente da studenti di origini mediorientali, ma da immigrati lavoratori provenienti soprattutto dall'Africa settentrionale e centrale. In seguito vi si sarebbero aggiunti anche i musulmani albanesi e provenienti dalla ex Jugoslavia, portatori di un 199 Cfr. anche N. FLORITA, F. TARCHIANI, “L'Islam a Colle di Val d'Elsa: pregi e difetti di un protocollo d'intesa”, 05.2005, in www.olir.it. 200 Cfr. A. PACINI, “I musulmani in Italia”, in S. FERRARI (a cura di), “Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche”, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 33. 201 Cfr. M. CAMPANINI, “Storia del Medio Oriente, 1789-2005”, Il Mulino, Bologna, 2006, e “Il pensiero islamico contemporaneo”, Il Mulino, Bologna, 2005. 89 islam secolarizzato e impregnato delle vicende storiche e culturali dei Balcani, totalmente differente dalle forme religiose caratteristiche degli immigrati provenienti da paesi di forte tradizione islamica e sostanzialmente poco praticato, oltre che estraneo alle istanze di riconoscimento.202 É in sostanza a partire dagli anni '80 che nel panorama estremamente variegato e fluido della comunità musulmana italiana si iniziano a vedere i primi tentativi di istituire una leadership che potesse dirsi realmente rappresentativa dell'islam in Italia, e che potesse rispondere alle esigenze di interazione con le istituzioni statali. Sin dall'inizio a distinguersi furono tre organizzazioni principali, tutte riconducibili ad ognuna delle tre grandi categorie in cui si divide l'islam organizzato:203 il Centro culturale islamico d'Italia, facente capo alla moschea di Roma ed espressione dell'islam degli stati: con questa espressione si intende definire quel tipo di espressione religiosa corrispondente all' islam ufficiale sostenuto dagli stati stessi, su cui spesso essi basano la propria legittimazione politica. Questo sostegno si concretizza principalmente nell'amministrazione delle strutture religiose da parte degli ambasciatori degli stati coinvolti, spesso, come nel caso della Moschea di Roma,204 rappresentanti dei governi degli stati musulmani, in prevalenza sunniti, accreditati presso la Santa Sede o lo stato italiano; inoltre, l'influenza degli stati musulmani è esercitata attraverso l'erogazione di cospicui finanziamenti per la costruzione delle strutture stesse. Nel caso della moschea di Roma,205 la quale tra l'altro è l'unico centro islamico riconosciuto come ente 202 “[...]a proposito delle forme dell'Islam organizzato in Italia in relazione alle nazionalità immigrate presenti sul territorio: sono del tutto assenti in questo campo gli albanesi e i musulmani provenienti dall'ex-Jugoslavia, che pure rappresentano una quota rilevante di origine musulmana stanziata in Italia.”A. PACINI, “I musulmani in Italia”, in S. FERRARI (a cura di), “Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche”, Il Mulino, Bologna, 2000, pp. 45-46. 203 Cfr. W. SCHIFFAUER, “From exile to diaspora: the development of transnational Islam in Europe”, in A, AL-AZMEH, E. FOKAS, “Islam in Europe: Diversity, Identity and Influence”, Cambridge University Press, Cambridge, 2007. 204 I progetti per la costruzione della Moschea iniziarono nel 1974. L'edificio fu inaugurato nel 1995. Il consiglio di amministrazione della Moschea è composto prevalentemente da ambasciatori degli stati musulmani sunniti, ed al suo interno hanno un peso particolare le personalità legate all'Arabia Saudita, principale finanziatore, ed al Marocco. Cfr. A. PACINI, “I musulmani in Italia”, e R. GUOLO, “La rappresentanza dell'islam italiano e la questione delle intese”, in S. FERRARI (a cura di), “Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche”, Il Mulino, Bologna, 2000. 205 La cui situazione è per molti versi simile alle grandi moschee di Madrid e Bruxelles, anch'esse espressione dell' “islam degli stati” e legate in particolar modo all'influenza saudita. R. GUOLO, “La rappresentanza dell'islam italiano e la questione delle intese”, in S. FERRARI (a cura di), “Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche”, Il Mulino, 90 morale dallo stato, tali finanziamenti sono stati forniti dall'Arabia Saudita tramite la Lega del mondo islamico,206 organizzazione saudita con una triplice finalità: in primo luogo, assicurare un sostegno (anche e soprattutto di tipo economico) all'islam sul piano internazionale, un sostegno rivolto soprattutto alle minoranze musulmane nel mondo; in secondo luogo, promuovere la diffusione dell'islam nel dar-al harb, presso i non musulmani; in terzo luogo, ma non meno importante, svolgere un controllo sul tipo di islam praticato, al fine di influenzare le diverse pratiche possibili in senso conservatore. Il richiamo all'Arabia Saudita non può che riportare alla dottrina wahabita, espressione della scuola giuridica sunnita hanbalita e portatrice di un tipo di islam particolarmente conservatore207 e teorizzatrice di una stretta correlazione tra piano religioso e piano politico e giuridico, grazie ad un'interpretazione rigidamente letterale dei precetti coranici nella quale la dimensione politica e quella legislativa possono trovare legittimazione solamente nelle norme religiose.208 Proprio perché portatrice di influenze conservatrici e radicali, sicuramente poco utili alla causa dell'integrazione e del raggiungimento di un accordo sul piano della rappresentanza, la forte presenza dell'Arabia Saudita (una sorta di monopolio) nella gestione del Centro culturale islamico è sempre stata fortemente contestata da stati come Egitto, Marocco o Tunisia, dai quali proviene una grande percentuale degli appartenenti alla minoranza musulmana italiana209, i quali promuovono invece politiche che se non si possono definire del tutto mirate alla democratizzazione, comunque operano uno stretto controllo sui movimenti Bologna, 2000, p. 72. 206 Con lo stesso metodo utilizzato per finanziare il Centro Islamico e Culturale di Bruxelles. 207 Cfr. R. SACCO, “Il diritto africano”, Utet, Torino, 1995; H. HALM, “L'Islam”, Laterza, Bari, 2003; J. CESARI, “Muslims identities in Europe: the snare of exceptionalism”, in A. ALAZMEH, E. FOKAS (a cura di), “Islam in Europe: diversity, identity and influence”, Cambridge University Press, Cambridge, 2007. 208 Cfr. R. SACCO, “Il diritto africano”, Utet, Torino, 1995, e M. CAMPANINI, “Storia del Medio Oriente, 1789-2005”, Il Mulino, Bologna, 2006, e “Il pensiero islamico contemporaneo”, Il Mulino, Bologna, 2005. 209 “Egitto e Marocco, insieme alla Tunisia, sono [...] interessati a promuovere tra gli immigrati in Italia un Islam non integralista e e non troppo conservatore, da cui non nascano ripercussioni negative nei paesi di origine. Alla forte disponibilità finanziaria dell'Arabia Saudita, che ne rende facile l'influenza sulle strutture dell'islam organizzato in Italia, gli altri stati contrappongono il fatto che i musulmani presenti in Italia sono loro propri concittadini, e questo conferisce loro diritti maggiori, se non esclusivi, di controllare e rappresentare l'islam in Italia.” A. PACINI, “I musulmani in Italia”, in S. FERRARI (a cura di), “Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche”, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 38. 91 radicali di tutte le tendenze. Quello della moschea di Roma, comunque, è solo l'esempio più evidente. Il sostegno degli stati musulmani è diffuso in modo capillare e si rivolge principalmente, come già detto, a moschee e centri culturali sparsi in tutto il territorio italiano, finanziando le loro numerose attività210 e costituendo un panorama piuttosto diversificato, in cui non di rado i diversi stati si pongono in contrasto tra di loro, fornendo ulteriore linfa alle frammentazioni e divisioni già esistenti.211 l'Ucoii, associazione di moschee e centri islamici locali che aderiscono alle teorie dell'islam militante, formatasi nel 1990 come associazione di diverse moschee sparse sul territorio nazionale: il riferimento culturale e politico, oltre che religioso, di questa formazione, diffusissima in Italia, è quello dei movimenti islamici radicali, spesso contrapposti ai governi dei paesi di origine212 e teorizzatori dello stato islamico, i quali, spesso appunto banditi nei paesi di origine, hanno dato vita a nuove organizzazioni nelle comunità immigrate in Europa213, in un atteggiamento di forte critica alla società occidentale nel suo complesso e di rivendicazione di “diritti collettivi” per la comunità dei musulmani in Europa. L'obiettivo perseguito sembra essere quello del riconoscimento della popolazione musulmana come minoranza religiosa retta, 210 Ad esempio, per quanto riguarda l'islam sunnita, in Sicilia lo Stato tunisino ha assunto la gestione della moschea di Palermo tramite un accordo con il governo regionale siciliano: l'ambasciata di Tunisia in Italia ne nomina l'imam e ne segue le attività attraverso l'Associazione culturale islamica di Palermo. A Milano invece il consolato del Kuwait è stato uno dei più importanti finanziatori, oltre che fondatore, dell'Istituto culturale islamico. Per l'islam sciita, invece, va ricordato il Centro culturale islamico europeo, presieduto dall'ambasciatore della Repubblica islamica dell'Iran presso la Santa Sede. Ad esso fanno riferimento vari gruppi di sciiti, ma non gli iraniani residenti in Italia: infatti, per la grande maggioranza questi ultimi appartengono alla confessione Baha'i, diffusissima in Iran ma considerata eretica dall'attuale governo islamico. Cfr. A. PACINI, “I musulmani in Italia”, in S. FERRARI (a cura di), “Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche”, Il Mulino, Bologna, 2000. 211 Ad esempio, quella tradizionale tra Marocco ed Arabia Saudita. 212 Movimenti di questo tipo sono i Fratelli Musulmani, movimento fondato in Egitto nel 1928 o l'associazione turca Milli Görüş, attiva dagli anni '60, o movimenti più radicali come il Fis algerino, gli egiziani al-Jama'a al Islamiyya e al-Jihad, o la Jama'at al-Islami pakistana. Una delle preoccupazioni degli stati musulmani (in particolare Marocco, Tunisia, Algeria ed Egitto) è proprio che i movimenti islamisti radicali trovino in Occidente libertà di organizzazione per poi intervenire con forza nei paesi di orgine. Cfr. A. PACINI, “I musulmani in Italia”, in S. FERRARI (a cura di), “Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche”, Il Mulino, Bologna, 2000, W. SCHIFFAUER, “From exile to diaspora: the development of transnational Islam in Europe”, in A, AL-AZMEH, E. FOKAS, “Islam in Europe: Diversity, Identity and Influence”, Cambridge University Press, Cambridge, 2007, M. CAMPANINI, “Il pensiero islamico contemporaneo”, Il Mulino, Bologna, 2005. 213 Spesso appoggiandosi alla rete di strutture già creata dall'associazione studentesca Usmi. 92 almeno in parte, da propri statuti speciali.214 Proprio in quest'ottica l'Ucoii si pone a sua volta come interlocutore autorevole dello stato italiano nella negoziazione delle condizioni della comunità musulmana. La Coreis, Associazione per l'informazione sull'islam in Italia, o Comunità religiosa islamica, rappresentativa dell'islam sufi e delle confraternite: le confraternite, o fratellanze, sono particolari formazioni religiose diffuse in tutto il mondo musulmano, ma in modo particolare in Turchia, dove esercitano anche un'attività di opposizione al governo laico215, o negli stati dell'Africa centrale, dove costituiscono lo sfogo della cultura pre-islamica che proprio nella formazione delle fratellanze si fonde con la religione musulmana in un sostanziale rifiuto dell'ortodossia di origine araba in ambito religioso. 216 La Coreis invece è costituita principalmente da italiani convertiti all'islam, e a differenza degli altri gruppi dello stesso tipo, principalmente dediti alle iniziative solidaristiche ed alla pratica mistica, secondo un'impostazione sostanzialmente eterodossa rispetto alle tradizionali declinazioni della religione musulmana, la Coreis conduce un'attività pubblica piuttosto intensa, ponendosi tra l'altro come interlocutore autorevole, se non in un certo modo ufficiale, delle autorità statali italiane.217 214 Questo atteggiamento corrisponde all' applicazione dell'ideologia della Fratellanza Musulmana in un contesto dove l'islam si trova in una posizione minoritaria, per cui alla finalità di costituire lo stato islamico si sostituisce quella di costituire una comunità islamica con statuti giuridici propri, inserita in Europa non soo tramite i diritti di cittadinanza dei singoli individui, bensì tramite uno statuto comunitario specifico, inclusivo ad esempio del diritto di famiglia. Cfr. A. PACINI, “I musulmani in Italia”, in S. FERRARI (a cura di), “Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche”, Il Mulino, Bologna, 2000 e M. CAMPANINI, “Il pensiero islamico contemporaneo”, Il Mulino, Bologna, 2005. 215 Cfr. W. SCHIFFAUER, “From exile to diaspora: the development of transnational Islam in Europe”, in A, AL-AZMEH, E. FOKAS, “Islam in Europe: Diversity, Identity and Influence”, Cambridge University Press, Cambridge, 2007. 216 Le confraternite sono diffusissime in tutto il mondo islamico; tra gli stati che ne contano una maggiore concentrazione, possiamo annoverare ad esempio la Turchia, dove la fratellanza Suleymanci è stata bandita poiché, oltre a concentrarsi sull'aspetto mistico della pratica religiosa ed a dedicarsi ad opere di solidarietà, esercitava anche un ruolo di pressione sociale e politica opponendosi al governo turco. Le confraternite sono estremamente diffuse anche nell'Africa subsahariana e caratterizzano l'islam locale. Particolarmente importanti sono le confraternite Tiggianide e Muride, diffusissime in Senegal, cui appartengono anche in grande maggioranza gli immigrati senegalesi in Italia, i quali hanno riprodotto nello stato di arrivo le strutture socioreligiose che l'appartenenza alle fratellanze offriva in patria, e mantengono forti contatti e scambi con i centri senegalesi delle confraternite. Cfr. A. PACINI, “I musulmani in Italia”, e R. ALUFFI BECK-PECCOZ, “Islam: unità e pluralità”, in S. FERRARI (a cura di), “Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche”, Il Mulino, Bologna, 2000, pp. 40-42. 217 L'associazione ha anche presentato al governo italiano una proposta di intesa nella quale si 93 A queste tre grandi organizzazioni, espressione di altrettante aree di influenza la cui presenza è riscontrabile in molte delle esperienze dell'islam europeo, va aggiunta la menzione dell'AMI, l'Associazione dei musulmani italiani, che si rivolge esclusivamente ai convertiti all'islam di origine italiana218 e si pone in un'ottica di superamento delle tradizionali divisioni presenti in seno all'islam, anche quelle più classiche, ad esempio lo scisma fondamentale tra sunniti e sciiti; essa nel presentarsi a sua volta come interlocutore legittimato presso le istituzioni italiane sottolinea anche la propria aspirazione a porsi come alternativa all'islam radicale propugnato da altri organismi presenti in Italia, quale ad esempio l'Ucoii. Tutte queste organizzazioni si pongono nei confronti delle istituzioni italiane con lo stesso atteggiamento: ogni associazione propone se stessa come legittimo ed autorevole interlocutore dello Stato e come unico ed ufficiale rappresentante istituzionale dell'islam italiano, delegittimando al tempo stesso le altre organizzazioni e definendole non rappresentative dell'islam italiano. Non a caso, le proposte di intesa presentate al governo italiano negli ultimi anni sono quattro, una per ognuna delle organizzazioni sopra descritte. L'intesa è lo strumento che consente ai culti diversi dalla religione cattolica di ottenere il riconoscimento, ed i diritti che ne conseguono, da parte dello stato. Le bozze proposte alle istituzioni italiane dalle quattro organizzazioni musulmane verranno analizzate nel prossimo paragrafo, dopo un riepilogo dell'assetto costituzionale italiano in materia di libertà religiose e di rapporti con le chiese219. 4.3 L'assetto costituzionale: libertà religiose e rapporti con le chiese “Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato o in propone come rappresentante legittimo dei musulmani italiani. 218 Cfr. R. GUOLO, “La rappresentanza dell'islam italiano e la questione delle intese”, in S. FERRARI (a cura di), “Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche”, Il Mulino, Bologna, 2000, pp. 77-78. 219 Naturalmente la condizione della comunità musulmana, in quanto comunità immigrata, è regolata anche dalle leggi sull'immigrazione e sull'acquisizione della cittadinanza che si applicano ai singoli individui; in questa sede tuttavia è preferibile concentrarsi sulle norme che disciplinano la vita delle comunità religiose. 94 pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume.”220 La costituzione italiana, dunque, tutela in modo assai ampio la libertà di culto: l'ordinamento italiano non è improntato ad un principio di laicità “alla francese”, caratterizzato dalla rigida separazione tra stato, o più in generale dimensione pubblica, e manifestazioni dell'appartenenza religiosa. L'aspetto pubblico della dimensione religiosa e del suo esercizio da parte di ognuno è anzi tutelato in qualità di diritto dall'art. 19, il quale prevede espressamente la possibilità di un esercizio “pubblico” del culto, che trova come unico limite quello del rispetto delle norme a tutela del concetto (variabile) di buon costume, e senza distinguere tra culti che siano o meno riconosciuti dall'ordinamento. L'art. 20 specifica maggiormente il rapporto dello stato italiano con il fenomeno religioso, nell'aspetto concreto delle associazioni o istituzioni “con fine di religione o di culto”, facendo riferimento quindi alle forme organizzative delle religioni professate: l'ordinamento vi si relaziona in un'ottica non discriminatoria, vietando l'applicazione di “speciali limitazioni legislative” o di “speciali gravami fiscali”, in ragione del loro carattere religioso, all'attività di tali organizzazioni. Nell'ambito della tutela della non discriminazione per motivi religiosi, inoltre, va menzionato anche l'art. 3, che sancisce l'uguaglianza dei cittadini davanti alla legge senza distinzioni basate su sesso, lingua, opinioni politiche, condizioni personali e sociali, e religione. I rapporti dell'ordinamento italiano con le chiese e le organizzazioni religiose sono invece disciplinati agli artt. 7 e 8 della Costituzione. Il rapporto con la Chiesa cattolica è disciplinato all'art. 7, il quale nel co.1 afferma la reciproca indipendenza tra i due enti e la sovranità di ognuno “nel proprio ordine”. Il co. 2 invece indica la fonte normativa che regola la relazione tra stato e Chiesa cattolica, rinviando ai Patti Lateranensi, accordo bilaterale concluso nel 1929 dallo stato fascista con la Santa Sede221 e modificato con l' Accordo concordatario del 1984, ratificato con la Legge del 25 marzo 1985.222 220 Art. 19 della Costituzione. 221 In precedenza i rapporti tra Chiesa cattolica e stato italiano erano disciplinati dalla cosiddetta Legge delle Guarentigie del 1971, rifiutata dal Papa poiché atto unilaterale dello Stato. Cfr. F. PALERMO, J. WOELK “Diritto costituzionale comparato dei gruppi e delle minoranze”, Cedam, 2008, pp. 205. 222 Cfr. R. ALUFFI BECK-PECCOZ, “The legal treatment of the Muslim minority in Italy”, in R. ALUFFI BECK-PECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, p. 135. 95 I principi che regolano i rapporti con le religioni riconosciute diverse da quella cattolica sono invece enunciati all'art. 8: dopo aver affermato ai co. 1 e 2 l'uguale libertà di tutte le religioni davanti alla legge e di loro diritto ad organizzarsi secondo i propri statuti, la disposizione prevede uno strumento specifico attraverso il quale lo Stato può effettuare il riconoscimento della religione in questione: si tratta dell'intesa. Si tratta di un accordo che lo stato conclude, al fine di riconoscere la comunità religiosa che lo richiede, con i rappresentanti di tale comunità, e che viene poi semplicemente approvato con una legge dal Parlamento223, il quale quindi si limita a ratificare la volontà congiunta dello stato e della comunità espressa nell'accordo.224 Invece, le confessioni che non hanno stipulato un' intesa con lo stato italiano sono soggette alla Legge del 1929 sui culti ammessi, ed è questo finora il caso della comunità islamica. Il problema che si è verificato al momento di concludere un accordo anche con la confessione islamica è, intuitivamente, quello della rappresentanza:225 la difficoltà a trovare un portavoce condiviso dalle principali organizzazioni musulmane italiane ha fatto sì che, nel corso degli ultimi anni, le proposte di intesa presentate al governo italiano siano state tre, ognuna, naturalmente, presentata da una associazione diversa. La prima è stata l'Ucoii226, che già all'atto della sua fondazione, nel 1990, ha presentato una proposta di intesa allo Stato italiano. In seguito ci ha pensato l' 223 “Questo risultato, peraltro, è frutto del ben più ampio sviamento costituzionale, da cui il decreto ministeriale è viziato e per cui si attribuisce al ministero dell'interno una competenza che non ha. Invero, la materia dei rapporti tra Stato e confessioni religiose è sottoposta alla deliberazione del Consiglio dei ministri (l. n. 400/1988): e, quindi, previamente, alla consultazione dell'apposita commissione per la libertà religiosa istituita presso la presidenza del Consiglio, in sostanza sostituita, relativamente all'Islam, dalla Consulta.” N. COLAIANNI, “La Consulta per l'Islam italiano: un caso di revisione strisciante della Costituzione”, 01.2006, in www.olir.it. 224 Intese con lo Stato italiano sono state stipulate da numerose confessioni diverse dalla cattolica attive in Italia, ad esempio la Tavola valdese, con l'intesa del 1984, la Comunità ebraica o i Testimoni di Geova. 225 “Alla lotta per il monopolio della rappresentanza in Italia restano estranei non solo i musulmani che perseguono l'integrazione individuale, e vogliono mantenere la loro appartenenza all'islam senza riconoscersi necessariamente nella strategia delle organizzazioni islamiste, ma anche gruppi o correnti religiose presenti nel territorio nazionale che, per motivi diversi e talvolta opposti, non sono interessati all'intesa. Come gli sciiti, componente largamente minoritaria nel mondo musulmano autoctono, prevalentemente sunnita. Oppure come il movimento pietista Tabligh, la cui organizzazione socioreligiosa, imperniata su una rete di missionari itineranti, impedisce un radicamento nazionale del movimento e quindi una logica dell'azione sociale più direttamente interessata a strutturare in senso islamico la scena pubblica dei paesi europei. O come gli islamisti radicali di viale Jenner a Milano.” R. GUOLO, “La rappresentanza dell'islam italiano e la questione delle intese”, in S. FERRARI (a cura di), “Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche”, Il Mulino, Bologna, 2000, pp. 78-79. 226 Www.islam-ucoii.it. 96 Associazione dei musulmani italiani227, la quale ha presentato un progetto di intesa con lo Stato italiano nel 1993; nel 1998 è stata la volta dell'associazione Coreis228. Non bisogna dimenticare, inoltre, che anche il Centro culturale islamico, facente capo alla Moschea di Roma, all'atto dell'inaugurazione della Moschea stessa, nel 1995, aveva presentato alle autorità italiane una richiesta di intesa, mai concretizzatasi in bozza, con fini essenzialmente ostruzionisti: l'iniziativa, sostenuta in particolare dal Marocco, mirava soprattutto ad impedire l'accordo dello Stato con l'Ucoii, minandone alla base le pretese di rappresentanza universale.229 I contenuti delle proposte, pur nelle diverse sfumature riconducibili ai differenti orientamenti delle associazioni in questione, toccano più o meno sempre gli stessi punto nodali della vita religiosa islamica quali il rispetto degli orari di preghiera giornalieri, il riconoscimento delle festività religiose, l'organizzazione dell'istruzione religiosa ed il diritto ad istituire scuole private di tipo confessionale ed il riconoscimento degli effetti civili al matrimonio celebrato secondo il rito islamico. Il problema dunque non risiede nella sostanza degli accordi230, ma nel fatto che ognuna delle organizzazioni che hanno presentato le proposte di intesa, basandosi su differenti argomentazioni, ha affermato anche il proprio diritto e la propria legittimazione a rappresentare la totalità dei musulmani italiani, affermazioni che ogni volta hanno sollevato le proteste delle associazioni diverse da quella che aveva presentato la bozza d'intesa. Tutti questi tentativi, dunque, finora si sono risolti in un nulla di fatto e ad oggi non esiste ancora un'intesa tra lo Stato italiano e la comunità musulmana. La necessità di comunicare in sede istituzionale con la comunità islamica italiana, 227 Www.amimuslims.org. 228 Www.coreis.it. 229 Cfr. R. GUOLO, “La rappresentanza dell'islam italiano e la questione delle intese”, in S. FERRARI (a cura di), “Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche”, Il Mulino, Bologna, 2000, pp. 72-73. 230 Le proposte di intesa, pur con sfumature differenti nei toni delle richieste, e nell'importanza accordata di volta in volta ad ogni singola questione, affrontano le stess questioni: riconoscimento dei pilastri della religione islamica, rafforzata tutela della libertà religiosa, anche in campo penale, regole relative all'abbigliamento ed all'alimentazione, iscrizione nel registro delle persone giuridiche degli enti islamici, gestione dell'edilizia di culto e della formazione delle cosiddette “guide del culto”, dato che gli imam non rivestono il ruolo di ministri, riconoscimento delle festività religiose islamiche, assistenza spirituale ai militari ed agli infermi, riconoscimento degli effetti civili al matrimonio islamico, istruzione religiosa o confessionale. Le proposte di intesa si possono leggere integralmente nei siti delle rispettive associazioni: www.coreis.it, www.ami.it? www.ucoii.it 97 tuttavia, si è fatta più pressante negli ultimi anni: per questo, il 10 settembre 2005 il Ministro degli interni231 ha provveduto con decreto232 ad istituire la Consulta per l'islam italiano, organismo con funzione consultiva composto da sedici membri233 e presieduto dal ministro stesso, che dovrebbe riunirsi tre volte l'anno per discutere, appunto, questioni ormai urgenti riguardanti la condizione dell'islam italiano e che nel marzo 2006 ha sottoposto al parere del ministro un “Manifesto dell'islam d'Italia” approvato da undici dei sedici membri. Il testo fa leva su principi condivisi, dichiarando la completa adesione della comunità musulaman ai valori costituzionali ed alle leggi italiane, in un'ottica che rifiuta la logica strumentale del terrorismo e che afferma la libertà religiosa e di coscienza come “valore universale”, delineando secondo questi principi condivisi gli obiettivi dell'islam “italiano ed europeo”. A parte la discussione sull'opportunità che sia il Ministero dell'interno a nominare i componenti di un organo con funzioni consultive per risolvere le questioni legate all'islam italiano, il problema di fondo rimane anche qui la rappresentanza: alla Consulta non partecipano alcuni rappresentanti di importanti settori dell'islam italiano (quali le personalità legate all'Ami, per esempio), cosa che ha provocato le risentite reazioni degli esclusi e l'accusa di aver creato un organo consultivo che non rappresenti realmente la comunità islamica in tutte le sue componenti. 231 “Vero è che il decreto legislativo 300/1999 attribuisce al ministero dell'interno le funzioni ed i compiti di spettanza statale per la 'tutela dei diritti civili, ivi compresi quelli delle confessioni religiose'. Ma, se si vuole correttamente evitare l'esito di una interpretazione abrogatrice della legge n.400/88essa va limitata ai diritti civili delle confessioni rientranti nella competenza della direzione centrale degli affari di culto, in cui è articolato il nuovo dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione [...] Perché allora questa scorribanda del decreto nel territorio della libertà religiosa, che formalmente non si vede come all'eventuale momento decisivo possa essere lasciata all'iniziativa del ministro dell'interno?” Così N. COLAIANNI, “La Consulta per l'Islam italiano: un caso di revisione strisciante della Costituzione”, 01.2006, in www.olir.it. , definisce la nomina della Consulta da parte del ministro degli interni di dubbia legittimità costituzionale. 232 Art.1 1. E' istituita presso il Ministero dell'interno la Consulta per l'Islam italiano, con funzioni consultive del Ministro dell'interno,che la presiede. 2. La Consulta svolge i compiti di ricerca e approfondimento indicati dal Ministro dell'interno, elaborando studi e formulando al Ministro dell'interno pareri e proposte, al fine di favorire il dialogo istituzionale con le comunità musulmane d'Italia, migliorare la conoscenza delle problematiche di integrazione allo scopo di individuare le piu' adeguate soluzioni per un armonico inserimento delle comunità stesse nella societa' nazionale, nel rispetto della Costituzione e delle leggi della Repubblica. 233 Per la metà i membri attuali sono di cittadinanza italiana. La Consulta è presieduta dallo stesso ministro. 98 4.4 Religione e scuola L'insegnamento religioso nelle scuole pubbliche in Italia non è previsto direttamente dalla Costituzione; per quanto riguarda la religione cattolica, il suo insegnamento nella scuola pubblica, come parte dei programmi scolastici, è disciplinato all'interno del Concordato. L'insegnamento della religione nella scuola pubblica non è obbligatorio, ed ogni studente può rinunciarvi scegliendo discipline alternative. In questo senso, agli studenti musulmani non viene imposto l'insegnamento della religione cattolica. Su richiesta, può essere impartito un insegnamento relativo alla religione ebraica, o allo studio delle religioni come fenomeno in generale. Queste attività alternative, però, vengono qualificate come opzionali e non rientrano nei programmi scolastici. Un esempio di collaborazione tra diverse confessioni in questo ambito è offerto dall'esperienza del Tavolo interreligioso, gruppo comprendente i rappresentanti di diverse religioni234, formatosi a Roma nel 1998; tra i partecipanti troviamo anche il Centro islamico culturale d'Italia, con sede presso la Moschea di Roma. L'intento dell'iniziativa consiste nel cooperare con le scuole per la costruzione di progetti interculturali, focalizzati in particolare sull'approfondimento delle diverse esperienze religiose.235 Per quanto riguarda l'insegnamento della religione islamica nell'ambito dei programmi della scuola pubblica, la posizione della comunità musulmana (anzi, delle diverse organizzazioni che desiderano rappresentarla) è stata specificata nelle tre proposte di intesa: dalla conclusione dell'accordo con lo stato dipende infatti la possibilità di introdurre l'insegnamento religioso nelle scuole.236 Per quanto riguarda l'insegnamento religioso nella scuola pubblica, il modello comune per le tre proposte presentate è quello dell'intesa stipulata dallo stato con la Comunità ebraica italiana, secondo la quale l'insegnamento pubblico deve essere impartito nel rispetto della 234 Chiese valdesi, metodiste, battiste, luterana e salutista; Comunità ebraica, Unione buddhista, Centro studi indiani, ed il Centro islamico culturale d'Italia. Cfr. N. COLAIANNI, “L'istruzione religiosa nelle scuole pubbliche”, in S. FERRARI (a cura di), “Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche”, Il Mulino, Bologna, 2000, pp. 164 ss. 235 Cfr. R. ALUFFI BECK-PECCOZ, “The legal treatment of the Muslim minority in Italy”, in R. ALUFFI BECK-PECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, p. 147. 236 Cfr. N. COLAIANNI, “L'istruzione religiosa nelle scuole pubbliche”, in S. FERRARI (a cura di), “Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche”, Il Mulino, Bologna, 2000, p.167. 99 libertà di coscienza e di religione e della pari dignità dei cittadini senza distinzione di religione , con l'esclusione “di ogni ingerenza sulla educazione e formazione religiosa degli alunni ebrei.” Le tre proposte di intesa presentate dalle diverse organizzazioni musulmane formulano a loro volta questo principio ribadendo il diritto a non partecipare a pratiche di culto o ad altre pratiche religiose,237 oltre che, naturalmente, a non avvalersi dell'insegnamento di altre religioni, circostanza questa specificata con termini perentori soprattutto nella proposta di intesa dell'AMI. 238 Le tre proposte di intesa, invece, divergono per quanto riguarda la richiesta dell'introduzione di un insegnamento dell'islam nelle scuole pubbliche: l'intesa dell'Ucoii non lo prevede nemmeno; nella proposta AMI l'insegnamento riguarda “la religione islamica”239, mentre nella proposta dell'associazione Coreis si parla di “fatto religioso islamico.240 Le disposizioni circa gli oneri finanziari relativi all'insegnamento stesso sono anch'esse contraddittorie e piuttosto nebulose. Insomma, i contenuti divergono, ma il problema di fondo rimane lo stesso: a quale comunità deve rivolgersi lo Stato per l'organizzazione di tale insegnamento? Chi si fa carico dei libri di testo e di nominare gli insegnanti? Quale tipo di islam va insegnato in questo contesto, viste le divergenze anche teoriche e teologiche tra le differenti associazioni? Nonostante quanto afferma il punto 7C241 del Manifesto dell'Islam 237 Proibite, in realtà, dal regolamento n. 3084/1995 del Ministero della pubblica istruzione. É stato tuttavia sottolineato come, per la tutela di questo diritto, sia sufficiente rifarsi al dettato costituzionale, e al concordato stesso. Ad esempio N. COLAIANNI, “L'istruzione religiosa nelle scuole pubbliche”, in S. FERRARI (a cura di), “Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche”, Il Mulino, Bologna, 2000, pp. 159-162. 238 Art. 10 della Bozza di intesa tra la Repubblica italiana e l'Associazione Musulmani Italiani: “[...]É esclusa ogni ingerenza sull'educazione e sulla formazione religiosa degli alunni musulmani. Agli alunni musulmani non potrà essere in alcun modo imposta la partecipazione ad atti di culto o a lezioni di religione non conformi alla loro appartenenza confessionale.” 239 Art. 20 della Bozza di intesa tra la Repubblica italiana e l'Associazione Musulmani Italiani. 240 Art. 20 della Proposta di intesa tra la Repubblica italiana e la Comunità Islamica in Italia. 241 Punto 7C: “Nell’ambito dell’istruzione intendiamo privilegiare la scuola pubblica nella quale è possibile realizzare un livello di integrazione elevato di tutte le diverse realtà sociali e culturali presenti sul territorio nella condivisione dei valori superiori della cittadinanza. Gli immigrati musulmani devono essere messi in condizione di diventare cittadini italiani di fede musulmana. In quest’ambito siamo favorevoli all’insegnamento facoltativo della storia delle religioni, della lingua e della cultura araba, aperti a tutti gli studenti, musulmani e non, e che vengano impartiti da docenti autorizzati dal Ministero dell’Istruzione italiano. Chiediamo inoltre di intervenire fattivamente al fine di evitare la creazione di ghetti scolastici islamici definendo le condizioni giuridiche per la eventuale istituzione di scuole private musulmane parificate nelle quali la docenza deve essere garantita esclusivamente da laureati e abilitati all’insegnamento in Italia. Sempre in quest’ambito chiediamo di verificare che i corsi di religione islamica e di lingua e cultura araba attualmente impartiti nei centri islamici siano rispettosi della legge e diffondano dei 100 d'Italia del 2006, in cui si afferma che la scuola pubblica viene privilegiata come luogo dell'istruzione in quanto in grado di realizzare un “livello di integrazione elevato di tutte le diverse realtà sociali e culturali [...] nella condivisione dei valori superiori della cittadinanza”, l'obiettivo di inserirvi l'insegnamento della religione musulmana non è ancora stato realizzato, e la conclusione di un'intesa tra stato italiano e organizzazioni musulmane sembra essere un presupposto imprescindibile per il raggiungimento di questo traguardo. All'art. 33 la Costituzione prevede il diritto di enti e privati di istituire scuole ed istituti educativi, “senza oneri per lo Stato”: la comunità islamica in Italia, tuttavia, non è ancora arrivata ad organizzare veri e propri istituti scolastici di questo tipo, limitandosi all'istituzione di alcune scuole coraniche presso alcune moschee242. Anche in questo caso si fa sentire il problema della rappresentanza comune: è infatti un segnale significativo di questo disagio nel trovare una convergenza sui rappresentanti istituzionali il fatto che finora, in Italia, i soli esempi di una presenza islamica in ambito scolastico siano le cosiddette “scuole straniere”;243 questi istituti dipendono direttamente, per l'organizzazione ed i finanziamenti, dalle istituzioni rappresentanti dei paesi ai quali fanno capo,244 diventando così espressione, più che dell'islam della comunità musulmana italiana, di quell'islam “degli stati” le cui caratteristiche sono già emerse nel corso di questa analisi. valori condivisi dalla società italiana, evitando l’affermazione di una “identità islamica” separata e conflittuale.” 242 “Non deve stupire che la comunità islamica in Italia non sia ancora arrivata ad organizzare veri e propri istituti scolastici del tipo di quelli che il 3° comma dell' art. 33 della Costituzione consente ad enti e privati di istituire per lo studio delle materie profane sulla base dei programmi in vigore per la scuola pubblica. La sua attività nel settore educativo si è infatti limitata a tentativi di scuole coraniche presso alcune moschee[...]” A. FERRARI, “Le scuole musulmane in Italia: tra identità ed integrazione”, in S. FERRARI (a cura di), “Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche”, Il Mulino, Bologna, 2000, pp.135-136. 243 Per ora, le uniche espressioni di una presenza islamica in ambito scolastico sono infatti le cosiddette “scuole straniere”, istituite ai sensi dell'art. 366 del d. lgs. 16 aprile 1994, n.297, Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado. 244 “[...]lo statuto giuridico delle scuole straniere risulta paradigmatico di una considerazione dell'islam non più corrispondente alla profondità del suo radicamento nella società italiana, nel momento in cui la possibilità per i privati di fondare e gestire istituti scolastici di ogni ordine e grado senza necessità di 'speciale autorizzazione' viene fatta dipendere dal formale possesso della cittadinanza italiana (o di quella dell'Unione europea ad essa equiparata).”A. FERRARI, “Le scuole musulmane in Italia: tra identità ed integrazione”, in S. FERRARI (a cura di), “Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche”, Il Mulino, Bologna, 2000, pp.136137. 101 4.5 Velo e simboli religiosi A differenza che in altri stati europei, negli ultimi anni la discussione sull'accettabilità dei simboli religiosi negli ambienti pubblici si è concentrata più sulla questione dell'esposizione del crocifisso245 nelle aule scolastiche che sull'uso del velo; il dibattito è stato molto più acceso, in questo senso, in stati come la Francia e la Germania, in cui sia la giurisprudenza amministrativa che quella costituzionale si sono pronunciate con sentenze che hanno contribuito molto a specificare l'orientamento dei rispettivi ordinamenti in merito alla questione.246 La presenza nella sfera pubblica da parte dell'islam passa, come già sottolineato, anche attraverso i simboli dell'appartenenza religiosa: il velo risulta invariabilmente essere il più evidente, ed il suo utilizzo ha in molti casi sollevato aspri dibattiti sulla più ampia questione della laicità dello stato247 e sui limiti alla libertà di espressione riguardo alle appartenenze religiose, come insegna il caso francese. 245 Grande risonanza è stata data alla vicenda giudiziaria che ha avuto come protagonista Adel Smith, rappresentante della piccola Unione dei musulmani italiani, che ha conosciuto recentemente ulteriori sviluppi con l'emissione da parte del tribunale dell'Aquila di un'ordinanza cautelare con cui si ordina la rimozione del crocifisso dalle aule della scuola materna frequentata dai figli di Adel Smith. Cfr. P. STEFANI, “La laicità “italiana” alla prova del crocifisso”, in S. FERRARI (a cura di), “Islam ed Europa: i simboli religiosi nei diritti del Vecchio continente”, Carocci editore, Roma, 2006, p. 157. 246 Da ricordare anche un caso svizzero di qualche anno fa, sempre relativo all'uso dl velo nella scuola pubblica: nel 1996 il dipartimento della pubblica istruzione di Ginevra ordina all'insegnante elementare Lucia Dahlab, convertita all'islam, di togliere i foulard durante lo svolgimento delle lezioni. Il provvedimento è confermato dal Consiglio di Stato cantonale, sulla base di considerazioni relative alla “funzione di messaggio” del velo, poi di nuovo nel 1997 dal Tribunale federale svizzero e nel 2001 dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, la quale motiva la sentenza affermando che in situazioni di coesistenza di più religioni può verificarsi al necessità di apporre delle restrizioni alle libertà individuali al fine di riconciliare gli interessi dei diversi gruppi e garantire il rispetto di ogni convinzione. Cfr. J. LUTHER, “Il velo scoperto dalla legge: profili di giurisprudenza costituzionale comparata”, in S. FERRARI (a cura di), “Islam ed Europa: i simboli religiosi nei diritti del Vecchio continente”, Carocci editore, Roma, 2006, pp. 76-77. 247 “[...] la nostra società ha risposto arroccandosi su posizioni sostanzialmente confessionali, ed in alcuni casi scivolando su di un desolante clericalismo di ritorno, perdendo ancora una volta la possibilità di fare della laicità dello Stato, della libertà religiosa e dell'uguaglianza in materia religiosa i principi cardine del sistema giuridico di disciplina del fenomeno religioso. P. STEFANI, “La laicità “italiana” alla prova del crocifisso”, in S. FERRARI (a cura di), “Islam ed Europa: i simboli religiosi nei diritti del Vecchio continente”, Carocci editore, Roma, 2006, p. 164. 102 Per quanto riguarda invece l'ordinamento italiano, sulla base sia dell'art. 19, che tutela la libertà di professione religiosa in pubblico o in privato, con l'unico limite della compatibilità con il buon costume, sia dell'art. 21 co. 1, che sancisce il diritto alla libera manifestazione del pensiero con ogni mezzo di diffusione, l'uso del velo non pare porsi in contrasto con le disposizioni costituzionali248. Nell'ordinamento italiano non esiste una legge che disciplini l'esposizione dei simboli religiosi alla stregua della tanto contestata legge francese del 2004. I limiti posti dalle leggi ordinarie riguardo all'abbigliamento nei luoghi pubblici, infatti, possono essere ricollegati a concetti quali la pubblica decenza,249 o la falsa individuazione sociale causata dall'abbigliamento stesso,250 circostanze con le quali il velo musulmano non ha nulla a che fare ed alle quali anzi si contrappone, poiché tendente ad eliminare le ostentazioni di rilevanza sessuale e ad identificare in modo piuttosto immediato l'appartenenza confessionale di chi lo indossa. La discussione è sorta piuttosto in merito alla compatibilità dell'uso del velo in pubblico con l'art. 85 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del 1975, il quale sanziona i casi di “abbigliamento idoneo ad occultare o ridurre la riconoscibilità della persona”, soprattutto in occasione di manifestazioni. La compatibilità dell'uso del velo con queste disposizioni relative all'occultamento dei tratti somatici, tuttavia, è già stata affermata da una circolare del Ministro dell'interno emanata il 14 marzo 1995, la quale autorizza l'uso di copricapi nelle fotografie destinate ai documenti di identità di cittadini appartenenti a confessioni religiose diverse dalla cattolica, dato che, si osserva nella circolare, l'uso religiosamente motivato del turbante o del velo in un certo modo addirittura concorre ad identificare 248 “Comunque sia, dall'analisi del rapporto si rileva che la questione dei simboli religiosi trova una più corretta soluzione in rapporto alla laicità dello Stato e alla sua correlata esigenza di neutralità, piuttosto che letta in relazione ai principi di uguaglianza e libertà religiosa. Infatti, in uno Stato che attua la laicità, che afferma un modo di essere nei rapporti con il fenomeno religioso, rispettoso della neutralità assoluta, la garanzia della libertà religiosa e dell'uguaglianza in materia religiosa è consequenziale.” P. STEFANI, “La laicità “italiana” alla prova del crocifisso”, in S. FERRARI (a cura di), “Islam ed Europa: i simboli religiosi nei diritti del Vecchio continente”, Carocci editore, Roma, 2006, pp. 158-159. 249 Art. 726 del Codice penale. Cfr. S. CARMIGNANI CARIDI, “Libertà di abbigliamento e velo islamico”, in S. FERRARI (a cura di), “Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche”, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 229. 250 Artt. 498 e 640 del Codice penale. Cfr. S. CARMIGNANI CARIDI, “Libertà di abbigliamento e velo islamico”, in S. FERRARI (a cura di), “Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche”, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 229. 103 chi li porta, sempre a condizione che i tratti del viso rimangano in evidenza.251 L'esposizione del velo nello spazio pubblico, come si può dedurre dalle disposizioni citate, non è legata dunque (non ancora, almeno) alla tutela del principio di pluralismo che determina l'atteggiamento dello stato nei confronti delle religioni, ma piuttosto a preesistenti questioni relative, per la maggior parte, all'ordine pubblico. Un po' diverso il discorso per quanto riguarda l'ambito scolastico: come già accennato, la questione dell'esposizione di simboli religiosi negli ambienti scolastici è già stata sollevata, ma con particolare riferimento alla presenza del crocifisso nelle aule, in un dibattito che ha portato a discutere sul tema più ampio del ruolo della religione cattolica nella società italiana e del rilievo storico e culturale di questa presenza. Un caso recente, più strettamente inerente al problema del velo, si è verificato ad Ivrea, dove una tirocinante per il diploma di educatrice di asilo nido si è vista respingere da una scuola privata poiché indossava il velo.252 Le disposizioni costituzionali e le norme disciplinari vigenti 253 fanno propendere per la generale compatibilità dell'uso del velo con gli ambienti scolastici, salva l'osservazione, rilevata da alcuni autori sulla scorta del ragionamento del Consiglio di Stato francese, grande ispiratore, in Europa, delle linee di condotta da tenersi nei confronti di questo fenomeno, che “qualora l'ostentazione di capi di abbigliamento indicanti un'appartenenza confessionale dovesse turbare il regolare andamento della scuola potrebbe legittimamente essere vietata”, con la considerazione, tuttavia, che la contrarietà all'ordine pubblico ed al regolare svolgimento delle attività scolastiche non può ravvisarsi nell'uso del velo in sé, ma in un atteggiamento più ampio di mancato rispetto della libertà religiosa e di coscienza e del pluralismo che devono caratterizzare l'ambiente scolastico, ancora una volta laboratorio e banco di prova dell'esistenza pubblica della religione musulmana e degli appartenenti a questa comunità.254 251 Circolare n. 4 (95), Rilascio carta d'identità a cittadini professanti culti religiosi diversi da quello cattolico-uso del copricapo, 14 marzo 1995. 252 Cfr. J. LUTHER, “Il velo scoperto dalla legge: profili di giurisprudenza costituzionale comparata”, in S. FERRARI (a cura di), “Islam ed Europa: i simboli religiosi nei diritti del Vecchio continente”, Carocci editore, Roma, 2006, p. 63. 253 In particolare, il r.d. n. 653 del 1925, sorta di “codice” dei provvedimenti disciplinari a carico degli alunni. 254 Cfr. S. CARMIGNANI CARIDI, “Libertà di abbigliamento e velo islamico”, in S. FERRARI (a cura di), “Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche”, Il Mulino, Bologna, 2000, pp. 230 ss. 104 4.6 Valutazioni Per l'islam italiano sembra dunque essere il momento di risolvere il nodo fondamentale da cui è dovuto passare ogni processo di istituzionalizzazione della minoranza musulmana in ogni stato dell'Europa occidentale che si sia trovato ad avere a che fare con questo fenomeno: l'esperienza recente del caso italiano induce a guardare alle esperienze precedentemente vissute, oppure ancora in corso ma ad uno stadio più evoluto, in altri paesi in cui la minoranza musulmana riveste un ruolo di rilievo. La questione del riconoscimento nell'ambito pubblico ed ufficiale della comunità islamica deve necessariamente risolversi in un accordo in merito alla rappresentanza ufficiale dell'islam italiano; la soluzione a questo ormai noto problema porrebbe fine a molte delle dispute interne che impediscono alla minoranza musulmana di avviare un dialogo con le istituzioni italiane in ambiti importanti per il processo di integrazione e per la lotta alle pratiche discriminatorie255. L'accordo interno sulla questione della rappresentanza costituirebbe il primo passo per trovare risposte soddisfacenti alla richiesta di riconoscimento della comunità musulmana, ed il punto di partenza per poter veramente giungere ad un assetto normativo paritario per tutte le manifestazioni religiose, tramite gli strumenti offerti dalla Costituzione: l'auspicata conclusione di un'intesa dipende dalla necessaria premessa dell'accordo 255 Il problema può anche essere inquadrato, oltre che nell'ambito della protezione dei diritti religiosi, anche dal punto di vista della legislazione in materia di antidiscriminazione (d. lgs del 9 luglio 2003, in attuazione di due direttive europee in materia). “The collective dimension of cultural identity is, on the other hand, taken into consideration in the Italian and european tradition by measures for the protection of national, ethnic, and linguistic minorities. Here minority stands for a group that, besides being different on an ethnic or linguistic basis from the rest of the population, is made up of individuals who hold State nationality and are historically installed on a limited part of the State territory. Such a protection is therefore non open to minorities of foreign immigrants. Nevertheless, there is a debate on the possibility of extending the definition of minority in order to embrace the 'new minorities', and to develop new specific forms of protection.” R. ALUFFI BECK-PECCOZ, “The legal treatment of the Muslim minority in Italy”, in R. ALUFFI BECK-PECCOZ, G. ZINCONE (a cura di), “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, pp. 157-158. 105 sui rappresentanti, che sembra essere ancora lontano256. SECONDA PARTE L'EUROPA SUD-ORIENTALE: RELIGIONE ED ETNIA CAPITOLO V GRECIA 5.1 La comunità islamica in Grecia e la questione dell'appartenenza religiosa: musulmani e cristiani ortodossi La presenza musulmana in territorio greco viene fatta risalire, come per tutti gli stati balcanici, alla conquista ottomana: a partire dal 1363 la regione della Tracia occidentale, situata nella parte settentrionale dell'attuale stato greco, conobbe sia l'immigrazione delle popolazioni turche di religione musulmana, in particolare l'etnia turcomanna, sia un certo numero di conversioni all'islam della popolazione locale, dati i vantaggi economici e sociali che ciò comportava, vale a dire la possibilità di accedere a professioni e cariche pubbliche interdette ai popoli Dhimmi ed una sensibile riduzione delle tasse che avrebbero dovuto essere versate al sultano per la propria permanenza nel Dar-al Islam257. Una seconda ondata di migrazioni si riversò in Tracia nella seconda metà del diciannovesimo secolo: in quel periodo a stabilirsi in Tracia furono popolazioni turche di etnia circassa e tatara258. Tuttavia il millet, il sistema ottomano di comunità autonome dal punto di vista amministrativo, istituzionale e didattico, basate sulla comune appartenenza religiosa e guidate dalle 256 É recentissima la notizia dell'istituzione di un corso, iniziato a Milano e che si concluderà nella moschea di Brescia, per la formazione degli imam per la guida delle moschee d'Italia. Il corso è organizzato dall'Ucoii, i cui fondatori figurano anche tra i relatori; l'obiettivo dell'iniziativa per quello di “accreditare e legittimare il potere assoluto dell'Ucoii e dei Fratelli Musulmani.” M. ALLAM, “Primo corso di formazione per imam. Ma senza autocritica.” Corriere della Sera, 17 febbraio 2008. 257 Le popolazioni ebraiche e cristiane pagavano particolari tasse, non imposte alla popolazione islamica, grazie alle quali era loro concessa la permanenza pacifica in territorio musulmano. 258 Ricostruzione storica da “The Turks of Western Thrace”, Human Rights Watch, Europe and Central Asia Division, Vol. 11, no.1, 01.1999, www.hrw.org 106 rispettive autorità religiose, in Grecia ebbe un impatto diverso rispetto alle altre regioni balcaniche; in territorio greco si trovava, infatti, la sede del millet ortodosso: Costantinopoli, la sede del Patriarca, guida e rappresentante dei cristiani ortodossi davanti al governo ottomano. La Chiesa ortodossa svolse infatti un ruolo di forza coesiva ed unificatrice per i sudditi dell'impero ottomano di origine greca, tra i quali il fenomeno delle conversioni si verificò in modo meno massiccio che in altre regioni conquistate dagli ottomani.259 Il ruolo della Chiesa ortodossa, inoltre, è sempre stato ed è ancora predominante in Grecia, anche per quanto riguarda l'aspetto normativo: vedremo in seguito la posizione che la Costituzione riconosce al cristianesimo ortodosso ed alla Chiesa autocefala di Grecia. Il dominio dei sultani ottomani sulla Grecia terminò con la prima Guerra balcanica del 1912; fino a dopo la Prima guerra mondiale la Tracia occidentale rimase sotto il controllo della Bulgaria, per tornare poi, a partire dal 1920, sotto il controllo dello stato greco. Un momento cruciale per le vicende della minoranza turca della Tracia occidentale è sicuramente il 1923: in quell'anno vengono infatti conclusi due accordi tra Grecia e Turchia che disciplinano in modo dettagliato le condizioni, rispettivamente, della minoranza turca e della minoranza greca. In gennaio viene firmato un trattato bilaterale, la Convenzione sullo scambio delle popolazioni greca e turca. Dopo aver stabilito i propri confini, la Turchia chiedeva il rimpatrio della popolazione di etnia greca residente in Anatolia, al fine di evitare future contese sulla città di Smirne e sull'area circostante, che il trattato appena concluso assegnava al dominio turco. In cambio, i turchi che ancora risiedevano in quello che all'epoca era il regno di Grecia avrebbero fatto ritorno in Turchia. Esclusa dallo scambio sarebbe stata la popolazione di etnia greca residente a Costantinopoli da prima dell' ottobre 1918, la quale ammontava a circa 110.000 persone260, che avrebbe continuato a vivere in città in seno al Patriarcato ortodosso. Per ricambiare questa concessione, la Grecia avrebbe permesso ad un numero corrispondente di turchi di rimanere nella regione della Tracia. 259 Cfr. V. ORTAKOVSKI, “Minorities in the Balkans”, Transnational Publishers, Ardsley, 2000, pp. 21 ss. 260 The Turks of Western Thrace”, Human Rights Watch, Europe and Central Asia Division, Vol. 11, no.1, 01.1999, www.hrw.org 107 Nel novembre dello stesso anno Gran Bretagna, Francia, Italia, Giappone, Romania e Grecia conclusero con la Turchia il Trattato di Losanna il quale, oltre a mettere ufficialmente fine al conflitto greco-turco e ad assicurare il riconoscimento internazionale dei confini turchi, contiene una sezione, comprendente gli articoli dal 37 al 45, intitolata alla protezione delle minoranze, che dall'art. 38 al 44 disciplina la tutela delle minoranze non-musulmane in territorio turco. L'art. 45 sancisce la reciprocità di tali disposizioni, prevedendo lo stesso tipo di tutela per le popolazioni musulmane che si fossero trovate in territorio greco in seguito allo spostamento dei confini conseguente al Trattato. La sezione copre diversi aspetti della tutela delle minoranze: la protezione della vita e della libertà personale, la più completa libertà di espressione e di culto e la libertà di movimento sono garantiti all'art. 38 “senza distinzione di origine, nazionalità, lingua, razza o religione”. L'art. 39 invece sancisce l'uguaglianza davanti alla legge tra musulmani e non musulmani, e l'uguaglianza nell'esercizio dei diritti politici e civili, oltre ad assicurare il diritto all'utilizzo della propria lingua madre, non solo nel privato o nei commerci, ma anche nei rapporti con i pubblici poteri , in particolare, davanti ai tribunali nazionali. Inoltre si afferma l'irrilevanza dell'appartenenza religiosa nella vita pubblica, soprattutto con riguardo all'accesso al pubblico impiego o all'esercizio di determinate cariche o professioni. L'art. 40 tutela la libera organizzazione dell'istruzione per i membri delle minoranze; la previsione include il diritto ad esercitare, attraverso l'insegnamento, il proprio culto di appartenenza e la tutela anche dal punto di vista linguistico. L'art. 41 costituisce una maggiore specificazione dei diritti previsti nell'ambito dell'istruzione: le minoranze sono tutelate sia per quanto riguarda la garanzia dell'utilizzo della lingua madre nell'insegnamento, sia dal punto di vista dei finanziamenti e dell'organizzazione del settore dell'istruzione e delle associazioni religiose o di beneficenza. L'art. 42 disciplina l'importante questione della disciplina relativa al diritto di famiglia ed allo status personale dei membri delle minoranze: i governi greco e turco si impegnano ad adottare misure che “permettano la trattazione di tali questioni secondo gli usi delle minoranze”, il che di fatto significa che i due ambiti citati, quello del diritto di famiglia e quello relativo agli status personali, sono lasciati alle discipline dettate dai diritti religiosi in vigore presso le rispettive minoranze. Gli accordi in questo ambito tra governi e minoranze sarebbe stato 108 raggiunto grazie alla mediazione di speciali commissioni, costituite con la partecipazione di rappresentanti di entrambe le parti; in caso di irrisolvibile disaccordo, sarebbero intervenuti i delegati della comunità internazionale. Nella stessa disposizione viene accordata piena protezione anche alle proprietà, relative all'esercizio del culto, appartenenti alle minoranze, cui si assicura parità di trattamento, nella concessione di permessi e sussidi, rispetto alle fondazioni private non religiose. L'art. 44 prevede che il controllo sull'effettiva applicazione delle disposizioni in questione venga messo in atto dalla Lega delle Nazioni, e che eventuali infrazioni possano essere segnalate da ogni Stato membro. Si riconosce inoltre la giurisdizione della Corte permanente di giustizia internazionale su qualsiasi controversia relativa all'applicazione del Trattato. L'art. 45 afferma la reciprocità degli obblighi, sancendo per quanto riguarda la Grecia, nei confronti della minoranza musulmana presente entro i suoi confini, gli stessi obblighi previsti per lo stato turco nei confronti dei non musulmani. Questa sezione del Trattato non caratterizza mai le minoranze in questione in senso etnico, o comunque con riferimenti diversi da quello all'appartenenza religiosa: così, si parla di minoranza musulmana in territorio greco e di minoranze non-musulmane entro i confini turchi. Nel 1968, inoltre, i governi turco e greco firmarono il Protocollo degli incontri di Ankara ed Atene della Commissione Culturale turco-greca, elaborato appunto da una Commissione culturale composta da esperti di entrambi i paesi, incentrato soprattutto sulla protezione e sul rispetto, da parte di ciascuno dei due stati, della “coscienza religiosa, etnica e nazionale”261 delle minoranze presenti sui rispettivi territori. Tuttavia, nonostante il trattato di Losanna, il Protocollo del 1968 e gli altri trattati internazionali di cui la Grecia è firmataria, la posizione della minoranza musulmana in Tracia ha sempre presentato profili altamente problematici: da un lato, le sue condizioni hanno spesso risentito degli attriti politici tra Grecia e Turchia262; ma a 261 “Destroying ethnic identity: the Turks of Greece”, Helsinki Watch Report, New York, 1990, p. 6. 262 Ad esempio, un sensibile miglioramento delle condizioni della minoranza turca in Grecia si ebbe nel periodo di riavvicinamento tra i due stati promosso dal Primo ministro greco Venizelos e dal leader turco Ataturk. Negli anni '50 invece il peggioramento fu drastico, soprattutto a causa del conflitto cipriota: in quel periodo si verificarono pesanti ritorsioni ai danni sia della minoranza 109 prescindere dalle vicende storico-politiche, fino ad anni molto recenti l'atteggiamento dell'ordinamento greco nei confronti della minoranza turca sembra rispecchiare, come notano gli osservatori internazionali, una “deliberata politica di discriminazione con obiettivi di assimilazione a lungo termine”263, in contrasto sia con le citate fonti di diritto internazionale sia con la stessa Costituzione greca, che pure non pone tutte le religioni su un piano di parità, data la posizione privilegiata di cui gode la Chiesa ortodossa. Si può notare dunque come, nella definizione delle identità greca e turca in una situazione “di confine” come quella che caratterizza i rapporti tra i due stati e la posizione delle rispettive minoranze, la religione abbia avuto sin dall'inizio un ruolo di primaria importanza: da un lato, l'influenza del sistema del millet ha reso l'appartenenza alla Chiesa ortodossa uno degli elementi fondanti del moderno concetto di “grecità”264, oltre che criterio per l'attribuzione della cittadinanza, in contrapposizione ai conquistatori ottomani, turchi, musulmani. D'altra parte, come vedremo nei prossimi paragrafi, l'identificazione tramite l'appartenenza religiosa 265 e non sulla base del criterio etnico è stata utilizzata nell'ordinamento greco per negare l'esistenza stessa di una minoranza etnica di orgine turca266, a dispetto di tutti i trattati internazionali ed in un'ottica fortemente tendente all'assimilazione. Questa tendenza, cui si è già accennato in precedenza, ha iniziato a manifestarsi con più forza nel periodo successivo al colpo di stato del 1967, negli otto anni di governo della giunta militare. Tuttavia gli atteggiamenti discriminatori delle autorità greche nei confronti della minoranza turca della Tracia non sono cessati con la fine del regime militare ed hanno continuato a manifestarsi, sia sul piano più strettamente normativo sia nella pratica quotidiana, anche dopo l'approvazione della Costituzione del 1975. Anzi, si turca in Tracia, sia della comunità greca di Istanbul. Cfr. “The Turks of Western Thrace”, Human Rights Watch, Europe and Central Asia Division, Vol. 11, no.1, 01.1999, www.hrw.org. 263 “Destroying ethnic identity: the Turks of Greece”, Helsinki Watch Report, New York, 1990, p. 1. 264 Cfr. H. POULTON, “Changing notions of national identity among Muslims in Thrace and Macedonia: Turks, Pomaks and Roma”, in H. POULTON, S. TAJI-FAROUKI (a cura di), “Muslim identity and the Balkan State”, Hurst & Company, London, 1997, pp. 82 ss. 265 Grazie alle dizioni “Musulmani greci” o “Musulmani ellenici” in sostituzione del termine “turchi”. 266 Nel rapporto “The Turks of Western Thrace”, Human Rights Watch, Europe and Central Asia Division, Vol. 11, no.1, 01.1999, www.hrw.org , si parla di “[...]Greek government's attitude towards the Turkish minority as somehow alien to Greece, as an outside threat that must be minimized or isolated.” e di “[...]denying the ethnic identity of the minority, which [...]is undoubtedly Turkish.” 110 può affermare che alcune prassi, in vigore nel periodo della dittatura ma non sancite da norme, siano state in seguito, dopo la fine del regime, oggetto di una vera e propria ratificazione da parte dei governi democratici. 5.2 L'assetto costituzionale Formalmente, lo status della minoranza turca della Tracia occidentale, non in quanto tale ma in quanto formata da cittadini greci, è protetto dalla Costituzione nazionale, entrata in vigore nel 1975 ed emendata l'ultima volta nel 2001267. Il documento, sebbene l'art. 3 dichiari l'assoluta supremazia dell' autocefala Chiesa Ortodossa greca, indicando il culto cristiano-ortodosso come “religione prevalente”268, tuttavia all'art. 13 stabilisce anche l'inviolabilità della libertà della coscienza religiosa individuale e l'esistenza dei diritti e delle libertà fondamentali a prescindere dal credo di ogni individuo269. L'art. 13 inoltre afferma l'uguaglianza di fronte alla legge di tutti i culti, compreso il cristianesimo ortodosso; essi godono tutti delle stesse libertà e sono soggetti agli stessi obblighi nei confronti dell'ordinamento statale, il quale esercita il medesimo controllo e la medesima supervisione nei confronti di ogni rappresentante o ministro, indipendentemente dal culto di appartenenza270. Inoltre, la carta costituzionale prevede l'uguaglianza di ogni cittadino di fronte alla legge, sancita dall'art. 4; è tutelata anche l'acquisizione della cittadinanza greca sulla base degli stessi requisiti per ogni individuo; la privazione della cittadinanza, inoltre, viene prevista solo in particolari circostanze e condizioni disciplinate dalla legge 271, secondo il dettato dell'art. 5, che sancisce anche la parità di tutti i soggetti nella partecipazione alla vita sociale, politica ed economica del paese, senza distinzioni basate sulla nazionalità, la razza o la lingua, o sulle convinzioni politiche e religiose272. Non meno rilevante nell'analisi delle condizioni della comunità turca la previsione, sempre contenuta all'art. 5, che tutela la libertà di movimento e di residenza sia nei 267 268 269 270 271 272 Cfr. “The Constitution of Greece – History of the Constitution”, www.parliament.gr Art. 3 co.1. Art. 13 co.1 Art. 13 co. 2-3. Art. 5 co.1. Art. 5 co.2. 111 confini dello stato greco sia per quanto riguarda l'uscita o l'entrata nel paese di ogni cittadino greco273. Tuttavia la costituzione non prevede specifiche disposizioni a tutela delle minoranze nazionali, circostanza che ha permesso alle autorità greche di mantenere atteggiamenti fortemente discriminatori nei confronti di diverse etnie minoritarie presenti nel paese, quali i Pomak, minuscola enclave islamica stanziata nella regione ai confini con la Bulgaria, le minoranze valacca ed albanese e l'etnia macedone274: l'atteggiamento dei diversi governi greci275 nell'ambito del riconoscimento dell'esistenza stessa di una minoranza etnica, in questo caso specifico turca, sul territorio nazionale, si appoggia anche ad un testo costituzionale che del concetto di minoranza etnica e delle tutele collegate non fa proprio menzione. D'altra parte, anche il Trattato di Losanna del 1923, su cui sui basano molte delle rivendicazioni avanzate dai rappresentanti della comunità turca in merito alle violazioni compiute dalle autorità greche, non fa mai menzione dell'identità etnica della minoranza rimasta entro i confini dello stato greco; si parla piuttosto, all'art. 45, di “minoranza musulmana” in territorio greco, e di minoranze non-musulmane in territorio turco: la cifra dell'identificazione non è il fattore etnico, ma l'appartenenza religiosa. É proprio sulla base di questa impostazione che molti rappresentanti delle autorità greche hanno giustificato il proprio rifiuto di riconoscere quantomeno 273 Art. 5 co.4. 274 Carenza che permette all'ordinamento greco di “non vedere” le minoranze pur presenti nel suo territorio, ma non caratterizzate dall'appartenenza alla religione musulmana, unico elemento di identificazione minoritaria contenuto nel Trattato di Losanna. Le conseguenze di questa tendenza furono sopportate in gran parte dalla minoranza macedone, stanziata nel nord del paese, nei cui confronti il governo greco adottò dapprima, sin dagli anni '30, misure finalizzate alla vera e propria pulizia etnica, attraverso l'esilio, l'emigrazione forzata o le uccisioni di massa, il trasferimento di coloni greci nel nord del paese precedentemente popolato dall'etnia macedone. In seguito l'annientamento della minoranza macedone passò attraverso l'assimilazione forzata, perseguita per mezzo di diversi provvedimenti legislativi che prevedevano il divieto di utilizzare la lingua o i nomi propri macedoni (misura che ricorda quelle adottate nei confronti dei Pomak bulgari), l'incarcerazione o l'internamento, la privazione della cittadinanza e la confisca delle proprietà. Attualmente gli intenti discriminatori vengono posti in atto attraverso l'effettiva esclusione delle persone di etnia macedone dal pubblico impiego, o l'insegnamento obbligatorio del greco, con la conseguente proibizione di utilizzare la lingua macedone, fin dalla frequenza degli asili. Disastrose naturalmente le condizioni per quanto riguarda la libertà di espressione e di associazione. In questo ambito particolare sono particolarmente interessanti le sentenze della Corte di Strasburgo SIDIROPOULOS AND OTHERS V. GREECE JUDGMENT, .....Cfr. anche V. ORTAKOVSKI, “Minorities in the Balkans”, Transnational Publishers, Ardsley, 2000, pp. 178 ss., ed il “Report about Compliance with the Principles of the Framework Convention for the Protection of National Minorities”, al sito www.greekhelsinki.gr. 275 Atteggiamento che ricorda da vicino quello del governo bulgaro, sempre nei confronti della minoranza turca presente in Bulgaria. 112 l'esistenza di un gruppo etnico turco sul proprio territorio nazionale276. Altri, invece, si riferiscono alla circostanza che il termine “turco” indicherebbe una sorta di appartenenza alla repubblica turca, e non allo status di minoranza etnica277. In conclusione, ad un assetto costituzionale piuttosto completo sul piano della tutela dei diritti individuali, corrisponde un'assenza pressoché totale di garanzie per quanto riguarda il riconoscimento e la tutela delle minoranze presenti sul territorio nazionale, siano esse di tipo linguistico o etnico. Queste circostanze costituiscono uno degli elementi che hanno reso possibile l'atteggiamento di totale negazione dell'esistenza della minoranza turca278 da parte dell'ordinamento greco, sia attraverso le leggi nazionali sia tramite lo strumento giurisprudenziale.279 Inoltre, lo stato geco non ha ancora ratificato la Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali del 1995, rendendo in questo modo più difficile per la comunità internazionale operare un controllo sul rispetto, da parte dell'ordinamento, dei diritti delle minoranze. 276 Ad esempio il Ministro degli esteri Kranidiotis, in una dichiarazione del 1997: “In Grecia non parliamo di una minoranza turca; la chiamiamo minoranza musulmana. Sentiamo che questo termine, Turco, attribuisce loro un carattere etnico mentre degrada altri elementi che non sono turchi. Abbiamo ratificato il codice dell'auto-identificazione etnica. Attenderemo la decisione della Corte Europea dei diritti dell'uomo [...]. Siamo stati tolleranti e stiamo diventando ancora più tolleranti. Stricto sensu se si vuole interpretare il Trattato di Losanna essi devono essere chiamati musulmani[...]Rispettiamo comunque i differenti elementi della minoranza musulmana. Vedremo che cosa diranno la Commissione e la Corte Europea dei diritti dell'uomo, se dovremo chiamarli Turchi.” “The Turks of Western Thrace”, Human Rights Watch, Europe and Central Asia Division, Vol. 11, no.1, 01.1999, www.hrw.org . 277 Ad esempio il segretario generale della Tracia Kambellis, durante un'intervista nel 1997: “Ogni persona è libera di esprimersi con qualsiasi identità desideri [...]Il problema sorge riguardo all'uso del termine 'turco'. Secondo tutte le convenzioni internazionali, sono musulmani. Quando danno alle loro associazioni il nome di un altro stato, ciò non ha significato qui. Non esprime alcunché.” “The Turks of Western Thrace”, Human Rights Watch, Europe and Central Asia Division, Vol. 11, no.1, 01.1999, www.hrw.org . 278 La cui condizione, inoltre, è stata più di una volta condizionata dalla situazione delle relazioni diplomatiche tra i due paesi e quindi completamente in balia degli umori politici greci o turchi. Ad esempio, un allentamento delle tensioni tra i due paesi nel periodo di governo di Ataturk aveva avuto come conseguenza, seppure per un breve periodo, la possibilità di utilizzare di nuovo il nome e l'aggettivo 'turco' in situazioni pubbliche o nei media. Cfr. “The Turks of Western Thrace”, Human Rights Watch, Europe and Central Asia Division, Vol. 11, no.1, 01.1999, www.hrw.org . 279 Come afferma anche il documento “Report about Compliance with the Principles of the Framework Convention for the Protection of National Minorities”, punti 3 ss., stilato nel 1999 da Greek Helsinki Monitor e Minority Rights Group, consultabile sul sito www.greekhelsinki.gr. 113 5.3 Principali violazioni rilevate dagli osservatori internazionali e statuto giuridico della minoranza musulmana in Tracia Il rifiuto da parte dell'ordinamento greco di riconoscere l' esistenza della minoranza turca, evidente già a partire dall'analisi del testo costituzionale, si è concretizzato nel corso degli anni, e durante l'operato di diverse legislature, in una serie di prassi, leggi e provvedimenti amministrativi finalizzati a negare alla popolazione di etnia turca, in quanto tale, il diritto all'esistenza stessa sul territorio greco. Il fattore religioso, in questo caso cioè il culto islamico, è stato così utilizzato per “neutralizzare” l'appartenenza etnica, dato che l'unica minoranza ad essere riconosciuta dalle istituzioni greche è quella definita “musulmana”: la sistematica negazione dell'esistenza di una minoranza di etnia turca in territorio greco è stata effettuata dalle istituzioni statali attraverso molteplici strumenti, sia legislativi che giurisprudenziali. Alla modifica in tal senso delle fonti normative già esistenti ed alla creazione di nuove leggi, infatti, si sono aggiunte svariate sentenze dei tribunali greci, in particolare della Corte di Cassazione. Alcuni di questi casi, due in particolare, che verranno analizzati nelle prossime pagine, sono stati portati davanti alla Corte Europea dei diritti dell'uomo, che ha così avuto modo di pronunciarsi sul ruolo del governo greco nella situazione della minoranza turca della Tracia, nei cui confronti sono state effettuate pesanti restrizioni in ordine ad una serie di diritti fondamentali riguardanti questioni quali la cittadinanza, il riconoscimento dell'identità etnica e l'autonomia nella gestione degli affari religiosi. Il “diritto di chiamarsi Turchi” ed il caso Sadik Ahmet: la negazione dell'identità etnica Affermazioni quali “Non c'è una minoranza turca nella Tracia occidentale. Il Trattato di Losanna parla solamente dei 'musulmani di Grecia'”280 e “Non esistono Greci 280 C. Thanopolous, nomarca di Xanthi, ai ricercatori di Helsinki Watch, in “Destroying ethnic identity: the Turks of Greece”, Helsinki Watch Report, New York, 1990, p. 14. 114 Turchi. Esistono dei Greci musulmani in Tracia occidentale. Questo è ciò che prevede il Trattato di Losanna”281 illustrano perfettamente la posizione delle autorità greche per quanto riguarda la posizione istituzionale della minoranza turca. Essa è considerata dall'ordinamento greco come una minoranza esclusivamente di carattere religioso; per questo motivo i suoi appartenenti vengono ufficialmente identificati come “musulmani greci”, o “musulmani ellenici”, o ancora “la minoranza musulmana”. Da parte loro i rappresentanti della minoranza oppongono un netto rifiuto a questa interpretazione, rivendicando il diritto di non essere identificati solamente attraverso la propria appartenenza religiosa, ma anche e soprattutto grazie alla loro origine etnica. La sostituzione dei riferimenti all'origine etnica con termini relativi all'appartenenza al culto musulmano ha costituito uno dei principali strumenti attraverso cui le autorità statali hanno ufficialmente negato l'esistenza dell'etnia turca. Questa tendenza ha avuto ricadute concrete, specialmente a partire dagli anni '80, più come prassi giurisprudenziale che attraverso modifiche legislative: ne troviamo numerosi esempi282 ripercorrendo le pronunce dei tribunali greci di quell'epoca, molte delle quali hanno come risultato finale quello di dichiarare illegittimo l'utilizzo del termine “turco” per descrivere, nelle situazioni più diverse, la comunità turca stessa e le istituzioni ed associazioni che ad essa fanno o facevano capo. Nel novembre 1988 la Corte Suprema confermò una sentenza emessa nel 1986 dalla Corte d'Appello della Tracia, nella quale si ordinava lo scioglimento sia dell' Unione degli insegnanti turchi della Tracia occidentale, sia dell' Unione della gioventù turca della città di Komotini. Nella motivazione della sentenza il collegio sosteneva che il termine “turco” è riferito esclusivamente ai ai cittadini della Turchia, e che di conseguenza non può essere utilizzato per descrivere i cittadini greci; inoltre, affermava che l'uso del termine “turco” per descrivere i musulmani greci costituiva un pericolo per l'ordine pubblico. Nel 1997, dodici insegnanti di scuola elementare di etnia turca vennero condannati in primo grado ad una pena detentiva della durata di otto mesi per i reati previsti dal 281 C. Misotakis, Primo ministro greco, intervistato a Washington, 18 giugno 1990, in “Destroying ethnic identity: the Turks of Greece”, Helsinki Watch Report, New York, 1990, p. 14. 282 Cfr. “The Turks of Western Thrace”, Human Rights Watch, Europe and Central Asia Division, Vol. 11, no.1, 01.1999, www.hrw.org . 115 codice penale greco all'art. 188, “Partecipazione ad un'associazione i cui scopi sono contrari alle norme penali”, e all'art. 192, “Istigazione dei cittadini alla violenza ”, per aver firmato un documento sindacale che conteneva il termine “Insegnanti turchi della Tracia occidentale”. Non si tratta solamente di condanne penali; la tendenza illustrata si manifesta anche attraverso provvedimenti amministrativi: nel 1996 un altro insegnante, che prestava servizio in una scuola elementare frequentata da allievi di etnia turca283, fu trasferito con un provvedimento del segretario generale della regione, carica designata dall'amministrazione statale, dalla città di Xanthi ad una scuola in una località montuosa nella regione dei monti Rodopi, per aver utilizzato l'espressione “scuola turca” in una riunione con i colleghi. Quello più noto, tuttavia, giunto davanti alla Corte europea dei diritti dell'uomo, è il caso Sadik Ahmet: Ahmet, medico di etnia turca, parlamentare e rappresentante della comunità di Komotini, nel 1990 fu processato per il reato previsto all'art. 192 del Codice penale greco, “Istigazione dei cittadini alla violenza e creazione di dissenso tra la popolazione a discapito della pace sociale”, per aver, durante la campagna elettorale del 1989, distribuito volantini contenenti i termini “Turchi”, “Turchi musulmani”, “Minoranza turca musulmana della Tracia occidentale”284. Venne condannato in primo grado e detenuto dal gennaio al marzo 1990, quando la Corte d' Appello di Patrasso confermò la condanna, convertendola però in sanzione pecuniaria. Nel febbraio 1991, la Corte di cassazione greca rigettò il ricorso di Ahmet, dichiarando nella motivazione della sentenza che “[...] il ricorrente ha deliberatamente tentato di descrivere come 'Turchi' i musulmani dei Rodopi meridionali, [...]pur essendo consapevole che non esiste alcuna minoranza turca in Tracia occidentale[...]” La vicenda giudiziaria fu oggetto di grande attenzione da parte dell'opinione pubblica e scatenò violenti conflitti tra la popolazione greca e gli appartenenti alla comunità turca della città di Komotini, dove si erano verificati i fatti che avevano dato origine alle accuse mosse a Sadik Ahmet. 283 Quindi, in quanto scuola “minoritaria”, con programmi di studio diversi da quelli delle scuole greche e con corsi anche in turco, poiché frequentata da bambini di etnia turca. 284 I testi dei messaggi elettorali in questione si possono leggere integralmente nel parere della Commissione europea dei diritti dell'uomo AHMET SADIK V. GREECE, n. 18877/91, punto 8. 116 Lo svolgimento delle udienze del giudizio di primo grado è così commentato da Turgut Kazan, presidente dell'ordine degli avvocati di Istanbul, cui fu concesso di partecipare al processo in qualità di osservatore, insieme ad alcune organizzazioni internazionali: “[...]la folla che aveva riempito l'aula applaudiva i giudici ed il pubblico ministero [...]I testimoni favorevoli all'accusa venivano lasciati parlare per 30-40 minuti. Ma quelli che testimoniavano in favore della difesa erano congedati velocemente. [...]quando i difensori abbandonarono l'aula in segno di protesta per il comportamento ostile dei giudici, [l'imputato] richiese che gli fosse concesso un termine per la nomina di un nuovo legale, ma la corte gli negò questo diritto. [...]L'interprete nominato dal collegio non conosceva il turco[...] In altre parole, non fu un processo, ma una dimostrazione politica.”285 Due giorni dopo la condanna in primo grado, a Komotini esplosero gli scontri e le violenze ai danni di negozi ed esercizi gestiti dalla popolazione turca. Il console turco residente a Komotini fu dichiarato “persona non grata” ed espulso dallo stato greco per essersi riferito alla minoranza turca con l'espressione “i nostri congiunti”. Il governo turco a sua volta ordinò l'espulsione del console greco ad Istanbul286. Il caso Sadik Ahmet finì davanti alla Commissione europea dei diritti dell'uomo, che nell'aprile 1995, dopo aver rilevato nel comportamento dello stato greco una violazione della libertà di espressione, tutelata dall'art. 10 della CEDU, dichiarò il ricorso parzialmente ammissibile e lo trasmise alla Corte europea dei diritti dell'uomo287; nel frattempo, però, Sadik Ahmet era morto. La causa venne portata avanti dalla vedova e dai figli di Ahmet, ma nel novembre 1996 la Corte dichiarò il ricorso inammissibile poiché non erano stati esauriti tutti i rimedi di diritto interno288. A prescindere dall'esito di questa vicenda giudiziaria, tuttavia, essa può essere considerata esemplare quanto all'atteggiamento dell'ordinamento greco per ciò che riguarda il riconoscimento dell'esistenza della minoranza nazionale turca: la negazione di questo tipo di identità e la sua sostituzione con un concetto religioso, in questo caso relativo al culto musulmano, che elimina le coordinate etniche e non 285 “The Turks of Western Thrace”, Human Rights Watch, Europe and Central Asia Division, Vol. 11, no.1, 01.1999, www.hrw.org 286 Cfr. “Destroying ethnic identity: the Turks of Greece”, Helsinki Watch Report, New York, 1990, pp. 21-22, e “The Turks of Western Thrace”, Human Rights Watch, Europe and Central Asia Division, Vol. 11, no.1, 01.1999, www.hrw.org 287 AHMET SADIK V. GREECE, n. 18877/91, punto 1. 288 AHMET SADIK V. GREECE, n. 46/1995/552/638. 117 consente l'auto-identificazione della minoranza in base a tali caratteristiche viene effettuata (a differenza di quanto è accaduto, con vicende tuttavia molto simili, in altri ordinamenti), piuttosto che con modifiche legislative, soprattutto tramite lo strumento giurisprudenziale. L'art. 19 della legge 3370 e la privazione forzata della cittadinanza Un altro degli ambiti in cui la minoranza turca è stata per molto tempo soggetta ad evidenti discriminazioni, in palese violazione sia delle previsioni costituzionali sia dei trattati internazionali ratificati, è quello della cittadinanza, in ordine non alla sua acquisizione ma al suo vero e proprio mantenimento. La Legge n. 3370, approvata nel 1955, disciplina le questioni relative alla cittadinanza. Il suo articolo 19 prevede quanto segue: “Una persona di origine etnica non greca che lasci la Grecia senza l'intenzione di ritornarvi deve essere dichiarata priva della nazionalità greca. Ciò si applica anche alle persone di origine etnica non greca nate e residenti all'estero. I loro figli minorenni residenti all'estero devono essere dichiarati privi della nazionalità greca se entrambi i genitori o il genitore vivente ne sono stati ugualmente dichiarati privi. Il ministro degli interni decide su queste questioni con l'opinione concorrente del Consiglio nazionale.”289 Innanzitutto, molti autori290 notano come il presente articolo costituisca una chiara violazione sia del Trattato di Losanna, che all'art. 40 tutela l'uguaglianza di fronte alla legge degli appartenenti alla minoranza turca in Grecia e, viceversa, degli appartenenti alla comunità greca di Istanbul, sia dell'art. 4 della Costituzione greca, che ugualmente sancisce l'uguaglianza rispetto alla legge “di tutti i greci” e che sottopone la procedura di privazione della cittadinanza a particolari e gravi condizioni.291 L'articolo di cui si tratta naturalmente non fa alcun riferimento 289 “The Turks of Western Thrace”, Human Rights Watch, Europe and Central Asia Division, Vol. 11, no.1, 01.1999, www.hrw.org 290 Cfr. ad esempio V. ORTAKOVSKI, “Minorities in the Balkans”, Transnational Publishers, Ardsley, 2000, pp. 187 ss., H. POULTON, “Changing notions of national identity among Muslims in Thrace and Macedonia: Turks, Pomaks and Roma”, in H. POULTON, S. TAJI-FAROUKI (a cura di), “Muslim identity and the Balkan State”, Hurst & Company, London, 1997, pp. 82 ss., R. MEINARDUS, “Muslims: Turks, Pomaks and Gypsies”, in R. CLOGG (a cura di), “Minorities in Greece: aspects of a plural society”, Hurst & Company, London, 2002, pp.81 ss., Y. CHRISTIDIS, “The Muslim minority in Greece”, in G. NONNEMAN, T. NIBLOCK, B. SZAJKOWSKI (a cura di) “Muslim communities in the new Europe” Ithaca Press, Reading, 1996. 291 Art. 4 co. 1: “Tutti i Greci sono uguali di fronte alla legge.” Art. 4 co. 3: “Tutte le persone in possesso dei requisiti per la cittadinanza come specificati dalla legge sono cittadini greci. La privazione della cittadinanza greca è permessa solo in caso di acquisizione volontaria di una diversa cittadinanza o in caso di assunzione di funzioni contrarie 118 espresso alla minoranza turca o musulmana. Tuttavia gli stessi autori, oltre agli osservatori internazionali, riportano non pochi esempi di come la disposizione in questione sia stata utilizzata, soprattutto a partire dagli anni '80 ed ancora in epoca molto recente, essenzialmente nei confronti di cittadini greci appartenenti all'etnia turca. In molti casi si tratta di universitari temporaneamente residenti all'estero per ragioni di studio o famiglie emigrate per motivi di lavoro292. La privazione della cittadinanza avviene per mezzo di un provvedimento del Ministero degli Interni, emesso sulla base di un rapporto inviato dalla polizia locale dopo una sommaria indagine presso i vicini ed i conoscenti del cittadino greco di etnia non greca (prevalentemente turca, dunque) temporaneamente assente. Il provvedimento non viene in alcun modo notificato all'interessato, tranne che attraverso la pubblicazione su un quotidiano nazionale. Il soggetto privato della cittadinanza dispone di un termine di due mesi di tempo, a partire dal momento della revoca della cittadinanza, per proporre un ricorso amministrativo: possibilità tuttavia inesistente sul piano pratico, dato che al provvedimento non segue alcuna notificazione o comunicazione all'interessato293. L'articolo 19 della Legge sulla cittadinanza è stato definito uno strumento utilizzato dalle autorità greche “nel tentativo di alterare l'equilibrio demografico in Tracia in favore dell'etnia greca”294. La disposizione è stata abrogata nel 1998; tuttavia all'abrogazione non è stato conferito effetto retroattivo: di conseguenza, i problemi continuano per quegli appartenenti all'etnia turca che rimangono nella “terra di all'interesse nazionale in un paese straniero, alle condizioni e con le procedure più specificamente previste dalla legge.” 292 Cfr. ad esempio il caso della famiglia Ramadanoglu : nel 1990, Hussein Ramadanoglu si trasferì a Francoforte con la moglie e la figlia, alla ricerca di un lavoro. Nel 1992, in Germania, ebbe un secondo figlio. Sia lui che la moglie rinnovarono più volte il proprio passaporto greco al consolato greco di Francoforte. Anche la figlia era in possesso di un passaporto greco valido; il figlio nato in Germania venne registrato attraverso il consolato greco. La famiglia Ramadanoglu si recava regolarmente in Grecia in visita alla famiglia di origine, cui inviava denaro dalla Germania; i contatti erano particolarmente frequenti con i genitori di Hussein, ancora residenti in Grecia. Tuttavia, nonostante i regolari contatti con lo stato greco e con i suoi uffici all'estero, durante una vacanza in Grecia nel 1996, i passaporti vennero confiscati a tutti i membri della famiglia, cui non furono rilasciati nemmeno i documenti che ne attestavano lo staus di apolidi. Il caso è illustrato dettagliatamente in “The Turks of Western Thrace”, Human Rights Watch, Europe and Central Asia Division, Vol. 11, no.1, 01.1999, www.hrw.org . 293 “The Turks of Western Thrace”, Human Rights Watch, Europe and Central Asia Division, Vol. 11, no.1, 01.1999, www.hrw.org , e, più dettagliato,“Destroying ethnic identity: the Turks of Greece”, Helsinki Watch Report, New York, 1990, pp. 18 ss. 294 “The Turks of Western Thrace”, Human Rights Watch, Europe and Central Asia Division, Vol. 11, no.1, 01.1999, www.hrw.org 119 nessuno legale” creata dall'articolo 19295. Con questo metodo, dunque, le autorità greche hanno perseguito fino ad un'epoca molto recente l'obiettivo di neutralizzare la minoranza turca non attraverso la “finzione giuridica” che ne negava l'esistenza attraverso la proibizione dell'autoidentificazione e la sostituzione dell'identità etnica con quella religiosa, ma attraverso un'eliminazione vera e propria dell'etnia turca dal territorio greco, tramite la privazione della cittadinanza dei membri della minoranza turca, che di conseguenza sono costretti o a spostare la propria residenza all'estero o a rassegnarsi ad una “nonesistenza” in territorio greco. Questo meccanismo opera su basi totalmente arbitrarie che contraddicono non solo la Costituzione ed i principi e le norme di diritto internazionale già citati, ma anche la stessa legge 3370. La gestione degli affari religiosi ed il caso Ibrahim Serif L'ambito in questione riguarda più da vicino quegli aspetti della condizione della minoranza turca che attengono più strettamente al culto musulmano: anche l'esercizio dei diritti inerenti alla pratica religiosa, infatti, sebbene questa sia stata privilegiata ed utilizzata dall'ordinamento greco per neutralizzare la questione dell'appartenenza etnica, è stato ostacolato con provvedimenti che miravano ad estendere il controllo statale anche alle cariche religiose, al fine di impedirne l'attività di promozione dell'identità etnica turca. Nel perseguire questo obiettivo le autorità greche hanno modificato leggi esistenti e ratificato prassi tramite l'approvazione di nuove disposizioni normative, sebbene, come di consueto, il testo costituzionale ed i trattati bilaterali ratificati prevedessero esattamente l'opposto. In questo caso si deve sottolineare la violazione di numerose norme di diritto sia greco che internazionale, anche anteriori al Trattato di Losanna. In primo luogo il Trattato di Atene del 1913, concluso a conferma della sovranità 295 Secondo la definizione data da Orhan Haciibram, avvocato nella città di Xanthi e legale di molti dei turchi che si sono visti revocare la cittadinanza; il suo commento è riportato in : “[...]non sono né cittadini greci né rifugiati. Non sono registrati da nessuna parte. Non possono avere una patente di guida né ufficialmente esercitare una professione. Pagano i contributi alla previdenza sociale, ma non viene loro corrisposta una pensione poiché sono privi di documenti di identità. Quando il padre è privo della cittadinanza, [...]il nome del figlio non può apparire nei registri dell'anagrafe comunale. Possono contrarre matrimonio, ma la registrazione del matrimonio non è possibile. Non hanno passaporto, o documenti che certificano il loro status di apolidi. Legalmente, queste persone non esistono.” “The Turks of Western Thrace”, Human Rights Watch, Europe and Central Asia Division, Vol. 11, no.1, 01.1999, www.hrw.org. 120 greca sui territori un tempo dominati dagli ottomani in Epiro, Macedonia e sul mar Egeo, prevede che i mufti, le guide religiose delle comunità islamiche locali, siano eletti dalle popolazioni musulmane nelle regioni citate. Poi, la legge n. 2345 del 1920, il cui art. 6 prevedeva che i mufti venissero eletti dalla popolazione musulmana a partire da una lista di candidati approvata dal Mufti capo, dal Ministro degli affari religiosi e dal governatore generale o dal prefetto della regione. Il Mufti capo, a sua volta, doveva essere designato dalle autorità statali che sceglievano da una rosa di tre nomi proposti dalla totalità dei mufti locali designati o riconosciuti dal governo greco. Infine il Trattato di Losanna, che all'art. 38 tutela la libertà di esercizio dei diritti inerenti la pratica religiosa, mentre all'art. 40 stabilisce il diritto della minoranza musulmana a “stabilire, gestire e controllare a proprie spese ogni istituzione benefica, religiosa e sociale, scuola o altra istituzione per l'educazione e l'istruzione, con il diritto ad utilizzarvi la propria lingua ed a praticarvi liberamente la propria religione.” Nell'epoca precedente il 1985, sebbene la legge 2345 non venisse applicata in modo preciso e completo, governo greco e minoranza musulmana avevano raggiunto una situazione di equilibrio in merito alla questione della nomina delle autorità religiose, che rispettava gli obiettivi delle norme di diritto internazionale appena citate: i leader religiosi della minoranza venivano consultati e spettava a loro nominare le guide religiose locali, che poi venivano confermate nel loro ufficio dalle autorità statali. Tuttavia, le vicende occorse a partire dal 1984 portarono ad una decisa inversione di tendenza da parte del governo greco, ed al processo che vide protagonista il mufti Ibrahim Serif. Nel 1984, alla morte di Hussein Efendi Mustafa, mufti di Komotini, il governo greco nominò mufti ad interim Rustu Ethem, senza consultare la comunità musulmana di Komotini. Quando questi rassegnò le dimissioni, un secondo mufti ad interim venne designato dal governo greco; nel 1990 egli venne confermato nella carica dal Presidente della repubblica greco, nonostante le proteste della comunità musulmana, che nel dicembre 1990 organizzò votazioni non ufficiali, in seguito alle quali vennero eletti mufti Mehmet Emin Aga a Xanthi, ed Ibrahim Serif a Komotini. Nel frattempo il governo greco aveva emesso il decreto legislativo n. 182, con il 121 quale abrogava la precedente legge 2345, che disciplinava l'elezione dei mufti, e modificava totalmente i rapporti tra stato e comunità religiose in questo ambito. Nel gennaio 1991 il decreto legislativo fu sostituito con la legge n.1920, che ne confermava i contenuti: il potere di designare le cariche di mufti passava dalle comunità locali allo stato. L'art. 1 co.5 della legge prevede la seguente procedura: il Segretario generale della regione , designato dallo stato, seleziona una commissione di undici membri che comprende “ufficiali religiosi musulmani ed importanti personalità musulmane del distretto”296. La commissione seleziona una lista di candidati alla carica, che viene inoltrata al segretario generale della regione, il quale a sua volta la trasmette al Ministero dell' educazione e degli affari religiosi. Il ministro effettua la designazione finale, che dovrà essere confermata dal presidente della repubblica. Inoltre, l'art. 5 della legge sottrae alle competenze dei mufti il controllo e la gestione dei beni vakif, cioè destinati a scopi benefici in favore della comunità e delle fondazioni caritative gestite dalle autorità religiose: un altro cambiamento a dir poco drastico rispetto alla legge 2345. Infine, è opportuno sottolineare anche la disposizione contenuta all'art. 7, che prevede che tutta la corrispondenza scritta tenuta dai mufti nell'esercizio delle loro funzioni si svolga in greco. In sostanza, quella che era iniziata nel 1984 come prassi provvisoria viene ratificata da una legge nel 1990, legittimando così l'atteggiamento delle autorità nei confronti della gestione degli affari religiosi da parte della comunità musulmana. Aga e Serif, in seguito all' “elezione alternativa” del 1990, continuarono a svolgere normalmente le funzioni riservate ai mufti. Di conseguenza vennero entrambi incriminati per i reati previsti agli artt. 175 e 176 del Codice penale greco 297, cioè per “usurpazione delle funzioni di un ministro di una religione riconosciuta” e per aver pubblicamente indossato l'abito di un ministro del culto senza averne il diritto298. La 296 “The Turks of Western Thrace”, Human Rights Watch, Europe and Central Asia Division, Vol. 11, no.1, 01.1999, www.hrw.org. 297 Art. 175: “Chiunque usurpi intenzionalmente le funzioni di un ufficiale statale o municipale è soggetto ad una pena detentiva non superiore ad un anno o ad una multa. Questa previsione si applica anche nel caso in cui una persona usurpi la funzione di avvocato o di ministro della Chiesa Ortodossa Greca o di un'altra religione riconosciuta.” Art. 176: “Chiunque indossi pubblicamente l'abito o le insegne di un ufficiale municipale o statale o di un ministro del culto come individuato all'art. 175. 2 senza averne il diritto [...]è soggetto ad una pena detentiva non superiore ai sei mesi o ad una multa.” 298 “ [Serif] aveva svolto [...]le funzioni di mufti di Rodopi celebrando matrimoni, 'cresimando' bambini pregando e d impegnandosi in attività amministrative. [...]Inoltre la corte ritenne che il ricorrente avesse ripetutamente indossato l'abito ufficiale del mufti in pubblico.” SERIF V. 122 Corte di Cassazione, inoltre, temendo sollevazioni popolari a Rodopi, sede naturale del processo, ne ritenne opportuna la rimessione, ordinandone lo spostamento di sede da Rodopi al Tribunale penale di Salonicco, che nel dicembre 1994 condannò gli imputati ad otto mesi di reclusione per i reati contestati. Serif appellò la sentenza, che tuttavia venne confermata dalla Corte d'appello di Salonicco, che la convertì però in pena pecuniaria, che Serif pagò facendo però ricorso alla Corte di Cassazione, la quale a sua volta, nell'aprile del 1997, rigettò il ricorso ritenendo corretta l'applicazione degli artt. 175 e 176 del Codice penale greco. Serif fece ricorso all Corte europea dei diritti dell'uomo nel 1997, sostenendo l'esistenza di una violazione, da parte del governo greco, del proprio diritto a manifestare la propria religione “In comunità con altri ed in pubblico [...] attraverso il culto e l'insegnamento”, e della propria libertà di espressione, tutelati rispettivamente agli artt. 9 e 10 della CEDU. La Corte accoglie il ricorso di Ibrahim Serif per quanto riguarda la violazione dell'art. 9 della Convenzione: “[...]punire una persona per aver semplicemente agito come leader di un gruppo religioso che lo segue volontariamente può difficilmente essere considerato compatibile con la domanda di pluralismo religioso in una società democratica.299 [...]Non c'è nessuna indicazione che il ricorrente abbia tentato in qualsiasi momento di esercitare le funzioni giudiziarie ed amministrative disciplinate dalla legislazione sui mufti e sui ministri di altre religioni riconosciute. Per il resto, la Corte non ritiene che, in una società democratica, lo Stato abbia bisogno di prendere misure allo scopo di assicurare che le comunità religiose rimangano o vengano condotte sotto una leadership unitaria300. [...]il ruolo delle autorità in tali circostanze non è quello di rimuovere le cause della tensione eliminando il pluralismo, ma di assicurare che i gruppi in competizione si tollerino a vicenda.301” In conclusione, la Corte ritiene che la condanna di Serif sulla base dei citati articoli del Codice penale non sia giustificata da un'effettiva situazione di “pressanti GREECE JUDGMENT, n. 38178/97, punti 13-16. 299 SERIF V. GREECE JUDGMENT, n. 38178/97, punto 51. 300 SERIF V. GREECE JUDGMENT, n. 38178/97, punto 52. 301 SERIF V. GREECE JUDGMENT, n. 38178/97, punto 53. La stessa osservazione è contenuta nella sentenza SUPREME HOLY COUNCIL OF THE MUSLIM COMMUNITY v. BULGARIA JUDGMENT, n.39023/97, punto 96, che riguarda una vicenda simile avvenuta in Bulgaria più o meno nello stesso periodo. 123 necessità sociali” e che quindi non risulti “necessaria in una società democratica302”. La questione delle corti islamiche ed il diritto ad un giusto processo Nell'analizzare la questione, oltre a sottolineare il brusco cambiamento che ha caratterizzato l'atteggiamento dello stato greco nei confronti delle cariche religiose musulmane, è opportuno tenere presente il particolare statuto che caratterizza la comunità musulmana della Tracia: essa gode di un sistema giudiziario sui generis,che radica le proprie origini nel sistema di autonomie religiose istituite dall'impero ottomano. Infatti, le questioni di diritto civile riguardanti le successioni o il diritto di famiglia in cui siano coinvolti cittadini greci di religione musulmana rientrano nella giurisdizione dei mufti locali, i quali in questi casi si sostituiscono ai tribunali civili greci applicando il diritto sciaraitico. Il funzionamento di queste corti islamiche, presiedute dai mufti, è stato disciplinato fino agli anni '90 dalla già citata legge 2345 del 1920, coordinata con le disposizioni del Codice di procedura civile303. Anche dopo la riforma del 1990 la struttura dei tribunali islamici è rimasta invariata, sebbene fosse cambiata radicalmente la procedura di designazione delle cariche religiose. La giurisdizione dei tribunali di diritto islamico, tuttavia, nel dettato normativo è sempre stata considerata come parallela all'applicazione delle norme civili da parte dei tribunali greci, così da consentire ai cittadini musulmani di scegliere se rivolgersi alla giurisdizione del mufti o a quella del giudice civile greco. Tuttavia, l'atteggiamento dell'ordinamento greco nei confronti della minoranza musulmana si è espresso anche in questo caso attraverso lo strumento della giurisprudenza: fino a tempi molto recenti, infatti, i tribunali civili greci, declinando la propria competenza nei casi in questione, hanno seguito un orientamento comune nel negare sistematicamente ai cittadini greci di religione musulmana (e, si può aggiungere, con tutta probabilità di etnia turca) il diritto di sottoporre i casi che li riguardavano alla giurisdizione civile greca, rendendo in questo modo “obbligatorio” per i musulmani il ricorso alle corti sciaraitiche.304 La procedura di fronte al tribunale 302 SERIF V. GREECE JUDGMENT, n. 38178/97, punto 54. 303 Cfr. K. TSITSELIKIS, “Personal status of Greece's Muslims”, in R. ALUFFI BECKPECCOZ, G. ZINCONE (a cura di) “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, pp. 115 ss. 304 Cfr. Tribunale di primo grado di Atene, sentenza 16613/1981; Corte di Cassazione, sentenza 1723/1980, cit. in K.TSITSELIKIS, “Personal status of Greece's Muslims”, in R. ALUFFI BECK- 124 islamico è piuttosto semplice: non è regolata da alcuna disciplina specifica e la difesa tecnica non è obbligatoria. Vigono antiche regole consuetudinarie che dipendono in grande misura dalle abitudini e dalla volontà del mufti. Non è previsto un controllo sul merito della decisione, dato che non esiste un tribunale di appello islamico. La sentenza del mufti è sottoposta al solo controllo di legittimità ad opera del Tribunale civile di primo grado del medesimo distretto, che è inoltre competente per il controllo di legittimità costituzionale della decisione del mufti. Date queste premesse, le questioni relative alla compatibilità di questo doppio sistema con il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, tutelato all'art. 4 della Costituzione greca, e con il diritto ad un giusto processo, garantito dall'art. 6 della CEDU, rasentano l'ovvietà: l'assenza di rimedi relativi al merito della decisione; la concreta impossibilità di effettuare un reale controllo di legittimità costituzionale da parte di un tribunale civile probabilmente digiuno delle più elementari nozione di diritto islamico; il fatto che il mufti sia un funzionario rappresentante dell'esecutivo, in quanto designato dal governatore della regione, e non un giudice indipendente305; la totale assenza di norme che disciplinino gli eventuali conflitti tra norme coraniche e leggi civili, sia procedurali che sostanziali; tutte queste problematiche costituiscono evidenti violazioni dei diritti fondamentali degli appartenenti alla comunità musulmana della Tracia, soprattutto in quanto appartenenti all'etnia turca, secondo una tendenza dell'ordinamento greco nei confronti di questa minoranza dimostrato in più di una occasione e con i metodi illustrati in queste pagine. 5.4 Valutazioni In sostanza, l'atteggiamento delle autorità greche nei confronti dei rappresentanti del culto musulmano a partire dagli anni '80 in poi mira essenzialmente a ridurne il più possibile l'autonomia a favore di un controllo statale diffuso sia sulle procedure di PECCOZ, G. ZINCONE (a cura di) “The legal treatment of Islamic minorities in Europe”, Peeters, Leuven, 2004, p. 116, nota 22. 305 Non lo sarebbe stato in ogni caso nemmeno durante la vigenza della legge 2345, che prevedeva la sua elezione da parte dei membri della comunità: questo meccanismo avrebbe in ogni caso contraddetto le previsioni costituzionali sull'indipendenza del giudice. 125 nomina sia nella fase successiva della gestione degli affari religiosi. Per quale motivo, dato che il fattore dell'appartenenza religiosa è sempre stato sostenuto e promosso, essenzialmente allo scopo di sostituire il fattore etnico? L'ingerenza delle autorità governative nelle questioni religiose, estesa fino alla nomina di funzionari non musulmani alla guida delle comunità islamiche locali 306, dimostra le stesse finalità perseguite con le altre iniziative intraprese dalle istituzioni greche negli ultimi decenni: impedire alle comunità di eleggere i propri rappresentanti e le proprie guide religiose ha sin dall'inizio significato, come notano alcuni osservatori internazionali, impedire ai mufti di promuovere la consapevolezza dell'esistenza di un'appartenenza etnica turca all'interno delle comunità musulmane. Dunque il fattore dell'appartenenza religiosa va analizzato in due prospettive: da un lato, come elemento di negazione e strumento di neutralizzazione dell'appartenenza etnica, con i metodi illustrati nei precedenti paragrafi; d'altro canto, come strumento di controllo della minoranza stessa, tramite lo spostamento di alcune competenze fondamentali, riguardanti le cariche religiose e la gestione degli affari attinenti al culto, tra i poteri dell'esecutivo greco; a ciò si collega la questione delle competenze giurisdizionali ed il rapporto tra giurisdizione civile e competenze delle corti islamiche, elementi a loro volta utilizzati in funzione discriminatoria. Per affrontare la questione della rappresentanza istituzionale dei musulmani in Tracia, dunque, sarebbe prima necessario risolvere le problematiche legate alla negazione dell'esistenza stessa della minoranza e delle sue caratteristiche etniche oltre che religiose; se le istituzioni greche persistono nel rifiuto del riconoscimento nei confronti della minoranza turca, risulta piuttosto difficile prevedere un assetto normativo che garantisca la presenza ufficiale della minoranza stessa, in quanto tale, all'interno delle istituzioni stesse. 306 Cfr. Assemblea generale delle Nazioni Unite, Interim Report of the Special Rapporteur “Human Rights questions:human rights questions, including alternative approaches for improving the effective enjoyment of human rights and fundamental freedoms” A/51/542/Add.1, 7.11.1996; “Destroying ethnic identity: the Turks of Greece”, Helsinki Watch Report, New York, 1990; “The Turks of Western Thrace”, Human Rights Watch, Europe and Central Asia Division, Vol. 11, no.1, 01.1999, www.hrw.org 126 CAPITOLO VI MACEDONIA 6.1 Religione come identità: cristiani ortodossi e musulmani, l'influenza del millet L'Impero ottomano dominò la Macedonia per cinque secoli, dalla fine del quattordicesimo fino allo scoppio delle guerre balcaniche all'inizio del ventesimo. La conquista ottomana portò nei Balcani, e di conseguenza anche nel territorio macedone, un grande numero di occupanti turchi, o perlomeno di lingua turca e, con loro, l'islam. Alle conquiste seguì la conversione alla religione musulmana di parti della popolazione piuttosto consistenti: nel caso della Macedonia si trattava di gran parte delle etnie albanese e rom, in misura maggiore rispetto alle popolazioni greca e di lingua slava. L'islam, durante la dominazione ottomana, rappresentò il culto maggioritario e privilegiato, poiché corrispondente alla religione praticata non solo dalla maggior parte della popolazione dell'impero, ma anche e soprattutto dai sultani. Dunque l'impero ottomano era uno stato islamico e la sua popolazione era suddivisa non per etnia o lingua, ma per affiliazione religiosa , secondo un sistema basato sulla separazione dei gruppi. Come nelle altre aree dell'impero, nella regione della Macedonia ne coesistevano di differenti: il millet (o, letteralmente, comunità) musulmano, privilegiato poiché i sultani ottomani erano, naturalmente, di religione islamica, il millet ebreo, ed anche i millet cristiani307, tra i quali spiccava per 307 Ebrei e cristiani facevano parte delle “genti del libro” o Dhimmi: la loro autonomia, soprattutto dal punto di vista amministrativo, era assicurata tramite il pagamento di speciali tributi che permettevano loro di mantenere un certo grado di indipendenza all'interno del Dar-al -Islam, il territorio abitato dalle popolazioni islamiche. Così, ad esempio, soprattutto i millet cristiani si garantivano la libertà dalle ingerenze imperiali garantendo regolarmente alla corte ottomana un 127 importanza ed autonomia quello ortodosso, che anzi per molto tempo fu l'unica comunità cristiana presente nell'area, nettamente contrapposta a quella islamica. Per le popolazioni ortodosse dell'area balcanica il millet era controllato dal Patriarcato greco di Costantinopoli; la sola chiesa autocefala era all'epoca quella serba, che perse la propria autonomia nel XVIII secolo. Al controllo da parte del Patriarcato seguì dunque l'ellenizzazione di molte popolazioni macedoni, soprattutto attraverso la gestione dell'istruzione pubblica. A Costantinopoli spettava la piena giurisdizione sulla comunità ortodossa riguardo le questioni matrimoniali, il diritto di famiglia e, più in generale, sulle cause civili in cui non fosse implicato un musulmano; tra le funzioni del Patriarca era annoverata anche quella di fungere da garante per il pagamento della tassa di capitolazione308 dovuta da tutte le comunità non musulmane. Tra il Patriarca ed il sultano dunque si creava una relazione basata sulla responsabilità personale del capo del millet ortodosso, il quale assumeva la duplice funzione di vicario del sultano e di garante della fedeltà della comunità. Di conseguenza, all'insolvenza succedeva solitamente l'immediata deposizione e sostituzione del Patriarca309. I millet cattolico e protestante invece furono creati solo dopo il 1800, con il processo di riforma e secolarizzazione voluto dal governo ottomano e chiamato Tanzimat310, che portò non poche conseguenze anche nel sistema dei millet. La dominazione ottomana lasciò anche nella regione macedone, come in tutto il territorio balcanico, profonde tracce del suo passaggio. Dopo la disgregazione dell'impero anche la Macedonia geografica, frammentata tra Grecia, Bulgaria, Serbia, Albania, mantenne le strutture inculcate in epoca ottomana con l'istituzione del millet, cioè la suddivisione della popolazione in comunità distinte secondo certo numero di giovani maschi destinati al corpo militare dei janissari e alla conversione all'islam. 308 Vedi note 1 e 3. 309 Cfr. E. MORINI, “Gli ortodossi: l'oriente dell'occidente”, Il Mulino, Bologna, 2002, pp.67 ss. 310 La riforma prevedeva la secolarizzazione e la burocratizzazione delle istituzioni, soprattutto dei tribunali e dell'istruzione, e introduceva il concetto di parità religiosa per tutti i sudditi dell'impero ottomano, soprattutto per ciò che riguardava lo svolgimento dei processi penali : nel nuovo codice penale, promulgato nel 1840, questa previsione costituiva uno degli elementi di maggiore innovazione. Un evento di grande importanza fu anche l'abolizione nel 1855 dell'imposta pro-capite cui erano sottoposti tutti i sudditi non musulmani dell'impero. Le popolazioni Dhimmi iniziarono anche ad essere ammesse alle cariche governative; l'unica carriera a loro preclusa rimase quella militare. Cfr. H. POULTON, “Who are the Macedonians?” , Hurst & Company, London, 2000. 128 l'appartenenza religiosa e caratterizzate da un forte grado di autonomia governativa e d amministrativa311: al contrario di ciò che si potrebbe dedurre dall'intensa ondata di conversioni immediatamente successiva all'arrivo delle popolazioni turche nei Balcani, l'impero ottomano mantenne una politica di non-assimilazione che evitando le distinzioni sulla base dell'etnia e della lingua permetteva ai diversi popoli inglobati nell'impero di mantenere pressoché intatte le loro identità e culture precedenti. I due grandi poli di attrazione per la costruzione di un'identità condivisa e formalmente riconosciuta, dunque, nel caso macedone si rivelano essere due: la fede islamica e la religione greco-ortodossa312. Fino al dopo il 1800 il sistema dei millet aveva posto infatti la popolazione ortodossa della Macedonia sotto la giurisdizione del Patriarcato di Costantinopoli, favorendo in questo modo la costruzione in parallelo e la sovrapposizione al fattore religioso di un'identità e di un'appartenenza greca, che resistette alla rivoluzione del Tanzimat e divenne definitiva quando i millet iniziarono ad essere identificati come raggruppamenti etnici o nazionali. Per quanto riguarda le popolazioni di fede musulmana stanziate nella regione macedone invece, la sovrapposizione etnia-religione è un po' più difficile313, poichè la popolazione di fede islamica della Macedonia non corrisponde ad un'unica etnia. Infatti oltre all'etnia albanese, quasi totalmente di fede musulmana e alla quale appartiene la maggior parte dei musulmani macedoni, è totalmente di fede islamica la minoranza turca presente sul territorio macedone, lo è parte dell'etnia rom e lo sono i Torbeshi, popolazione macedone convertita all'islam durante il periodo ottomano.314 Non dimentichiamo che la Macedonia fu parte della federazione jugoslava fino agli 311 Per una ricostruzione approfondita della storia macedone cfr. H. POULTON, “Who are the Macedonians?” , Hurst & Company, London, 2000. 312 Appartenenza religiosa che sarebbe stata, nelle epoche successive, contrassegnata da un crescente grado di autonomia, dato che la chiesa ortodossa macedone sarebbe divenuta inseguito autocefala, sottraendosi così sia al controllo del Patriarcato di Costantinopoli che della chiesa ortodossa serba. 313 Nonostante alcuni autori operino automaticamente l'identificazione tra comunità musulmana ed etnia albanese. Cfr. ad esempio R.W. MICKEY, “Citizenship, status, and minority political participation: the evidence from the Republic of Macedonia” in G. NONNEMAN, T. NIBLOCK, B. SZAJKOWSKI (a cura di) “Muslim communities in the new Europe” Ithaca Press, Reading, 1996. 314 “Major differences exist between the four ethnic groups within the Muslim population in FYROM. Coupled with the Orthodox-Muslim divide,this has contributed to a situation where there are sharp feelings of distinctiveness and distance among all the country's various ethnic and religious groups.” N. GABER, “The Muslim population in FYROM: public perceptions”, in H. POULTON, S. TAJI-FAROUKI (a cura di), “Muslim identity and the Balkan State”, Hurst & Company, London, 1997, p.104. 129 anni '90: la costituzione jugoslava del 1974 riconosce ai Musulmani lo status di “nazionalità” separata ed equiparata alle altre, Croati, Macedoni, Montenegrini, Serbi, Sloveni315. Per quel che riguarda la Macedonia però il termine non si riferisce (perlomeno non solo) alla popolazione albanese, musulmana nella quasi totalità dei casi316, o alle minoranze turche, ma anche e soprattuto a quei discendenti degli Slavi da cui la Jugoslavia ha preso il proprio nome, che si convertirono all'islam all'arrivo dell'impero ottomano, e che in Macedonia sono denominati appunto Torbeshi, un gruppo piuttosto esiguo, non turco, né albanese, accomunato dall'appartenenza religiosa e come tale riconosciuto, ancora al tempo della confederazione jugoslava, dalle norme costituzionali. Questo però non vale solo per la Macedonia: la “nazionalità” musulmana era riconosciuta come tale nell'intera confederazione. Che cosa accadde dopo la dissoluzione della Jugoslavia? Vedremo in seguito come sarebbe cambiato l'approccio alla questione nella costituzione della Repubblica macedone del 1991. La comunità musulmana macedone ebbe invece un organo ufficiale che la rappresentasse a livello istituzionale solo a partire dal 1970: in quell'anno avvenne infatti la prima riunione dell'associazione dei Musulmani di Macedonia, i cui rapporti con la comunità albanese, rappresentata dal Partito per la prosperità democratica della Macedonia (PDP) furono sin dall'inizio caratterizzati da una certa ambiguità, ed in particolare dalla tendenza del partito rappresentativo dell'etnia albanese ad utilizzare la comune appartenenza alla fede islamica per assorbire anche la rappresentanza di quelle minoranze musulmane che non potevano certo dirsi appartenenti all'etnia albanese. Dunque la situazione della comunità islamica macedone, il cui riconoscimento dal punto di vista giuridico è garantito, con il passare del tempo, da diversi strumenti normativi, che vedremo, si presenta sin dall'inizio come piuttosto complessa e caratterizzata in primo luogo da una forte contrapposizione con la comunità 315 “This apparent confusion over identity of the different Muslim groups shows [...] that in the Balkans religion has often been of paramount importance in ethnic differentiation”. Così H. POULTON, “Who are the Macedonians?” , Hurst & Company, London, 2000, p.122. 316 L'etnia albanese era stata infatti collocata (ed era la più numerosa) tra i gruppi nazionali ai quali, sebbene più numerosi delle sei nazionalità principali, avendo una madrepatria al di fuori del territorio jugoslavo, non potevano essere riconosciuti lo stesso status e gli stessi diritti delle sei nazionalità citate nell'ambito della rappresentanza. Cfr. H. POULTON, “Who are the Macedonians?” , Hurst & Company, London, 2000, p.122, nota 18. 130 ortodossa, in secondo luogo da un elevato grado di frammentazione interna. 6.2 Essere musulmani, essere albanesi: quando appartenenza religiosa e appartenenza etnica coincidono? L'etnia albanese è di gran lunga la minoranza più consistente presente sul territorio macedone. Nella costituzione del 1974 non viene annoverata tra le sei nazionalità principali (tra le quali figurano invece i musulmani) ma tra i gruppi nazionali che, facendo riferimento ad una madrepatria esterna al territorio della confederazione jugoslava, non godono delle stesse garanzie nell'ambito della rappresentanza ma cui vengono riconosciuti numerosi diritti in campo linguistico e culturale. Con la costituzione della confederazione jugoslava, dunque, nel caso macedone viene almeno formalmente evitata la confusione tra etnia ed appartenenza religiosa che si verifica, per esempio, con la sovrapposizione dell' etnia bosniaca alla popolazione di religione musulmana di quell'area317. Anzi, l'associazione dei Musulmani macedoni, sin dall'inizio della propria attività, lamenta una tendenza all'assimilazione da parte della maggioranza musulmana ( cioè albanese) della repubblica rispetto alle popolazioni di religione islamica meno numerose, come quella turca318 o quella rom319. 317 Cfr. il capitolo sulla Bosnia-Erzegovina. 318 In realtà, molti macedoni di origine turca e di religione musulmana in un censimento risalente al 1948 dichiararono di appartenere all'etnia albanese per evitare di essere indagati o processati con l'accusa di partecipazione alle attività dell'associazione terroristica turca Judzel. Cfr. N. GABER, “The Muslim population in FYROM: public perceptions”, in H. POULTON, S. TAJI-FAROUKI (a cura di), “Muslim identity and the Balkan State”, Hurst & Company, London, 1997, p. 106, e H. POULTON, “Who are the Macedonians?” , Hurst & Company, London, 2000, pp. 104 ss. 319 La popolazione rom fu soggetta all'assimilazione nell'etnia albanese, sulla base soprattutto della comune fede musulmana, fino al riconoscimento come nazionalità separata nella costituzione della repubblica macedone del 1991. Alcuni autori a questo proposito parlano di “incertezza etnica” di molti cittadini macedoni, specialmente nelle aree dove la comunità musulmana albanese è più presente e organizzata. Cfr. N. GABER, “The Muslim population in FYROM: public perceptions”, in H. POULTON, S. TAJI-FAROUKI (a cura di), “Muslim identity and the Balkan State”, Hurst & Company, 131 La costituzione jugoslava del 1974, dunque, riconosce la popolazione albanese all'interno del territorio della confederazione identificandola in base all'etnia e non in base al culto praticato. La fede islamica, però, gioca un ruolo fondamentale, sebbene non formalizzato in previsioni legislative, nella definizione dell'identità albanese e dei suoi tratti distintivi; anzi, nonostante ciò non si possa ravvisare in alcuna previsione normativa, è costantemente indicata come uno strumento nella costruzione del nazionalismo albanese e nella sua diffusione, e, di converso, come modo per assimilare all'interno del gruppo etnico albanese comunità numericamente meno consistenti, accomunate dall'appartenenza all'islam ma di diversa nazionalità320. Un esempio del ruolo che l'islam ha avuto nel processo di costruzione dell'identità della comunità albanese in Macedonia è dato dalle questioni sorte nell'ambito dell'istruzione primaria: nel corso degli anni '80 l'istruzione secondo i precetti islamici conobbe una grandissima diffusione tra la popolazione di etnia albanese. Molto spesso essa si svolgeva in arabo, o addirittura all'estero, in paesi orientali; la comunità albanese arrivò a scontrarsi con le autorità del governo jugoslavo nel momento in cui iniziarono ad essere violate le leggi sull'istruzione primaria, poiché si impediva alle bambine in età scolare di frequentare la scuola dell'obbligo.321 Questi fenomeni ebbero come conseguenza immediata una modifica della legge sull'istruzione religiosa, tramite un emendamento che rendeva illegale la frequenza a tali corsi di studio fino al quindicesimo anno di età; questo allo scopo di controllare maggiormente la crescente influenza della religione musulmana alla quale, soprattutto all'interno della comunità albanese, veniva conferito un forte valore identitario. Questo non fu l'unico provvedimento adottato nei confronti dell'etnia albanese 322; la London, 1997, p. 106, e H. POULTON, “Who are the Macedonians?” , Hurst & Company, London, 2000, pp. 140 ss. 320 Processo in parte facilitato da quella che viene definita “ethnic uncertainty of many Muslim citizens [...]especially in areas dominated by highly nationalistic Muslim Albanians” da H. POULTON, “Who are the Macedonians?” , Hurst & Company, London, 2000, p. 141. 321 “[...]in SR Macedonia the authorities saw Islam as a tool of Albanian nationalism and as a way for the Albanians to assimilate other smaller Islamic minority groups like the Turks, Torbeshi and Muslim Roma. [...]in some villages where Muslaim Macedonians live, hodzas who preach in Albanian had been appointed.” H. POULTON, “Who are the Macedonians?” , Hurst & Company, London, 2000, pp. 130 ss. 322 Molti altri provvedimenti vennero adottati soprattutto nell'ambito dell'istruzione: in particolare, una Legge sull'istruzione secondaria del 1985 prevedeva la possibilità di svolgere le 132 modifica della legge sull'istruzione religiosa faceva infatti parte di una campagna, condotta dalle autorità macedoni nel corso degli anni '80 e detta di “differenziazione”, che comprendeva, oltre all'emendamento citato, altre diverse misure legali mirate a tenere sotto controllo lo svilupparsi del nazionalismo albanese, tramite provvedimenti normativi che andavano dalle limitazioni sull'uso di alcuni nomi di battesimo, al divieto di vendita di proprietà nella regione occidentale della Repubblica per evitare che potenziali acquirenti albanesi le acquistassero allo scopo di formare dei territori etnicamente omogenei, all'adozione di una Risoluzione sulla politica demografica per contrastare l'espansione della comunità albanese323. Si può osservare dunque che la religione musulmana divenne senza dubbio in quel periodo un attributo dell'identità nazionale albanese, e che nel caso macedone fu soggetta a limitazioni in quanto tale: non a caso le particolari restrizioni citate riguardarono soprattutto l' insegnamento della religione come parte della formazione delle nuove generazioni, e non invece la pratica del culto in sé324. Sovrapposizioni e accuse di “assimilazione” si riscontrano anche nell'ambito della rappresentanza parlamentare: dopo l'adozione della legge sui partiti politici, che permetteva la formazione di schieramenti basati sull'appartenenza nazionale o l'etnia, nel 1990 ne vennero formati circa quindici a base etnica albanese; tra questi emerse immediatamente per importanza il già citato Partito per la prosperità democratica della Macedonia (PDP), il quale, a dispetto del nome privo di riferimenti etnici era indicato come il partito maggiormente rappresentativo della popolazione albanese, legato al partito della Lega albanese democratica del Kosovo, questo sì a base prevalentemente ed apertamente etnica. Tuttavia il PDP raccoglieva consensi anche tra la popolazione di religione musulmana appartenente ad altre etnie325, la quale lezioni in una lingua diversa dal macedone solo nel caso in cui vi partecipassero più di trenta studenti di quella particolare nazionalità e solo con la presenza di insegnanti adeguatamente qualificati. La legge fu applicata con modalità particolarmente rigide nei confronti dell'etnia albanese, portando ad un forte aumento dei casi di abbandono scolastico tra la popolazione albanese. Cfr. H. POULTON, “Who are the Macedonians?” , Hurst & Company, London, 2000, pp. 120 ss., e V. ORTAKOVSKI, “Minorities in the Balkans”, Transnational Publishers, Ardsley, 2000, p. 280. 323 “In February 1988, the Assembly of Macedonia confirmed that the legal masures undertaken were justified and [...] should halt the activities of the Albanian nationalists and separatists.” V. ORTAKOVSKI, “Minorities in the Balkans”, Transnational Publishers, Ardsley, 2000, p. 281. 324 La quale fu comunque drasticamente ridimensionata a partire dal governo di Tito; questo tuttavia non riguarda solo la comunità albanese macedone, ma tutti i culti praticati nella confederazione. 325 Etnie le quali, in ogni caso, erano riconosciute dalla confederazione jugoslava come 133 però si sentiva ugualmente rappresentata grazie alla comune appartenenza all'islam326. Questa tendenza “assimilatoria” può essere annoverata tra i fattori che diedero il via alla campagna di “differenziazione” voluta dal governo macedone nel corso degli anni '80 e che si svolse attraverso l'adozione delle previsioni normative citate in precedenza. Essa si manifestò sia nei confronti delle ridotte minoranze dei Torbeshi e dei rom musulmani, i quali venivano invitati a dichiararsi di etnia albanese dai leader del PDP, sia nei confronti della numerosa popolazione turca, seconda minoranza macedone dopo quella albanese. Le autorità macedoni rivolsero alla comunità albanese, ed in particolare al PDP, accuse di “albanesizzazione forzata” della popolazione turca, indicando questa tendenza come la causa principale della massiccia emigrazione di numerose famiglie turche dalla Macedonia alla Turchia327. Dunque si può affermare che prima dell'approvazione della nuova Costituzione nel 1991, sebbene dal punto di vista normativo l'etnia albanese si trovi nella stessa posizione rispetto alle altre popolazioni di religione musulmana, per quanto riguarda la rappresentanza all'interno delle istituzioni e nella vita pubblica essa sia preponderante e tenda ad assimilaare i gruppi più piccoli; proprio l'islam, la comune appartenenza religiosa, diviene in questo caso lo strumento attraverso il quale si persegue questo obiettivo, a dispetto delle norme costituzionali e del riconoscimento degli stessi diritti e facoltà anche a Turchi, Torbeshi e Rom. 6.3 La Costituzione del 1991: un approccio laico? L'8 settembre 1991 un referendum popolare decise l'indipendenza della Repubblica di Macedonia. La nuova Costituzione entrò in vigore nel novembre dello stesso anno; al suo interno troviamo da un lato numerose disposizioni che riguardano lo status delle nazionalità presenti nel territorio macedone, dall'altro norme che sanciscono minoranze nazionali al pari di quella albanese e godevano dei medesimi diritti in ambito linguistico, culturale, scolastico. 326 H. POULTON, “Who are the Macedonians?” , Hurst & Company, London, 2000, p.134. 327 “Between the Yugoslav censuses of 1971 and 1981, the number of declared Turks dropped from 108.552 to 86.690. Such a decline was the more surprising given the high birthrate of ethnic Turks in Macedonia, from which an increase of some 20.000 in the period might have been expected rather than a decrease of tat number. It appeared that many who had previously claimed to be Turks were now calling themselves Muslims and other Albanians or Roma.” Così H. POULTON, “Who are the Macedonians?” , Hurst & Company, London, 2000, pp. 138 ss. 134 chiaramente il principio della libertà religiosa. Vediamo che cosa prevede, in merito alle questioni etnica e religiosa, la prima versione del testo costituzionale, datata appunto 1991. Cominciamo dal Preambolo: esso proclama che “[...]la Macedonia è costituita come lo stato nazionale del popolo macedone, che assicura completa uguaglianza ai propri cittadini ed una coesistenza duratura del popolo macedone con gli albanesi, i turchi, i valacchi, i rom e le altre nazionalità che vivono nella repubblica di Macedonia.” Tra i fini perseguiti con la Costituzione adottata, troviamo anche, sempre nel Preambolo, al terzo punto dell'elenco, “la garanzia dei diritti umani, delle libertà dei cittadini e dell'uguaglianza etnica” ed al quarto punto “il provvedere alla pace e ad una casa comune per il popolo macedone con le nazionalità che abitano la Repubblica di Macedonia”. Dunque già dal Preambolo i gruppi etnici definiti con il nome di “nazionalità” sono posti, per quel che riguarda il riconoscimento dei diritti fondamentali, sullo stesso piano rispetto alla popolazione di etnia macedone: un atteggiamento diverso, dunque, rispetto alla Costituzione del 1974, la quale distingueva due diversi ordini di etnie, alcune riconosciute come “costituenti” la confederazione jugoslava, ed altre, più numerose, alle quali venivano riconosciuti alcuni diritti culturali e linguistici, ma che, essendo associate ad una madrepatria esterna alla confederazione, non godevano certo delle stesse garanzie per quanto riguardava la rappresentanza nelle istituzioni statali e federali328. Nella Costituzione del 1991 vengono invece posti sullo stesso piano, in una condizione di teorica totale uguaglianza, il popolo macedone, sin da prima dell'indipendenza nazionalità “costituente”, ed etnie fino ad allora considerate parte di un ordine minore. Non solo: l'elenco non è tassativo, prevedendo un generico “altre nazionalità” oltre a quelle espressamente citate. Inoltre, non si fa riferimento all'appartenenza religiosa per l'identificazione di alcuna delle nazionalità elencate, a 328 Poulton, descrivendo questa bipartizione nella Costituzione del 1974, parla di “descending order of recognised rights”. Tra le prime rientrano le popolazioni croata, macedone, montenegrina, musulmana, serba e slovena. Il secondo ordine è costituito invece dalle popolazioni albanese (la più numerosa), bulgara, ceca, ungherese, italiana, rom, rumena, rutena, slovacca, turca. Era previsto anche un terzo gruppo sotto la voce “altre nazionalità e gruppi etnici”. Cfr. H. POULTON, “Who are the Macedonians?” , Hurst & Company, London, 2000, p. 123, nota 17. 135 differenza di quanto avveniva nella Costituzione del 1974329. All'articolo 8 , tra i “valori fondamentali dell'ordine costituzionale della Repubblica di Macedonia”, è compresa anche la “libera espressione dell'identità nazionale”330, concetto meglio esplicitato all'articolo 48, in particolare nei primi due commi: “I membri delle nazionalità hanno il diritto di esprimere, promuovere e sviluppare le loro qualità nazionali. La Repubblica garantisce la protezione dell'identità etnica, culturale, linguistica e religiosa delle nazionalità”. Seguono due commi nei quali si sottolineano soprattutto le garanzie in ordine alle istituzioni culturali ed all'istruzione come strumenti dello sviluppo dell'identità nazionale. L'articolo 9 invece garantisce il principio di uguaglianza nelle libertà dei cittadini senza distinzioni di genere, razza, colore della pelle, origine nazionale e sociale, credo politico o religioso, status socioeconomico. L' articolo 19 ci introduce più direttamente all'ambito delle libertà religiose: “? garantita la libertà di professare la propria confessione religiosa. É garantito il diritto di esprimere la propria fede liberamente e pubblicamente, individualmente o insieme ad altri. La Chiesa Ortodossa macedone ed altre comunità o gruppi religiosi sono liberi di fondare scuole ed altre istituzioni sociali o caritative, secondo una procedura regolata dalla legge.” Questa versione della costituzione dunque distingue tra nazionalità ed appartenenza ad un determinato culto, affrontando questi due aspetti in previsioni separate. L'unica comunità religiosa espressamente riconosciuta è tuttavia l'importante Chiesa ortodossa macedone, autocefala e quindi autonoma dal Patriarcato di Costantinopoli, da sempre contrapposta alla comunità islamica. La costituzione del 1991, tuttavia, avrebbe avuto vita breve. Già al momento dell'adozione, nel novembre di quell'anno, il gruppo parlamentare albanese l'aveva boicottata, invitando gli elettori di etnia albanese a non partecipare al referendum indetto dalle autorità macedoni. Aveva avanzato poi, negli anni successivi, richieste che miravano a rinsaldare i diritti politici collettivi della comunità albanese: dalla 329 Nella quale (vedi nota precedente) la dizione “musulmani” indica appartenenza nazionale oltre che religiosa. 330 “Traditionally, Macedonia provides for nationality in the censuses, which make possible the 'official existence' of the members of the minorities. During the census of 1994, in accordance with the Census Law, the census forms for the nationalities were published bilingually (in Macedonian and in one of the language of the nationalities)”. V. ORTAKOVSKI, “Minorities in the Balkans”, Transnational Publishers, Ardsley, 2000, p. 276. 136 domanda di autonomia territoriale nelle zone abitate dall'etnia albanese alla creazione, da parte di membri del PDP, di una serie di “autorità parallele” per la popolazione albanese rispetto al governo macedone, all'apertura di un'università privata di lingua albanese nella città di Tetovo. Gli scontri armati iniziarono nel 1997 in alcune città della regione occidentale, popolata dall'etnia albanese: i sindaci di Gostivar e Tetovo avevano issato bandiere albanesi sui municipi; ciò provocò l'intervento della polizia macedone, i violenti scontri che ne seguirono ed il processo ai due sindaci, conclusosi con la loro condanna per incitamento all'odio nazionale, razziale e religioso331, amnistiata due anni dopo dal nuovo governo macedone, eletto nel 1998. Anche in questo caso, le rivendicazioni religiose costituiscono una parte ed uno strumento dell'affermazione dell'autonomia nazionale albanese; tra comunità religiosa ed etnia non si ravvisa una corrispondenza stretta: la religione islamica, a giudicare dal ruolo che ricopre nelle rivendicazioni della popolazione albanese, sembra divenire una sorta di attributo dell'appartenenza nazionale albanese 332. Le condanne dei rappresentanti di alcune municipalità albanesi vennero emesse per “incitamento all'odio nazionale, razziale e religioso”: dunque l'appartenenza all'islam non può essere considerata un fattore talmente pervasivo da identificarsi totalmente con l'appartenenza ad una certa nazionalità, tenuto conto inoltre che ciò non accade mai nemmeno formalmente, all'interno di testi normativi: nella Costituzione del 1991, infatti, nonostante si possa notare la posizione privilegiata della Chiesa Ortodossa rispetto alle altre confessioni, non si riscontra la sovrapposizione etnia331 “On September 17, 1997, Osmani was sentenced to thirteen years and eight months in prisoon for violating Articles 319 (“inciting national, racial, and religious hatred, discord and intolerance”) and 377 (“neglect to exercise a court ruling”) of the Macedonian Penal Code. Gostivar City Council chairman Refik Dauit received a three-year prison sentence. Demiri and Tetovo Council chairman Vehbi Bexheti were each sentenced to two years and six months. Osmani's sentence was later reduced to seven years and eight months, which he started serving in April 1998. The sentences of the other defendants were also reduced” Per una ricostruzione degli eventi, cfr. V. ORTAKOVSKI, “Minorities in the Balkans”, Transnational Publishers, Ardsley, 2000, pp. 282 ss. 332 Cfr. ad esempio le conclusioni tratte da Natasha Gaber, anche se esulano dall'ambito strettamente giuridico: “[...]Islam appears incapable at present of fully overcoming the primary influence of ethnicity. [...]the main political groupings of all the Islamic communities in FYROM couch their programmes and demands in purely secular terms; ethnicity rather than religion is seen as the major factor. Hence, one cannot speak of the Muslim population in FYROM as a coherent whole contrasted with the Orthodox Christian community, [...]” N. GABER, “The Muslim population in FYROM: public perceptions”, in H. POULTON, S. TAJIFAROUKI (a cura di), “Muslim identity and the Balkan State”, Hurst & Company, London, 1997, p. 106, e H. POULTON, “Who are the Macedonians?” , Hurst & Company, London, 2000, pp. 114 ss. 137 religione che caratterizza le vicende di altri stati dell'area balcanica; anzi, l'approccio alla questione delle nazionalità è orientato in senso piuttosto laico. 6.4 1997: la Legge sulle comunità religiose Nel 1997 la vecchia Legge sulla posizione legale delle comunità religiose, promulgata nel 1977 e quindi risalente al periodo del governo di Tito, viene sostituita dalla Legge sulle comunità religiose ed i gruppi religiosi, nella quale sono stabiliti i requisiti necessari affinché una comunità o un gruppo religioso possa dirsi riconosciuto dall'ordinamento. La legge disciplina dettagliatamente i requisiti necessari per ottenere il riconoscimento e le norme da rispettare nello svolgimento delle attività delle comunità; essa contiene inoltre precise disposizioni riguardo l'istruzione religiosa. Ciò che è interessante per analizzare l'evoluzione della comunità islamica macedone nel panorama istituzionale, però, sono soprattutto le disposizioni che regolamentano la posizione delle organizzazioni religiose nei confronti delle autorità statali e la loro posizione nei confronti dell'ordinamento. Non dimentichiamo che in quel periodo è ancora in vigore la Costituzione del 1991, adottata nonostante il boicottaggio della comunità albanese, e che quindi l'unica comunità religiosa ad essere già esplicitamente riconosciuta all'interno del testo costituzionale è la Chiesa ortodossa macedone. Per le altre comunità, invece, la procedura di riconoscimento, sancita da una legge ordinaria, consiste nell'iscrizione ad un registro presso l'autorità governativa incaricata degli affari religiosi, alla quale devono essere resi noti tutti i requisiti formali atti a identificare l'organizzazione, a controllarne l'attività ed a individuarne i responsabili ed i rappresentanti istituzionali, che devono essere identificati nell'atto di iscrizione. L'iscrizione è un passaggio obbligato per l'acquisto della personalità giuridica e, di conseguenza, per il riconoscimento dei diritti e della capacità rappresentativa previsti nel testo di legge e 138 nella Costituzione. La legge del 1997 inoltre prevede una distinzione, almeno nominale, tra comunità, definite all'art.8 della legge come “organizzazioni volontarie e senza scopo di lucro di credenti della stessa confessione o fede” e gruppi religiosi, cioè associazioni dello stesso tipo ma di cui devono far parte “credenti [...] che non appartengano ad una comunità religiosa già registrata.” Gruppi e comunità possono costituirsi liberamente, purché dotati dei requisiti previsti dalla legge stessa. Tuttavia, la legge consente l'istituzione di un solo gruppo o comunità religiosa per ogni confessione o fede, la quale deve risultare chiaramente dal nome scelto per la comunità, nel quale però non può trovarsi alcun riferimento alla Repubblica di Macedonia o alle sue istituzioni, né ad altri stati e alle loro autorità pubbliche. Il divieto di istituire più di una comunità o gruppo per ogni confessione religiosa impedisce la compresenza di organizzazioni che possano dichiararsi guida dei fedeli di una confessione; i conflitti in questo senso si svolgono ad un livello puramente interno, come è accaduto recentemente proprio nella Comunità islamica333. Almeno sul piano formale, dunque, nessun riferimento a particolari legami tra determinati culti ed identità nazionali. Nessun riferimento nemmeno, a parte l'esplicita menzione della Chiesa ortodossa macedone, a particolari legami o rapporti privilegiati tra governo nazionale e religioni. 6.5 2001: il Framework Agreement Dopo i violenti conflitti interni alla repubblica, in seguito ai quali si rese necessario l'intervento della comunità internazionale, nel 2001 venne concluso un accordo “[...] 333 Una nuova esplosione dei conflitti interni si è verificata due anni fa. Dopo più di un anno di sconvolgimenti interni, inclusi anche molti episodi di violenza, il capo della Comunità islamica di Macedonia, il reis Arif Emini, fu costretto a dimettersi dall’associazione nel giugno 2005. Si arrese alle pressioni dell’ala radicale guidata da Zenon Berisha, desideroso di succedergli nella leadership e probabilmente appartenente alla corrente wahabita, tra le più vicine all'islam radicale. Un altro caso del genere, anche se con esiti diversi, si è verificato di recente, quando un religioso ortodosso, considerato scismatico, ha tentato di registrare una Chiesa Serba in Macedonia, con l'aiuto della Chiesa Serba Ortodossa (la quale non riconosce l'autocefalia della chiesa ortodossa macedone). Nonostante l'intervento della comunità internazionale, il religioso è stato incarcerato. Cfr. R. KARAJKOV, “Islam nei Balcani: il vecchio e il nuovo”, in Osservatorio sui Balcani, 3 febbraio 2006, e “Chiese, stato e comunità internazionale”, in Osservatorio sui Balcani, 13 agosto 2007. 139 per assicurare il futuro della democrazia macedone e permettere lo sviluppo di relazioni più strette e più integrate tra la Macedonia e la comunità Euro-Atlantica” e allo scopo di “[...] promuovere lo sviluppo pacifico ed armonioso della società civile, nel rispetto dell'identità etnica e degli interessi di tutti i cittadini macedoni.” Tra i principi ispiratori dell'accordo, oltre al rifiuto dell'uso della violenza come strumento risolutore dei conflitti e all'adeguamento agli standards internazionali per ciò che riguarda le garanzie ed i diritti fondamentali, figurano due previsioni relative alla questione dei conflitti etnici: da un lato è ribadita l'integrità territoriale e vengono rigettate totalmente le “soluzioni territoriali” ai conflitti etnici; dall'altro si afferma che il carattere multietnico della Macedonia deve essere preservato e riflettersi nella vita pubblica. La risoluzione dei conflitti etnici viene demandata, come previsto all'art.78, ad un Concilio per le relazioni tra le comunità334 (già previsto nella Costituzione del 1991 sotto il nome di Concilio per le relazioni interetniche), composto da sette membri ciascuno per le etnie macedone ed albanese, più altri cinque membri, uno per ciascuna delle etnie turca, valacca, romena, ed altre due non espressamente nominate. Quindi se l'etnia albanese viene posta in una situazione di parità rappresentativa con l'etnia macedone, tuttavia non si fa alcun riferimento all'appartenenza religiosa come strumento di identificazione ed appartenenza, o come criterio selettivo per le quote di rappresentanza. Nell'ambito di questo accordo erano previsti anche numerosi emendamenti alla Costituzione del 1991: per quanto riguarda lo status delle comunità religiose, profonde modifiche vengono apportate all'art.19335, nel cui testo non è più menzionata solamente la Chiesa ortodossa macedone. Sono infatti nominate espressamente anche la Chiesa cattolica e la Comunità religiosa islamica, che nel testo emendato godono dunque, al pari della Chiesa ortodossa, del riconoscimento 334 Cambia, dunque, la denominazione del Consiglio: non si nominano più le etnie, ma le comunità; il nuovo termine differenzia le etnie diverse da quella macedone senza tuttavia identificarle come minoranze. Alla questione è particolarmente sensibile la popolazione albanese. 335 Article 19 (1) The freedom of religious confession is guaranteed. (2) The right to express one's faith freely and publicly, individually or with others is guaranteed. (3) The Macedonian Orthodox Church, the Islamic Religious Community in Macedonia, the Catholic Church, and other Religious communities and groups are separate from the state and equal before the law. (4) The Macedonian Orthodox Church, the Islamic Religious Community in Macedonia, the Catholic Church, and other Religious communities and groups are free to establish schools and other social and charitable institutions, by ways of a procedure regulated by law. 140 diretto da parte dell'ordinamento statale336. All'articolo viene anzi aggiunto un intero comma, nel quale si afferma che Chiesa ortodossa, Comunità islamica e Chiesa cattolica, più “altre comunità o gruppi religiosi”337 (evidentemente registrati secondo la Legge sulle comunità religiose) sono considerati “separati dallo stato ed uguali di fronte alla legge”, determinandone così lo status giuridico e sancendo la fine del rapporto privilegiato della Chiesa ortodossa macedone con le istituzioni statali. Grazie all'emendamento del 2001, dunque, la Comunità islamica macedone vede riconosciuto anche a livello costituzionale quello che di fatto si può chiamare monopolio nella rappresentanza istituzionale della popolazione macedone di religione musulmana: l'espresso riconoscimento nel testo costituzionale, infatti, la pone in una posizione privilegiata rispetto alle comunità o ai gruppi semplicemente registrati. Inoltre con gli emendamenti del 2001 non viene posta in discussione la previsione contenuta nella legge del 1997 secondo la quale non più di una comunità o gruppo possono essere registrati in rappresentanza di una fede o confessione religiosa. Proprio questo passaggio, contenuto nell'art. 8 della legge del 1997, rappresenta uno dei punti più controversi della riforma che da anni il governo macedone, sotto il controllo della comunità internazionale e delle istituzioni europee, tenta di apportare alla propria legislazione sulle libertà religiose. 6.6 La riforma della Legge sulle comunità religiose ed i gruppi religiosi: il disegno di legge del 2007 Il disegno di legge sottoposto nell'estate del 2007 al vaglio del Parlamento è il frutto 336 Secondo alcune interpretazioni, quindi, sarebbe da attribuire alle organizzazioni espressamente menzionate nel testo costituzionale la qualifica di “comunità religiose”; tutte le altre, invece, sarebbero da considerare come “gruppi religiosi”. (Cfr., ad esempio, “2007 International report on religious freedom” , www.coe.int ). Tuttavia non emergono chiaramente dal testo costituzionale né la distinzione in sé, né il suo scopo: è questa una delle maggiori critiche espresse dal Consiglio d'Europa nel marzo 2007. Cfr. “Opinion on the draft law on the legal status of a church, a religious community and a religious group of the 'Former Yugoslav republic of Macedonia'”, CDL-AD(2007)005, www.coe.int . 337 Cfr. “Opinion on the draft law on the legal status of a church,a religious community and a religious group of the 'Former Yugoslav republic of Macedonia'”, no.424/2007, sito. I dati contenuti nel documento parlano di 36 comunità (o gruppi?) presenti nella repubblica, di cui 26 ufficialmente registrate. 141 di un lungo percorso di riforma svolto dal governo della repubblica macedone nell'ambito delle libertà religiose. Quella attuale è la terza versione della proposta dal 2005, anno di inizio dei lavori. Un'analisi particolarmente interessante degli aspetti più problematici della riforma è contenuta nell'opinione del Consiglio d'Europa emessa nel marzo 2007, dopo un esame effettuato su richiesta del Ministro della giustizia macedone. Dopo la conclusione del Framework Agreement del 2001, sicuramente godono di una posizione privilegiata le tre chiese o comunità religiose338 espressamente menzionate nella Costituzione: chiesa ortodossa, chiesa cattolica e comunità islamica. Pur nell'ambito del progetto di riforma, vengono tuttavia conservate alcune previsioni che anche nel testo di legge precedente erano state oggetto di critiche e contrasti, ma appoggiate dalle comunità religiose più influenti poiché oggettivamente adatte a mantenere il monopolio di queste ultime riguardo alla rappresentanza delle diverse comunità di fedeli macedoni339. In primo luogo, per godere del riconoscimento da parte delle istituzioni statali e di tutti i diritti che ne conseguono, la registrazione presso la Single Register Court rimane un passaggio obbligato. Tuttavia è stata verificata la presenza, sul territorio della repubblica, di un certo numero di gruppi o comunità non registrate, tra cui diverse associazioni musulmane: qual è il loro status giuridico? Da chi sono rappresentati i loro fedeli? Questo aspetto problematico è stato fatto oggetto di rilievi critici proprio nell'opinione del Consiglio d'Europa: nel testo si nota in primo luogo che non appaiono chiaramente dal disegno di legge quali siano gli elementi su cui si basa la distinzione tra “chiesa”, “comunità” e “gruppo”; allo stesso modo, rimane piuttosto oscuro lo scopo per cui questa distinzione viene operata nel progetto di legge. Infine, ed è questo l'aspetto più importante, la commissione riunita a Venezia nota che “secondo gli standards internazionali, le garanzie di libertà religiosa non sono subordinate ad alcun tipo di specifico sistema di registrazione delle entità 338 Il Consiglio d'Europa deduce che i due termini sono sinonimi e che vengono menzionati entrambi al fine di definire correttamente le chiese cristiane e la comunità islamica . Cfr. “Opinion on the draft law on the legal status of a church,a religious community and a religious group of the 'Former Yugoslav republic of Macedonia'”, CDL-AD(2007)005, sito, p. 5, punto 31. 339 Cfr. “Opinion on the draft law on the legal status of a church,a religious community and a religious group of the 'Former Yugoslav republic of Macedonia'”, CDL-AD(2007)005, sito, p. 11, punto 99: “The Venice Commission stresses that a new law pertaining to religion or belief should not only ratify an existing situation which was previously considered as satisfactory in the country.” 142 religiose: esse devono andare a beneficio di ogni entità religiosa, a prescindere da ogni condizione di affiliazione o registrazione.”340 Il meccanismo di registrazione previsto dalla riforma viene dunque visto come una possibile fonte di pratiche discriminatorie: un' interpretazione avvalorata dalle tensioni esplose negli ultimi anni in seno alla comunità islamica macedone, originate sostanzialmente tutte da conflitti sullo status dei gruppi “minori” nei confronti della Comunità religiosa islamica, che l' approvazione della riforma così com'è concepita (cioè in modo da lasciare intatto il meccanismo della registrazione) non farebbe che acuire. Un altro aspetto piuttosto controverso è l'attribuzione ai tribunali della competenza a decidere sulle richieste di registrazione; competenza che nella legge del 1997 era riconosciuta ad un'autorità governativa.341 Le stesse osservazioni vengono riportate riguardo alla previsione secondo la quale una confessione o fede religiosa può essere rappresentata da una sola comunità o da un solo gruppo. Il mantenimento di questa disposizione, prevista all'art. 8 della legge del 1997 (dapprima abrogato e poi reinserito con l'aggiunta di un comma all'art. 9 del disegno di legge del 2007), è stato fortemente appoggiato dalle comunità religiose più importanti (quelle previste anche dalla Costituzione): probabilmente essa costituisce lo strumento più efficace per mantenere una sorta di monopolio sulla rappresentanza, e quindi su tutti i diritti che ne conseguono, dato che l'attuale interpretazione del testo di legge, nonostante le proposte di modifica che potrebbero far pensare ad una limitazione soltanto nell'uso dello stesso nome, va nel senso di un assoluto divieto di creare comunità ulteriori, come hanno dimostrato le vicende verificatesi negli ultimi anni342. Anche questo punto del disegno di legge è stato oggetto di critiche da parte della commissione di Venezia: “una religione che è considerata unitaria può dividersi in differenti scismi, ed ogni parte della stessa religione dovrebbe avere il diritto di registrarsi ed acquisire personalità giuridica[...]Se la registrazione non fosse possibile, ciò costituirebbe una grave 340 “Opinion on the draft law on the legal status of a church,a religious community and a religious group of the 'Former Yugoslav republic of Macedonia'”, CDL-AD(2007)005, sito, p. 5, punto 35. 341 Cfr. R. KARAJKOV, “Chiese, stato e comunità internazionale” in Osservatorio sui Balcani, 13 agosto 2007. 342 Cfr. R. KARAJKOV, “Chiese, stato e comunità internazionale” in Osservatorio sui Balcani, 13 agosto 2007. 143 violazione degli standard internazionali in materia di libertà religiosa.”343 Le vicende che qui interessano, e che sono senz'altro collegate alla critica della commissione di Venezia, riguardano la Comunità religiosa islamica: essa, come già spiegato in precedenza, in forza dell'art. 19 della Costituzione e delle previsioni contenute nella legge del 1997, che probabilmente verranno mantenute nell'imminente riforma, è l'organizzazione che rappresenta i macedoni di religione musulmana (senza dimenticare i riferimenti fatti nei paragrafi precedenti ai rapporti con l'etnia albanese) nei confronti delle istituzioni statali. I contrasti al suo interno sono sorti quando sulla base di questi presupposti è stata negata “esistenza legale separata”344 alla comunità Bektashi di Tetovo. La comunità Bektashi ha profonde radici nel sufismo di origine turca, ma soprattutto è fortemente legata alla tradizione islamica albanese.345 Con il meccanismo della registrazione, però, essa risulta come “setta” islamica346 e quindi “assorbita” giuridicamente, per quanto riguarda la rappresentanza ufficiale ed i diritti di proprietà su beni immobili come edifici e terreni, dagli organi istituzionali della Comunità religiosa islamica della repubblica macedone. La critica mossa dalla Commissione di Venezia riguarda proprio la possibilità che si verifichino casi come questo: la riforma prevede che a compiere una valutazione in ordine all'”omogeneità”, per quanto riguarda la fede, di due chiese o comunità religiose, sia un tribunale nazionale. L'elemento di discrezionalità insito in questo tipo di scelta è a dir poco evidente, e costituisce “un'interferenza non necessaria degli organi dello stato nella 343 “Opinion on the draft law on the legal status of a church,a religious community and a religious group of the 'Former Yugoslav republic of Macedonia'”, CDL-AD(2007)005, sito, p.8, punto 59. 344 D. DJENOVIC “Macedonia: will draft new Religion Law end discrimination?” in Forum 18 News Service, 2 febbraio 2007, www.forum18.org. 345 Il gruppo Bektashi è un ordine o fratellanza Sufi, fondato dal santo Bektaş nel XIII secolo in Anatolia, ma istituzionalizzato nel XVI, con l'introduzione del celibato per coloro che entravano a far parte del “clero”. Dapprima influenzato fortemente dalle correnti mistiche indiane ed iraniane, in seguito assimilò moltissime caratteristiche dell'islam sciita e del sufismo. Con le conquiste ottomane, si diffuse anche nelle regioni balcaniche e attualmente costituisce un'importante particolarità dell'islam albanese, poiché circa un quinto degli albanesi aderenti alla fede musulmana appartengono all'ordine Bektashi. Non a caso la comunità Bektashi macedone ha la propria sede nella città di Tetovo, una delle maggiori enclaves albanesi nella repubblica macedone. Cfr. N. CLAYER, “Islam, state and society in post communist Albania”, in H. POULTON, S. TAJI-FAROUKI (a cura di), “Muslim identity and the Balkan State”, Hurst & Company, London, 1997, pp.115 ss. 346 Così viene definita anche nel testo del “2007 International report on religious freedom” , sito. 144 libertà religiosa o di culto”347. Oltre alla questione dell'ingerenza dei pubblici poteri nell'esercizio dei diritti concernenti le libertà religiose, però, la questione più spinosa rimane quella della rappresentanza cui si accennava in precedenza: quanto, in realtà, la Comunità religiosa islamica di Macedonia è realmente rappresentativa dei fedeli musulmani del paese? In quale misura le disposizioni che la riforma del 2007 intende conservare impediscono una rappresentanza effettiva, dal punto di vista istituzionale, di tutte le declinazioni dell'islam macedone? 6.7 Valutazioni: minoranza musulmana e questione albanese Anche nel caso macedone, dunque, pur se la condizione della minoranza musulmana si presenta meno intricata dal punto di vista giuridico rispetto ad altri ordinamenti, è difficile scindere l'appartenenza al culto islamico dalla questione etnica. Questi due aspetti hanno conosciuto recentemente sviluppi piuttosto problematici. Il fattore etnico348 infatti, almeno formalmente, non gioca un ruolo fondamentale 347 “Opinion on the draft law on the legal status of a church,a religious community and a religious group of the 'Former Yugoslav republic of Macedonia'”, CDL-AD(2007)005, www.coe.int, p. 8, punto 60. 348 La questione etnica in Macedonia ha conosciuto peraltro ulteriori sviluppi con la pubblicazione, a fine ottobre, di una sentenza della Corte Costituzionale sul tema dei simboli delle comunità nazionali, e più specificamente sull'esposizione delle bandiere (n.133/05, 4 ottobre 2007) : la sentenza modifica la Legge sull'utilizzo delle bandiere delle comunità nella Repubblica di Macedonia. Si evidenziano due ordini di incompatibilità con il dettato costituzionale, che costituiscono i due passaggi sostanziali della sentenza: si tratta di due diversi aspetti del diritto dei membri delle minoranze nazionali, ora definite comunità, a “esprimere, promuovere e sviluppare liberamente la loro identità e le qualità della comunità, e ad utilizzare i simboli della comunità.” Il rispetto di queste garanzie è assicurato dalla Repubblica, la quale “garantisce il rispetto dell'identità etnica, culturale, linguistica e religiosa di tutte le comunità.” Il primo aspetto problematico è che la legge prevede che questo diritto possa venire esercitato dalle comunità i cui membri costituiscono la maggioranza nelle unità di autogoverno locale, creando una situazione di fatto discriminatoria per le etnie minoritarie, che sottintenderebbe un monopolio dei governi multietnici locali da parte delle comunità maggioritarie, i cui simboli sono esposti ed affiancati a quelli della Repubblica: un ragionamento del tutto in contrasto con le previsioni della Costituzione emendata. Il secondo profilo è costituito dalla questione dell'esposizione delle bandiere delle comunità in occasione della partecipazione della Macedonia a manifestazioni internazionali di qualsiasi tipo, o per l'accoglienza di autorità governative straniere o rappresentanti della comunità internazionale: in questi casi, nota la Corte, ad essere rappresentata dovrebbe essere la Repubblica di Macedonia nel suo carattere di stato unitario e dotato di sovranità, non l'identità delle singole comunità. La sentenza, soprattutto quest'ultimo passaggio, ha naturalmente infiammato ulteriormente il dibattito sulla questione etnica in Macedonia, la cui problematica principale è da sempre lo status della minoranza albanese. I membri della Corte Costituzionale di etnia albanese, all'approvazione della sentenza, hanno rassegnato le dimissioni; la comunità albanese si è sentita direttamente chiamata in causa, dato che le applicazioni pratiche della sentenza riguarderebbero soprattutto i simboli albanesi. 145 nella questione della rappresentanza della comunità islamica: certo, i maggiori partiti albanesi hanno basato e basano attualmente la propria ricerca di consenso anche sulla fede islamica e le rivendicazioni della minoranza albanese di Macedonia che hanno dato luogo al conflitto degli anni '90 si fondavano anche su richieste relative al culto religioso; in ultima analisi, però, come già osservato, l'islam ha costituito una declinazione ed un aspetto, anche se non marginale, della questione nazionale albanese più che il suo principale fondamento. Inoltre, nelle fonti normative non si nota la sovrapposizione del fattore etnico con quello religioso, rintracciabile invece in altri ordinamenti e che così spesso caratterizza l'islam balcanico. Nel caso macedone, questa sovrapposizione si verifica soprattutto se si analizzano i testi di legge interpretandoli alla luce della reale composizione della popolazione del paese e delle vicende storiche che lo hanno attraversato negli ultimi anni. Non è corretto quindi nemmeno affermare che questione islamica e fattore etnico siano due aspetti del tutto separati tra loro: nella disputa tra la comunità Bektashi e la Comunità religiosa islamica, ad esempio, sarebbe sbagliato non riconoscere alcun ruolo all'etnia: forse non è un caso che la sede della comunità Bektashi sia proprio la città di Tetovo, già teatro di scontri tra forze di polizia macedoni e comunità albanese, come non è casuale che l'islam Bektashi sia impregnato di mistica sufi, che caratterizza proprio la fede musulmana albanese. É evidente, d'altro canto, che in parallelo alla questione etnica anche la diatriba in merito al riconoscimento giuridico delle comunità religiose ha conosciuto negli ultimi tempi un deciso inasprimento. La Comunità islamica macedone, infatti, sul piano della rappresentanza istituzionale gode di diritti e garanzie protetti sia a livello costituzionale sia nella legislazione ordinaria: l'ordinamento macedone, in questo ambito, sembra potersi collocare tra gli ordinamenti promozionali o concordatari 349 . La legislazione ordinaria, tuttavia, per il modo in cui attualmente concepisce e regolamenta il riconoscimento delle comunità religiose, nel nostro caso quella musulmana, rischia di dar luogo a delle carenze e a dei vuoti di rappresentanza, cui corrispondono poche grandi organizzazioni come la Comunità religiosa islamica che, se da un lato rendono più semplice e meno frammentata la comunicazione e la 349 Cfr. Introduzione e F. PALERMO, J. WOELK “Diritto costituzionale comparato dei gruppi e delle minoranze”, Cedam, 2008, pp.204 ss. 146 collaborazione con le autorità statali, d'altro canto vedono esplodere al loro interno conflitti sempre più aspri, la cui causa scatenante è costituita quasi sempre da questioni concernenti la personalità giuridica di uno o più gruppi, e dai conseguenti problemi relativi a diritti di proprietà o di utilizzo di determinati luoghi di culto. Per ora la riforma della legge del 1997 è ancora allo stadio di disegno di legge; tuttavia la discussione tra autorità religiose e parlamento non sembra lasciare spazio a modifiche significative degli aspetti più controversi della normativa. Ciò che sembra accomunare la questione etnica albanese e lo status della Comunità islamica è, dunque, proprio il problema della rappresentanza: rappresentanza della comunità nazionale albanese, di religione musulmana, attraverso i propri simboli; rappresentanza istituzionale delle diverse declinazioni dell'islam macedone attraverso la difficile riforma della Legge sulle comunità religiose. 147 CAPITOLO VII BULGARIA 7.1 Religione ed identità: le origini delle comunità musulmane in Bulgaria In Bulgaria la popolazione di religione musulmana è costituita da tre gruppi etnici: il gruppo turco; il gruppo di etnia rom; i Pomak, appartenenti all'etnia slava, o bulgara, la cui conversione risale, come per la maggioranza della popolazione di religione musulmana dell'Europa sud-orientale, all'epoca della conquista ottomana. Un regno indipendente di Bulgaria fu fondato all'incirca nel settimo secolo; in seguito la sua popolazione venne velocemente assimilata dalla più numerosa etnia slava e, subito dopo, convertita al cristianesimo350. La diffusione dell'islam in Bulgaria risale alla seconda metà del XIV secolo, nonostante la presenza sul territorio dello stato bulgaro di piccoli insediamenti 350 Cfr. A. EMINOV, “Turkish and other Muslim minorities in Bulgaria”, Hurst & Company, London, 1997, pp. 24 ss. 148 musulmani risalenti ad epoche più antiche. Il processo di islamizzazione di alcune aree della Bulgaria seguì il processo graduale che caratterizzò la diffusione del culto musulmano in tutta la regione balcanica: la popolazione che abbracciò la religione musulmana lo fece principalmente per motivi legati ai vantaggi materiali, sociali, politici e giuridici che venivano riconosciuti ai fedeli dell'islam, la religione dei sultani. Il sistema del millet , infatti, sostituitosi al sistema feudale vigente prima della conquista ottomana, suddivideva la popolazione secondo le affiliazioni religiose anziché in base alle nazionalità; le comunità facevano capo alle proprie guide religiose, alle quali il governo ottomano riconosceva numerose competenze, dalla riscossione delle imposte all'organizzazione dell'istruzione pubblica, del cui buon funzionamento erano personalmente responsabili le guide dei millet. I popoli Dhimmi, cioè non musulmani appartenenti alle religioni cristiana ed ebraica, erano “tollerati” nel Dar-al-Islam grazie al pagamento di speciali tasse pro-capite351: mantenevano così il diritto di professare liberamente la propria religione e mantenere i propri usi nazionali, rimanendo però relegati alla base della piramide sociale. Uno dei requisiti fondamentali per giungere a posizioni di vertice, infatti, era l'appartenenza al culto musulmano. Dunque l'islam giunse in Bulgaria tramite gli stessi mezzi con cui si era diffuso nel resto del Balcani: attraverso l'emigrazione di popolazioni di origine turca nei territori conquistati, e attraverso la conversione delle etnie slave che già popolavano la regione, le quali però mantennero la loro lingua originaria. É questo il caso dei Pomak, i musulmani bulgari. Dopo l'indipendenza dall'impero ottomano, tuttavia, l'islam passò dal ruolo di religione di maggioranza alla posizione di culto minoritario, anche se ancora largamente praticato dalla popolazione bulgara. Negli anni di vigenza della prima Costituzione bulgara, datata 1879, la protezione delle minoranze passa soprattutto attraverso la regolamentazione dell'esistenza delle comunità religiose: è in questo periodo che si crea un primo nucleo di leggi che regolamentano le istituzioni della 351 Le tasse costituivano anche una modalità di conversione della popolazione: le imposte si prelevavano infatti anche attraverso il sistema del devşirme, cioè il periodico reclutamento di giovani delle comunità di religione non islamica affinché entrassero nel corpo militare dei janissari o diventassero schiavi personali del sultano, venendo così educati all'islam. Cfr. M. NEUBURGER, “The Orient within”, Cornell University Press, Ithaca, 2004. 149 Comunità musulmana. Con il Regolamento per l'amministrazione spirituale dei cristiani, musulmani ed ebrei del 1880 viene abrogato dalle autorità bulgare l'ufficio del kadi, la figura di giudice delle corti sciaraitiche operanti nel periodo della dominazione ottomana, le cui competenze vengono trasferite ai mufti, guide religiose poste ognuna a capo di uno dei dieci “distretti giudiziari”352 creati dal governo bulgaro: autorità elette in modo indipendente dai fedeli musulmani ma stipendiate dallo stato. Negli anni successivi il controllo statale divenne più stringente: dal 1895 in poi, per la designazione sia del Mufti Capo sia delle guide dei distretti si rese necessaria l'approvazione delle autorità statali, tramite un decreto regio emesso su richiesta del Ministero degli affari esteri e del culto. Negli anni della Prima guerra mondiale entrò in vigore una nuova legislazione, che viene considerata la più restrittiva in assoluto per quanto riguarda i rapporti tra stato bulgaro e comunità musulmana: secondo questo nuovo statuto del 1919 conferiva al Ministro degli affari esteri e del culto la possibilità di interferire senza limiti negli affari interni della Comunità islamica, annullando le elezioni dei mufti, considerati semplici funzionari dell'amministrazione statale, e compiendo valutazioni nel merito del loro operato che potevano tramutarsi anche in vere e proprie destituzioni. Bisogna notare che queste disposizioni si applicavano a qualsiasi membro della Comunità musulamna a prescindere dall'etnia di appartenenza353. Tuttavia, negli anni successivi, soprattutto dopo il secondo conflitto mondiale, come vedremo, l'atteggiamento delle autorità statali nei confronti dei musulmani bulgari si sarebbe basato anche in grande misura sulla loro origine etnica. 7.1.1 La comunità turca L'origine della popolazione che oggi fa parte della minoranza turca è piuttosto controversa e oggetto di due tesi contrapposte: secondo alcuni studiosi, la 352 K. KANEV, “Law and Politics on ethnic and religious minorities in Bulgaria”, in A. KRASTEVA, “Communities and identities in Bulgaria”, Longo Editore, Ravenna, 1998, pp.58 ss. 353 Cfr. K. KANEV, “Law and Politics on ethnic and religious minorities in Bulgaria”, in A. KRASTEVA, “Communities and identities in Bulgaria”, Longo Editore, Ravenna, 1998, pp.60 ss. 150 maggioranza dei turchi bulgari non sono di etnia turca, ma slavi bulgari i cui antenati si convertirono all'islam all'arrivo dei conquistatori ottomani adottandone non solo la religione, ma anche la lingua, a differenza dei Pomak. Secondo un'altra tesi invece la maggior parte dei componenti l'attuale comunità turca di Bulgaria sono i discendenti di quelle popolazioni che, fin dall'inizio della conquista ottomana, si spostarono nella regione balcanica e vi si insediarono stabilmente, diffondendosi in maniera particolare a metà del XIX secolo: in quel momento infatti i flussi migratori provenienti dalle regioni orientali raggiunsero il momento di maggiore intensità, quando numerosi profughi Circassi provenienti dalla Crimea e Tatari dal Caucaso vennero insediati dal governo ottomano in alcune aree della Bulgaria; queste popolazioni furono in seguito assimilate nel gruppo etnico turco, aumentandone l'ampiezza. Tuttavia, la presenza di popolazioni di origine turca in Bulgaria conobbe un drastico ridimensionamento a partire dal 1878, anno della fondazione del moderno stato di Bulgaria in seguito alla ritirata dei sultani ottomani dopo la guerra Russo-turca; l' emigrazione continuò anche negli anni successivi, fino a dopo la seconda Guerra mondiale, quando il governo bulgaro pose decise limitazioni ai flussi migratori354. Vedremo nel paragrafo successivo come la comunità turca sia stata sottoposta nel corso degli anni '80 ad una dura campagna di assimilazione forzata dal punto di vista sia dell' identità etnica che dell'appartenenza religiosa. 7.1.2 La comunità rom Le informazioni sulla composizione e le origini della comunità rom sono tutt'altro che precise: l'incompletezza dei dati statistici e le reticenze in merito ai pochi esistenti hanno sempre reso difficile eseguire delle ricostruzioni esatte in merito alla situazione della popolazione rom. Per quanto riguarda le informazioni sulla composizione religiosa della comunità rom, esse sono ancora più incomplete e affidabili solo parzialmente, dato che per decenni sono mancate ricerche statistiche in 354 Cfr. W. HÖPKEN, “From religious identity to ethnic mobilisation: the Turks of Bulgaria before, under and since the commmunism”, in H. POULTON, S. TAJI-FAROUKI (a cura di), “Muslim identity and the Balkan State”, Hurst & Company, London, 1997, pp. 54 ss. 151 questo senso. A complicare le cose si aggiunge anche la tendenza dei gruppi rom, soprattutto nomadi, ad utilizzare il fattore religioso come strumento di adattamento: passare dall'islam al cristianesimo a seconda dell'appartenenza religiosa dei propri vicini è stata una pratica diffusa per molti secoli, rendendo difficile la comprensione la definizione dell'appartenenza religiosa di questa popolazione. Giunti nell'area balcanica all'incirca nell'undicesimo secolo, a seguito di consistenti ondate migratorie provenienti dall' India, all'epoca della conquista ottomana si trovavano già in territorio bulgaro. Solo una parte di essi si convertì all'islam. Infatti, ancora oggi l'etnia rom è a sua volta suddivisa in numerosi sottogruppi che si differenziano anche grazie alla diversa appartenenza religiosa: i rom Horohane sono prevalentemente di religione musulmana. Durante la dominazione ottomana anche l'etnia rom, pur se tendenzialmente isolata dal resto della popolazione, venne suddivisa ed amministrata a seconda dell'affiliazione religiosa: nel XVI secolo, ad esempio, per l'etnia rom era previsto un sistena di tassazione che variava a seconda dell'appartenenza religiosa dei diversi gruppi, per cui le tasse imposte ai gruppi rom di religione musulmana erano più basse rispetto a quelle pagate dalle comunità cristiane355: una tendenza che rispecchiava la generale impostazione del sistema fiscale ottomano. In ogni caso, sia durante la dominazione ottomana che in seguito, dopo l'indipendenza della Bulgaria dall'impero, il loro status fu sempre caratterizzato da una lunga serie di discriminazioni, sia dal punto di vista legislativo che nell'atteggiamento della popolazione. Quello che, come musulmani, li accomuna alla comunità turca ed a quella dei Pomak, sono le numerose campagne di assimilazione intraprese nei loro confronti dal governo bulgaro a partire dagli anni successivi alla Seconda guerra mondiale fino alla fine degli anni '80. 7.1.3 Pomak: i musulmani bulgari Anche all'interno del gruppo etnico bulgaro si conta una minoranza di fede islamica. Anche la nascita di questo gruppo si fa risalire alla conquista ottomana: i Pomak che 355 Cfr. A. EMINOV, “Turkish and other Muslim minorities in Bulgaria”, Hurst & Company, London, 1997, pp. 115. 152 oggi vivono nelle regioni meridionali dello stato bulgaro sarebbero i discendenti di quelle popolazioni slave che all'epoca della dominazione ottomana si convertirono all'islam assumendo la religione dell'impero, ma non la lingua356. Tra le denominazioni ufficiali del gruppo357 si incontra così anche i nomi “musulmani di lingua bulgara” o “musulmani bulgari”. All'epoca dei millet, pur non essendo di etnia turca, venivano identificati come tali, secondo il sistema ottomano di affiliazioni religiose dal quale venivano inseriti nella comunità musulmana; il passo successivo fu l'assimilazione all'etnia più numerosa all'interno del millet islamico. L' assimilazione alla comunità turca si mantenne anche nei decenni successivi all'indipendenza dagli ottomani nel 1878: come accadde riguardo alla popolazione turca, in quel periodo i Pomak furono incoraggiati ad emigrare verso la Turchia; l'alternativa sarebbe stata la conversione al cristianesimo ortodosso. A partire dai primi anni del '900 fino a dopo la Seconda guerra mondiale, il governo nazionale intraprese nei loro confronti numerosi tentativi di assimilazione358 nel gruppo nazionale bulgaro, il cui risultato fu principalmente quello di spingere i Pomak verso una più decisa tendenza all'identificazione con l'etnia turca, soprattutto allo scopo di mantenere la propria religione e le proprie caratteristiche culturali. Questo tipo di campagne condotte sia nei confronti della minoranza turca, sia nei confronti dei Pomak e della popolazione rom erano finalizzate sostanzialmente alla costruzione di uno stato bulgaro “omogeneo” 359 dal punto di vista etnico e si servivano di misure che miravano soprattuto alla cancellazione dell'identità musulmana della popolazione Pomak e alla proibizione dell'utilizzo della lingua 356 In realtà, proprio l'incertezza sulle origini dei Pomak ha fatto sì che in diversi momenti storici sia la Grecia che la Turchia, oltre alla Bulgaria, abbiano potuto reclamare come “propria” la popolazione Pomak. Cfr. A. EMINOV, “Turkish and other Muslim minorities in Bulgaria”, Hurst & Company, London, 1997, pp. 103 ss. 357 Mutuabili soprattutto dai censimenti, cfr. A. EMINOV, “Turkish and other Muslim minorities in Bulgaria”, Hurst & Company, London, 1997. 358 Queste campagne del governo bulgaro, soprattutto quelle condotte dopo la fine della guerra, miravano soprattutto a “indurre i Pomak a cambiare i propri nomi, rinunciare alla loro fede ed integrarsi nello stato socialista bulgaro”. Cfr. A. EMINOV, “Turkish and other Muslim minorities in Bulgaria”, Hurst & Company, London, 1997. 359 Questa concezione della nazione bulgara, basata sul concetto di cittadinanza, è rispecchiata soprattutto nella seconda delle costituzioni del dopoguerra, risalente al 1971: in essa le minoranze nazionali non sono nemmeno nominate, salvo un riferimento, all'art. 45, alla possibilità, per i cittadini di origine non bulgara, di apprendere la propria lingua madre oltre allo studio obbligatorio del bulgaro. V. ORTAKOVSKI, “Minorities in the Balkans” , Transnational Publishers, Ardsley, 2000, p.159. 153 turca, non solo in situazioni istituzionali, ma anche nella vita quotidiana. Religione e lingua erano infatti considerati i principali elementi di collegamento con la popolazione turca delle popolazioni musulmane di origine bulgara360. Questi provvedimenti andavano dunque dalla creazione di procedure accelerate per la modificazione dei nomi Pomak, di chiare ascendenze musulmane, in nomi che rispecchiassero l'identità bulgara, alla proibizione dell'insegnamento del turco nelle scuole frequentate da bambini rom, tatari, bulgari musulmani. Lo stesso scopo aveva il divieto di assegnare insegnanti di origine turca alle scuole in cui la maggioranza degli alunni fosse bulgara, tatara o rom361. La più nota di queste “campagne di assimilazione” è forse quella condotta nei confronti della minoranza turca dalla metà alla fine degli anni '80, meglio nota come “processo di rinascita”. Tuttavia la comunità turca non fu l'unica ad essere colpita da provvedimenti di questo genere. La stessa sorte toccò anche ai musulmani bulgari di etnia non turca: particolarmente esemplificativa in questo senso è la campagna di assimilazione condotta a partire dal 1962 contro i Pomak, al fine di cancellarne le radici culturali musulmane e di impedirne l'identificazione con l'etnia turca. 7.2 Le campagne di assimilazione nella seconda metà del '900: “Finalmente abbiamo trovato una soluzione ad un problema molto difficile”362. 7.2.1 1962: la campagna di assimilazione della popolazione Pomak Dopo il 1948, nel perseguire l'obiettivo della realizzazione di uno stato “etnicamente omogeneo”363, il governo bulgaro intraprese molti tentativi per indurre gli 360 “After the Second World War the Bulgarian origins of Pomaks gained official support. Now they were considered Bulgarians, 'flesh of the flesh and blood of the blood” of the Bulgarian nation.” Cfr. A. EMINOV, “Turkish and other Muslim minorities in Bulgaria”, Hurst & Company, London, 1997, p. 104. 361 Cfr. A. EMINOV, “Turkish and other Muslim minorities in Bulgaria”, Hurst & Company, London, 1997, p. 104 ss. 362 I mezzi di comunicazione di massa bulgari dell'epoca riportano spesso questa frase, pronunciata soprattutto in riferimento alla “questione turca”. Cfr. A. EMINOV, “Turkish and other Muslim minorities in Bulgaria”, Hurst & Company, London, 1997, p. 86. 363 In contrasto con la Costituzione del 1947, che all'art.79 riconosce l'esistenza delle minoranze etniche e ne garantisce il rispetto dei diritti fondamentali, come il diritto all'istruzione nella propria lingua madre ed il mantenimento delle proprie caratteristiche culturali. La negazione dell'esistenza 154 appartenenti alla minoranza Pomak a “cambiare i propri nomi, rinunciare alla propria fede ed integrarsi nello stato socialista bulgaro”364. Le pressioni esercitate sui musulmani bulgari sortirono però l'effetto opposto a quello desiderato dal governo: molti tra i Pomak iniziarono ad identificarsi come appartenenti all'etnia turca 365, allo scopo di preservare la propria identità di musulmani. Le contromisure adottate dal governo bulgaro furono a dir poco drastiche: qualche anno più tardi, nel 1962, il Politburo approvò una serie di “Misure contro l'autoidentificazione come Turchi degli Zingari, Tatari e Bulgari che professano la religione musulmana”. In questa direttiva del governo venivano elencati numerosi fattori attraverso i quali si sarebbe svolto questo processo di identificazione: i principali erano la religione islamica, l'adozione di nomi arabi o turchi, i matrimoni interetnici366, l'esistenza di unità musulmane omogenee all'interno dell'esercito, l'insegnamento della lingua turca ai bambini non turchi nelle scuole frequentate anche da allievi turchi. Questa analisi riguardava soprattutto i musulmani bulgari; ma le stesse misure erano previste anche per i rom ed i tatari.367 La direttiva conteneva indicazioni precise, i cui scopi dichiarati erano “ [...]la rapida liquidazione della grande arretratezza economica e culturale della popolazione turca e zingara.” e “[...]lo sviluppo economico e culturale anche dei musulmani bulgari.”368 Così, per “fermare queste tendenze negative all'affiliazione con i turchi, che stanno di fatto conducendo all'assimilazione dei musulmani bulgari, degli zingari e dei tatari sotto l'influenza turca, ed allo scopo di rafforzare la loro educazione patriottica stessa delle minoranze nazionali si sarebbe concretizzata qualche anno più tardi, con la costituzione del 1971. Cfr. V. ORTAKOVSKI, “Minorities in the Balkans” , Transnational Publishers, Ardsley, 2000, p. 159 364 H. POULTON, “The Balkans: minorities and states in conflict”, Minority Rights Publications, London, 1993, p. 111. 365 La tendenza è verificabile consultando i censimenti dell'epoca. 366 “The intermarriages between Bulgarian Muslim women and and Turks and vice versa are used for the 'acquisition' of a Turkish nationality both for the spouses and their children.”, in “Measures against the Turkish self-identification of Gypsies, Bulgarian Muslims (Pomaks) and Tatars approved by the Politburo, April 1962” in A. EMINOV, “Turkish and other Muslim minorities in Bulgaria”, Hurst & Company, London, 1997, p. 191, appendice H. 367 Cfr. A. EMINOV, “Turkish and other Muslim minorities in Bulgaria”, Hurst & Company, London, 1997, p. 105. 368 “Measures against the Turkish self-identification of Gypsies, Bulgarian Muslims (Pomaks) and Tatars approved by the Politburo, April 1962” in A. EMINOV, “Turkish and other Muslim minorities in Bulgaria”, Hurst & Company, London, 1997, p. 191, appendice H. 155 [...]”369, vennero adottate le seguenti misure, che avrebbero dovuto essere applicate in gran parte dalle amministrazioni locali370: Tutte le organizzazioni politiche ed i locali organi del partito comunista, i sindacati e le amministrazioni locali delle zone abitate da rom, tatari e Pomak avrebbero dovuto condurre “una sistematica lotta politica ed ideologica contro la propaganda religiosa e sciovinista turca, e contro le sue aspirazioni pan-turche e pan-islamiche.” Istruzioni precise vennero impartite anche per quanto riguardava i registri di stato civile: le nuove istruzioni sulle modalità di registrazione anagrafica della popolazione specificavano che “la religione ed i nomi personali non sono criteri sui quali basare la propria nazionalità.” e che “i matrimoni interetnici non portano al cambiamento di nazionalità per i coniugi. I figli delle coppie miste possono essere registrati con nazionalità bulgara in modo completamente volontario e con il consenso esplicito di entrambi i genitori.” Inoltre, venivano previste procedure semplificate per coloro che avessero espresso la volontà di dichiarare se stessi e le proprie famiglie di nazionalità bulgara, sempre sulla base di un consenso esplicito. La modifica dei nomi personali, in questo caso, non richiedeva, come era stato fino ad allora, il vaglio dei locali tribunali popolari, ma prevedeva una semplice richiesta scritta alle autorità amministrative locali. Tra i destinatari di queste misure, che avrebbero dovuto essere accompagnate da “una larga e sistematica campagna di persuasione popolare”371, sono nominati espressamente i musulmani bulgari. Le modalità con cui sarebbe stata condotta questa “campagna di persuasione” vengono meglio specificate nei punti successivi della direttiva: tatari, rom e musulmani bulgari avrebbero dovuto essere oggetto di pressioni continue da parte delle autorità locali, affinché accettassero di “essere registrati con la loro vera nazionalità, in osservanza alla Legge sullo stato civile ed alle istruzioni per la sua applicazione, ad eccezione di coloro che sono già registrati come bulgari[...]” 369 “Measures against the Turkish self-identification of Gypsies, Bulgarian Muslims (Pomaks) and Tatars approved by the Politburo, April 1962” in A. EMINOV, “Turkish and other Muslim minorities in Bulgaria”, Hurst & Company, London, 1997, p. 191, appendice H. 370 Cfr. “Measures against the Turkish self-identification of Gypsies, Bulgarian Muslims (Pomaks) and Tatars approved by the Politburo, April 1962” in A. EMINOV, “Turkish and other Muslim minorities in Bulgaria”, Hurst & Company, London, 1997, pp. 192-194, appendice H. 371 “Measures against the Turkish self-identification of Gypsies, Bulgarian Muslims (Pomaks) and Tatars approved by the Politburo, April 1962” in A. EMINOV, “Turkish and other Muslim minorities in Bulgaria”, Hurst & Company, London, 1997, p. 191, appendice H. 156 Inoltre, una delle competenze delle autorità locali372 consisteva nell'impedire che famiglie di musulmani bulgari o di rom si trasferissero in zone abitate da una “compatta popolazione turca”373. I provvedimenti contenuti nella direttiva colpivano anche l'istruzione pubblica, conferendo al ministero della pubblica istruzione (ed alle autorità amministrative locali, competenti per l'applicazione) il compito di impedire che gli allievi di etnia bulgara, tatara o rom ricevessero un'istruzione in lingua turca. Per questo nelle scuole in cui fosse stata segnalata la presenza di bambini bulgari, tatari o rom non avrebbero più potuto prestare servizio insegnanti di etnia turca; per lo stesso motivo i contatti tra studenti turchi e studenti di altre etnie avrebbero dovuto essere evitati con ogni mezzo, dal divieto di soggiornare negli stessi ostelli alla separazione vera e propria all'interno delle classi. Dal punto di vista dei contenuti dei programmi scolastici e dell'educazione delle reclute, sarebbe stata garantita la “corretta educazione dei giovani musulmani bulgari, zingari o tatari” grazie al rafforzamento “della consapevolezza nazionale e dell'educazione comunista e patriottica” dei giovani zingari, tatari o bulgari che avessero dimostrato “la tendenza ad affiliarsi con i turchi”374. Le misure previste nella direttiva investono anche il ruolo delle autorità religiose musulmane: il punto numero 7 della direttiva prevede infatti che al “clero musulmano” venga “correttamente spiegata” la questione dei musulmani non turchi; gli imam ed i mufti locali dunque, si afferma, hanno l'obbligo di “collaborare con la legislazione socialista” e di impedire “ogni propaganda reazionaria in favore dell'affiliazione con i turchi, specialmente attraverso i servizi religiosi”; inoltre devono specificamente evitare che vengano assegnati dei religiosi turchi a villaggi “con una omogenea popolazione zingara o tatara, o di musulmani bulgari.” L'ultimo punto della direttiva si occupa degli aspetti “culturali” della questione: all'Accademia delle Scienze bulgara viene affidato il compito di creare gruppi di studiosi (storici, etnografi, filologi...) che accertino l' “origine etnica” delle diverse popolazioni componenti la nazione bulgara. In particolare, queste ricerche avrebbero dovuto dimostrare “la verità storica sui risultati delle politiche di assimilazione degli 372 373 374 Nello specifico, i “consigli popolari”. Punto n.4 della direttiva. Punto n.6 della direttiva. 157 oppressori turchi, riguardo le conversioni, individuali e di massa, all'islam.” Dapprima, nel fornire istruzioni sulle modalità di attuazione della direttiva, il governo bulgaro condannò espressamente ogni forma di violenza o di applicazione forzata delle misure in essa contenute; in alcuni casi addirittura i nomi bulgari che erano stati “consigliati” ai Pomak vennero nuovamente sostituiti con gli antichi nomi musulmani. La situazione cambia nuovamente tra i 1971 ed il 1973: il 18 maggio 1971375 viene approvata la seconda costituzione bulgara del dopoguerra. In questa nuova carta costituzionale, le minoranze etniche bulgare non vengono nemmeno nominate: l'ordinamento bulgaro non prende in considerazione la loro esistenza, in ossequio all'idea, affermata esplicitamente in seguito, nella nuova legge sullo stato civile del 1975, di una Bulgaria in cui “la nazionalità non avrebbe più avuto alcun significato”376 . L'unica concessione alle minoranze, o meglio, ai “cittadini che non sono di origine bulgara”377, viene fatta sul piano della lingua: a queste categorie è infatti “permesso” ( ma non nella forma di un diritto garantito) studiare la propria lingua madre. In ogni caso, in pieno accordo con la direzione indicata dalla costituzione del 1971, in questo periodo riprendono con nuovo vigore le campagne per la modifica dei nomi personali; nel luglio 1970 viene emanata dal governo una nuova direttiva sulla “necessità di cambiare l'abbigliamento ed i nomi Turco- arabi”378 della popolazione bulgara di religione musulmana. Questa volta le misure 375 Interessante per l'analisi delle graduali modifiche avvenute nei testi costituzionali la “divisione in fasi” teorizzata da Lilia Petkova: “In the first phase, 1947-1971, a communistdominated Parliament adopted a law that became known as the Dimitrov Constitution after the then head of government, with a clause stating ‘national minorities are entitled to be taught in their mother tongue and develop their national culture’ thus recognising the existence of national minorities and stipulating the rights conferred to them by the state. During the second phase, 19711991, the so-called Zhivkov Constitution was in force that ‘dropped all references to minorities.’ (Pundeff 1992: 106) The Constitution in force at present was adopted in 1991 by a Grand National Assembly in which the Socialists (the new name of the former Communist Party) had a majority (211 out of 400 seats), sufficient to pass the document despite the vehement disapproval of the opposition. (Bell 1997: 375) This Constitution and existing legislation do not use the term ‘national minority.’ (Bulgarian Helsinki Committee: 2000) The rights of all Bulgarian citizens are protected through provisions defining their individual, rather than collective rights.” L. PETKOVA, “The ethnic Turks in Bulgaria:social integration and impact on Bulgarian-Turkish relations, 1947-2000”, The Global Review of Ethnopolitics, vol.1, n. 4, giugno 2002, pp. 42-59. 376 V. ORTAKOVSKI, “Minorities in the Balkans” , Transnational Publishers, Ardsley, 2000, p. 160. 377 Art. 45, in V. ORTAKOVSKI, “Minorities in the Balkans” , Transnational Publishers, Ardsley, 2000, p. 160. 378 A. EMINOV, “Turkish and other Muslim minorities in Bulgaria”, Hurst & Company, London, 1997, p. 106. 158 indicate vennero messe in pratica senza correttivi ed eccezioni: tra il 1971 ed il 1973, tutta la popolazione Pomak venne obbligata ad adottare nomi bulgari.379 Le misure per la modifica dei nomi personali furono accompagnate da una serie di proibizioni riguardanti i rituali e le pratiche religiose islamiche. I nomi imposti erano spesso quelli tipici della tradizione cristiana; molte moschee vennero chiuse, la pratica della circoncisione venne vietata, così come la celebrazione di molte festività della tradizione religiosa musulmana. Anche l'abbigliamento tradizionale, soprattutto quello femminile, venne messo al bando. Per garantire il rispetto di tutte queste prescrizioni, nelle zone abitate dai musulmani bulgari venne inviato l'esercito. In linea con la costituzione vigente all'epoca, dunque, l'ordinamento cerca di eliminare, con gli strumenti del diritto (direttive governative, linee guida alle amministrazioni locali, riforme legislative) ma non solo (i metodi utilizzati per convincere la popolazione a seguire le direttive del governo sono ormai noti e documentati) gli elementi che contraddistinguono le popolazioni bulgare come appartenenti ad una minoranza: le riforme in questo senso non sono rivolte contro l'islam in quanto tale, ma in quanto elemento che accomunava le popolazioni bulgare islamiche alla minoranza turca , spezzando e mettendo così in discussione la finzione giuridica dell' “omogeneità nazionale” contenuta nella carta costituzionale del 1971 e sostenuta contro ogni evidenza dalle autorità governative. Le misure di assimilazione si rivolgono infatti contro gli elementi che, in assenza di differenziazioni di tipo fisico, risultano più evidenti nell'individuazione degli aspetti caratterizzanti delle diverse etnie: i nomi propri e le tradizioni religiose, con le loro ripercussioni sulla vita sociale e sull'educazione.380 379 “Without documents showing their new status, they could not receive their salaries or pensions; they had no acces to their bank accounts; they could not apply for a change of residence; they could be fired from their jobs and could not apply for new jobs; and people without new passports(everyone in Bulgaria was required to to carry an internal passport on his/her person all the time), could be fined or imprisoned. Refusing toy receive a new passport with a Bulgarian name therefore was equivalent to administrative suicide.” A. EMINOV, “Turkish and other Muslim minorities in Bulgaria”, Hurst & Company, London, 1997, p. 107. 380 “In the Balkan context, where there is no visible racial/color difference between Christian and Muslim, names are one of the primary indicators of ethno-religious affiliation[...]” M. NEUBURGER, “The Orient within”, Cornell University Press, Ithaca, 2004, p. 143. 159 7.2.2 1984-1989: la campagna di assimilazione della comunità turca I primi tentativi di assimilazione della comunità turca da parte del governo bulgaro risalgono agli anni subito successivi al secondo conflitto mondiale. Tuttavia, è a metà degli anni '50 che il partito comunista bulgaro inizia a teorizzare un processo di assimilazione (termine che in questi primi anni non viene comunque mai utilizzato) della minoranza etnica turca. L' “unificazione etnica”, la “integrazione degli zingari bulgari, dei turchi e di altri nello stile di vita socialista”, l' “affermazione di uno stile di vita e di una cultura socialista, e di un complesso di rituali socialisti”381 vengono indicati come gli obiettivi a cui mira il cosiddetto “processo di rinascita”382 ideato nei confronti della comunità turca. Nel corso degli anni '70 venne istituito uno speciale comitato in seno al Comitato centrale del partito comunista bulgaro, allo scopo di studiare il problema e di trasmettere raccomandazioni al Politburo. Alcune furono recepite, ma non implementate: tra queste, una raccomandazione risalente ai primi anni di attività di questo comitato suggeriva l'utilizzo di diversi approcci al fine di integrare la popolazione turca nella società bulgara, tramite programmi finalizzati ad elevare il livello culturale della popolazione turca, a diffondervi i valori socialisti ed a superare gli ostacoli che la religione poneva al processo di integrazione. Tuttavia, le direttive alla fine impartite dal governo bulgaro andavano decisamente in un'altra direzione: la misura più importante, e quella applicata con più zelo, fu quella della modifica forzata dei nomi personali.383 La campagna si svolse in due fasi. La prima, dalla fine di dicembre del 1984 al 14 gennaio 1985, interessò soprattutto la Bulgaria sudorientale: nel giro di poche settimane tutta la popolazione di etnia turca che abitava quelle zone, o che semplicemente vi era nata trasferendosi poi in altre regioni, fu forzata a lasciare i 381 A. EMINOV, “Turkish and other Muslim minorities in Bulgaria”, Hurst & Company, London, 1997, pp. 84-85. 382 “[...]the Bulgarian government embarked upon a policy of creating a single-nation state by assimilating the minority populations into the mainstream Bulgarian culture. This policy came to a brutal climax in the so- called 'revival process' of 1984-1985.” V. ORTAKOVSKI, “Minorities in the Balkans” , Transnational Publishers, Ardsley, 2000, p. 170. 383 “This new approach was presented to a meeting of influential party members by Georgi Atanasov. He reminded the participants in the meeting that the Constitution recognized the right of every citizen to change his/her name. In the same meeting Atanasov suggested that the low cultural and educational levels among Turks and the use of the Turkish language could create serious obstacles to change of names [...]” A. EMINOV, “Turkish and other Muslim minorities in Bulgaria”, Hurst & Company, London, 1997, p. 85. 160 propri nomi musulmani e ad assumere nomi bulgari. Queste operazioni vennero condotte cercando di mantenere il massimo grado di segretezza possibile, ed informando solamente pochi responsabili di partito, ad operazioni già concluse. Presto tuttavia, nel febbraio 1985, si aprì la seconda fase delle operazioni, durante la quale i turchi che popolavano le restanti regioni della Bulgaria vennero costretti ad abbandonare i propri nomi musulmani per cambiarli in nomi bulgari. I metodi di “convincimento” utilizzati erano i più disparati ed avevano ben poco a che fare con il diritto, soprattutto nelle aree rurali, in cui l'esercito si limitava a radunare la popolazione dei villaggi e ad obbligarla ad accettare i nuovi documenti sotto la minaccia delle armi. Nelle zone urbane, però, dove le etnie si mescolavano, all'uso indiscriminato della violenza fisica si sostituivano i più sottili metodi burocratici. Ad esempio, le operazioni di modifica dei nomi venivano effettuate nei luoghi di lavoro: al lavoratore dipendente turco venivano presentati i nuovi documenti, che attestavano la sua origine bulgara, e gli venivano concessi alcuni giorni affinché potesse riflettere e scegliere se accettare la nuova identità o perdere il posto di lavoro. Oppure, le autorità si servivano delle norme che regolamentavano il servizio di leva, obbligatorio per ogni cittadino maschio: le reclute di etnia turca venivano inviate in campi militari isolati e private di ogni contatto con le rispettive famiglie; la distribuzione veniva organizzata in modo che nessun turco venisse a contatto, durante il servizio di leva, con altre persone della propria etnia. Dopo qualche tempo le reclute venivano informate che la sostituzione del proprio nome con un nome bulgaro era stata resa obbligatoria per i militari turchi in servizio a causa di un ordine del Ministero della Difesa; chi non avesse accettato il cambio di identità anagrafica sarebbe stato portato davanti alla Corte marziale per aver disatteso un ordine dei propri superiori. Dopo aver ricevuto queste istruzioni, la recluta veniva di solito messa in isolamento per qualche giorno. Al termine di questo periodo quasi ogni soldato turco firmava una dichiarazione scritta in cui affermava di aver acconsentito spontaneamente e di propria iniziativa alla modifica dei propri dati anagrafici e all'adozione di un nome bulgaro.384 384 Resoconti delle “modalità di convincimento” utilizzate dalle autorità civili e militari bulgare, dettagliati e corredati da interviste, sono contenuti nel report di Amnesty International “Bulgaria: Imprisonment of ethnic Turks-Human rights abuses during the forced assimilation of the Ethnic 161 Per tutti, le conseguenze del rifiuto avrebbero significato la perdita letterale della propria identità dal punto di vista civile ed amministrativo: coloro che non disponevano di documenti che ne attestavano l'origine etnica bulgara avrebbero perduto i diritti fondamentali, dalla possibilità di percepire il salario al diritto di oltrepassare i confini di stato, al diritto all'assistenza sanitaria o ai trasporti pubblici.385 Il mancato possesso di documenti “bulgari” poteva portare alla comminazione dapprima di sanzioni pecuniarie, poi alla detenzione “ai fini di identificazione”, ed infine anche a processi penali per l'accusa di “violazione dei regolamenti sui passaporti”386. La campagna di assimilazione nei confronti della comunità turca, oltre a concentrarsi sulla modificazione “amministrativa” dell'identità della popolazione di etnia turca, fu diretta anche contro ogni manifestazione religiosa e culturale che esprimesse questa identità: il principale obiettivo di questo secondo aspetto fu dunque, insieme alla lingua turca, il cui insegnamento era sparito dalla Bulgaria fin dagli anni '70, l'islam. I provvedimenti adottati dalle autorità bulgare andavano dalla chiusura e riconversione ad altri usi delle moschee, alla distruzione dei minareti e dei cimiteri islamici, alla rimozione e sostituzione immediata dei leader religiosi che si opponevano alla campagna di modificazione dei nomi personali. L'istruzione religiosa e lo studio del Corano vennero dichiarati illegali, come anche la celebrazione delle principali festività musulmane. Lo Special Rapporteur sull'intolleranza religiosa del Comitato per i diritti umani inserì la Bulgaria nell'elenco dei sette paesi che violavano sistematicamente le libertà religiose previste dalle convenzioni internazionali387. Fino al 1989, la comunità turca si oppose al “processo di rinascita”, con violente proteste che spesso sfociarono nello scontro con le forze di polizia o con l'esercito bulgaro, causando non poche vittime. Centinaia di dimostranti, arrestati in seguito alle manifestazioni di dissenso, vennero processati per spionaggio ed attività eversive contro lo stato e condannati a pesanti sanzioni detentive. Turkish Community”, London, 1986. 385 Cfr. V. ORTAKOVSKI, “Minorities in the Balkans” , Transnational Publishers, Ardsley, 2000, pp.88 ss. 386 Cfr. A. EMINOV, “Turkish and other Muslim minorities in Bulgaria”, Hurst & Company, London, 1997, p. 88 ss. 387 Cfr. V. ORTAKOVSKI, “Minorities in the Balkans” , Transnational Publishers, Ardsley, 2000, pp. 170 ss. 162 Nel 1988 il movimento di protesta si formalizzò nella costituzione della Lega Democratica per la difesa dei diritti umani. Fino al 1989, prima che il governo turco chiudesse i confini di stato, 350.000 turchi avevano già lasciato la Bulgaria388. Nel caso bulgaro, dunque, durante la vigenza della costituzione del 1971, l'idea di minoranza, sia etnica sia religiosa, semplicemente non è contemplata. L'esistenza di una comunità musulmana, dunque, non è osteggiata in quanto tale; piuttosto, l'islam – o meglio, le sue manifestazioni culturali - viene combattuto ed annientato perché rappresenta un elemento altro, che incrina e spezza l'affermata omogeneità nazionale dello stato bulgaro: esso infatti costituisce, insieme al linguaggio ed al nome proprio, il legame con ciò che le autorità bulgare cercano di negare dal dopoguerra in poi: l'esistenza dell'etnia turca sul territorio bulgaro e del processo di identificazione che i musulmani di Bulgaria, anche se non turchi, operano con questa comunità grazie al nesso creato dalla comune appartenenza religiosa. La “finzione giuridica” sancita nella costituzione del 1971 non può convivere con l'esistenza di un gruppo etnico, quello turco, da secoli radicato nel territorio bulgaro, che non solo non condivide con la “nazione socialista bulgara” le origini, ma con il quale gruppi di bulgari si identificano ed al quale si affiliano, perché accomunati dalle tradizioni culturali e dall'appartenenza religiosa. 7.3 L'approccio costituzionale del 1991 La riprovazione della comunità internazionale389 e la caduta del regime di Todor Zhivkov, alla fine del 1989, portarono alla cessazione delle campagne di 388 “On several occasions during the summer of 1989, the administration condemned Bulgaria's persecution of its Turkish minority. These Turks have faced a harsh assimilation campaign since 1984 intended to eradicate their cultural and religious identity. The campaign gained visibility in late May, when tens of thousands of Turks took to the streets in the northeastern and southeastern provinces to demonstrate against assimilation. Police and soldiers violently suppressed the demonstrations. Scores of Turks were reportedly killed and hundreds of others were injured. On May 24, several days after the first reports of the demonstrations appeared in the Western press, the State Department denounced Bulgaria's crackdown. In a brief statement, a spokesperson deplored Bulgaria's blatant use of force in attempting to silence the long repressed ethnic Turkish minority." Helsinki Watch 1989, www.hrw.org 389 “The Bulgarian campaign for forced assimilation of the Turks, especially after the exodus of the Turks in 1989, was widely condemned by CSCE, in United Nation, by Turkey, the USA, several Western European governments, and Islamic countries.” V. ORTAKOVSKI, “Minorities in the Balkans” , Transnational Publishers, Ardsley, 2000, p. 173. 163 assimilazione nei confronti della comunità turca e delle altre minoranze musulmane. Una serie di misure graduali vennero adottate per ripristinare i diritti fondamentali delle minoranze fino ad allora perseguitate. Nel gennaio del 1990 il Parlamento bulgaro adottò una dichiarazione in undici punti, nella quale si chiariva la posizione delle minoranze nazionali in Bulgaria e si specificavano i diritti ad esse riconosciuti: si sancivano in via principale il principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge; il diritto di ogni cittadino a scegliere quale religione professare ed a scegliere liberamente il proprio nome; il diritto di ogni cittadino, sebbene il bulgaro continuasse ad essere la lingua ufficiale, ad utilizzare per le proprie comunicazioni qualsiasi lingua, senza discriminazioni390. Nel marzo dello stesso anno venne approvata la legge che permetteva a turchi e Pomak di ripristinare i loro nomi musulmani. La legge prevedeva il recupero dell'”identità islamica” tramite una procedura che si sarebbe svolta di fronte ad un tribunale civile; il richiedente doveva citare due testimoni a proprio favore; il tribunale, d'altro canto, era autorizzato a rigettare la domanda; gli osservatori internazionali rimanevano tuttavia scettici a causa degli elementi di arbitrarietà che ancora permanevano all'interno della procedura, delle restrizioni ancora imposte sulla scelta dei nomi e della tassa il cui versamento era richiesto per poter accedere alla procedura. Con un emendamento del novembre 1990, tuttavia, per gli appartenenti all'etnia turca fu possibile recuperare il proprio nome attraverso un procedimento di tipo amministrativo391. Nel frattempo, per circa un terzo dei turchi emigrati forzatamente in Turchia negli anni precedenti era stato possibile far rientro in patria; gradualmente venivano 390 Cfr. V. ORTAKOVSKI, “Minorities in the Balkans” , Transnational Publishers, Ardsley, 2000, p. 173. 391 “Passed by the National Assembly in March, the law allowed citizens whose names had been forcibly changed during the assimilation campaign to restore their former names. But applicants were required to use a judicial procedure to change their names, and after December 31, 1990, to pay a fee for the procedure. Many individuals whose names had been forcibly changed during the assimilation campaign objected to this procedure. They argued -with good cause -- that their names had been taken away by an administrative (non-judicial) procedure, and thus they should be able to restore their names by a simple administrative procedure rather than a cumbersome judicial one. Applicants were also required to retain the traditional Bulgarian name endings (ov, ev, ova, eva), to which many objected. In November, Parliament enacted new legislation to respond to these concerns, allowing the use of an administrative procedure to restore names that had been forcibly changed, deferring fees for this process until 1995, and permitting names without traditional Bulgarian endings.” Helsinki Watch 1990, www.hrw.org 164 riaperte le moschee e reintrodotte le festività musulmane, mentre la lingua turca tornò ad essere parlata in pubblico ed usata nei mezzi di comunicazione di massa. Ad essere più decisamente contrastata, tuttavia, fu la reintroduzione dell'insegnamento del turco nelle scuole: l'annuncio del Ministro della pubblica istruzione che nel marzo del 1991 l'insegnamento in turco sarebbe stato reintrodotto nei programmi scolastici “in via sperimentale”scatenò violente proteste da parte delle frange politiche più nazionaliste. Tuttavia, nonostante gli annunci a livello nazionale, l'attuazione delle riforme scolastiche annunciate venne per lo più affidata alle autorità locali, le quali avevano in grande maggioranza appoggiato la politica di assimilazione di Zhivkov: nei fatti, dunque, la reintroduzione dell'insegnamento del turco nelle scuole si rivelò a dir poco lenta e parziale392. In questo clima dunque venne approvata, il 12 luglio 1991, la nuova Costituzione bulgara. Il nuovo testo abbandona il concetto, promosso dalla carta costituzionale precedente, di una nazione bulgara omogenea e basata sull'idea di cittadinanza.393 Il testo costituzionale, però, è ancora ben lontano dal riconoscere e tutelare l'esistenza delle minoranze presenti sul territorio bulgaro, siano esse minoranze etniche o religiose: atteggiamento questo che avrebbe causato non poche difficoltà all'ordinamento bulgaro, soprattutto in ambito europeo. L'art. 6 vieta ogni discriminazione sulla base di elementi quali la razza, il genere, il colore della pelle, l'identità etnica, e vieta ogni restrizione o privilegio nell'esercizio dei diritti sulla base di questi fattori. L'art. 13 invece tutela la libertà religiosa e sancisce la separazione tra stato e religione. Tuttavia, pur affermando l'uguaglianza di ogni religione di fronte allo stato, definisce anche il cristianesimo ortodosso (l'unico culto esplicitamente nominato) come “religione tradizionale della Repubblica”. Il riconoscimento costituzionale, inoltre, per molti versi è solamente formale, dato che, ad esempio, all'art. 46 si afferma che solamente il matrimonio civile, e non anche il 392 “Although the Bulgarian Constitution guarantees the right of all citizens to study their mother tongue, the Turkish minority's demand that Turkish be taught in public schools was adamantly contested by nationalist groups. Blockades and hunger strikes occurred after the Minister of Education announced that experimental Turkish classes would start in March. The National Assembly backed away from its initial schedule and, on March 8, voted to postpone Turkish language classes until September. On October 1, the National Assembly passed a law prohibiting the teaching of minority languages in Bulgarian schools. Alternative legislation to make Turkish classes optional was rejected.” Helsinki Watch 1991, www.hrw.org. 393 Cfr. V. ORTAKOVSKI, “Minorities in the Balkans” , Transnational Publishers, Ardsley, 2000, p. 160. 165 rito religioso, ha valore legale, a differenza di quanto accade negli ordinamenti che operano un riconoscimento effettivo delle istituzioni religiose. All'art. 29, in memoria della storia recente del paese, è stabilito espressamente il divieto di assimilazione forzata. Tuttavia, ciò non equivale ad un espresso riconoscimento dell'esistenza delle minoranze nazionali, linguistiche o religiose: il termine infatti non è mai menzionato nel testo costituzionale, in cui si trovano invece le espressioni “cittadini la cui lingua madre non è il bulgaro”394 e “diritto a [...] sviluppare la propria cultura secondo la propria identità etnica”395, a dimostrazione della persistente riluttanza delle autorità politiche bulgare ad ammettere l'esistenza di minoranze etniche, religiose o linguistiche sul proprio territorio. Anzi, per quanto riguarda, ad esempio, la tutela delle minoranze linguistiche (questione delicata, soprattutto se si ricordano le pesanti restrizioni imposte all' utilizzo della lingua turca negli anni immediatamente precedenti l'approvazione della Costituzione) l'art. 36 prevede solo, per ogni cittadino “la cui lingua madre non è il bulgaro”, il diritto allo studio ed all'uso della propria lingua accanto all'apprendimento obbligatorio del bulgaro, nelle modalità stabilite dalla legge ordinaria. L'atteggiamento dell'ordinamento bulgaro nei confronti delle minoranze396 risulta però evidente soprattutto dall'analisi di altre due disposizioni, che sarebbero state protagoniste di una importante vicenda politica e giudiziaria: si tratta in primo luogo del divieto di formare partiti ed associazioni su base etnica, razziale o religiosa, contenuto nel comma 4 dell'articolo 11 del testo costituzionale, disposizione utilizzata sistematicamente come base giuridica allo scopo di impedire la rappresentanza a livello istituzionale, ed in particolare in ambito parlamentare, delle minoranze etnico-religiose ed in particolare della minoranza turca, come verrà meglio specificato nel paragrafo successivo; in secondo luogo, poi, dell'articolo 44 394 Art. 36. 395 Art. 54. 396 “Among the Constitution's deficiencies is its ban on registering political parties organized along ethnic, racial or religious lines. Both as drafted and as applied, this prohibition violates the right of peaceful association [...]. The Constitution [...] bans associations or religious societies that have political aims or engage in political activity. Again, such a narrow view of freedom of association has no place in a democratic society.” Questo il commento in merito all'art. 11 della Costituzione riportato nel rapporto Helsinki Watch 1991, www.hrw.org 166 comma 2, che vieta la costituzione di organizzazioni che minaccino la sovranità e l'integrità nazionale e che incoraggino le divisioni su base razziale, etnica, nazionale o religiosa. L'atteggiamento dell'ordinamento bulgaro nei confronti delle proprie minoranze etnico-religiose non venne smentito nemmeno nel 1997,in occasione della firma da parte della Bulgaria, in seno al Consiglio d'Europa, della Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali del 1995, ratificata poi nel 1999. Quella della Bulgaria fu una firma “condizionata”: infatti, in questa occasione un gruppo di deputati del Partito Socialista Bulgaro presentarono un'interrogazione alla Corte Costituzionale, chiedendo che si stabilisse se la Convenzione, la quale fa espressamente uso del termine “minoranze nazionali”, contiene previsioni che contraddicono la Costituzione bulgara, dove il termine è assente. La Corte stabilì che i principi generali della Convenzione non contrastavano con la Costituzione, ma che, dato che la Costituzione non utilizza, e perciò tantomeno definisce il termine “minoranza nazionale”, il Parlamento avrebbe dovuto definire il termine prima di ratificare la Convenzione, prestando particolare attenzione a due articoli costituzionali: l'art. 11, che vieta le associazioni ed i partiti basati su fattori etnici, razziali e religiosi, e l'art. 36, che sancisce il diritto di ogni cittadino di utilizzare e studiare la propria lingua madre. Con la decisione n. 15/97 del febbraio 1998, la Convenzione fu definitivamente dichiarata non confliggente con la Costituzione bulgara da parte della Corte Costituzionale: tuttavia, per poter affermare la compatibilità dei due testi e al tempo stesso evitare di accogliere tra i principi costituzionali il riconoscimento dell'esistenza delle minoranze nazionali, la Corte Costituzionale bulgara si serve di alcuni stratagemmi interpretativi che le consentono di evitare i nodi fondamentali del problema. Innanzitutto, stabilisce che il termine “minoranze nazionali” non ha alcun significato legalmente vincolante né nel diritto internazionale, né nel diritto nazionale bulgaro: pertanto, ritiene che la definizione del contenuto che tale espressione deve avere sia lasciata alla discrezionalità di ogni singolo stato firmatario della Convenzione. Di conseguenza, afferma che la Convenzione non tutela alcun tipo di diritto collettivo: nell'opinione della Corte i diritti tutelati dalla Convenzione per la 167 protezione delle minoranze nazionali possono essere esercitati dagli individui in quanto tali e non come facenti parte di una minoranza o di un gruppo 397. Questo ragionamento viene applicato sia all'art. 8 della Convenzione, che tutela la libertà religiosa, sia agli articoli 9, 10 e 11 della Convenzione che garantiscono il diritto all'uso delle lingue minoritarie398. Infine, nel 1999 la Convenzione é ratificata con voto favorevole dei rappresentanti di tutti i partiti eletti in Parlamento, ad eccezione dei deputati del Partito Socialista Bulgaro399. In questo modo, però, l'intera Convenzione viene dichiarata compatibile con i principi costituzionali dell'ordinamento bulgaro, ma senza effettivamente accettare i contenuti della Convenzione stessa e gli obblighi che ne deriverebbero, come è dimostrato anche dal comportamento recente delle autorità bulgare nei confronti delle minoranze presenti sul territorio nazionale. Questa riluttanza dello stato bulgaro a dare una reale implementazione alle previsioni della Convenzione è rilevata anche dall'Advisory Committee del Consiglio d'Europa per l'applicazione della Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali, soprattutto in relazione alla definizione stessa del concetto di minoranza400, assente, come già accennato, nell'ordinamento bulgaro, il che costituisce, se vogliamo, il punto di partenza e la causa di tutte le altre carenze riscontrate. Queste si verificano, per quanto riguarda la minoranza musulmana, soprattutto nella mancata previsione della categoria dei Pomak tra quelle incluse negli ultimi censimenti: questo fatto indica, secondo l'Advisory Committee, un preciso intento mirato alla discriminazione ed alla negazione dell'esistenza di particolari gruppi etnici e linguistici, come quello, in 397 DECISION NO. 2 OF FEBRUARY 18, 1998 ON CONSTITUTIONAL CASE NO. 15/97, punto 1, in www.constcourt.bg. 398 DECISION NO. 2 OF FEBRUARY 18, 1998 ON CONSTITUTIONAL CASE NO. 15/97, punti 2 e 3, in www.constcourt.bg. 399 Cfr. V. ORTAKOVSKI, “Minorities in the Balkans” , Transnational Publishers, Ardsley, 2000, pp. 161-162. 400 “The Advisory Committee notes that the expression 'national minority' has no legal definition in Bulgaria, which does not have legislation specifically dealing with the protection of minorities. The Bulgarian Constitution, furthermore, does not mention the existence of national minorities in Bulgaria. Nonetheless, Article 54.1 of the Bulgarian Constitution provides that 'Everyone shall have the right to avail himself of the national and universal human cultural values and to develop his own culture in accordance with his ethnic self-identification, which shall be recognised and guaranteed by the law'.” ADVISORY COMMITTEE ON THE FRAMEWORK CONVENTION FOR THE PROTECTION OF NATIONAL MINORITIES, opinion on Bulgaria n. ACFC/OP/I(2006)001, 5.4.2006, p.8, punto 16. 168 questo caso, dei musulmani bulgari401. Un altro aspetto in cui la minoranza musulmana incontra un trattamento fortemente discriminatorio da parte delle autorità bulgare è quello dell'amministrazione della giustizia: l' opinione dell'Advisory Committee rileva soprattutto una sproporzione tra il numero di detenuti appartenenti a questa minoranza, oltre che alla minoranza rom, ed il numero di detenuti di diversa origine. Inoltre, riferisce testimonianze di abusi commessi durante la carcerazione preventiva e rileva l'inadeguatezza delle garanzie in merito all'assistenza legale402. Insomma, nonostante le affermazioni di impegno delle autorità bulgare, l'adozione nel 2004 di una Legge di protezione contro la discriminazione403 e la costituzione da parte del Consiglio dei ministri di un organo consultivo quale il Concilio per la cooperazione sulle questioni etniche e demografiche,404 sembra che fino ad oggi non si siano verificati dei sostanziali cambiamenti per quanto riguarda la tutela delle minoranze nazionali, anzi, le discriminazioni nei confronti della comunità turca e delle altre minoranze musulmane sembrano continuare. 7.4 La questione della rappresentanza: partiti politici, autorità religiose La questione della rappresentanza della comunità musulmana ed i problemi che negli ultimi anni si sono verificati nel rapporto con le istituzioni bulgare vanno analizzati sotto due aspetti distinti: da un lato va affrontato il nodo della rappresentanza parlamentare, con le vicende occorse al Movimento per i diritti e le libertà negli anni 1990 e 1991; dall'altro è necessario considerare la posizione delle autorità religiose 401 ADVISORY COMMITTEE ON THE FRAMEWORK CONVENTION FOR THE PROTECTION OF NATIONAL MINORITIES, opinion on Bulgaria n. ACFC/OP/I(2006)001, 5.4.2006, pp. 10-11, punti 25-27 402 ADVISORY COMMITTEE ON THE FRAMEWORK CONVENTION FOR THE PROTECTION OF NATIONAL MINORITIES, opinion on Bulgaria n. ACFC/OP/I(2006)001, 5.4.2006, p. 12, punto 33. 403 Cfr. ADVISORY COMMITTEE ON THE FRAMEWORK CONVENTION FOR THE PROTECTION OF NATIONAL MINORITIES, Comments of the government of Bulgaria on the opinion of the Advisory Committee on the implementation of the Framework Convention for the protection of national minorities in Bulgaria, n. GVT/COM/I(2006)001, 5.4.2006, ed i due State Reports inviati dallo stato bulgaro, il primo del 9.4.2003, n. ACFC/SR(2003)001, il secondo recentissimo, del 23.11.2007, n. ACFC/SR(2007)007. 404 “[...]the main body for consultation and coordination of Government policies regarding persons belonging to ethnic,religious or linguistic minorities. The NCCEDI is composed of 16 ministries, 9 state agencies and 42 NGOs, including various minority associations.” Second report submitted by Bulgaria pursuant to article 25, paragraph 1 of the Framework Convention for the protection of national minorities, n. ACFC/SR(2007)007, p. 3, Introduzione. 169 musulmane nei confronti del governo bulgaro, attraverso l'analisi di alcune sentenze che hanno deciso altrettanti ricorsi proposti dalle stesse autorità alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo. 7.4.1 Il Movimento per i diritti e le libertà: un partito a base etnica, nonostante la Costituzione Nel febbraio 1990, dal Movimento turco per la libertà nazionale, nato spontaneamente verso la fine degli anni '80 come reazione alla campagna di assimilazione, nacque il Movimento per i diritti e le libertà (MRF), che annoverava tra le proprie prerogative la rappresentanza, sul piano politico-istituzionale, della comunità turca e di tutti i musulmani bulgari405. Quando però l'MRF tentò di registrarsi, come prevedeva la nuova normativa in vigore, per poter partecipare come partito politico alle elezioni del 1990, la richiesta venne rigettata una prima volta dal Tribunale di Sofia, sulla base della Legge sui partiti politici del 1990, la quale conteneva (prima ancora dell'entrata in vigore della Costituzione) il divieto di formare partiti politici su base etnica o religiosa. La motivazione del rigetto si basava sulla considerazione che il movimento avrebbe “perseguito la divisione politica dei cittadini [...] sulla base di distinzioni etniche, religiose e linguistiche” 406. Dopo che la richiesta venne rigettata anche in secondo grado dalla Corte Suprema bulgara, l'MRF dovette adattarsi a correre alle elezioni come movimento e non come partito, ottenendo comunque il 6% dei seggi in Parlamento407. A questo proposito, gli osservatori internazionali manifestarono la preoccupazione che il rigetto della domanda di registrazione, così motivato dai tribunali bulgari, potesse costituire un precedente per impedire, in occasioni future, la partecipazione dell'MRF alla vita politica ed istituzionale del paese.408 405 A. EMINOV, “Turkish and other Muslim minorities in Bulgaria”, Hurst & Company, London, 1997, p. 168. 406 Helsinki Watch 1991, www.hrw.org 407 Cfr. V. ORTAKOVSKI, “Minorities in the Balkans” , Transnational Publishers, Ardsley, 2000, p. 175. 408 “[...]Such a narrow view of freedom of association has no place in a democratic society. Although the MRF ran in the June 1990 elections as a 'movement', fears were expressed that this constitutional provision could be interpreted to prevent it from running in future 170 Nell'ottobre del 1991 vennero indette nuove elezioni, sia per il parlamento nazionale che per le amministrazioni regionali e locali. Nel frattempo, nel luglio dello stesso anno, era entrata in vigore la nuova Costituzione bulgara. All'art. 11 comma 4 il nuovo testo costituzionale vieta l'istituzione di partiti politici su base etnica, razziale o religiosa; all'art. 44 comma 2 è allo stesso modo proibita l'attività delle organizzazioni che possano minacciare la sovranità ed integrità dello stato, e che fomentino le divisioni tra i cittadini sulla base di fattori razziali, nazionali,etnici o religiosi. Quando l'MRF si presentò anche a queste elezioni in rappresentanza dei turchi e dei musulmani bulgari, circa cinquanta deputati appartenenti al Partito socialista bulgaro presentarono un ricorso alla Corte Costituzionale, nel quale denunciavano la violazione da parte dell'MRF sia dell'art. 11 sia dell'art.44 della Costituzione409. Le argomentazioni su cui si basava il ricorso sostenevano che “l'MRF [era] fondato su elementi etnici e religiosi; il Movimento [usava] la lingua turca; e l'MRF [favoriva] una politica di assimilazione etnica dei Musulmani Bulgari alla minoranza Turca e [promuoveva] così lo scontro etnico e religioso tra la popolazione.”410 Nel ricorso, i deputati dell'ex partito comunista bulgaro chiedevano che l'MRF venisse dichiarato incostituzionale, ed i suoi membri, di conseguenza, ineleggibili. Nell' aprile del 1992 venne emessa la sentenza: con una maggioranza più che risicata (e forse raggiunta grazie al fatto che uno dei giudici era ricoverato in ospedale!) il Movimento venne dichiarato non contrario alla Costituzione, sulla base di queste argomentazioni: in primo luogo, il Movimento era regolarmente registrato come tale presso il Tribunale di Sofia; in secondo luogo, nessuna organizzazione poteva essere vietata sulla base dell'identità religiosa ed etnica della maggioranza dei suoi membri; infine, ancora riguardo alla questione di legittimità costituzionale, le violazioni dei citati articoli della Costituzione avrebbero dovuto essere sanzionate in base alla Legge sui partiti politici, e denunciate di conseguenza alla Corte Suprema. Inoltre, sul piano sostanziale, i giudici affermarono di aver rilevato che il Movimento si opponeva alle “istanze di autonomia, sciovinismo nazionalista e vendicatività” e che non costituiva “una minaccia per i fondamenti della Costituzione, per la elections.” Helsinki Watch 1991, www.hrw.org 409 Cfr. A. EMINOV, “Turkish and other Muslim minorities in Bulgaria”, Hurst & Company, London, 1997, p. 168. 410 Dall' East European Constitutional Review, cit. in A. EMINOV, “Turkish and other Muslim minorities in Bulgaria”, Hurst & Company, London, 1997, p. 169. 171 sovranità e l'inviolabilità del territorio nazionale,e per la sicurezza nazionale.”411 7.4.2 Il caso “UMO Ilinden and others” ed il problema del riconoscimento dei gruppi minoritari Prima di affrontare la giurisprudenza della Corte di Strasburgo che riguarda direttamente i rapporti tra organizzazioni musulmane ed autorità bulgare può essere utile, al fine di comprendere il concreto atteggiamento della Bulgaria nei confronti delle associazioni rappresentative delle minoranze nazionali (questione che tocca da vicino, naturalmente, anche le relazioni con la minoranza musulmana), analizzare un caso paradigmatico per quel che riguarda la questione dei gruppi minoritari generalmente intesa: si tratta della vicenda dell'associazione Ilinden, facente capo alla minoranza macedone in Bulgaria, che dal 1990, anno della sua fondazione, chiede alle autorità bulgare di essere regolarmente registrata per poter svolgere le proprie attività, ma continua a vedersi negare questo diritto anche dopo che la Corte europea dei diritti dell'uomo ha dichiarato illegittimo il comportamento delle autorità bulgare. Nel primo articolo del proprio statuto412, l'associazione si dichiara “[...]un'organizzazione nazionale macedone, a base ed origine etnica [...]continuatrice della lotta di liberazione nazionale della nazione macedone [...]e dei combattenti macedoni che sono caduti vittime del terrorismo e del genocidio [perpetrati] dallo stato bulgaro”, specificando tuttavia all'articolo successivo di riconoscere “[...]l'integrità territoriale della Repubblica di Bulgaria, la sua Costituzione e le sue leggi” nella misura in cui sono compatibili con le norme di diritto internazionale e con i trattati di cui è parte la Bulgaria che tutelano le libertà fondamentali, i diritti umani ed i diritti delle minoranze. L'art. 3 elenca gli obiettivi e le finalità dell'associazione: “ [...]esprimere e difendere i diritti civili, politici, nazionali, sociali ed economici dei Macedoni che vivono in terra macedone sotto l'occupazione 411 Dall' East European Constitutional Review, cit. in V. ORTAKOVSKI, “Minorities in the Balkans”, Transnational Publishers, Ardsley, 2000, pp. 160 ss.. 412 I punti salienti del documento sono riportati nella sentenza della Corte di Strasburgo UMO ILINDEN AND OTHERS v. BULGARIA JUDGMENT, n.59491/00, punto 15. 172 (giurisdizione) bulgara e dei macedoni che vivono in Bulgaria.” Gli articoli seguenti esprimono la finalità di contrasto dei processi di assimilazione, messi in atto dall'ordinamento bulgaro, attraverso diversi strumenti, quale ad esempio la richiesta di riconoscimento dell'autocefalia della Chiesa ortodossa macedone. Prevedibilmente, lo stato bulgaro vede nelle finalità di questa associazione, che si riferisce apertamente all'etnia macedone -un'altra minoranza della quale, come per quella turca, l'ordinamento bulgaro ha sempre negato l'esistenza- un pericolo da evitare. Di conseguenza le ripetute richieste di registrazione inoltrate dall'associazione413 ai tribunali bulgari vengono regolarmente respinte sia sulla base di motivazioni tecniche e formali, sia con la solita formula “Non esiste una minoranza [questa volta] macedone in Bulgaria. Non ci sono argomenti storici, religiosi, linguistici o etnici che sostengano questa affermazione” accompagnata dall'osservazione che una tale affermazione sottende chiaramente l'intento di minare l'unità nazionale.414 Questa argomentazione costituisce il fondamento delle motivazioni di tutte le sentenze (ovviamente di rigetto) emesse in primo grado, in appello e dalla Corte di Cassazione in seguito ai molteplici ricorsi presentati dai rappresentanti di Ilinden.415 Nel 2000, esauriti i rimedi in ambito nazionale, l'associazione presenta ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo, lamentando una violazione dell'art. 11 della CEDU, che tutela la libertà di associazione, non soggetta a restrizioni che non siano “previste dalla legge e necessarie in una società democratica nell'interesse della sicurezza nazionale o dell'ordine pubblico, per la prevenzione del crimine, per la protezione della morale o della salute pubblica o per la tutela dei diritti e delle libertà di terzi”. La Corte accoglie il ricorso, affermando che i motivi, sia formali sia relativi agli intenti bellicosi e separatisti di Ilinden, addotti dai tribunali nazionali a sostegno del rifiuto di ammettere la registrazione dell'associazione, non soddisfano i requisiti richiesti dall'art. 11 della CEDU ai fini della legittimità delle restrizioni imposte alla libertà di associazione, e risultano “sproporzionati agli obiettivi 413 Avvenute nel 1990, nel 1998 e nel 2002. Cfr. UMO ILINDEN AND OTHERS v. BULGARIA JUDGMENT, n.59491/00, punti 9, 14, 22. 414 Sentenza del Tribunale regionale di Blagoevgrad del 2.11.1998 citata in UMO ILINDEN AND OTHERS v. BULGARIA JUDGMENT, n.59491/00, punto 17. 415 Si pronunciano rispettivamente in primo grado il Tribunale regionale di Blagoevgrad; in secondo grado la Corte di Appello di Sofia, che emette una sentenza di conferma; per il giudizio di legittimità la Corte di Cassazione bulgara, che rigetta il ricorso dell'associazione. 173 perseguiti”, soprattutto riguardo alla questione della “necessità [di una tale misura] in una società democratica”.416 Il governo bulgaro, tuttavia, non ha ad oggi ancora dato esecuzione alla sentenza, e l'associazione Ilinden attende ancora di essere regolarmente registrata, tra il disappunto e le critiche di molti osservatori internazionali417. L'atteggiamento del governo bulgaro non differisce per quanto riguarda il rapporto con le minoranze musulmane, come si può dedurre dai due casi seguenti. 7.4.3 Le autorità musulmane ed il governo bulgaro: i casi “Hasan and Chaush” e “Supreme Holy Council of the Muslim Community” L'unica confessione religiosa espressamente riconosciuta dalla Costituzione bulgara è il cristianesimo ortodosso, in quanto definito “religione tradizionale della Bulgaria”. Per l'acquisizione della personalità giuridica da parte delle altre comunità religiose, invece, la Legge sulle religioni, presente nell'ordinamento bulgaro dal 1949 ma emendata più volte nel corso della storia del paese, l'ultima nel 2002, prevede una procedura di registrazione presso il Tribunale di Sofia, disciplinata nel dettaglio dal Codice di procedura civile bulgaro cui il testo della legge rinvia espressamente418. Prima delle modifiche del 2002, tuttavia, la registrazione dipendeva ancora in gran parte dalla Direzione per le denominazioni religiose, un'agenzia governativa dipendente dal Consiglio dei Ministri: e proprio un intervento del governo bulgaro in un conflitto interno alla leadership della comunità musulmana, originato appunto da contrasti sorti in merito alla possibilità di accedere alla registrazione per le fazioni in lotta, ha dato luogo ai due ricorsi decisi dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, nei quali è stata affermata definitivamente l'illegittimità delle ingerenze dell'esecutivo bulgaro nell'esercizio delle competenze delle autorità religiose musulmane, sia sulla 416 UMO ILINDEN AND OTHERS v. BULGARIA JUDGMENT, n.59491/00, punti 57 e 82. 417 Cfr. COUNCIL OF EUROPE-COMMITTEE OF MINISTERS, Resolution ResCMN(2006)3 on the implementation of the Framework Convention for the Protection of National Minorities by Bulgaria, e ADVISORY COMMITTEE ON THE FRAMEWORK CONVENTION FOR THE PROTECTION OF NATIONAL MINORITIES, opinion on Bulgaria n. ACFC/OP/I(2006)001, 5.4.2006, p. 12, punto 58, in cui viene citata anche la sentenza STANKOV AND THE UMO ILINDEN V.BULGARIA JUDGMENT, n.29221/95 e 29225/95, relativa alla stessa vicenda. 418 Art. 15, co. 1. 174 base della legge nazionale sia rispetto a normative internazionali quale la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo. Prima di analizzare la vicenda giudiziaria, è bene spiegarne brevemente l'antefatto419: nel 1989, dopo il crollo del regime comunista, ebbe inizio in Bulgaria un processo di democratizzazione. In questo contesto, una parte della comunità musulmana bulgara ritenne che dovessero esserne rimossi i vertici, vale a dire il Mufti Capo Nedim Gendzhev ed i suoi collaboratori, componenti il Supremo Consiglio della comunità musulmana, a causa della loro passata collaborazione con il regime ormai caduto. Tuttavia, anche Gendzhev contava tra i fedeli un buon numero di sostenitori: la vicenda causò dunque lacerazioni e contrasti all'interno della Comunità stessa, divisa ormai in due fazioni. Le elezioni del 1991 ebbero come vincitori il Movimento per i diritti e le libertà e l'Unione delle forze democratiche, che verso la fine dell'anno formarono un nuovo governo. Il Partito socialista bulgaro, cioè l'ex Partito comunista, era all'opposizione. Pochi mesi dopo, nel febbraio 1992, la Direzione per le Denominazioni religiose, un'agenzia governativa dipendente dal Consiglio dei ministri, dichiarò nulla l'elezione di Nedim Gendzhev a Mufti Capo dei musulmani bulgari, avvenuta nel 1988, e ne ordinò la rimozione dall'incarico. Nel frattempo, istituì un Supremo concilio ad interim, composto da tre membri, che reggesse le sorti della Comunità musulmana fino a che non fosse stato eletto un nuovo Concilio ad opera di una Conferenza nazionale. La vicenda finì davanti alla Corte Suprema, che rigettò infine il ricorso di Gendzhev. L'ex Mufti capo però presentò una richiesta di revisione della sentenza, rigettata anch'essa. La Corte stabilì che la dichiarazione di nullità riguardante l'elezione di Gendzhev rientrava nelle competenze della Direzione per le denominazioni religiose, mentre ad essere illegittimo, poiché fuori dalle competenze dell'agenzia, era l'ordine di rimozione. La situazione nei confronti di Gendzhev, tuttavia, sostanzialmente non cambiava. Nel settembre 1992 il Concilio temporaneo organizzò la Conferenza nazionale dei musulmani, che elesse alla carica di Mufti Capo Fikri Sali Hasan ed approvò il nuovo statuto della comunità. Nel mese di ottobre seguì la registrazione dei risultati della conferenza presso la Direzione per le 419 La ricostruzione dettagliata si trova nella prima parte della sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, HASAN AND CHAUSH V. BULGARIA JUDGMENT, n.30985/96, del 26.10.2000. 175 Denominazioni religiose. Naturalmente, i contrasti tra le due fazioni si acuirono: l'ex Mufti Gendzhev convocò a sua volta una conferenza nazionale che lo elesse Presidente del Supremo concilio. I vertici così eletti presentarono alla Direzione per le Denominazioni religiose una richiesta di registrazione, in qualità di guida legittima dei musulmani bulgari. Era il 1994: le nuove elezioni politiche vennero vinte dal Partito socialista bulgaro. Nel febbraio 1995 il Primo ministro bulgaro emise il decreto R-12, il cui testo è riportato nella sentenza “Hasan and Chaush v. Bulgaria judgment”: “In accordo con il decreto KV-15420 del 6 febbraio 1995, letto congiuntamente con la sezione 6421 della Legge sulle denominazioni religiose, io approvo lo statuto della religione musulmana in Bulgaria, con sede a Sofia.” Il decreto si riferiva allo statuto approvato dalla conferenza indetta da Nedim Gendzhev. Il giorno successivo la Direzione per le Denominazioni religiose emise un provvedimento che comunicava la registrazione di un nuovo vertice della Comunità musulmana e di un nuovo statuto: venivano ratificati, cioè, i risultati della conferenza “alternativa” in cui Nedim Gendzhev era stato eletto nuovamente Mufti Capo. Hasan apprese queste notizie sui giornali. I contrasti degenerarono rapidamente: la nuova leadership occupò gli uffici della sede del Supremo concilio, scacciandone Hasan ed il suo staff con l'aiuto della polizia, mentre le risorse economiche della Comunità musulmana vennero congelate. Il ricorso di Fikri Hasan finì davanti alla Corte suprema, che lo rigettò motivando la decisione con l'affermazione che “[...] Secondo la Legge sulle denominazioni religiose il Consiglio dei Ministri godeva di piena discrezionalità nella sua decisione se registrare o meno lo statuto di una determinata religione. [...] Riguardo la richiesta di interpretazione del decreto R-12, non è consentito alla Corte Suprema [..]esprimere la propria opinione sul fatto che esso abbia avuto l'effetto di creare una nuova persona giuridica [...] e di stabilire se di conseguenza ora esistano due organizzazioni religiose musulmane.”422 420 Decreto che rendeva il Primo ministro supervisore delle attività della Direzione per le denominazioni religiose. 421 La quale prevede: “1.Una denominazione religiosa viene riconosciuta ed acquisisce personalità giuridica dopo l'approvazione del suo statuto da parte del Consiglio dei Ministri, o da parte del Primo Ministro autorizzato a questo scopo. 2.Il consiglio dei Ministri o il Primo Ministro potranno revocare il riconoscimento, in base ad una decisione ragionata, se le attività della denominazione religiosa violano la legge, l'ordine pubblico o la morale.” 422 HASAN AND CHAUSH V. BULGARIA JUDGMENT, n.30985/96, punto 30. 176 Nel 1997, nuovo cambio di forze politiche al governo: la Direzione per le Denominazioni religiose esorta la convocazione di una conferenza unificata che possa giungere all'elezione di un solo Mufti capo ed all'approvazione di un unico statuto. É eletto Fikri Hasan, ma Nedim Gendzhev presenta un ultimo ricorso alla Suprema Corte Amministrativa contro la decisione dell'agenzia governativa di registrare la nuova leadership. Il ricorso viene rigettato e la Corte afferma che l'elezione di Gendzhev a Mufti Capo del 1995 deve essere dichiarata nulla, in quanto non validamente registrata, poiché il Primo ministro allora in carica aveva agito senza una valida autorizzazione del Consiglio dei Ministri. Entrambi i Mufti, Hasan nel 1996 e Gendzhev, in qualità di rappresentante del Concilio supremo, nel 1997, presentano ricorso alla Corte europea dei Diritti dell'uomo di Strasburgo. I ricorsi, pur provenendo da due posizioni antitetiche, possono essere oggetto di un'analisi unitaria, in quanto si basano sullo stesso assunto: sull'idea, cioè, che il ruolo delle autorità governative bulgare nelle vicende svoltesi tra il 1991 ed il 1997 abbia costituito una indebita ingerenza nell'attività delle istituzioni religiose musulmane. Nei motivi del ricorso di Hasan si fa riferimento ad “ogni interferenza nella vita interna dell'organizzazione [...]” come ad un fatto che riguarda “[...] ogni persona appartenente alla comunità religiosa [...]” ed al fatto che “[..]l'identità dei leader religiosi [è] cruciale.” Inoltre, tra i motivi del ricorso di Hasan vi è anche l'osservazione che “ l'interferenza dello stato con gli affari interni della comunità religiosa non è stata basata su chiare regole giuridiche. [...]la legge in Bulgaria, nelle questioni riguardanti le comunità religiose, non fornisce chiare garanzie contro gli abusi della discrezionalità amministrativa. [...]le relazioni tra lo stato e le comunità religiose in Bulgaria erano governate non dalla legge, ma dalla politica. Infatti, la sostituzione della leadership della Comunità religiosa musulmana ha curiosamente coinciso con il cambiamento di governo in Bulgaria.”423 Ciò è stato possibile, si legge nei motivi del ricorso, grazie alla natura della Legge sulle denominazioni religiose, la quale, “in mancanza di una procedura chiara o di un registro pubblico delle norme ed egli organi rappresentativi delle denominazioni religiose, servendosi del sisstema delle lettere ad hoc utilizzato dalla Direzione delle denominazioni 423 HASAN AND CHAUSH V. BULGARIA JUDGMENT, n.30985/96, punto 67. 177 religiose per confermare la rappresentanza delle comunità nei confronti di soggetti terzi ed anche nei confronti dei tribunali, ha creato vaste opportunità per l'esercizio discrezionale del potere.”424 Anche il ricorso presentato da Gendzhev nel 1997 si basa su argomentazioni molto simili: nella sua funzione di rappresentante del Concilio supremo, Gendzhev accusa il governo bulgaro di ingerenze indebite nell'organizzazione della Comunità musulmana, che avrebbero portato alla sua illegittima rimozione dall'incarico di Mufti Capo425. Entrambi i ricorsi si basano sull'affermazione che sarebbe stato violato l'art. 9 della CEDU, che tutela le libertà religiose,426 oltre che l'art. 13 della Costituzione bulgara, ugualmente posto a tutela dei diritti religiosi. La Corte europea dei diritti dell'uomo accoglie entrambi i ricorsi: essa sottolinea in via generale un serie di indebite ingerenze nella vita e nell'organizzazione della Comunità musulmana bulgara da parte dell'esecutivo tramite pressioni politiche nei confronti dei vertici dell'organizzazione427; nei confronti della comunità musulmana, afferma inoltre, il governo bulgaro ha in primo luogo “[...]favorito una una fazione della Comunità musulmana, garantendole la leadership tramite la completa esclusione della leadership riconosciuta fino ad allora. Gli atti dell'autorità hanno operato, in fatto ed in diritto, per privare la leadership esclusa di ogni possibilità di continuare a rappresentare almeno una parte della Comunità musulmana e di condurre le proprie attività secondo la volontà di quella parte della Comunità.”428 In secondo luogo, la Corte nota le carenze della normativa bulgara riguardo al regolamentazione di casi nei quali sono giustificate le restrizioni alla libertà di esercizio dei diritti religiosi, alla quale è conseguito un “eccesso di discrezionalità 424 HASAN AND CHAUSH V. BULGARIA JUDGMENT, n.30985/96, punto 67. 425 SUPREME HOLY COUNCIL OF THE MUSLIM COMMUNITY v. BULGARIA JUDGMENT, n.39023/97, punti 66, 67, 68. 426 1. Ognuno ha il diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione; questo diritto include la libertà di cambiare la propria religione o il proprio credo, sia singolarmente che in comunità, sia in pubblico che in privato, e di manifestare la propria religione o il proprio credo, tramite il culto, l'insegnamento, la pratica e l'osservanza. 2. La libertà di manifestare la propria religione o credo è soggetta solo alle limitazioni prescritte dalla legge e necessarie in una società democratica nell'interesse della pubblica sicurezza, a protezione dell'ordine pubblico, della salute o della moralità pubblica, o per la protezione dei diritti e delle libertà di terzi. 427 SUPREME HOLY COUNCIL OF THE MUSLIM COMMUNITY v. BULGARIA JUDGMENT, n.39023/97, punti 76, 77, 78. 428 HASAN AND CHAUSH V. BULGARIA JUDGMENT, n.30985/96, punto 82. 178 nell'esercizio dei propri poteri da parte dell'esecutivo”.429 In terzo luogo, il governo bulgaro, non reintegrando Fikri Hasan nelle proprie funzioni di Mufti, si sarebbe ripetutamente rifiutato di armonizzare le proprie decisioni con le sentenze della Corte Suprema bulgara del 1996e del 1997: ciò costituisce violazione di un principio generale presente in ogni disposizione della CEDU, e come tale secondo la Corte va sanzionato430. In sostanza, si sostiene, il compito dello Stato nei rapporti con e tra autorità religiose non è “rimuovere la causa di tensione eliminando il pluralismo, ma assicurare che i gruppi in competizione si tollerino reciprocamente”431, obiettivo che la legislazione bulgara non sembra ancora aver raggiunto, ma nella cui direzione si è mossa ad esempio con la riforma della Legge sulle religioni del 2002, che sposta la competenza per la registrazione delle denominazioni religiose da un'agenzia dell'esecutivo al Tribunale di Sofia. 7.5 Valutazioni Le vicende politiche e giudiziarie del Movimento per i diritti e le libertà e queste due ultime sentenze forniscono un quadro piuttosto chiaro della posizione della Comunità musulmana nella vita istituzionale bulgara. La sua posizione è fortemente connessa a due questioni: la prima è quella dell'atteggiamento (ancora oggi ambiguo e problematico) dell'ordinamento bulgaro nei confronti delle minoranze nazionali, per le quali l'islam costituisce, come abbiamo visto, uno degli elementi identificativi fondamentali, data la rilevanza della minoranza turca e la funzione aggregante che il culto musulmano ha rivestito nelle vicende storiche che l'hanno interessata negli ultimi decenni. La seconda questione è quella del rapporto delle istituzioni bulgare con le autorità religiose ed il grado di indipendenza che a queste viene garantito tramite una legislazione che dovrebbe rispettare i principi fondamentali in materia di diritti religiosi, tutelati sia dalla Costituzione nazionale sia da trattati e convenzioni 429 HASAN AND CHAUSH V. BULGARIA JUDGMENT, n.30985/96, punto 84. 430 HASAN AND CHAUSH V. BULGARIA JUDGMENT, n.30985/96, punto 87. 431 SUPREME HOLY COUNCIL OF THE MUSLIM COMMUNITY v. BULGARIA JUDGMENT, n.39023/97, punto 96. 179 internazionali di cui la Bulgaria è parte, e che di conseguenza dovrebbe applicare. I problemi che sono stati evidenziati in relazione alla rappresentanza istituzionale della Comunità musulmana di Bulgaria, dunque, risultano essere fortemente connessi da un lato alla necessità dei riformare in senso più garantista la legislazione bulgara in materia, per permettere una gestione dell'organizzazione religiosa più indipendente dall'esecutivo e dalle vicissitudini politiche del paese. D'altro canto il rispetto dei trattati internazionali ratificati dal governo bulgaro pare creare alle autorità nazionali ancora qualche difficoltà: le divisioni e le ingerenze governative all'interno dell'organizzazione della Comunità musulmana, nonostante le sentenze pronunciate dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, continuano infatti ancora oggi. CAPITOLO VIII BOSNIA ERZEGOVINA 8.1 Le origini della comunità musulmana in Bosnia 8.1.1 La conquista ottomana La presenza di comunità musulmane negli stati dell'Europa sud orientale risale al quindicesimo secolo: in questo periodo infatti si completa la conquista ottomana dei Balcani. Con la campagna del 1463, la Bosnia entra a far parte dell' impero ottomano in cui rimarrà per almeno quattro secoli, prima di passare sotto il dominio asburgico. A breve l'avrebbe seguita sotto il dominio ottomano anche il territorio dell' Erzegovina. Quale situazione si presentava all'esercito imperiale all'epoca della guerra di conquista? La regione era abitata dai discendenti delle tribù di origine slava e, probabilmente, iraniana432 (cioè i serbi e i croati) , insediatesi nel territorio bosniaco probabilmente tra la fine del VI e l'inizio del VII secolo. La popolazione era stata a lungo divisa in 432 J. V.A. FINE, “Le radici medievali-ottomane della società bosniaca moderna”, in M. PINSON (a cura di) “I musulmani di Bosnia: dal medioevo alla dissoluzione della Jugoslavia”, Donzelli Editore, Roma,, 1995, p.6. 180 tribù che mantenevano il controllo di piccole unità territoriali chiamate zupa. A partire dal X secolo, la regione fu conquistata e dominata alternativamente da sovrani bulgari, dal regno del Montenegro (allora chiamato Duklja), dall'impero bizantino e dall'Ungheria; questi periodi di dominazione esterna erano intervallati da brevi parentesi nelle quali i re locali riuscivano ad affermare la propria sovranità, tuttavia mai per periodi abbastanza lunghi da consentire una vera e propria stabilizzazione. Inoltre contemporaneamente, a partire circa dal IX secolo, le missioni cristiane provenienti da Roma e Costantinopoli iniziarono a premere sui Balcani; il cristianesimo cattolico si affermò nei territori della Dalmazia e della Croazia, mentre la chiesa ortodossa di Costantinopoli guadagnò la Bulgaria, la Macedonia e gran parte della Serbia. La Bosnia del X secolo era dunque formalmente cattolica, in seguito all'opera di proselitismo dei missionari della costa dalmata. Si trattava però di un cattolicesimo primitivo, nel quale non si usava il latino (sostanzialmente sconosciuto) e influenzato dai localismi e dalle forti tradizioni regionali. Queste peculiarità portarono, soprattutto a causa delle pressioni dei sovrani ungheresi, alla dichiarazione del carattere ereticale della chiesa di Bosnia e alla conduzione di una vera e propria crociata che ebbe come risultato la sottomissione della chiesa bosniaca al controllo dei vescovi ungheresi. Ne seguì uno scisma che riportò ad una condizione di sostanziale indipendenza da Roma la chiesa di Bosnia, i cui fedeli continuarono tuttavia a convivere con le comunità cattoliche e ortodosse presenti sul territorio. Di qualunque confessione si trattasse, dunque, la struttura delle chiese e delle organizzazioni religiose del territorio bosniaco era piuttosto “leggera”433; non si può parlare, relativamente a questo periodo storico, di una vera e propria organizzazione ecclesiastica.434 Questa dunque la situazione che si presentava quando, nel XV secolo, la conquista ottomana portò cambiamenti religiosi ancora più evidenti. Il più marcato fu costituito dalla conversione all'islam di una larga parte di popolazione. La presenza musulmana infatti derivò sì dall'insediamento di gruppi musulmani nel territorio, ma 433 J. V.A. FINE, “Le radici medievali-ottomane della società bosniaca moderna”, in M. PINSON (a cura di) “I musulmani di Bosnia: dal medioevo alla dissoluzione della Jugoslavia”, Donzelli Editore, Roma, 1995 434 “[...] though frequently historians have used the Bosnian Church to explain the islamization of Bosnia, it is more accurate to explain that phenomenon by the absence of strong Catholic, Orthodox or even Bosnian Church organization” J. V.A. FINE cit. in F. FRIEDMAN, “The Bosnian Muslims” , Westview Press, Oxford, 1996 181 anche in grande misura dall'ingresso nell'islam di parte delle popolazioni locali. Non si verificò mai però alcuna conversione di massa all'epoca della conquista turca, anzi, il passaggio fu piuttosto graduale, tenuto conto, tra l'altro, che furono molti i membri della chiesa bosniaca che si convertirono, invece che all'islam, alla religione ortodossa o cattolica, e che furono molti i cattolici e gli ortodossi che divennero invece musulmani. Si parla dunque di conversioni “multidirezionali”435, il cui risultato fu in ogni caso l'affermazione sul territorio della religione musulmana e la formazione di una forte comunità ortodossa, a scapito di quella cattolica. Oltre ai cambiamenti negli equilibri tra le confessioni, la dominazione ottomana portò importanti mutamenti nei rapporti tra popolazioni, comunità religiose e potere centrale. Le strutture giuridiche dell'impero non si basavano su categorie etniche, ma seguivano direttrici religiose: in questo consisteva appunto il sistema basato sui millet. L'origine della comunità musulmana in territorio bosniaco fu dunque il risultato dell'invasione ottomana: ma più che a causa dell'immigrazione turca, l'islam si diffuse in seguito alla graduale conversione di porzioni di popolazione di origine slava alla religione degli invasori; nella maggior parte dei casi il passaggio all'islam avvenne per convenienza, per lo più con l'intento di sottrarsi ai pesanti tributi imposti alle “genti del libro”, o Dhimmi436, vale a dire gli appartenenti alle religioni cristiana o ebraica, che volevano continuare a vivere in una regione che era entrata a far parte del Dar-al -Islam, senza che usanze e modi di vivere della popolazione fossero realmente modificati a seguito della conversione. Da questo momento iniziò il processo graduale che portò alla tendenziale identificazione dell'appartenenza religiosa con quella etnica o nazionale, e che si sarebbe protratto anche sotto il dominio austroungarico, fino all'avvento di Tito e alle vicende storico-politiche più recenti. 435 J. V.A. FINE, “Le radici medievali-ottomane della società bosniaca moderna”, in M. PINSON (a cura di) “I musulmani di Bosnia: dal medioevo alla dissoluzione della Jugoslavia”, Donzelli Editore, Roma, 1995, p.15 436 Da sottolineare l'originaria coincidenza tra Dhimmi e millet all'interno delle strutture sociali e giuridiche ottomane: se Dhimmi, termine mutuato dalla tradizione araba, mantiene il suo significato originario di “gente del Libro”, cioè appartenente ad una delle altre due fedi monoteiste, cristianesimo ed ebraismo, il vocabolo millet passa gradualmente dal significato originario di “gruppo religioso non islamico” al più neutro “gruppo nazionale” o “minoranza” all'interno dell' Impero Ottomano; è l'inizio della tendenza a far coincidere l'aspetto etnico e nazionale con quello religioso. 182 8.1.2 L'impero ottomano ed i millet La popolazione bosniaca venne così divisa secondo le affiliazioni religiose. Il sistema dei millet ottomani (letteralmente, “comunità”) incoraggiava tale divisione, organizzando la popolazione secondo il credo. L'amministrazione ottomana infatti non riconosceva a livello giuridico i gruppi etnici: esistevano gli islam ( musulmani), i rum (greci ortodossi), i latin (cattolici) e così via. Ciascun gruppo disponeva di scuole, assistenza sociale e sanitaria, tribunali e altre strutture in proprio: tutti ambiti che invece in occidente erano appannaggio del governo centrale. Ciascuna comunità aveva i propri governanti. Ad esempio, la guida del millet ortodosso (il più ampio per popolazione ed estensione) era il Patriarca di Costantinopoli, il quale veniva considerato il portavoce del millet ortodosso per ogni tipo di rapporto con le autorità musulmane , ed era titolare della giurisdizione su tutte le questioni legali e morali a livello locale che riguardassero i suoi appartenenti. Naturalmente le comunità dei Dhimmi, cioè i non musulmani, per poter vivere nel Dar-al Islam erano vincolate al pagamento di speciali tributi (come si vedrà immediatamente), secondo una norma che veniva applicata in tutti i territori in cui l'islam costituiva la religione ufficiale437. Il termine si applicava in sostanza a quelli che venivano considerati popoli “protetti” o “tollerati”, e che in base al Trattato di 'Umar tra l'Impero ed i suoi cittadini potevano così evitare la schiavitù, l'esilio o il massacro. Essi potevano convertirsi all'islam volontariamente o attraverso il metodo del devshirme, sistema di tassazione che consisteva nel prelevamento di gruppi di giovani dalle comunità non islamiche, destinati a entrare nel corpo militare dei janissari o a servire come schiavi il sultano, e quindi a convertirsi alla religione musulmana.438 In un sistema di questo tipo, non poteva non imporsi una sorta di sovrapposizione del fattore religioso al fattore etnico e nazionale: infatti i vari leader religiosi erano considerati responsabili non solo per quel che riguardava i doveri attinenti al culto, 437 R. SACCO, “Il diritto africano”, Utet, Torino 1995. 438 F. FRIEDMAN, “The Bosnian Muslims” , Westview Press, Oxford, 1996; vedi anche BAT YE'OR “Dhimmi peoples: oppressed nations”, Editions de l'avenir, Paris, 1978. 183 ma anche per l'amministrazione giuridica delle comunità che presiedevano. La correttezza dal punto di vista fiscale e il mantenimento dell'ordine pubblico consentivano alle guide dei millet un elevato grado di autonomia, dando loro la libertà di organizzare le proprie comunità senza l'intervento imperiale. Così, nella Bosnia ottomana l'insegnamento della religione cattolica, appannaggio dei Francescani Croati, era imbevuto di etica nazionale, mentre il millet ortodosso facente capo a Costantinopoli era influenzato dalle rivendicazioni nazionalistiche serbe, cosicché gradualmente il sentimento di appartenenza alla comunità ortodossa si fuse e si sovrappose con il concetto di essere Serbi, dando luogo, negli anni seguenti, a diversi tentativi di annessione alla regione confinante, ormai percepita come “madrepatria” , della minoranza serbo-ortodossa che percepiva se stessa come “irredenta”439. Nel frattempo, i tentativi di riforma delle istituzioni locali provenienti dal governo centrale incontravano la forte ostilità della comunità musulmana di Bosnia: si trattava di un tentativo di europeizzazione, detto tanzimat, e di modifica in senso accentratore delle competenze soprattutto in ambito fiscale, militare e di istruzione pubblica. Ciò avrebbe comportato una drastica riduzione delle autonomie accordate a ciascun gruppo religioso dal sistema dei millet, affidando le competenze che erano state appannaggio delle istituzioni locali a burocrati provenienti da Istanbul, che avrebbero dovuto attenersi ad un pacchetto di leggi scritte e valide in tutto l'impero, invece che alle soluzioni normative ad hoc utilizzate fino ad allora per ogni singola entità locale. L'ostilità al tanzimat e le crescenti pressioni in senso autonomistico portarono nel 1875 alla rivolta dei Serbi di Bosnia, seguita a breve dalla guerra tra Russia e impero ottomano. Il congresso di Berlino del 1878 assegnò i territori di Bosnia ed Erzegovina, formalmente ancora ottomani (lo sarebbero state fino al 1908), all' Austria- Ungheria. 8.1.3 La dominazione austroungarica a) la comunità musulmana e l'Austria 439 J. MCCARTHY, “La Bosnia ottomana (1800-1878)” in M. PINSON (a cura di) “I musulmani di Bosnia: dal medioevo alla dissoluzione della Jugoslavia”, Donzelli Editore, Roma, 1995, p. 50 184 Fino all'avvento della dominazione austriaca, la comunità musulmana di Bosnia si era sviluppata sotto il controllo di un governo, quello ottomano, correligionario: questo fatto, unito all'effettiva situazione di maggioranza dei musulmani nella regione, le aveva garantito forte autonomia e una posizione di privilegio nei rapporti con Istanbul. Dopo il 1878 le cose cambiarono: guerre e migrazioni avevano rovesciato le proporzioni, cosicché solo ora la comunità musulmana bosniaca si trovava in una posizione di vera e propria minoranza rispetto alla popolazione cristiana. Inoltre, tra gli elementi che costituivano i fattori unificanti delle diverse minoranze presenti sul territorio, la religione aveva in molti casi cessato di essere al primo posto. L'identità etnica o nazionale, per molti gruppi, era diventata più importante dell'appartenenza religiosa. Gli ortodossi dei Balcani, per esempio, erano molto più preoccupati per le sorti del proprio territorio che per il destino del gruppo confessionale cui appartenevano, come dimostrato anche dai contrasti sorti in questo periodo tra le diverse “chiese” nazionali e i patriarchi di Costantinopoli, guide ufficiali del millet ortodosso.440 L'eccezione a questa regola era costituita proprio dalla Bosnia-Erzegovina, la quale, sebbene non fosse più a maggioranza musulmana, non mostrava alcuna intenzione di costituirsi in stato slavo. Il nodo della questione stava proprio nella sostituzione dell'identità nazionale con l'identità religiosa nella percezione di sé dei musulmani di quella regione, che in questo modo riuscivano a distinguersi dai cristiani serbi e croati. Con l'avvento della dominazione austroungarica dunque, i musulmani di Bosnia furono costretti a definire se stessi in rapporto ad un governo che professava una religione diversa. In questo contesto emerse una nuova questione: i capi religiosi musulmani erano sempre stati legati ad Istanbul, al governo centrale, e non disponevano delle gerarchie ed organizzazioni locali che caratterizzavano al contrario le comunità cristiane, per le quali i rapporti con un governo centrale di diversa appartenenza religiosa avevano sicuramente rappresentato, in quei secoli, un fattore di coesione niente affatto trascurabile. 440 M. PINSON, “La dominazione austroungarica (1878-1918)”, in M. PINSON (a cura di) “I musulmani di Bosnia: dal medioevo alla dissoluzione della Jugoslavia”, Donzelli Editore, Roma, 1995, pp. 59-60 185 b) l'Austria e la comunità musulmana Se la comunità musulmana di Bosnia si trovava per la prima volta ad avere a che fare con un governo centrale di religione non islamica, anche l'Austria era alle prime armi nel controllo di un'area a forte composizione musulmana. Tra l'altro, la struttura della popolazione locale mise l'impero austroungarico in una posizione mai sperimentata nei Balcani.441 Infatti, nella Bosnia del XIX secolo, in cui, a differenza delle altre aree balcaniche, era forte l'interesse al mantenimento delle precedenti strutture islamiche (che fossero moschee o figure di governo locale), l' Austria dovette muoversi con cautela per evitare l'ostilità della comunità musulmana: lasciò sostanzialmente al loro posto le istituzioni preesistenti, cercando di adeguarle gradualmente al modello austroungarico, anche perché non bisogna dimenticare che, sebbene sostanzialmente la regione bosniaca fosse in quell'epoca sotto il controllo austriaco, la sovranità formale sul territorio sarebbe spettata ancora ad Istanbul fino alla rivolta del 1878, la cui repressione segnò la definitiva e completa annessione della Bosnia all'impero asburgico. Un buon esempio del livello di compromesso raggiunto dalle istituzioni imperiali con la comunità musulmana fu la creazione di una istituzione religiosa locale autonoma, la reis ul-ulema, accompagnata da un concilio di quattro uomini , il mejlis al-ulema. Molti musulmani però non ne riconobbero l'autorità, proprio perché vi ravvisavano il risultato di un'iniziativa di matrice austriaca e non musulmana. Anche grazie alla contrapposizione al governo centrale austriaco, però, si sviluppò una più forte identità bosniaco-musulmana; essa si esplicitò in modo particolare con la nascita del primo partito politico che la rappresentava. La forma in cui i musulmani di Bosnia espressero la loro identità sotto la dominazione austriaca rappresentò dunque un'evoluzione ed un punto di svolta nel modo di rapportarsi ad un'autorità centrale estranea dal punto di vista fondamentale, quello religioso, ma anche nella maniera in cui la comunità musulmana “rappresentava sé stessa”: dalle pratiche tradizionali, dalla partecipazione a forme espressive radicate e risalenti, non 441 M. PINSON, “La dominazione austroungarica (1878-1918)”, in M. PINSON (a cura di) “I musulmani di Bosnia: dal medioevo alla dissoluzione della Jugoslavia”, Donzelli Editore, Roma, 1995, pp. 63-64 186 più adatte a relazionarsi con un'autorità che mancava delle basi comuni necessarie per comprenderle, la comunità musulmana passò ad una forma del tutto nuova, mutuata dalla storia politica europea, che non si era mai verificata durante la dominazione ottomana: quella del partito. Questioni nuovi ed ancora più spinose si presentarono quando, alla fine del secolo, il passaggio sotto l'Impero austroungarico divenne definitivo, anche dal punto di vista formale. I musulmani di Bosnia non avevano mai raggiunto la maggioranza percentuale in rapporto alla popolazione, ma l'affinità religiosa con il governo ottomano aveva sempre garantito loro una posizione privilegiata la quale, in fondo, non necessitava di una definizione precisa dal punto di vista giuridico del proprio status. Con l'avvento della dominazione austriaca, invece, si rese necessaria un'ampia produzione normativa che garantisse la sopravvivenza delle pratiche religiose e delle istituzioni musulmane. I contrasti sorsero soprattutto riguardo a due ambiti, collegati e cruciali nella religione musulmana: uno atteneva al problema della libertà religiosa, e nello specifico alla questione della conversione, o apostasia dal punto di vista musulmano. L'altro grande problema era la questione della giurisdizione dei tribunali islamici, appunto in relazione alle controversie sulla libertà religiosa: ciò che per il diritto islamico rappresentava uno dei più gravi reati442, per la laica giurisprudenza austriaca non era nemmeno annoverabile tra i crimini: la politica giuridica austriaca in materia di diritti religiosi era infatti sostanzialmente basata sulla libertà di culto443. Oltre alla diversa alla diversa classificazione della condotta, si poneva poi un problema vero e proprio di riparto di giurisdizione: fino a quando gli ottomani avevano governato la Bosnia, i giudizi sui casi di apostasia, fatto reato solamente in ambito islamico, erano tutti demandati alle tradizionali corti sciaraitiche presenti nella regione. Con 442 Da non dimenticare che l'apostasia, cioè l'abbandono della fede musulmana, è considerata reato gravissimo dalla shari'a. In alcuni ordinamenti che annoverano la shari'a tra le proprie fonti del diritto, è sanzionato con la pena di morte, mentre in altri l'alternativa è il carcere a vita. Particolarmente pesanti, oltre alla sanzione penale, sono le conseguenze dal punto di vista civilistico: l'apostata è privato del diritto di proprietà, del diritto di successione attiva e passiva, della potestà genitoriale e dello status personale di coniuge, tramite una sorta di divorzio forzato. Con riferimento alla capacità giuridica, si può dire che l'apostata “scompare” quasi letteralmente. Per un'analisi approfondita, cfr. S.TELLENBACH, “L'apostasia nel diritto islamico”, in “Daimon. Annuario di diritto comparato delle religioni”, 2001, n. 1, pp.132 ss. 443 M. PINSON, “La dominazione austroungarica (1878-1918)”, in M. PINSON (a cura di) “I musulmani di Bosnia: dal medioevo alla dissoluzione della Jugoslavia”, Donzelli Editore, Roma, 1995, pp. 65-66 187 l'avvento degli Asburgo, che intendevano porre su un piano di parità tutte le religioni dell'impero, la questione si fece pressante. La produzione normativa che ne conseguì è un chiaro esempio della difficoltà di definizione di cui soffrirono sempre i rapporti tra comunità musulmana bosniaca e governo viennese. Nel 1879 il trattato di Novi Pazar444, ratificato da Austria e Turchia, oltre ad altri aspetti, per quello che qui interessa definì più precisamente lo statuto giuridico della regione bosniaca e quello della comunità musulmana: -il sultano ottomano vedeva confermata la propria autorità in quanto guida della minoranza musulmana bosniaca, che grazie a tale previsione vedeva rafforzati e resi più diretti i propri rapporti con Istanbul; -alla comunità islamica bosniaca veniva concesso di mantenere le proprie tradizioni religiose; l'intervento austriaco in questo ambito sarebbe stato limitato al minimo. Azzardando un'evoluzione che trasformava l'iniziale atteggiamento “indifferente” alla questione in un intervento più profondo e mirato, nel 1880 il governo austriaco tentò il passo successivo: venne così emanata una legge più restrittiva, in base alla quale sarebbe stato penalmente perseguito chi “attentava alla libertà religiosa altrui”.445Si trattava però di una normativa assai vaga: si può dire che non andasse oltre lo stato di intenzione, dato che non specificava con precisione ne' la tipologia ne' l'entità della pena, in caso di conversione o di reazione ad essa. Dopo alcuni casi, negli anni immediatamente successivi, di conversione dall'islam al cattolicesimo, i quali suscitarono, oltre allo scalpore sociale, i consueti conflitti per quanto riguardava la giurisdizione, si giunse ad un compromesso, tramite alcune norme che sancivano la legittimità delle conversioni e definivano meglio il ruolo del clero sia cristiano che musulmano. Nel 1891, infine, venne promulgata l'Ordinanza sulla conversione, la quale pur non risolvendo appieno tutti i problemi, prevedeva da un lato nuove e più precise procedure per quanto riguardava le conversioni, d'altra parte l'istituzione di commissioni governative per dirimere i casi più intricati e problematici. 444 F. FRIEDMAN, “The Bosnian Muslims” , Westview Press, Oxford, 1996, pp. 60-61 445 M. PINSON, “La dominazione austroungarica (1878-1918)”, in M. PINSON (a cura di) “I musulmani di Bosnia: dal medioevo alla dissoluzione della Jugoslavia”, Donzelli Editore, Roma, 1995, p. 66 188 Gli anni seguenti, fino al primo decennio del '900, videro le tappe del percorso che portò alla nascita del primo partito a base musulmana, cui si è già accennato. I tentativi da parte austriaca di indebolire il sentimento di appartenenza religiosa dei diversi gruppi, soprattuto tramite l'introduzione di un nuovo concetto, quello di “nazionalità bosniaca”, che nelle intenzioni del governo austriaco avrebbe dovuto costituire il polo attorno al quale si sarebbero raggruppati coloro che volevano distinguersi dai serbi, non attecchirono soprattutto a causa della mancanza di una base storica e di una tradizione linguistica comune a tutta la regione. Completamente innovativa fu anche la successiva politica antietnica446, che proibiva le designazioni etniche e religiose negli uffici pubblici (in modo quindi sostanzialmente opposto a quello che era stato il segno distintivo del rapporto tra l'impero ottomano e le minoranze al suo interno). Così, in un'ottica di sostanziale contrapposizione alle posizioni del governo centrale e di difesa dello status originario della comunità islamica, nacquero e si susseguirono, a partire dall'ultimo decennio del XIX secolo, numerose società di mutuo soccorso e circoli culturali447, le cui richieste a Vienna, dall'inserimento di ufficiali musulmani o di gruppi eletti da musulmani negli uffici dell'amministrazione alla proposta di conferire alla Corte Suprema dell'impero ottomano la competenza per la risoluzione dei conflitti tra legge islamica e legge di stato, passando per la richiesta di mantenimento della lingua turca nelle istituzioni e nei tribunali islamici, miravano a rafforzare la posizione della minoranza musulmana nei confronti dell'amministrazione centrale. Nel 1906 fu così fondata ufficialmente l'Organizzazione musulmana nazionale, con un proprio programma ed un proprio giornale una struttura ufficiale in grado di negoziare le questioni di autonomia culturale. Nel corso dei primi quindici anni del 446 M. PINSON, “La dominazione austroungarica (1878-1918)”, in M. PINSON (a cura di) “I musulmani di Bosnia: dal medioevo alla dissoluzione della Jugoslavia”, Donzelli Editore, Roma, 1995, p. 68 447 Dal gruppo dei sostenitori del mufti Ali Dzabic, di tendenze conservatrici, passando per il movimento progressista Kiraethane ( dal nome turco delle sale da tè, luogo favorito di incontro maschile in cui discutere e leggere i giornali), ufficialmente Società benefica di lettura musulmana. L'ala più modernista della comunità fondò invece la società di mutuo soccorso e culturale Gajret, che mirava all'introduzione di aspetti della cultura occidentale tra i musulmani di Bosnia tramite la pubblicazione di giornali, la modernizzazione dei corsi di studio e i finanziamenti agli studenti bisognosi. Cfr. in particolare M. PINSON, “La dominazione austroungarica (1878-1918)”, in M. PINSON (a cura di) “I musulmani di Bosnia: dal medioevo alla dissoluzione della Jugoslavia”, Donzelli Editore, Roma, 1995, pp. 69-73 189 nuovo secolo, fino allo scoppio della guerra, si formarono i partiti serbo e croato, tra i quali il partito musulmano si poneva come ago della bilancia, e fu istituito un parlamento bosniaco in cui i musulmani venivano rappresentati, con relativo diritto di voto, accanto agli altri partiti nazionali. Nel frattempo, la minoranza musulmana recuperò poteri e ruoli istituzionali a livello locale e ottenne per i propri membri il diritto di ricorrere alla Corte Suprema dell'impero ottomano. Nel quarantennio austriaco la rappresentanza istituzionale della comunità musulmana in Bosnia, la quale proprio in questo periodo inizia a percepirsi come vera e propria minoranza, si rafforza e assume connotati giuridici sempre più definiti: dalle norme che regolano i rapporti con il governo austroungarico alla creazione di un partito vero e proprio, rappresentativo delle istanze musulmane nel neonato parlamento bosniaco. La religione, in ogni caso, rappresenta ancora il cardine attorno a cui ruota il senso di appartenenza alla comunità. 8.1.4 Dalle due guerre mondiali a Tito Nel periodo che va dagli anni precedenti la prima guerra mondiale alla fine della seconda, vediamo acuirsi la questione della sovrapposizione tra identità religiosa ed appartenenza etnica. Durante questi decenni, soprattutto tra le due guerre, la comunità musulmana di Bosnia fu rappresentata nel confronto con le altre forze politiche soprattutto dal partito dell'Organizzazione Jugoslava Musulmana. Si trattava ora di definire la propria posizione nel neonato Stato jugoslavo, chiamato Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni. Evidentemente, nemmeno nel nome veniva riconosciuta autonomia nazionale al gruppo islamico, che si identificava dal punto di vista etnico alternativamente con il gruppo croato o con quello serbo, a seconda degli equilibri politici necessari al momento. Per la verità, nonostante l'élite musulmana si riconoscesse nell'identità croata, la maggior parte della popolazione islamica evitò di scegliere tra le due comunità cristiane, per non mettere a rischio la propria identità religiosa. L'obiettivo principale del partito dell' Organizzazione Jugoslava Musulmana era 190 l'autonomia istituzionale e territoriale bosniaca. Nel corso dell' Assemblea riunita nel 1921 per approvare la carta costituzionale unitaria dello stato jugoslavo (la costituzione di Vidovdan), l' OJM pretese e ottenne parità di trattamento, autonomia delle istituzioni religiose musulmane e del sistema scolastico, mantenimento della giurisdizione dei tribunali islamici. Solamente a queste condizioni venne accettato il centralismo costituzionale. Condizioni tuttavia presto sconfessate dalla politica del governo centrale, che portò l' OJM ad allearsi alternativamente, negli anni successivi, con la formazione serba e con quella croata, fino alla proclamazione della dittatura di re Alessandro nel 1929. Allo scoppio del secondo conflitto mondiale, la comunità musulmana può dunque contare su scarse garanzie sia dal punto di vista rappresentativo sia dal punto di vista del riconoscimento dei diritti fondamentali,a seguito delle politiche centralizzatrici ed anti-islamiche adottate nel decennio precedente, ed è divisa in fazioni filo-serbe o filo-croate. L'integrità statale della Bosnia fu uno degli obiettivi perseguiti sin dall'inizio della lotta partigiana. “La Bosnia è una ed indivisibile a causa di una secolare vita in comune, a prescindere dalla confessione religiosa”: queste le parole di Tito al congresso del Partito comunista di Jugoslavia (KPJ) tenutosi clandestinamente a Zagabria nel 1940. Nel periodo del governo di Tito e negli anni successivi, non si cercò mai, dal punto di vista istituzionale, di affermare o sostenere la natura “etnica” della comunità islamica448: infatti, ai musulmani veniva riconosciuto lo status di comunità, cui erano attribuiti gli stessi diritti di serbi e croati; “I musulmani della Bosnia-Erzegovina, come gruppo etnico separato di origine slava -ma per la maggior parte di nazionalità ancora indefinita- sono sullo stesso piano dei serbi e dei croati”: così il dirigente Čolaković in un discorso parlamentare del 1946. Nella divisione territoriale in sei repubbliche operata da Tito, la Bosnia-Erzegovina 448 La storia della comunità islamica in questo periodo del Novecento è caratterizzate da una tendenza alla schizofrenia dal punto di vista del comportamento politico, e da uno status giuridico piuttosto nebuloso: le affermazioni identitarie vengono sostituite dalla ricerca di appoggi presso le comunità più importanti e garantite. Per un racconto particolareggiato di questo periodo storico, cfr. I. BANAC “I musulmani di Bosnia: da comunità religiosa a nazione socialista e stato postcomunista (1918-1992), in M. PINSON (a cura di) “I musulmani di Bosnia: dal medioevo alla dissoluzione della Jugoslavia”, Donzelli Editore, Roma, 1995 191 fu riconosciuta come un “conglomerato”449 di Serbi, Croati e di musulmani “anazionali”, cioè non identificati né con la comunità serba né con quella croata. La popolazione musulmana divenne quindi una sorta di ago della bilancia nel territorio bosniaco: un'entità priva di appartenenza etnica la quale, decidendosi ad entrare a far parte di uno dei due gruppi etnici riconosciuti, ne avrebbe determinato lo status di maggioranza. Il gruppo musulmano, inoltre, non veniva neppure menzionato dalla Costituzione federale jugoslava come gruppo costituente nazionale. Dal punto di vista sostanziale, come per le altre religioni del resto 450, i diritti riconosciuti alla comunità musulmana in altri periodi storici subirono un drastico ridimensionamento. Sebbene la pratica dell'islam non fosse proibita, l'autonomia garantita dai millet era solo un lontano ricordo: lo stato jugoslavo ora si faceva carico dell'istruzione, della tassazione religiosa e della funzione giurisdizionale, attribuzioni fino ad allora riservate ai leader religiosi della comunità. Le moschee e le istituzioni religiose vennero in gran parte chiuse o riconvertite, mentre molte pratiche religiose, quale l'uso del velo, furono dichiarate illegali. I terreni vakuf, cioè i beni immobili appartenenti alle istituzioni religiose, vennero nazionalizzati. Anche l'istituzione del consiglio di saggi (gli ulema) tradizionalmente a guida della comunità non venne soppressa, ma, rieletta nel 1947, assunse funzioni radicalmente diverse da quelle che aveva sempre ricoperto: da guide istituzionali, i suoi componenti assunsero il ruolo di rappresentanti del potere statale, con la funzione di spiegare ed applicare le nuove norme che regolavano istituzioni e usi della comunità musulmana. Uno degli scopi principali era quello di favorire e diffondere l'accettazione della nuova Costituzione della comunità islamica, promulgata in quell'anno. Dal punto di vista giuridico dunque, come sancito nelle carte costituzionali sia federale che nazionale, il fattore religioso, per la comunità islamica più che per altri gruppi, serviva da segno distintivo di tipo etnico, ma non rappresentava un presupposto per l'autonomia. 449 Termine usato anche da A. LOPASIC “The Muslims of Bosnia” in G. NONNEMAN, T. NIBLOCK, B. STAJKOWSKI (a cura di) “Muslim communities in the new Europe” Ithaca Press, Reading, 1996 450 In effetti, l'opera di secolarizzazione e socializzazione dello stato jugoslavo fu altrettanto se non più intensa nei confronti della chiesa cattolica e della chiesa ortodossa serba, considerate più pericolose e influenti rispetto all'islam. Cfr. F. FRIEDMAN, “The Bosnian Muslims” , Westview Press, Oxford, 1996, pp. 147 ss. 192 Le applicazioni pratiche di questa teoria si possono ravvisare chiaramente nei risultati di un censimento del 1948. In quell'occasione, infatti, ai musulmani bosniaci venne chiesto di scegliere di inserirsi in una di queste tre categorie: Serbomusulmani, Croato-musulmani, Musulmani “nazionalmente indeterminati”. Questo dà un'idea precisa del modo in cui veniva concepito lo status della comunità islamica: i musulmani potevano essere correttamente identificati, dal punto di vista “nazionale”, come serbi o come croati, ma non possedevano una loro distinta identità nazionale. Potevano considerarsi una comunità ben distinta dalle altre, ma, dal punto di vista etno-religioso, non costituivano una distinta unità nazionale. I risultati del censimento mostrarono che la quasi totalità dei musulmani bosniaci aveva preferito inserirsi nella categoria “nazionalmente indeterminati”, a differenza dei musulmani delle repubbliche di Croazia, Serbia e Macedonia che dichiaravano in larga maggioranza un'identità nazionale corrispondente al territorio in cui si trovavano.451 Inoltre, anche dopo l'approvazione della nuova Legge fondamentale del 1953, alla quale seguì, nello stesso anno, una legge federale sulla “posizione legale” delle comunità religiose che le permise in parte di espandere le proprie possibilità dal punto di vista religioso, l'accesso al sistema politico per la comunità musulmana bosniaca rimase fortemente limitato. Certo, individualmente i singoli uomini politici appartenenti alla comunità musulmana potevano raggiungere i gradi più alti della rappresentanza politica, ma alla comunità intesa come entità unitaria era negato l'accesso a livelli di potere e di rappresentanza, sia repubblicana che federale, che invece erano concessi ad altri gruppi nazionali, ad esempio quello serbo. Insomma, l'appartenenza alla religione islamica veniva considerata solamente, appunto, una categoria religiosa, piuttosto che una distinta appartenenza nazionale: i musulmani di Bosnia avrebbero teoricamente dovuto scegliere se essere Serbi o Croati per godere dello stesso livello di rappresentanza istituzionale e di riconoscimento giuridico sul piano non solo federale, ma anche all'interno della stessa repubblica di BosniaErzegovina. Dieci anni dopo l'approvazione della Legge fondamentale, nel 1963 la nuova 451 I dati di diversi censimenti sono riportati in A. PURIVATRA, “Nacionalni i političi razvitak muslimana”, Svjetlost, Sarajevo, 1970, e M. PARKER, “Muslims in Yugoslavia: the quest for justice”,Croatian Islamic Centre, Toronto, 1986, cit. in F. FRIEDMAN, “The Bosnian Muslims” , Westview Press, Oxford, 1996, pp.155 ss. 193 Costituzione modificò nuovamente la situazione: vi si affermava infatti che la Bosnia-Erzegovina era abitata da “Serbi, Musulmani e Croati, alleati nel passato grazie ad una vita comune”. L'idea di una comunità musulmana come nazionalità separata dalle altre era supportata anche a livello politico: ne conseguì un tendenziale allineamento, sul piano dei diritti, dei privilegi e della partecipazione alla vita politica ed istituzionale della federazione, con le altre nazionalità della repubblica federale. Il riconoscimento del carattere nazionale alla comunità musulmana452 divenne una questione di importanza ancora maggiore con l'approvazione della Costituzione del 1974, che rendendo la Jugoslavia una confederazione453 spostava molte delle competenze, che sino ad allora erano rimaste a livello federale, tra i poteri delle autorità repubblicane. Le cariche istituzionali erano distribuite secondo un criterio etnico, proporzionalmente alla presenza delle diverse nazionalità in ciascun territorio. Il riconoscimento del carattere di nazionalità, distinta dal punto di vista etnico sia dalla comunità serba che da quella croata, che rese possibile l'accesso di rappresentanti musulmani alle istituzioni repubblicane, sancì così la teorica parificazione con le altre etnie componenti la popolazione della Bosnia-Erzegovina, per la prima volta dalla caduta dell' Impero ottomano. Il fattore religioso tornò così a qualificarsi come elemento fondante dell'identificazione etnica e nazionale, 454 offrendo così una terza alternativa alla precedente scelta (obbligata) tra appartenenza alla comunità serba o alla comunità croata. 8.2 Verso il conflitto 8.2.1 La Dichiarazione Islamica e il processo ad Izetbegović La repubblica di Bosnia-Erzegovina del periodo successivo alla morte di Tito, nel 452 Che veniva menzionata tra le sei cosiddette “Nazionalità costituenti” la Confederazione: oltre ai Musulmani, i Croati, i Macedoni, i Montenegrini, i Serbi, gli Sloveni. 453 Le repubbliche inizialmente non erano considerate stati nazionali; la sovranità nazionale venne sancita per la prima volta appunto nella costituzione del 1974, che ne prevedeva l'esercizio attraverso le repubbliche e le province autonome. 454 Con conseguenze non trascurabili per quanto riguarda la partecipazione al movimento panislamista e i rapporti con i Paesi del Medio Oriente. 194 1980, conobbe una decisa repressione dei segnali di “nazionalismo islamico” o di panislamismo che negli anni precedenti avevano seguito il riconoscimento, nella costituzione del 1974, dello status di nazionalità nei confronti della comunità islamica: l'episodio più famoso e che forse meglio illustra questa tendenza è il processo che si svolse nel 1983 nei confronti di quello che sarebbe diventato il primo presidente della Bosnia-Erzegovina, Alija Izetbegović, che all'epoca esercitava la professione di avvocato, e di altri dodici bosniaci musulmani tra cui diversi avvocati, ingegneri, insegnanti, ex partigiani. L'accusa era di “ attività ostili e controrivoluzionarie”455. Nel corso del giudizio, tenutosi alla Corte distrettuale di Sarajevo nell'estate del 1983, gli imputati vennero descritti come attivisti musulmani, i quali avrebbero utilizzato il sentimento nazionalista islamico con ”l'intento criminale di fare una propaganda ostile diretta alla distruzione delle nazioni, della fratellanza e dell'unità, e dell'uguaglianza delle nazioni e nazionalità nella Repubblica Socialista di Bosnia ed Erzegovina e nella Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia” e con lo scopo di creare una Bosnia-Erzegovina musulmana “etnicamente pura”.456 L'accusa si basava anche sul fatto che gli imputati avrebbero “...descritto il comunismo come una minaccia per l'islam, approvato le rivolte anti-comuniste in Kosovo, criticato la politica jugoslava basata sulle nazionalità e in quanto finalizzata alla 'serbizzazione' dei musulmani, complottato per eliminare i popoli croato e serbo dalla Bosnia-Erzegovina e manipolato il sentimento religioso degli altri al fine di mobilitare il supporto per l'islam militante”.457 Ai tredici imputati fu inoltre contestata l'accusa di aver sviluppato legami illeciti con reazionari residenti all'estero (a causa di un viaggio nell'Iran rivoluzionario), e di aver effettuato propaganda ostile in territorio jugoslavo. Quest'ultimo capo di imputazione si basava essenzialmente su una prova: un pamphlet scritto da Izetbegović nel 1970 e pubblicato anni più tardi, intitolato “La dichiarazione islamica: un programma per l'islamizzazione dei musulmani e dei popoli 455 Come riportano F. FRIEDMAN, “The Bosnian Muslims” , Westview Press, Oxford, 1996, p.193, e A. LOPASIC “The Muslims of Bosnia” in G. NONNEMAN, T. NIBLOCK, B. STAJKOWSKI (a cura di) “Muslim communities in the new Europe” Ithaca Press, Reading, 1996, p.107 456 “The trial of Moslem intellectuals in Sarajevo” in South Slav Journal,1983, vol.6 457 Cit. in P. RAMET “Nationalism and federalism in Yugoslavia”, Indiana University Press, Bloomington, 1984, p.186 195 musulmani”. Nel testo si coglievano richiami alla dottrina del panislamismo e ad una non meglio specificata “rivoluzione religiosa”. La lotta del musulmano per una causa altra dall'islam era definita un atto di paganesimo ed idolatria, ma si affermava anche che le minoranze islamiche in uno stato non musulmano dovessero, in condizioni di libertà religiosa e di parità con le altre componenti della società, dimostrarsi leali verso il governo che non danneggiasse l'islam e i musulmani.458 Infine la dichiarazione conteneva un esplicito richiamo alle teorie panislamiche, prefigurando la creazione di una ”federazione islamica” che avrebbe scalzato ogni nazionalismo, sostituito dalla partecipazione di tutti i musulmani alla concretizzazione di quell'idea di Umma già contenuta nel Corano459. Le sentenze furono tutte di condanna, con pene che andavano dai sei mesi ai quindici anni di reclusione. Nelle motivazioni si parlava di “attività contro la fratellanza e l'unità delle nazionalità in Bosnia, con l'intento di distruggere la Bosnia in quanto repubblica socialista e di minare l'esistenza dello stesso stato jugoslavo”. L'amnistia del 1988, tuttavia, ne sospese l'esecuzione. Questo processo, come altri che si svolsero nello stesso periodo460, fa parte di una politica precisa condotta dalle istituzioni della repubblica bosniaca nei confronti delle minoranze etniche e di ogni rigurgito nazionalista che avrebbe potuto mettere a repentaglio il funzionamento dela cooperazione multinazionale in BosniaErzegovina. L'evoluzione della struttura istituzionale dopo la morte di Tito aveva dunque portato al rafforzamento ed all'ampliamento delle competenze in capo alle repubbliche. Di fatto non si trattava più ormai di una confederazione che riconosceva al suo interno una pluralità di minoranze etniche o nazionali: sebbene nella costituzione fosse ancora formalmente indicato il modello confederale, ormai quelle che erano state le nazioni costituenti la Repubblica jugoslava, attraverso una rappresentanza 458 A. IZETBEGOVIĆ, “The Islamic Declaration: A Programme for the Islamization of Muslims and the Muslim Peoples”, in South Slav Journal, 1983, vol.6, pp.55-89 459 Con il termine Umma si intende la comunità di tutti i musulmani nel mondo. Nella Dichiarazione Islamica, Izetbegović menzionava “..la creazione di una Comunità Islamica unita, dal Marocco all' Indonesia” di cui anche la Bosnia musulmana avrebbe fatto parte. Cfr. A. IZETBEGOVIĆ, “The Islamic Declaration: A Programme for the Islamization of Muslims and the Muslim Peoples”, in South Slav Journal, 1983, vol.6, pp.55-89 460 Altri esponenti dell' élite musulmana vennero processati in quegli stessi anni sempre con l'accusa di “attività controrivoluzionarie” e di “attivismo islamico”.Va inoltre ricordato in quegli stessi anni lo scandalo finanziario Agrokomerc, che coinvolse numerosi esponenti della classe politica di etnia musulmana. 196 istituzionale basata esclusivamente sul criterio etnico (criterio cui si atteneva anche la comunità musulmana in Bosnia, che in quegli anni raggiunse la maggioranza), si qualificavano come veri e propri stati nazionali alla ricerca dell'indipendenza. 8.2.2 Serbi, Croati, Musulmani La Bosnia-Erzegovina non era l'unica repubblica jugoslava a contare nella propria popolazione una minoranza di religione islamica: erano sempre esistite comunità musulmane in Serbia e comunità musulmane in Croazia. Ma i musulmani di Serbia, come i musulmani di Croazia, non esitarono mai ad inserirsi nelle categorie “serbo” o “croato” quando venne loro chiesto (in diversi censimenti condotti tra gli anni '80 e gli anni '90) di definirsi dal punto di vista etnico, cosicché le popolazioni della Serbia e della Croazia vennero sempre considerate come “etnicamente omogenee”; e nonostante la presenza di comunità musulmane, in queste due repubbliche non venne mai riconosciuta a livello costituzionale la presenza di una minoranza nazionale (o etnica) connotata come “musulmana”. La storia della Bosnia-Erzegovina invece è costellata dagli sforzi della comunità islamica per ottenere il riconoscimento dello status di nazionalità, previsto finalmente nella costituzione del 1974 alla pari con le minoranze serba e croata. In alcuni censimenti degli anni immediatamente successivi all'approvazione del nuovo testo costituzionale, è prevista addirittura la categoria “Musulmano musulmano”: ciò che può sembrare un assurdo rappresenta bene invece quanto fosse delicata la questione della sovrapposizione del fattore etnico-nazionale a quello religioso. L'espressione infatti, dove l'iniziale maiuscola indica l'appartenenza ad un gruppo etnico o nazionale, e l'iniziale minuscola indica l'appartenenza religiosa, identifica i soggetti appartenenti alla “nazione musulmana” che praticano l'islam. L'appartenenza alla “nazione musulmana” non equivale più, all'interno di un ordinamento che bandisce pressoché ogni connotazione religiosa, all'appartenenza ad un qualsiasi altro gruppo religioso: i musulmani bosniaci non costituiscono più solamente una comunità, ma come serbi e croati fanno parte di un gruppo etnico, con tutto ciò che ne consegue sul piano della rappresentanza istituzionale come gruppo, e non come individui, 197 e dell'accesso a cariche pubbliche e posizioni istituzionali. Con la costituzione del 1974, dunque, si compie il definitivo riconoscimento da parte dell'ordinamento (conditio sine qua non dell'esistenza giuridica di ogni minoranza) dello status di nazionalità ad una comunità basata sull'appartenenza religiosa (il che, con le dovute differenze naturalmente, ricorda il sistema di autonomie dei millet ottomani). Con l'ingresso della nazione musulmana tra i gruppi etnici giuridicamente riconosciuti, non fu più possibile parlare, per quanto riguardava la Bosnia a differenza delle altre repubbliche jugoslave, di un “gruppo costituente” e di conseguenti “minoranze”. I musulmani, che al tempo in cui non godevano di un riconoscimento giuridico della natura etnica del loro gruppo di appartenenza, avevano funzionato come ago della bilancia nello stabilire quale fosse l'etnia maggioritaria in Bosnia, scegliendo tra etnia serba ed etnia croata, ora invece costituivano un gruppo autonomo, scardinando i precedenti equilibri. Ne seguì un forte conflitto dapprima a livello parlamentare ed istituzionale, su quale fosse la nazione “costituente” in Bosnia, e su come questa situazione dovesse tradursi sul piano politico e rappresentativo. Negli anni precedenti il conflitto, il governo bosniaco era a maggioranza musulmana (naturalmente in senso etnico: la composizione delle istituzioni rifletteva abbastanza fedelmente la composizione della popolazione461); il conflitto con le componenti serba e croata derivava dal fatto che tutti questi gruppi si ponevano nei confronti degli altri come nazioni costituenti, e rivendicavano il diritto di formare stati autonomi caratterizzati dall'omogeneità etnica462. Si chiedeva dunque l'abbandono dell'originario modello multinazionale; tornavano a galla quelle pulsioni di ricongiungimento alla madrepatria che da secoli attraversavano la società bosniaca; i delicati equilibri sui quali si era fondata fino ad allora la convivenza tra i tre principali gruppi etnici non sembravano più così solidi. Nel 1990 la svolta: a marzo il parlamento bosniaco approvò una nuova legge elettorale, in previsione delle elezioni (le prime libere elezioni dal secondo conflitto mondiale) che si sarebbero svolte nel novembre dello stesso anno. Nella sua versione originaria, la legge prevedeva il divieto di formare organizzazioni e partiti politici a 461 F. FRIEDMAN, “The Bosnian Muslims” , Westview Press, Oxford, 1996, pp. 182 ss. 462 Cfr. S.L.BURG, P.S.SHOUP, “The war in Bosnia Herzegovina: ethnic conflict and international intervention”, M. E. Sharpe, Armonk,1999, pp. 6 ss. 198 base etnica. Tuttavia, la Corte costituzionale dichiarò illegittima questa previsione, abrogando quella parte della normativa che impediva la formazione dei partiti secondo criteri etnico-nazionali (non dimentichiamo che la costituzione del 1974 riconosceva lo status di nazionalità alla comunità musulmana equiparandola alle nazionalità serba e croata); di conseguenza, nelle successive elezioni furono i tre partiti esplicitamente etnici e nazionalisti a ricoprire i ruoli più importanti463. Naturalmente erano rappresentate le tre nazionalità componenti la popolazione bosniaca: serba, croata, musulmana. Oltre ai tre grandi partiti a base etnica, parteciparono alle elezioni due altri grandi partiti che, al contrario, sostenevano la necessità di mantenere in vita la confederazione: si trattava di formazioni derivate dal vecchio partito comunista.464 Tuttavia, la composizione del Parlamento che risultò dalle elezioni di novembre dimostrò la posizione di netta supremazia dei partiti a base etnica sugli altri: essa rifletteva infatti piuttosto fedelmente la composizione etnica della repubblica bosniaca. È stato osservato che “la legge elettorale ed altre norme elettorali promossero un profilo politico completamente nuovo, cioè l'identità etnica come 463 Il Partito di Azione Democratica fu creato nel marzo 1990; era guidato da Alija Izetbegović, e sebbene nel programma si evitasse accuratamente di parlare di uno “stato islamico”, l'intento di espandere ed assicurare il ruolo dell'islam nella vita politica nazionale era chiaro quanto forte era il ricordo della Dichiarazione Islamica del 1970 e della conseguente incarcerazione del leader. Se formalmente si appoggiava la natura di confederazione della Jugoslavia, Izetbegović affermò più volte che, nel caso in cui Croazia e Slovenia avessero lasciato la confederazione, la Bosnia musulmana si sarebbe certamente rifiutata di far parte di ciò che ne sarebbe rimasto, trasformato in una “grande Serbia”. L'orientamento dell' SDA (Stranka Demokratske Akcije) sembrava dunque(soprattuto ai suoi avversari) fortemente improntato ad un nazionalismo su base islamica, sebbene il leader Izetbegović affermasse di voler preservare la Bosnia come società multiculturale e secolare. Nel luglio del 1990 fu fondato il Partito Democratico Serbo, guidato da Radovan Karadžić; esso si opponeva a qualsiasi forma di indipendenza della Bosnia dalla Jugoslavia e ad ogni cambiamento politico che avrebbe potuto causare l'assoggettamento della minoranza serba in Bosnia ad una maggioranza diversa dal punto di vista etnico, dichiarando di accettare esclusivamente le decisioni prese non dalle istituzioni politiche, ma sulla base di un referendum “del popolo serbo” (secondo le parole dei dirigenti del partito al congresso dell'ottobre 1990). L'Unione Democratica Croata della Bosnia-Erzegovina fu fondata nell'agosto del 1990 e costituiva un ramo del partito Unione Democratica che governava in Croazia: di conseguenza sosteneva le medesime posizioni, cioè l'indipendenza della repubblica. Al suo interno però si creò ben presto una divisione netta tra i sostenitori dell'unità della Bosnia-Erzegovina e il ramo nazionalista, fautore della secessione e del ricongiungimento con la Croazia. 464 É interessante notare come uno dei due partiti non etnici, denominato Lega dei Comunistipartito Socialdemocratico, che si rivolgeva all'elettorato in termini non etnici, sostenendo la piena eguaglianza di tutti i cittadini, e sosteneva il modello pluralistico, fosse guidato da Nijaz Duraković, appartenente all'etnia musulmana. 199 base della rappresentanza politica e della legittimazione politica.”465 Contestualmente si svolsero anche le elezioni per la presidenza della repubblica: la carica andò ad Alija Izetbegović, il leader del partito musulmano. La comunità islamica era passata dunque nel giro di pochi decenni da una condizione di mancata rappresentazione all'assunzione di posizioni al vertice dello stato bosniaco. Le elezioni democratiche avevano prodotto dunque un quadro istituzionale fortemente diviso e polarizzato tra i tre partiti che rappresentavano le tre principali etnie bosniache; inoltre le cariche all'interno dei vari ministeri e organi amministrativi venivano assegnate secondo un sistema di quote, per cui si faceva in modo che coloro che operavano all'interno di uno stesso ministero non appartenessero mai tutti allo stesso partito; nelle circostanze fortemente polarizzate che abbiamo visto, questo sistema, mutuato dal vecchio regime, si tradusse in un'impasse che determinò un sostanziale blocco delle attività. La polarizzazione tra componenti etniche all'interno della repubblica bosniaca rifletteva il processo di disgregazione in corso nella confederazione jugoslava: l'anno 1991 vide la secessione delle repubbliche di Slovenia e Croazia e lo scoppio della guerra; dal momento che la Bosnia, come aveva affermato il presidente Izetbegović466, non sarebbe rimasta in una confederazione jugoslava di cui non avesse fatto parte anche la Croazia, la prospettiva del conflitto iniziò a farsi concreta anche per la repubblica bosniaca. All'intensificarsi del conflitto nelle altre repubbliche jugoslave corrispose un graduale processo di disintegrazione del territorio bosniaco, di cui diverse aree venivano reclamate sia da parte della popolazione serba che da parte dei nazionalisti croati, i quali iniziavano nel frattempo ad armarsi. Sempre nel 1991 le istituzioni bosniache fecero un ultimo disperato tentativo per risolvere la situazione a livello istituzionale, cercando un accordo tra i tre partiti etnici su un meccanismo di governo che avrebbe protetto gli interessi di ciascun gruppo etnico mantenendo intatta la Bosnia. Tuttavia la commissione costituzionale che venne convocata all'inizio del 1991 non 465 Suad Arnautović cit. in S.L.BURG, P.S.SHOUP, “The war in Bosnia Herzegovina: ethnic conflict and international intervention”, M. E. Sharpe, Armonk,1999, p. 49 466 Vedi nota 8 e S.L.BURG, P.S.SHOUP, “The war in Bosnia Herzegovina: ethnic conflict and international intervention”, M. E. Sharpe, Armonk,1999, capitoli 2, 3,4 200 riuscì a trovare un accordo sulla questione fondamentale: la natura dello stato bosniaco. Avrebbe dovuto essere una repubblica di cittadini, di individui non caratterizzati etnicamente, almeno sul piano giuridico, o una repubblica di nazioni? Non venne raggiunta una posizione comune nemmeno sulle modalità di distribuzione delle competenze tra il governo centrale e le istituzioni provinciali. Il dibattito continuò in parlamento: nell'ottobre del 1991, in seguito alle formali dichiarazioni di indipendenza da parte di Slovenia e Croazia, la questione della sovranità della Bosnia come nazione musulmana venne sottoposta al vaglio del “Consiglio per l'affermazione dell'uguaglianza delle nazioni e nazionalità in BosniaErzegovina”, o “Consiglio per l'uguaglianza nazionale”, organismo previsto da una riforma costituzionale del 1990 al fine di valutare qualsiasi atto del parlamento che venisse considerato da più di venti deputati come lesivo dell'uguaglianza delle nazioni in Bosnia e che doveva essere composto da un numero uguale di rappresentanti delle etnie musulmana, serba e croata. Ma l'attività del Consiglio, che poteva adottare decisioni solo per consenso, venne bloccata dai veti incrociati dei rappresentanti dei tre gruppi. Il dibattito sulle richieste di sovranità dell'etnia musulmana continuò dunque in parlamento. Tra le rivendicazioni di sovranità del presidente Izetbegović e le minacce di Radovan Karadžić, leader del Partito democratico serbo, di “annientamento del popolo musulmano”467vennero approvate (dai parlamentari croati e musulmani) due risoluzioni che prevedevano la creazione di una “repubblica civile” in Bosnia, nella quale sarebbero stati garantiti i diritti umani e le libertà fondamentali ad ogni cittadino, e le questioni riguardanti i diritti di tutte le nazioni e le nazionalità sarebbero state risolte tramite una adeguata composizione del parlamento*. Venivano così respinte le richieste secessioniste dell'etnia serba, poiché si stabiliva che ogni modifica ai confini bosniaci poteva essere approvata solo con una maggioranza di due terzi in un referendum popolare. 8.2.3 Il referendum del 1992: appartenenza religiosa, appartenenza etnica e divisione territoriale 467 Trasmissione di Radio Sarajevo del 14 ottobre 1991 riportata in S.L.BURG, P.S.SHOUP, “The war in Bosnia Herzegovina: ethnic conflict and international intervention”, M. E. Sharpe, Armonk,1999, pp.77-78 201 Incoraggiato dall'approvazione della comunità internazionale, il parlamento bosniaco, dal quale, in seguito ai contrasti con i gruppi croato e musulmano, i deputati serbi si erano ritirati, iniziò a discutere la possibilità di indire un referendum sulla questione dell'indipendenza nel gennaio del 1992. Il referendum fu preceduto da negoziati468, che ebbero inizio a Lisbona, mediati da un rappresentante della comunità europea, José Cutileiro, dal quale venne la proposta di creare uno stato bosniaco indipendente, diviso in regioni (o cantoni) “nazionali”: la partizione territoriale sarebbe stata effettuata secondo linee etniche, e i tre territori sarebbero stati etnicamente omogenei. Ognuno dei tre cantoni avrebbe avuto la propria amministrazione e sarebbe stato di fatto separato dagli altri due. Non era chiara, tuttavia, la suddivisione del territorio. Contemporaneamente si prevedeva l'indipendenza della Bosnia-Erzegovina. Le difficoltà nel raggiungere un accordo sulla divisione territoriale e sulla “natura costituzionale dello stato bosniaco”, cioè sulla questione dell'indipendenza della Bosnia dalla confederazione jugoslava (o di ciò che ne rimaneva, coincidente più o meno con la repubblica serba), portarono a rivedere più volte il cosiddetto “accordo Cutileiro”, senza alterarne tuttavia la sostanza: la Bosnia sarebbe stata divisa in tre “unità costitutive”, che tenevano sì conto di fattori geografici ed economici, ma che erano definite prima di tutto in termini etnici: si trattava in pratica di una molteplicità di piccole regioni non contigue, omogenee dal punto di vista dell'etnia della popolazione. In sostanza, una sorta di “mappa etnica” del territorio bosniaco. Secondo le parole dello stesso Cutileiro “...i confini esistenti della BosniaErzegovina sarebbero stati inviolabili, ma all'interno di quei confini a Serbi e Croati sarebbe stata garantita l'autonomia sia dai Musulmani, sia l'uno dall'altro.” Questa soluzione fu vista da parte serba come un primo passo verso l'indipendenza e la creazione di “tre Bosnie separate”, mentre da parte musulmana venne interpretata 468 L'accordo Cutileiro non fu l'unico a tentare una soluzione dei conflitti tra le diverse fazioni tramite la mediazione e i metodi istituzionali: anche la Commissione Badinter auspicò che venisse indetto un referendum popolare per decidere sulla questione dell'indipendenza. Il piano VanceOwen invece prevedeva la creazione di una Bosnia-Erzegovina fortemente decentralizzata, ma non divisa secondo criteri etnici, in cui venisse garantito il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali ad ognuna delle tre nazionalità tramite il rafforzamento delle garanzie costituzionali e la promozione della tolleranza, mentre veniva rifiutata nettamente l'idea che esistessero una “nazione costituente” e dell minoranze. Nonostante gli strenui tentativi della comunità internazionale, nemmeno questa proposta venne approvata. 202 come un presupposto per il mantenimento di una Bosnia sostanzialmente unitaria. I rappresentanti croati vi ravvisarono una soluzione che si avvicinava alle loro richieste, una sorta di riconoscimento dell'antico sistema dei millet, inserito in uno stato bosniaco unitario, su cui si basava la loro proposta. Tuttavia, nessuna delle tre fazioni alla fine dei negoziati accettò di firmare l'accordo. Nel frattempo il referendum sull'indipendenza si era tenuto, tra il 29 febbraio ed il primo marzo 1992: la popolazione avrebbe dovuto dare il proprio voto a proposito dell'indipendenza della Bosnia. La questione era formulata come segue: ai votanti era richiesto di esprimersi sul progetto di una “Bosnia -Erzegovina indipendente, uno stato di cittadini uguali, Musulmani, Serbi, Croati e altre nazionalità che vi vivono”. La questione della divisione del territorio bosniaco in cantoni etnicamente omogenei era stata così accuratamente evitata. Le votazioni furono boicottate dai serbi; tuttavia, il 63% dei votanti si dichiarò comunque a favore dell'indipendenza. Il giorno successivo alla votazione le prime barricate vennero innalzate a Sarajevo. Come risulta evidente dalla successione di eventi che portarono alla situazione in cui poi si scatenò il conflitto, nell'analisi delle condizioni della comunità musulmana di Bosnia non si possono separare il fattore religioso da quello etnico e nazionale: il riconoscimento della comunità da parte dell'ordinamento giuridico si sviluppò infatti secondo queste due diverse linee direttrici, Dall'approvazione della costituzione del 1974 in avanti, non si tratta più del riconoscimento in capo ad una minoranza dei diritti religiosi. Precedentemente, l'atteggiamento dell'ordinamento jugoslavo nei confronti delle comunità religiose si era caratterizzato per un tipo di approccio che andava dall'indifferente al repressivo, senza sostanziali differenze nel trattamento delle diverse confessioni. La pratica del culto non era quindi proibita, salvo nelle manifestazioni esteriori più visibili, ma il riconoscimento giuridico delle comunità era assai limitato, sia dal punto di vista della tutela dei diritti delle comunità stesse (proprietà, titolarità di funzioni quali l'istruzione e la competenza fiscale), sia sul piano della rappresentanza all'interno delle istituzioni. Per la comunità musulmana la situazione cambiò radicalmente a partire dal 1974: 203 venne riconosciuto da una previsione costituzionale che i musulmani bosniaci, per i quali fino ad allora l'elemento unificante era stato rappresentato dalla comune appartenenza religiosa, godevano di un'identità autonoma anche dal punto di vista etnico ed erano parificati alle etnie serba e croata. Sancita da una norma, la sovrapposizione tra fattore etnico-nazionale e fattore religioso era completa469. In concreto ciò significava che, a differenza delle altre comunità religiose, non rappresentate nell'ordinamento in quanto tali, la comunità islamica bosniaca avrebbe da allora goduto dello status di cui godevano le altre nazionalità, sarebbe stata rappresentata in quanto tale a livello istituzionale tramite la fondazione di un proprio partito e la partecipazione alle elezioni, e avrebbe avuto anzi un ruolo maggioritario nel governo della repubblica bosniaca. Si può affermare inoltre che l'origine del conflitto tra i diversi gruppi nazionali che componevano la popolazione della Bosnia-Erzegovina dipese in parte anche dall'assunzione di un'identità esplicitamente “etnica” da parte della comunità musulmana. 8.3 I musulmani e la guerra Secondo la maggior parte degli studiosi, anche se non vennero risparmiate ne' la popolazione serba ne' la popolazione croata, poiché tutte le parti si resero responsabili di atti di violenza, fu l'etnia musulmana il bersaglio delle maggiori atrocità commesse nel corso del conflitto in Bosnia. Non si trattò tuttavia di una guerra tra religioni, anche se alcuni autori sottolineano il ruolo ricoperto anche dalle guide religiose delle diverse comunità nell'esasperazione delle differenze e nell'esacerbazione dei contrasti470. Si può affermare infatti che all'inasprimento delle 469 Anche se non va dimenticato che le categorie “Musulmano etnico” e “musulmano confessionale” (nel senso di soggetto che pratica l'islam) non risultano perfettamente sovrapponibili nemmeno in Bosnia: sebbene i soggetti parte dela comunità religiosa musulmana jugoslava fossero in gran parte musulmani etnici, appartenenti alla popolazione bosniaca, ne facevano parte anche persone appartenenti alle etnie albanese, turca, macedone, rom, serba, croata (questi ultimi due soprattutto all'esterno della Bosnia), e Pomak (vedi il capitolo sulla Bulgaria). Cfr. S.RAMET, “Balkan Babel”, Westview Press, Oxford, 2002, pp.118 ss. 470 S.RAMET, “Balkan Babel”, Westview Press, Oxford, 2002, pp. 255 ss. L'autrice sottolinea soprattutto la sovrapposizione tra istanze nazionalistiche e identificazione in una comunità religiosa, anche tramite l'adozione o la proposta di normative che mirassero a rafforzare la 204 relazioni interetniche corrispose un drastico deterioramento dei rapporti interconfessionali. Nei primi anni '90, la chiesa cattolica croata avanzò insistenti proposte di reintroduzione dell'insegnamento della religione cattolica anche nelle scuole statali e appoggiò in molte forme le politiche nazionaliste del governo, chiedendo ad esempio che venisse dichiarata illecita la formazione di organizzazioni basate sull'affiliazione a gruppi religiosi. Anche la chiesa ortodossa serba chiese più volte che l'insegnamento della religione ortodossa venisse reso obbligatorio nelle scuole pubbliche, oltre a dichiarare in documenti ufficiali, come la dichiarazione che nel marzo 1992 venne emessa dal patriarcato ortodosso di Belgrado471, il suo appoggio alla politica nazionalista serba. Per quanto riguarda la comunità musulmana infine, in alcune scuole bosniache, ad esempio a Mostar, venne introdotto l'insegnamento della lingua araba, mentre gli imam bosniaci scoraggiavano la celebrazione di matrimoni interetnici (pratica precedentemente piuttosto comune) e, fatto inusuale per le donne musulmane bosniache, vennero loro rivolti da parte delle autorità religiose inviti ed esortazioni a coprirsi il capo in pubblico usando il velo. Nell'ottica di un conflitto che assunse anche, in parte, connotazioni confessionali, deve essere sottolineata, oltre alla deportazione, alla violenza e all'eliminazione fisica di centinaia di migliaia di musulmani, la distruzione sistematica di moschee, monumenti, biblioteche: in generale dei luoghi della storia e della cultura musulmane in Bosnia, in una sorta di moderna damnatio memoriae che cancellasse definitivamente tutte le tracce dell'esistenza della comunità islamica da un territorio che avrebbe dovuto entrare a far parte della Grande Serbia. Ritroviamo tuttavia in maggior misura, anche durante la guerra, gli elementi che avevano caratterizzato lo status e le relazioni dei diversi gruppi etnici e le particolarità della comunità islamica bosniaca: il riconoscimento del carattere di nazionalità e l'equiparazione alle etnie serba e croata operato dalla costituzione del 1974 toglie in qualche modo rilevanza al fattore religioso, riducendolo ad uno degli aspetti del riconoscimento in senso etnico, poiché era sul riconoscimento come percezione della coincidenza tra i due aspetti. Esemplare anche il caso dei Francescani croati riportato in M. MANN, “The dark side of democracy: explaining ethnic cleansing”, Cambridge University Press, Cambridge, 2005. p.386 471 S.RAMET, “Balkan Babel”, Westview Press, Oxford, 2002, pp. 100 ss. 205 nazionalità, e non come comunità religiosa, che si basavano la rappresentanza istituzionale e la partecipazione parlamentare 472. Allo stesso modo durante la guerra, sebbene si parli di “musulmani” e nonostante il ruolo delle autorità religiose osservato in precedenza., le rivendicazioni, gli odii, le violenze si basano su fratture di tipo etnico e nazionalista, non certamente a base confessionale. 8.3.1 Genocidio e pulizia etnica “[...]Per genocidio si intende uno qualsiasi dei seguenti atti, commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale: a) uccisione di membri del gruppo; b) attentato grave all'integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) infliggere intenzionalmente al gruppo condizioni di vita preordinate a condurre alla sua distruzione fisica totale o parziale; d) imposizione di misure tese ad impedire le nascite all'interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli del gruppo in un altro gruppo.[...]” (Art. 4, co.2 dello Statuto del Tribunale per la ex-Jugoslavia) Nel maggio 2007 il Tribunale penale internazionale per la ex-Jugoslavia473 ha emesso una sentenza di condanna nei confronti di due ufficiali dell' esercito della Repubblica serba: il colonnello Vidoje Blagojević e il maggiore Dragan Jokić. I due ufficiali erano al comando delle brigate Bratunac e Zvornik, i cui uomini risultarono 472 Alcuni autori sottolineano anche come negli anni il termine “musulmano” si sia gradualmente sovrapposto al termine “bosniaco”, assumendo connotati decisamente nazionali. Cfr. S.L.BURG, P.S.SHOUP, “The war in Bosnia Herzegovina: ethnic conflict and international intervention”, M. E. Sharpe, Armonk,1999 473 Il Tribunale internazionale per il perseguimento di persone responsabili di violazioni gravi del diritto internazionale umanitario commesse nel territorio dell' ex-Jugoslavia dal 1991, il cui statuto è stato adottato con risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite il 25. 5. 1993, ha sede all' Aja. I testi delle sentenze sono consultabili al sito internet 206 essere gli esecutori materiali del massacro e delle deportazioni di civili musulmani che avvennero nella zona di Srebrenica, vicina al confine tra Bosnia-Erzegovina e Serbia, nel luglio del 1995. Non è necessario entrare nei dettagli del processo recentemente conclusosi; tuttavia alcuni passi della decisione, in particolare quelli che si riferiscono all'accusa di “complicità nel genocidio” nei confronti di Blagojević (accusa dalla quale, peraltro, Blagojević è stato assolto in appello), possono risultare utili alla definizione dello status della comunità musulmana bosniaca in relazione al fattore religioso ed al fattore etnico. Citando la decisione che chiude il giudizio di primo grado, nella sentenza di appello si afferma che “[...] l'attacco esteso o sistematico contro la popolazione civile di Srebrenica venne commesso sulla base di motivi razziali, religiosi o politici.” (p. 47 par 114). Nel paragrafo successivo (115) si fa riferimento ad alcune affermazioni del generale Mladić a proposito di una “[...] vendetta contro i Turchi”. Poche pagine dopo, si fa ancora riferimento alla sentenza di primo grado(p.119), nella parte in cui afferma che “le forze militari serbo-bosniache commisero genocidio a Srebrenica uccidendo più di 7000 uomini musulmani bosniaci ed infliggendo ai civili musulmani bosniaci gravi sofferenze fisiche e mentali, conseguenti al trattamento inumano che caratterizzò il loro trasferimento forzato da Potočari.” mentre il trasferimento forzato di donne, bambini ed anziani viene definito, sempre nella motivazione della decisione di primo grado, una manifestazione dello “specifico intento di eliminare dall'enclave di Srebrenica la popolazione bosniaca musulmana”. La stessa intenzione di “distruggere il gruppo” viene ravvisata nei maltrattamenti e nelle esecuzioni di massa avvenute nella città di Bratunac. In sintesi, nel giudizio di appello viene confermato l'intento genocida degli esecutori materiali delle stragi in quanto gli atti di violenza risultano essere “sistematicamente diretti contro lo stesso gruppo”, cioè contro la comunità musulmana di Bosnia, nell'intento di distruggerlo. Il colonnello ed il maggiore invece sono condannati per le accuse di violazione delle leggi e consuetudini di guerra e crimini contro l'umanità. Viene al contrario sostenuta l'impossibilità di affermare oltre ogni ragionevole dubbio la loro consapevolezza dell'intento genocida delle violenze compiute a Srebrenica, e quindi respinta la richiesta di condanna in tal senso. 207 Quello che interessa sottolineare a proposito di questo ed altri processi474 è che, anche con riguardo al conflitto, le cause scatenanti non risiedono in fattori di identificazione esclusivamente religiosi: a partire dalla costituzione del 1974 dunque, e come conseguenza dell'esacerbazione delle tensioni interetniche, per la comunità musulmana la sovrapposizione tra identità religiosa ed appartenenza ad un gruppo etnico diventa, almeno come una sorta di “finzione giuridica”475, totale. Le conseguenze del riconoscimento ebbero, tra l'altro, come già detto, ricadute di tipo normativo, più che nell'ambito dei diritti religiosi, soprattutto per ciò che riguardava la rappresentanza istituzionale e parlamentare, con l'inclusione nel sistema di quote che regolamentava la composizione degli organi di governo. Tornando al conflitto, le azioni di pulizia etnica, cioè di eliminazione fisica dei maschi in grado di combattere e di deportazione del resto della popolazione, erano mirate alla cancellazione della popolazione musulmana dai territori che secondo le diverse parti in conflitto avrebbero dovuto appartenere al popolo serbo o a quello croato. Ma la motivazione alla base dell'odio tra gruppi non era certo il fattore religioso, che si aggiunse in seguito e rappresentava soltanto un aspetto del processo di identificazione nazionalista. 8.3.2 La costituzione di Dayton La negoziazione delle condizioni che avrebbero seguito la fine del conflitto ebbe luogo nel novembre 1995 tra le parti serba, croata e bosniaca, con la mediazione dell'Unione Europea e degli Stati Uniti. Nel trattato che ne seguì si stabiliva una precisa suddivisione territoriale; si prevedevano disposizioni e si istituivano organi di controllo a tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali ripetutamente violati durante il conflitto; si approvava una nuova costituzione per la repubblica di Bosnia474 Ad esempio il processo Kupresic, citato anche in M. MANN, “The dark side of democracy: explaining ethnic cleansing”, Cambridge University Press, Cambridge, 2005. pp. 413 ss. 475 In molte delle deposizioni raccolte durante i giudizi svoltisi davanti al Tribunale internazionale si sottolineano le tendenze laiciste della comunità musulmana bosniaca e la tendenza a non fondare l'appartenenza alla comunità musulmana sull'accentuazione di e lementi religiosamente connotati. Cfr. M. MANN, “The dark side of democracy: explaining ethnic cleansing”, Cambridge University Press, Cambridge, 2005. Vedi anche nota 15 al paragrafo Verso il conflitto (inserire numero). 208 Erzegovina. Quale è la posizione dei musulmani bosniaci nel nuovo testo costituzionale, in relazione al fattore etnico? La nuova carta costituzionale ridefinisce l'assetto della repubblica di Bosnia-Erzegovina come uno stato formato da due “soggetti” dotati di uguale status, nella costituzione definiti ”Entità”: la Federazione di BosniaErzegovina, o Federazione croato-musulmana, in cui coesistono, distribuite in diversi cantoni, monoetnici o misti, etnia musulmana, etnia croata ed etnia serba 476, e la Repubblica Serba. Il nuovo assetto costituzionale prevede uno stato fortemente decentrato, dove molti dei poteri decisionali rientrano tra le competenze dei governi delle due entità. Anche la composizione ed il funzionamento delle istituzioni politiche comuni rafforzano le latenti divisioni tra le due entità, più che sottolinearne l'unità. Inoltre, nelle stesse disposizioni viene sottolineata la divisione di fatto, anche se non riconosciuta in una espressa disposizione costituzionale, presente all'interno della Federazione di Bosnia-Erzegovina, tra etnia croata ed etnia musulmana. Il fattore etnico è anzi l'elemento su cui si basano il sistema di quote previsto per determinare la composizione delle istituzioni centrali, i metodi di votazione, la presidenza della federazione. 477 Esso rappresenta la base dell'identità politica e della rappresentanza, come si può notare osservando le norme che regolano la composizione delle due camere del parlamento. I 15 delegati della Camera dei popoli non provengono in eguale misura dalle due entità statali, ma sono equamente suddivisi per etnia: cinque croati e cinque bosniaci provenienti dalla Federazione, più cinque serbi. Allo stesso modo i 42 membri della Camera dei rappresentanti sono per un terzo di etnia bosniaca, per un terzo di etnia croata e per un terzo di etnia serba.478 Lo stesso meccanismo viene adottato per la presidenza della repubblica, composta di tre membri, eletti nella propria entità di appartenenza e sempre selezionati secondo il 476 Nella versione originaria della Costituzione della Federazione di Bosnia-Erzegovina, però, venivano riconosciute solamente l'etnia croata e quella bosniaca (o musulmana) come popoli costituenti, mentre l'etnia serba era del tutto ignorata, sia nell'elenco dei popoli costituenti sia nella composizione delle istituzioni. Gli emendamenti successivi la riportarono ad una condizione di parità con l'etnia croata e con l'etnia bosniaca. 477 Cfr. S.L.BURG, P.S.SHOUP, “The war in Bosnia Herzegovina: ethnic conflict and international intervention”, M. E. Sharpe, Armonk,1999, pp.360 ss. 478 Art. IV della Costituzione contenuta negli Accordi di Dayton 209 criterio di appartenenza etnica: un bosniaco, un serbo, un croato479. Lo stesso criterio di tripartizione secondo il criteri etnico è seguito anche per ciò che riguarda la composizione della Corte Costituzionale, dei cui nove membri tre sono proposti dal presidente della Corte europea dei diritti dell'uomo; dei restanti sei, due sono selezionati dall'assemblea parlamentare serba, quattro dalla camera dei rappresentanti della federazione musulmano-croata. Le tre etnie godono dello status di “popoli costituenti”, come si afferma nell'incipit della carta costituzionale480 della Repubblica, e nell'ambito delle procedure di adozione di testi legislativi ognuna di esse ha diritto di veto qualora ritenga minacciato un suo “interesse vitale”: questa procedura è prevista sia nell'ambito dell'assemblea parlamentare federale, sia per quanto riguarda i parlamenti delle entità, in ognuno dei quali è garantita la rappresentanza di ognuna delle tre etnie 481. Nel caso in cui il conflitto tra le parti fosse irrisolvibile all'interno delle assemblee parlamentari, è previsto l'intervento della Corte costituzionale, anche in questo caso in una composizione che rappresenti in modo paritario tutti i tre popoli costituenti. Questo meccanismo di tripartizione secondo criteri etnici è previsto, oltre che nella costituzione repubblicana, anche nel testo costituzionale approvato nel 1994 per la Federazione di Bosnia-Erzegovina. Anzi, nel testo originario le etnie riconosciute come popoli costituenti erano solamente due: l'etnia bosniaca e l'etnia croata. I riferimenti all'etnia serba in qualità di popolo costituente comparvero solamente con gli emendamenti effettuati qualche anno più tardi, modificando il precedente assetto della Federazione basato sulla bipartizione musulmano(bosniaco)-croata. Nella costituzione firmata a Dayton nel 1995, dunque, sparisce il riferimento religioso. Non si nomina più l'etnia musulmana, ora definita come “etnia bosniaca”, la quale gode dello status di popolo costituente e come tale è rappresentata nelle istituzioni. Sia nel Preambolo che all'art. II sulla tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali, si fa più volte riferimento alla libertà di culto482, ma nel riconoscere ai 479 Art. V della Costituzione contenuta negli Accordi di Dayton. 480 In cui, accanto alle nazioni costituenti, vengono nominati anche gli “Altri” (popoli), che sono però rappresentati a livello istituzionale (un membro su sette) solamente nella commissione formata all'interno della Corte costituzionale per dirimere le questioni relative al rispetto degli interessi vitali nell'attività legislativa delle assemblee parlamentari. 481 Cfr. “Agreement on the Implementation of the Constituent Peoples’ Decision of the Constitutional Court of Bosnia and Herzegovina”, 27 marzo 2002, art. 4. 482 Preambolo: “[...]Inspired by the Universal Declaration of Human Rights, the International 210 bosniaci lo status di popolo costituente non si fa riferimento all'appartenenza religiosa. Essi non vengono mai definiti musulmani e non ci sono norme che indichino l'islam come religione ufficiale, come non ne esistono di analoghe riferite alle chiese cristiane. Tuttavia, anche se è cambiata la definizione, la sovrapposizione rimane: gli appartenenti all'etnia bosniaca continuano ad essere, nella stragrande maggioranza, i musulmani di Bosnia. La costituzione di Dayton fa anzi un passo ulteriore: opera una definitiva sovrapposizione tra popolazione musulmana e popolo costituente bosniaco. 8.4 I musulmani e la guerra Secondo la maggior parte degli studiosi, anche se non vennero risparmiate ne' la popolazione serba ne' la popolazione croata, poiché tutte le parti si resero responsabili di atti di violenza, fu l'etnia musulmana il bersaglio delle maggiori atrocità commesse nel corso del conflitto in Bosnia. Non si trattò tuttavia di una guerra tra religioni, anche se alcuni autori sottolineano il ruolo ricoperto anche dalle guide religiose delle diverse comunità nell'esasperazione delle differenze e nell'esacerbazione dei contrasti483. Si può affermare infatti che all'inasprimento delle relazioni interetniche corrispose un drastico deterioramento dei rapporti interconfessionali. Nei primi anni '90, la chiesa cattolica croata avanzò insistenti proposte di reintroduzione dell'insegnamento della religione cattolica anche nelle scuole statali e appoggiò in molte forme le politiche nazionaliste del governo, chiedendo ad esempio che venisse dichiarata illecita la formazione di organizzazioni basate sull'affiliazione a gruppi religiosi. Covenants on Civil and Political Rights and on Economic, Social and Cultural Rights, and the Declaration on the Rights of Persons Belonging to National or Ethnic, Religious and Linguistic Minorities, as well as other human rights instruments [...]” Art. II: “[...]The enjoyment of the rights and freedoms provided for in this Article or in the international agreements listed in Annex I to this Constitution shall be secured to all persons in Bosnia and Herzegovina without discrimination on any ground such as sex, race, color, language, religion, political or other opinion, national or social origin, association with a national minority, property, birth or other status.” 483 S.RAMET, “Balkan Babel”, Westview Press, Oxford, 2002, pp. 255 ss. L'autrice sottolinea soprattutto la sovrapposizione tra istanze nazionalistiche e identificazione in una comunità religiosa, anche tramite l'adozione o la proposta di normative che mirassero a rafforzare la percezione della coincidenza tra i due aspetti. Esemplare anche il caso dei Francescani croati riportato in M. MANN, “The dark side of democracy: explaining ethnic cleansing”, Cambridge University Press, Cambridge, 2005. p.386 211 Anche la chiesa ortodossa serba chiese più volte che l'insegnamento della religione ortodossa venisse reso obbligatorio nelle scuole pubbliche, oltre a dichiarare in documenti ufficiali, come la dichiarazione che nel marzo 1992 venne emessa dal patriarcato ortodosso di Belgrado484, il suo appoggio alla politica nazionalista serba. Per quanto riguarda la comunità musulmana infine, in alcune scuole bosniache, ad esempio a Mostar, venne introdotto l'insegnamento della lingua araba, mentre gli imam bosniaci scoraggiavano la celebrazione di matrimoni interetnici (pratica precedentemente piuttosto comune) e, fatto inusuale per le donne musulmane bosniache, vennero loro rivolti da parte delle autorità religiose inviti ed esortazioni a coprirsi il capo in pubblico usando il velo. Nell'ottica di un conflitto che assunse anche, in parte, connotazioni confessionali, deve essere sottolineata, oltre alla deportazione, alla violenza e all'eliminazione fisica di centinaia di migliaia di musulmani, la distruzione sistematica di moschee, monumenti, biblioteche: in generale dei luoghi della storia e della cultura musulmane in Bosnia, in una sorta di moderna damnatio memoriae che cancellasse definitivamente tutte le tracce dell'esistenza della comunità islamica da un territorio che avrebbe dovuto entrare a far parte della Grande Serbia. Ritroviamo tuttavia in maggior misura, anche durante la guerra, gli elementi che avevano caratterizzato lo status e le relazioni dei diversi gruppi etnici e le particolarità della comunità islamica bosniaca: il riconoscimento del carattere di nazionalità e l'equiparazione alle etnie serba e croata operato dalla costituzione del 1974 toglie in qualche modo rilevanza al fattore religioso, riducendolo ad uno degli aspetti del riconoscimento in senso etnico, poiché era sul riconoscimento come nazionalità, e non come comunità religiosa, che si basavano la rappresentanza istituzionale e la partecipazione parlamentare 485. Allo stesso modo durante la guerra, sebbene si parli di “musulmani” e nonostante il ruolo delle autorità religiose osservato in precedenza., le rivendicazioni, gli odii, le violenze si basano su fratture di tipo etnico e nazionalista, non certamente a base confessionale. 484 S.RAMET, “Balkan Babel”, Westview Press, Oxford, 2002, pp. 100 ss. 485 Alcuni autori sottolineano anche come negli anni il termine “musulmano” si sia gradualmente sovrapposto al termine “bosniaco”, assumendo connotati decisamente nazionali. Cfr. S.L.BURG, P.S.SHOUP, “The war in Bosnia Herzegovina: ethnic conflict and international intervention”, M. E. Sharpe, Armonk,1999 212 8.5 Valutazioni: la comunità musulmana oggi La grande difficoltà che si incontra nel definire lo status della comunità musulmana bosniaca é rappresentata dal cortocircuito che si crea tra appartenenza etnica e partecipazione alla comunità religiosa; esso risulta piuttosto evidente se si ripercorrono le vicende costituzionali e politiche che hanno interessato la BosniaErzegovina, non solo in tempi recenti, e che l'hanno condotta all'assetto attuale. La comunità islamica di Bosnia-Erzegovina oggi corrisponde quasi esattamente a quello che nella costituzione viene definito “popolo costituente” bosniaco, cioè la “nazionalità musulmana” così definita nella costituzione del 1974. É questo forse ciò che la differenzia dalle comunità islamiche serba e croata: nella costituzione non è più utilizzato il termine “musulmano” per definire l'appartenenza etnica, la denominazione è cambiata, ma i musulmani bosniaci continuano ad essere rappresentati nelle istituzioni in quanto etnia, che prima del conflitto era definita musulmana, quindi identificata tramite un termine che richiamava principalmente l'aspetto dell'appartenenza religiosa, ed ora è definita bosniaca, 486 trasformandosi da definizione territoriale in connotazione di tipo etnico, sancita dalle norme costituzionali. La guerra non è passata senza lasciare tracce: se la comunità islamica è retta ed organizzata sempre tramite le stesse istituzioni religiose, con a capo il reis-ul-ulema, che oggi ricopre il ruolo di rappresentante ufficiale della comunità musulmana di Bosnia-Erzegovina, tuttavia l'islam di oggi non corrisponde più a quella forma di culto blanda e con forti tendenze laiciste praticata in Bosnia-Erzegovina negli anni precedenti il conflitto. L'ambito in cui si registrano le evoluzioni più interessanti e problematiche, però, sembra essere quello della rappresentanza istituzionale: in questo senso possono 486 “The change in terminology from Muslim to Bosniak which has come to the fore 8and been adopted by international observers) now effectively denies non-Muslims the right to identification as Bosniaks. Before 1992 such a term had a more territorially defined reference and could be used by all groups who saw their allegiance to the state or territory as taking precedence over sectarian considerations. In its present usage the term not only denies non-Muslim inclusion , but confines them to their own respective ethnic camps whether they like it or not [...]” così H. POULTON, “After Dayton”, in H. POULTON, S. TAJI-FAROUKI (a cura di), “Muslim identity and the Balkan State”, Hurst & Company, London, 1997, pp. 240 ss. 213 essere individuati due piani distinti. Il primo è quello parlamentare, che vede protagonista ancora il Partito di azione democratica, o SDA, citato nei precedenti paragrafi a proposito della svolta elettorale del 1990. Formazione politica di ispirazione musulmana, nei primi anni '90 diviene il più importante partito bosniaco, di impronta inizialmente (almeno sul piano dichiarativo) multiculturale e secolare; dopo il conflitto si propose invece come fortemente orientato verso valori religiosi, percorrendo con sempre maggiore decisione la strada del panislamismo iniziata negli anni '80 e intensificando i contatti con l' oriente islamico. Il secondo, e forse il più interessante, è quello delle istituzioni religiose riconosciute dall'ordinamento487 ormai da secoli, la cui funzione rappresentativa si è rapidamente evoluta negli ultimi anni, come è accaduto appunto per la carica di reis-ul-ulema. Mustafa efendi Ceric é il reis in carica, guida religiosa dei musulmani bosniaci. Ma il suo ruolo istituzionale attuale oltrepassa i limiti delle funzioni riservate ad una guida religiosa in un modo che spinge a riflettere su quanto forte sia la corrispondenza tra appartenenza nazionale, o etnica, ed appartenenza religiosa. Spesso negli ultimi anni il reis ha incontrato i rappresentanti serbi e croati non solo in veste di rappresentante del culto islamico, ma ponendosi come referente anche per la discussione di questioni la cui competenza è solitamente riservata alle istituzioni statali, quali il genocidio dei musulmani bosniaci488 o i problemi relativi allo status della comunità islamica del Sangiaccato, presentandosi a nome della comunità musulmana bosniaca in un'accezione che travalica evidentemente la mera appartenenza religiosa. Le problematiche sollevate da questo atteggiamento non sono poche, e la confusione a livello rappresentativo ed istituzionale è avvertita diffusamente. “Perché e in che veste il capo di una comunità religiosa in Bosnia-Erzegovina conduce dialoghi 'statali' con il presidente di un paese vicino su temi che non riguardano per niente la religione e il funzionamento delle comunità religiose? Perché Ceric parla a nome di 487 Anzi, dagli ordinamenti: massima carica religiosa istituita nel periodo ottomano, resiste anche se indebolita sotto la dominazione austriaca e viene utilizzata a fini di propaganda durante il regime di Tito, riassumendo le funzioni originarie dagli anni '90 in avanti. 488 “E’ evidente che sono solo i musulmani bosniaci a dover dividere il loro paese, il loro potere politico e il loro futuro con chi ha commesso il genocidio contro di loro […] Soltanto per i musulmani bosniaci c’è obbligo di riconciliarsi con coloro che hanno commesso il genocidio contro tutti”. Così il reis nell'articolo di Z. DIZDAREVIĆ, “Il reis all'attacco” in Osservatorio sui Balcani, 30 marzo 2007 214 tutti i bosgnacchi, dunque a nome di tutto un popolo, di cui non tutti sono religiosi e nemmeno è detto che siano musulmani? Non dovrebbe essere solo il leader della comunità islamica in Bosnia-Erzegovina, e non il rappresentante politico del popolo? E infine, da dove arrivano le dichiarazioni sulla necessità di 'instaurare di nuovo un dialogo diretto fra i serbi e i bosgnacchi?489'. Perché si presuppone a priori che si tratta di due comunità nazionali rigorosamente separate all’interno delle quali tutti sono uguali solamente perché determinati nazionalmente? Cosa significa tutto questo in una Bosnia-Erzegovina multietnica?”.490 I soggetti in questione nello sfogo del corrispondente da Sarajevo sono due: uno è l'etnia musulmana, alla quale corrisponde il popolo costituente bosniaco, riconosciuto giuridicamente come soggetto nella costituzione e rappresentato, in quanto tale, nelle istituzioni repubblicane e federali; l'altro è la comunità islamica di Bosnia-Erzegovina, esistente in forza del principio costituzionalmente sancito della libertà religiosa ma priva di un ruolo istituzionale riconosciuto nella costituzione. Tuttavia è il reis-ul-ulema bosniaco, nelle sue funzioni istituzionali, a porsi come rappresentante del popolo bosniaco, operando così la sovrapposizione definitiva tra etnia musulmana, o bosniaca, e comunità islamica di Bosnia. Questa tendenza è riportata da non pochi autori: si sottolinea spesso infatti come il reis Ceric si ponga sempre, nei rapporti che intrattiene con le autorità istituzionali, come il leader di tutta l'etnia bosniaca491, includendola quindi nella sua totalità all'interno della comunità islamica di Bosnia e rendendo effettivo quel corto circuito di cui si parlava all'inizio del paragrafo. Qual é, in sostanza , il meccanismo che permette al reis-ul-ulema492 di presentarsi 489 Così vengono chiamati i musulmani bosniaci. 490 Z. DIZDAREVIĆ, “Il reis all'attacco” in Osservatorio sui Balcani, 30 marzo 2007 491 “Efendi Ceric evidentemente aveva intenzione di portare l'intero caso ad un livello di relazioni fra i due stati, e di presentare se stesso come il rappresentante della Bosnia-Erzegovina di fronte alla Serbia. In questione é il problema per cui il “leader bosgnacco” scrive al “leader serbo”. La lettera rientra nel contesto dell'”apertura del dialogo serbo-bosgnacco sulla base della comprensione e del riconoscimento reciproco. É del tutto evidente come il reis Ceric, quindi un leader religioso, si identifichi come leader di tutti i bosgnacchi. Fra questi, però, non tutti sono credenti e di certo non ritengono il leader religioso dei musulmani in Bosnia-Erzegovina sia il loro leader “negoziale” a livello internazionale. Ma si tratta anche di capire quanto tutti i credenti della Bosnia-Erzegovina avrebbero voluto vederlo in questa veste politica.” Così Z. DIZDAREVIĆ, “Il sangiaccato visto da Sarajevo” in Osservatorio sui Balcani, 25 ottobre 2007 492 Naturalmente, anche se il l'atteggiamento del reis in carica è particolarmente significativo e dimostrativo della confusione istituzionale creatasi, si intende analizzare il ruolo della carica 215 come il rappresentante dell'etnia bosniaca allo stesso modo di un parlamentare? Certo ricopre una carica elettiva, ma può porsi come rappresentante di tutta la popolazione bosniaca? E ciò che viene così intensamente avvertito sul piano sociale e dell'opinione pubblica non è forse una conseguenza della sovrapposizione effettuata, anzi legittimata a livello costituzionale? La fede islamica, eletta a “pilastro dell'identità”493 musulmano-bosniaca, è dunque un vero fattore unificante e rappresentativo della popolazione bosniaca nella sua totalità, oppure costituisce una sorta di “semplificazione” utilizzata per dividere in categorie nette, e perciò più facilmente gestibili, un popolo frammentato in seguito a tortuose vicende storiche e da un conflitto che ne ha minato profondamente l'unità?CONCLUSIONI E PROSPETTIVE EUROPEE Il problema della rappresentanza istituzionale delle minoranze musulmane all'interno degli ordinamenti europei si è fatto negli ultimi anni sempre più pressante: per inquadrane le reali dimensioni, risulta fondamentale l'analisi di alcune questioni particolari che costituiscono delle costanti nelle esperienze dei diversi ordinamenti, e che permettono di individuare in quali direzioni dovranno concentrarsi i progressi futuri: quando parliamo di comunità islamiche europee, dobbiamo tenere presente la fondamentale bipartizione che distingue le minoranze musulmane degli stati dell'Europa balcanica e sud-orientale, radicate da secoli nei territori degli stati in cui si trovano, e le comunità islamiche insediatesi negli stati dell'Europa occidentale, prevalentemente attraverso i fenomeni migratori che hanno interessato questa parte dell'Europa negli ultimi cinquant'anni. La distinzione è fondamentale, dato che quello che ne deriva è un tipo di approccio al problema totalmente diverso per quanto riguarda la soluzione dei conflitti e i termini del problema del riconoscimento delle minoranze stesse. istituzionale in sé e non della persona che la ricopre. 493 Secondo l'espressione utilizzata da H. POULTON, “After Dayton”, in H. POULTON, S. TAJI-FAROUKI (a cura di), “Muslim identity and the Balkan State”, Hurst & Company, London, 1997, pp. 240 ss. 216 L'analisi della condizione delle minoranze musulmane dell'Europa occidentale segue alcune linee direttrici principali, che sono state utilizzate infatti per confrontarsi con la situazione di ogni singolo ordinamento. La prima caratteristica che contraddistingue tali minoranze religiose, e che salta subito agli occhi, è l'estrema frammentazione interna; l'appartenenza alla religione musulmana professata dagli immigrati da paesi islamici in Francia, Italia, Germania, Belgio, solo per citare gli esempi analizzati in precedenza, si declina in modi diversissimi a seconda della provenienza del migrante, che condiziona la pratica religiosa in moltissimi modi: determinate aree geografiche hanno conosciuto l'espansione di alcune scuole giuridico-dottrinali che invece non si sono affatto sviluppate in altre zone del mondo, cosicché praticare l'islam marocchino significa prevalentemente appartenere alla tradizione sunnita malikita, mentre essere un musulmano saudita vuol dire appartenere all'ultraconservatrice corrente wahabita della scuola hanbalita, teorizzatrice dello stato islamico e fondamento teorico della monarchia saudita.494 Provenire dal Senegal o dalla Turchia equivale quasi sempre a praticare l'islam mistico delle fratellanze sufi, caratterizzato da una fortissima coesione interna a questi gruppi e da una concezione molto personale e poco istituzionalizzata della pratica religiosa. Essere un turco alevita o un iraniano significa invece trovarsi in una condizione di minoranza all'interno della minoranza stessa, a causa dell'appartenenza all'islam sciita. Se si proviene dall'Europa balcanica, invece, la definizione “musulmano” equivarrà in molti casi ad una mera dichiarazione di appartenenza culturale più che religiosa. E non si tratta di distinzioni puramente teoriche: esse comportano l'adesione a diversi stili di vita, l'organizzazione dei propri valori secondo scale gerarchiche differenti, la celebrazione di festività distinte, concezioni opposte del rapporto stato-religione. Ne conseguono necessità diverse e ovviamente richieste diverse alle istituzioni dello stato di arrivo, difficili da conciliare. Inoltre la diversa provenienza determina anche differenze legate a quello che viene definito “islam degli stati”495, influenzato dalle 494 Cfr. R. SACCO, “Il diritto africano”, Utet, Torino, 1995; H. HALM, “L'Islam”, Laterza, Bari, 2003. 495 Cfr. W. SCHIFFAUER, “From exile to diaspora: the development of transnational Islam in Europe”, in A, AL-AZMEH, E. FOKAS, “Islam in Europe: Diversity, Identity and Influence”, Cambridge University Press, Cambridge, 2007, e A. PACINI, “I musulmani in Italia”, in S. FERRARI (a cura di), “Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche”, Il 217 politiche dei governi degli stati di provenienza, come, per utilizzare due esempi già molto citati ma efficaci, la Turchia laica da una parte e l'Arabia Saudita teocratica dalla parte opposta. Risulta facile intuire come sia difficile riunire componenti così variegate e distanti tra loro in un'unica entità dal nome “comunità islamica”: essa potrà sembrare coesa dall'esterno, ma appena ci si addentrerà nelle dinamiche interne al gruppo tutte le differenze evidenziate emergeranno con forza. La situazione è resa più complicata dalla struttura stessa in cui si organizza la religione musulmana: essa infatti non è dotata di una struttura gerarchica pari a quelle delle confessioni cristiane, per cui non esiste una figura di “ministro del culto” centrale a cui far capo; almeno, non ne esiste una nello stato di arrivo, dove tutte le gerarchie anche di tipo giuridico-politico legate alla religione musulmana ed accettate perché tradizionalmente presenti saltano o sprofondano nella clandestinità496; è questo il motivo per cui nelle comunità musulmane immigrate la figura dell'imam assume tanta importanza: la guida alla preghiera rituale, momento associativo che assume fortissime valenze identitarie tra la popolazione immigrata, diventa punto di riferimento essenziale, anche se in realtà si tratta di un ruolo che qualsiasi musulmano mediamente esperto potrebbe assumere. Questi fattori rappresentano come si è visto un ostacolo non da poco nel rapporto con le istituzioni degli stati di arrivo: la comunicazione con le istituzioni richiede dei rappresentanti che possano fare da portavoce della comunità, e che godano di un consenso necessariamente vasto. Invece, le divisioni che corrono lungo le linee delle differenze dottrinali o del mosaico di zone di influenza governative e nazionali hanno favorito la nascita di una miriade di organizzazioni autonome e di una vita associativa molto ricca ma non unitaria, con la conseguenza che ogni gruppo tende a porsi in modo esclusivo come l'unico vero rappresentante della comunità islamica dello stato in cui risiede, delegittimando automaticamente le rimanenti organizzazioni, le quali da parte loro fanno esattamente lo stesso. Così, ogni ulteriore progresso nell'acquisizione di uno status legale che permetta agli appartenenti alle comunità musulmane di esercitare appieno quei diritti di libertà religiosa e di espressione, variamente declinati nelle varie costituzioni nazionali, è impedito dal Mulino, Bologna, 2000. 496 Cfr. F. FREGOSI, “Islam, una religione senza clero? Una riflessione comparata”, in “Daimon. Annuario di diritto comparato delle religioni”, 2003, n.3, pp.80 ss. 218 fatto che la comunicazione tra istituzioni nazionali e personalità religiose si arena sovente a causa della difficoltà riscontrata dalle comunità musulmane stesse nell'individuare dei rappresentanti che godano di un consenso diffuso. Per questo motivo gli sforzi effettuati negli ultimi anni, sia da parte dei rappresentanti delle comunità musulmane, sia da parte dei governi nazionali, si sono diretti verso l'obiettivo di trovare un consenso il più possibile esteso in merito alla questione dei rappresentanti istituzionali: la creazione di organi con funzione consultiva, o l'istituzione di conferenze permanenti finalizzate a trovare l'accordo tra le diverse forme dell'islam, cercano di rispondere alle esigenze di istituzionalizzazione dei rapporti con i diversi ordinamenti, riuscendovi, per ora in parte nelle esperienze più recenti, con maggiore successo nelle esperienze più risalenti. Tale necessità è riscontrabile a prescindere da quale sia l'atteggiamento del singolo ordinamento nei confronti delle religioni: ordinamenti fortemente improntati al principio di laicità come la Francia, o che si dichiarano neutrali come il Belgio (simile all’ordinamento francese solo in alcuni aspetti), o ancora di tipo concordatario come Italia e Germania, hanno indistintamente avvertito la necessità di confrontarsi con l'esperienza islamica sul piano delle istituzioni e dell'ufficialità, al fine trovare un equilibrio, sulla base dei valori costituzionali della libertà religiosa e di espressione, e del principio di uguaglianza, tra il proprio assetto costituzionale (?) e le richieste delle comunità musulmane stesse. L'approccio deve cambiare, invece, quando si affrontano le esperienze delle comunità musulmane dell'Europa sud-orientale: non dobbiamo più guardare alle minoranze musulmane come ad un fenomeno frutto di migrazioni e spostamenti relativamente recenti, ma come ad elementi autoctoni, radicati nei rispettivi stati di appartenenza da grazie ad una permanenza dell'islam ormai secolare, il cui inizio può farsi coincidere con la conquista ottomana, alla quale seguirono da una parte il fenomeno massiccio della conversione alla religione musulmana da parte delle popolazioni conquistate, dall'altra lo stanziamento in quelle terre di popoli appartenenti al culto islamico, diventati poi parte integrante della popolazione locale. Il sistema di governo ottomano, fondato sul riconoscimento di grande autonomia alle diverse comunità, o millet, in cui si raggruppava la popolazione, 219 divisa non secondo criteri nazionali o linguistici, ma sulla base delle affiliazioni religiose e governata dalle guide religiose, ha lasciato segni profondi visibili ancora oggi in quell'area. L'appartenenza religiosa è spesso strettamente legata all'appartenenza etnica: in molti casi l'islam (allo stesso modo delle altre religioni) ha rivestito un ruolo, seppur parziale, nella costruzione della consapevolezza dell'identità nazionale, come è stato per la minoranza albanese in Macedonia; altre volte ne ha costituito il vero e proprio fondamento, finendo per sovrapporvisi in un cortocircuito tra appartenenza religiosa ed appartenenza nazionale, e diventando esso stesso definizione di nazionalità, come è successo nella tragica esperienza bosniaca. In altri casi ancora, l'appartenenza religiosa, quella musulmana in particolare,sovrapposta a quella nazionale, è stata utilizzata dalle autorità dei diversi stati, tra i quali si possono collocare gli ordinamenti bulgaro e greco, come “paravento” per coprire l'identità etnica. Il riconoscimento della sola componente religiosa come caratteristica della minoranza è stato, ed è ancora, la base della negazione dell'esistenza di una minoranza di tipo nazionale; conseguenza di questo atteggiamento sono le gravi violazioni dei diritti della minoranza stessa, tutelati da diversi strumenti di diritto internazionale spesso ratificati ma non applicati dagli stati in questione, già più volte richiamati su questo punto dagli osservatori internazionali. Anche nelle esperienze (almeno alcune, con una certa attenzione alla particolare posizione della Bosnia) dell'Europa sud-orientale, dunque, uno dei nodi fondamentali rimane il riconoscimento delle minoranze musulmane, ma non inquadrato nel problema dell'accordo sui rappresentanti. Non è certo la frammentazione interna ciò che affligge le minoranze musulmane in Grecia o in Bulgaria, ma la necessità di un radicale cambiamento nell'atteggiamento delle autorità nazionali nei confronti delle minoranze, auspicato dalla comunità internazionale e necessario per mettere fine alla situazione di pesante discriminazione che caratterizza le minoranze in questione, sia per quanto riguarda la tutela dei più fondamentali diritti della persona, sia nell'ambito del riconoscimento dei gruppi minoritari. Il problema della rappresentanza istituzionale, infine, va necessariamente analizzato anche in prospettiva di futuri sviluppi a livello europeo. Infatti, se le relazioni tra Unione Europea e attori religiosi sono iniziate in epoca piuttosto recente497, la 497 Cfr. B. MASSIGNON, “Islam in the European Commission's system of regulation of 220 comparsa della religione musulmana tra i partecipanti a questo dialogo risulta essere tardiva, avvenuta in un'epoca in cui ormai il dialogo si era già avviato su binari più formali, grazie all'istituzione del Group of Policy Advisers (GOPA). Le difficoltà legate alla partecipazione musulmana ai rapporti tra istituzioni europee (la Commissione) ed organizzazioni religiose si presentò sin dall'inizio caratterizzata dallo stesso tipo di problemi che avevano ostacolato il dialogo con le istituzioni nazionali: nel dicembre 1994498, alla conferenza interreligiosa organizzata dall'allora presidente della Commissione, Jacques Delors, parteciparono rappresentanti delle confessioni cattolica, protestante ed ebraica. I rappresentanti della religione musulmana vennero considerati solo all'ultimo come possibili partecipanti; inoltre, va fatta qualche osservazione sull'effettiva rappresentatività dei due delegati che vennero invitati all'incontro, che per quanto riguarda la questione della rappresentanza musulmana ebbe davvero poco successo. Uno era Mohammed Arkoun, un intellettuale di fede musulmana che non rappresentava alcuna organizzazione religiosa. Il secondo delegato invece era Mehmet Yldrim, Segretario generale dell'Unione Turco-musulmana di Germania, emanazione dell'ufficio governativo turco DİYANET. Inoltre, le affermazioni di Yldrim durante l'incontro resero chiaro il fatto che egli partecipava più in qualità di rappresentante del governo turco che dei musulmani d'Europa. Il problema dell'individuazione dei rappresentanti istituzionali che interessava gli ordinamenti nazionali, dunque, si ripresentava con le stesse caratteristiche anche in ambito comunitario. In quest'ottica, negli anni successivi vennero istituite due organizzazioni specializzate in questioni riguardanti l'islam in prospettiva europea. Il primo è il Consiglio musulmano per la Cooperazione in Europa (CMCE), fondato a Strasburgo nel 1996 e interlocutore delle istituzioni europee dall'anno successivo: si tratta di un'associazione che include organizzazioni appartenenti alle comunità islamiche di molti stati europei, ma sostanzialmente minoritarie, ed il Forum della gioventù musulmana europea e delle organizzazioni studentesche (FEMYSO), fondato nel 1995 ed attivo sul piano religion”, in A, AL-AZMEH, E. FOKAS, “Islam in Europe: Diversity, Identity and Influence”, Cambridge University Press, Cambridge, 2007, pp.125 ss. 498 E successivamente alla Conferenza di Toledo, nel novembre 1995. Cfr. B. MASSIGNON, “Islam in the European Commission's system of regulation of religion”, in A, AL-AZMEH, E. FOKAS, “Islam in Europe: Diversity, Identity and Influence”, Cambridge University Press, Cambridge, 2007, pp.140 ss. 221 istituzionale dal 2003, composto da 35 membri rappresentanti la maggior paret delle comunità musulmane degli stati dell'Europa occidentale,espressione di un islam influenzato dalle teorie dei Fratelli Musulmani. Nel 2002, il CMCE ha presentato una prima “Carta dei Musulmani” ispirata al documento presentato il 20 febbraio dello stesso anno dal Consiglio Centrale dei musulmani in Germania. Il documento presentato dal CMCE contiene richieste in ordine al riconoscimento della specificità dell'islam in ambito europeo, sia in modo simbolico che concreto,499 nell'ambito di una strategia che è stata definita dell'identità, finalizzata al raggiungimento di una posizione istituzionale paragonabile a quella delle altre confessioni già radicate in Europa, che favorisca soprattutto le dinamiche dell'integrazione, la quale, tuttavia, rimane una competenza esclusiva dei singoli stati e deve essere raggiunta all'interno delle rispettive legislazioni. Il 10 gennaio 2008, invece, è stata presentata a Bruxelles la “Carta dei Musulmani d'Europa”, documento con il quale l'islam europeo tenta di porsi in una prospettiva davvero universale, firmato da 400 associazioni musulmane provenienti dai paesi dell'Unione europea e dalla Russia, le quali, affermando la propria adesione ai valori costituzionali europei, chiedono il riconoscimento dell'islam come “comunità religiosa europea” ed affermano il principio della “neutralità dello Stato”, che si concretizza nell' “agire in modo imparziale con tutte le religioni”.500 Al fine di favorire questo processo di integrazione, tuttavia, anche in ambito europeo la strada da percorrere dovrebbe essere quella del pluralismo, al fine di rispettare quel principio di laicità o neutralità che viene richiamato nelle costituzioni di molti tra gli stati parte della Comunità. Principi, questi, che “si afferma[no] quali [principi] tesi alla tutela della convivenza pacifica tra persone che ammettono una pluralità di dottrine comprensive ragionevoli, benché opposte, e alla creazione di condizioni favorevoli alla composizione dei conflitti nelle società pluraliste e multiculturali”, poiché “la laicità è [...] un valore condizionante sia la la democraticità che il pluralismo di qualsivoglia ordinamento giuridico [...].”501 499 Sostanzialmente tramite finanziamenti. Cfr. B. MASSIGNON, “Islam in the European Commission's system of regulation of religion”, in A, AL-AZMEH, E. FOKAS, “Islam in Europe: Diversity, Identity and Influence”, Cambridge University Press, Cambridge, 2007. 500 A. D'ARGENIO, “La carta dell'Islam d'Europa: difendiamo la nostra identità” , La Repubblica, 10.1.2008. 501 Cfr. P. STEFANI, “La laicità 'italiana' alla prova del crocifisso”in S. FERRARI (a cura di), 222 Tale processo di interazione paritaria con le istituzioni statali e comunitarie, tuttavia, deve iniziare dalla soluzione di un problema che da decenni è collegato alla condizione delle comunità musulmane europee: quello dell'accordo sugli interlocutori, soprattutto per quanto riguarda le comunità dell'Europa occidentale. La designazione di rappresentanti che godano di un consenso condiviso, processo che sembra in questi ultimi anni aver preso la giusta direzione, costituisce la premessa fondamentale per l'instaurazione di quel dialogo con le istituzioni su un piano di uguaglianza con le altre confessioni europee, che viene ormai da tempo auspicato. BIBLIOGRAFIA R. BISTOLFI, F. ZABBAL (a cura di) “Islams d' Europe. Insertion ou intégration communautaire?” Editions de l'Aube, Paris, 1995 M. CAMPANINI, “Il pensiero islamico contemporaneo”, Il Mulino, Bologna, 2005 M. CAMPANINI, “Storia del Medio Oriente, 1789-2005”, Il Mulino, Bologna, 2006 A. 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É il tema del conflitto dei valori, che noi vorremmo scogliere dando la vittoria a tutti, anche se conosciamo la loro tendenziale inconciliabilità.” 223 S. FERRARI, “Lo spirito dei diritti religiosi: ebraismo, cristianesimo e islam a confronto”, Il Mulino, Bologna, 2002 F. FREGOSI, “Islam, una religione senza clero? Una riflessione comparata”, in “Daimon. Annuario di diritto comparato delle religioni”, pp.80 ss., 2003, n.3 H. HALM, “L'Islam”, Laterza, Bari, 2003 J. LUTHER, “Il velo scoperto dalla legge: profili di giurisprudenza costituzionale comparata”, in S. FERRARI (a cura di), “Islam ed Europa: i simboli religiosi nei diritti del Vecchio continente”, pp. 63 ss., Carocci editore, Roma, 2006 R. LUZZATTO, F. POCAR, “Codice di diritto internazionale pubblico”, Giappichelli Editore, Torino, 2003 B. MASSIGNON, “Islam in the European Commission's system of regulation of religion”, in A, AL-AZMEH, E. 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Un pensiero speciale va agli altri due terzi del terzetto, Marta ed Elisa, su cui so di poter sempre contare: a Marta, perché trova sempre il tempo di ascoltarmi e darmi i suoi consigli più che saggi; ad Elisa, per la sua speciale visione del mondo, che mi spinge sempre a dei salutari cambiamenti di prospettiva, e per avermi fatto da guida nelle biblioteche veneziane (oltre che per la preziosissima consulenza tecnica!). Elena: io e te insieme ne abbiamo combinate tante. Grazie per aver condiviso con me 235 tutti i momenti più importanti, ma soprattutto per esserci sempre stata anche quando ti trovavi in un altro emisfero! Non ringrazierò mai abbastanza Christoph, perché nonostante ci separino più di mille chilometri mi è sempre stato vicino e mi ha sopportata con calma granitica anche nei momenti più difficili. Ringrazio moltissimo il professor Jens Woelk, per la sua disponibilità e gentilezza. Il ringraziamento più sentito, però, viene adesso, e va al professor Francesco Palermo, per le sue preziose indicazioni, e per la costanza, la sollecitudine e la pazienza con cui mi ha aiutata a portare a termine questo lavoro. Grazie davvero, a tutti, di cuore. 236