La seconda metà del XIII secolo

Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al
Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in
parte da Wikipedia, da Treccani.it, da www.cronologia.leonardo.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio
Bergami. XIV Lezione: La seconda metà del XIII Secolo
Carlo I d'Angiò
Carlo I d'Angiò (Parigi, 1226 – Foggia 1285) conte d'Angiò e del Maine, conte di Provenza e di
Forcalquier, fu re di Sicilia, re di Napoli, principe di Taranto, re d'Albania, principe d'Acaia e re
titolare di Gerusalemme.
Figlio del re di Francia, Luigi VIII (detto il Leone) e di Bianca di Castiglia, era fratello del re di
Francia, Luigi IX (detto il Santo).
Tra il 1258 ed il 1264 estese i suoi domini anche al Piemonte meridionale, occupando alcune contee
nelle zone di Asti, Alba, Cuneo e Saluzzo.
Trattativa col papa e vittoria su Manfredi
Nel 1261 era stato eletto al soglio pontificio il francese Jacques Pantaléon di Troyes, papa Urbano
IV, che, dopo aver constatato che re Manfredi di Sicilia aspirava a portare sotto il suo dominio tutta
l'Italia, intavolò inizialmente alcune trattative col sovrano svevo per tentare di trovare un accordo, e
successivamente, visto che tali trattative non avevano sortito alcun effetto, il 29 marzo 1263, con
l'approvazione di Luigi IX, arrivò a scomunicare lo stesso Manfredi, dichiarandolo altresì decaduto
dal trono. La corona di Sicilia, che precedentemente, in occasione di una prima scomunica di
Manfredi, era stata proposta ad Edmondo il Gobbo, figlio del re d'Inghilterra, Enrico III, fu allora
offerta proprio a Carlo, preferito dal pontefice poiché lo zio di Edmondo, il conte Riccardo di
Cornovaglia, era divenuto nel frattempo re di Germania e pretendente alla corona imperiale. Inoltre,
per creare un ulteriore elemento di pressione, il potente cardinale Riccardo Annibaldi, alcuni mesi
prima, aveva fatto eleggere il principe angioino senatore di Roma, carica che equivaleva in pratica a
quella di governatore della città.
Carlo accolse infine l'invito del papa, prendendo precisi accordi con il legato pontificio Bartolomeo
Pignatelli, arcivescovo di Cosenza, e, morto Urbano IV nel 1264, concluse la trattativa col suo
successore, papa Clemente IV (anche lui francese), per intervenire nella lotta contro i ghibellini e la
casa di Svevia: il papa indisse una sorta di crociata contro Manfredi, mentre Carlo rinunciava ad
avere domini in Toscana e Lombardia.
A quel punto l'Angioino, con un piccolo contingente, raggiunse Roma via mare il 14 maggio 1265
ed il 28 giugno ottenne l'investitura a re di Sicilia, venendo contestualmente proclamato
comandante in capo della spedizione contro il sovrano svevo. Nel novembre dello stesso anno, un
esercito di circa 30.000 provenzali e francesi, attraversate le Alpi, si concentrò ad Alba, e, senza
trovare alcun ostacolo da parte dei ghibellini capeggiati dal marchese Pelavicino (che, in
Lombardia, si trovava in difficoltà, contro i guelfi Della Torre), passando da Vercelli, Milano,
Mantova e Bologna, raggiunse la via Flaminia ed, il 30 gennaio 1266, entrò in Roma.
L'Angioino prestò il giuramento di obbedienza alla Chiesa e di osservanza assoluta dei patti
sottoscritti, ricevendo infine la corona del regno di Sicilia insieme con la moglie Beatrice.
Carlo, raggiunto a quel punto dal grosso del suo esercito, iniziò l'attacco a Manfredi il 10 febbraio
1266 e subito i baroni della Terra di lavoro si schierarono con lui, abbandonando il sovrano svevo,
che fu costretto a ripiegare su Benevento. Qui, nei pressi del ponte sul fiume Calore, il 26 febbraio
1266 avvenne lo scontro decisivo, che portò alla sconfitta e morte di Manfredi nella battaglia di
Benevento. Con questa vittoria Carlo, non solo conquistò il regno di Sicilia, ma fece sì che tutta
l'Italia passasse sotto il dominio dei guelfi, ad eccezione di Verona e Pavia, che rimasero fedeli agli
svevi.
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Re di Sicilia
Carlo, dopo aver visto con quanta facilità i nobili del regno avevano tradito Manfredi, non ritenne
opportuno fidarsi di loro e finì per imporre un governo dispotico, come aveva già fatto in Provenza
vent'anni prima. Non convocò più il parlamento, scelse funzionari governativi stranieri, con
l'eccezione degli esattori delle imposte; il commercio che, con gli Svevi, era gestito dai
commercianti del regno, in poco tempo passò nelle mani di mercanti e banchieri toscani; il peso dei
prelievi fiscali, necessari per mantenere il grande apparato militare ed amministrativo angioino,
divenne assolutamente insopportabile. Il clero, per gli accordi sottoscritti da Carlo con Clemente IV,
era esentato dal pagamento delle imposte.
Questa situazione portò, in breve tempo, la nobiltà esasperata a cercare un liberatore, che fu presto
trovato nella persona di Corradino di Svevia, figlio di Corrado IV, nipote di Manfredi e ultimo
discendente della dinastia degli Hohenstaufen, attorno al quale si erano già raccolti i parenti e gli
antichi maggiorenti del regno come le famiglie Lancia e Capece. Corradino preparò un piano di
invasione della Toscana. e un contemporaneo sbarco in Sicilia, guidato da Corrado Capece. Ma il
papa nominò Carlo paciere della Toscana, cosa che, usurpando di fatto il potere del vicario
imperiale, gli permise di avere tutta la regione sotto controllo, ad eccezione di Siena e Pisa, che non
rinnegarono la fedeltà alla causa ghibellina.
Pur essendo in netta inferiorità numerica, l'esercito del sovrano angioino ebbe la meglio, in quella
che fu detta Battaglia di Tagliacozzo. Corradino riuscì a fuggire ma, tradito, fu catturato, tradotto a
Napoli, dove fu condannato a morte e giustiziato sulla piazza del Mercato, il 29 ottobre 1268.
Nel frattempo, nel 1268, Carlo, che l'anno precedente era rimasto vedovo di Beatrice di Provenza,
aveva sposato in seconde nozze, Margherita di Borgogna (1248 - 1308), contessa di Tonnerre.
Ucciso Corradino, l'Angioino riprese a governare in modo ancor più rigidamente dispotico, sostituì i
baroni ribelli con nobili francesi, confiscò tutti i beni agli avversari e trasferì la capitale del regno
da Palermo a Napoli, all'epoca principale centro della Terra di Lavoro.
Supremazia in Italia
Il sovrano angioino, che nel 1268 era stato nominato dal papa vicario imperiale per la Toscana,
avrebbe voluto estendere il proprio dominio sull'intera Italia, ma non poteva farlo per gli accordi a
suo tempo stipulati con Clemente IV, che morì peraltro il 29 novembre dello stesso anno. Allora
Carlo, per avere mano libera in Italia, fece ogni possibile pressione perché nel conclave di Viterbo
non si raggiungesse in tempi brevi la maggioranza dei due terzi necessaria per eleggere il nuovo
pontefice. In effetti la sede vacante durò quasi tre anni e si concluse con l’elezione di Gregorio X
(papa dal 1271 al 1276).
Il sovrano, combattendo, confermò la sua supremazia in Toscana e nel 1270 anche Siena passò ai
guelfi; la sola Pisa rimase ghibellina, ma fu costretta alla pace da Carlo. Nello stesso anno sottomise
Torino e Alessandria e divenne signore di Brescia. Avrebbe voluto la signoria di tutte le città di fede
guelfa ma ottenne solo un giuramento di fedeltà che lo metteva comunque a capo della fazione
guelfa, al tempo predominante in Italia. Per l'occupazione della Toscana Carlo sbarcò in forze in
Versilia, assalendo la Rocca di Motrone e proseguendo per Lucca, Serravalle, Pistoia e Firenze.
L'ottava crociata a Tunisi
Nel 1270 Carlo accettò, senza particolare entusiasmo, di aiutare il fratello, Luigi IX di Francia,
nell'ottava crociata, che doveva essere combattuta inizialmente contro Tunisi, per tentare di
convertire al cristianesimo il califfo Muhammad I al-Mustansir (al quale lo stesso Carlo non aveva
rinnovato il trattato stipulato da Manfredi e scaduto nel 1269), con lo scopo evidente di portare poi
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con facilità la guerra da Tunisi contro i mamelucchi dell'Egitto e della Siria. Carlo giunse così a
Cartagine il 25 agosto 1270, ma, proprio nello stesso giorno del suo arrivo, re Luigi morì per una
grave forma di dissenteria. Il sovrano angioino assunse allora il comando della crociata e finì per
perseguire unicamente il proprio interesse; così il 1º novembre stipulò un nuovo trattato con il
califfo, nel quale il tributo veniva raddoppiato e Carlo otteneva anche il pagamento dell'intera
indennità di guerra, nonché l'espulsione da Tunisi di tutti i nobili ribelli che vi si erano rifugiati. Tra
lo sconcerto di molti crociati, Carlo poté poi rientrare in Sicilia e sbarcò a Trapani il 22 novembre
1270, portando con sé i resti mortali di re Luigi, per farlo seppellire in Francia, ma anche con
l'evidente intenzione di rivolgere le sue mire di conquista ai territori dei Balcani.
Impero latino, Principato d'Acaia e conquista dell'Albania
Già nel 1267, il 27 maggio, a Viterbo, di fronte a papa Clemente IV, Carlo aveva concluso con
l'imperatore latino, Baldovino II, in esilio dal 1261, un trattato che prevedeva il matrimonio di
Filippo di Courtenay, figlio di Baldovino, con Beatrice, figlia di Carlo, insieme all'impegno
reciproco di riconquistare Costantinopoli. All'accordo aderì anche Guglielmo II di Villehardouin,
principe d'Acaia, che pose i suoi domini sotto la sovranità di Carlo, gli fu devoto alleato e diede in
matrimonio (1271) la propria erede, Isabella, al figlio di Carlo, Filippo; per questo accordo alla
morte di Guglielmo il principato sarebbe passato, per testamento, agli angioini, cosa che accadde
puntualmente nel 1278.
Nel 1271 il sovrano angioino attraversò l'Adriatico e, in febbraio, occupò Durazzo. Nel febbraio del
1272, dopo avere conquistato una vasta zona dell'interno, si autoproclamò re d'Albania; peraltro,
mentre stava organizzando una spedizione contro Costantinopoli, l'arrivo a Roma e l'incoronazione
del nuovo papa, Gregorio X, bloccò i piani di Carlo, perché l'imperatore di Bisanzio, Michele VIII
Paleologo, promise al papa la riunificazione di tutti i cristiani, riconoscendo la supremazia del
pontefice; inoltre, dopo questo impegno, l'imperatore prese iniziative militari in Albania ed in Acaia
contro Carlo, che, a sua volta, continuò a fare alleanze con Serbi e Bulgari, con l'obiettivo di
conquistare Costantinopoli. In particolare, dopo che Giorgio Terter I era stato eletto zar dei Bulgari
(1280-1292), Carlo strinse con lui un'alleanza, per combattere ed abbattere l'impero di Bisanzio.
Diversi anni dopo, l'elezione a papa - avvenuta il 22 febbraio 1281 - del vecchio amico Simon de
Brion, papa Martino IV (papa dal 1281 al 1285), alla quale aveva fatto seguito la scomunica dei
Bizantini, il 10 aprile dello stesso anno, sembrò agevolare le aspirazioni dell'Angioino. Ma la
sopravvenuta rivolta dei Vespri siciliani, che nel 1282 costò al sovrano la perdita della Sicilia e lo
obbligò ad una lunga e difficile guerra con gli aragonesi, fece naufragare tutte le ambizioni che egli
aveva coltivato sui Balcani.
Guerra di Genova e perdita di influenza sull'Italia settentrionale
Dopo il 1270, a Genova i ghibellini avevano riconquistato il potere e non appoggiavano più la
politica di Carlo, che, a sua volta, organizzò gli esuli guelfi e, nel 1273, attaccò la città, ma venne
sconfitto sia per terra che per mare. I ghibellini genovesi si erano alleati dapprima con Alfonso X di
Castiglia e, successivamente, con Tommaso I di Saluzzo, riuscendo così a sconfiggere Carlo e ad
espellerlo dal Piemonte, finendo poi per combatterlo anche in Lombardia. Carlo, dopo avere subito
alcune sconfitte, perse definitivamente il controllo dell'Italia settentrionale; in quegli anni la sua
posizione si indebolì notevolmente anche in Toscana.
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I Vespri siciliani
La politica bellicosa e dispendiosa di Carlo e le conseguenti forti imposizioni fiscali scatenarono
malcontento in tutto il Regno, particolarmente in Sicilia: gli abitanti dell'isola, infatti, non avevano
assolutamente digerito la decisione di Carlo d'Angiò di trasferire la capitale del Regno da Palermo a
Napoli e soffrivano ancor più il regime poliziesco che lo stesso re aveva instaurato, in maniera
indiscriminata e con mano ferrea, verso tutti i suoi sudditi, applicando una politica autoritaria ed
estremamente vessatoria. La sollevazione popolare che andava preparandosi esplose, per apparenti
ragioni di interesse privato, il 30 marzo 1282 -giorno del Lunedì di Pasqua- a Palermo, prima della
funzione religiosa serale dei Vespri. In poco tempo gli Angioini furono scacciati da tutta l'isola,
tranne che nell'imponente castello di Sperlinga, dove alcuni soldati di Carlo d'Angiò, capeggiati da
Petro de Lamanno, resistettero all'assedio per tredici mesi, con aiuto dei popolani. Il 25 luglio,
Carlo, con le forze destinate alla guerra greca sbarcò in Sicilia e pose l'assedio a Messina, che
resistette per due mesi.
I Siciliani, che avevano chiesto invano al papa la possibilità di autogovernarsi come confederazione
di liberi comuni in forma repubblicana, si rivolsero allora al re di Aragona e Valencia, Pietro III il
Grande, marito di Costanza di Hohenstaufen, figlia di Manfredi. Il sovrano aragonese sbarcò a
Trapani, con circa 9000 armigeri, il 30 agosto, causando, meno di un mese più tardi, la fuga di
Carlo, che, il 26 settembre, fu costretto a lasciare la Sicilia, perdendone di fatto il regno.
Guerra contro gli aragonesi e morte di Carlo
Pietro III d'Aragona, aveva indetto nel 1281 una crociata contro i musulmani dell'Africa
settentrionale e, senza aver ottenuto né l'approvazione né tanto meno gli aiuti economici di papa
Martino IV, nel giugno del 1282, era comunque sbarcato in Barberia, non lontano da Tunisi, per
poter essere vicino alla Sicilia. Come sopra precisato, alla fine di agosto Pietro portò le sue forze
nella stessa Sicilia, occupando in poco tempo tutta l'isola. Alla fine del 1282 si era dunque
determinato uno spaccamento del Regno di Sicilia in due parti: la Sicilia, intesa come territorio
dell'isola, in mano agli aragonesi, ed il resto del regno, sul continente, in mano a Carlo e agli
Angioini.
Pietro si proclamò re di Sicilia (con l'antico titolo federiciano Pietro I Rex Siciliae, ducatus Apuliae
et principatus Capuae), e nominò Ruggero di Lauria Ammiraglio in capo della flotta d'Aragona, e
Giovanni Da Procida Gran Cancelliere del regno aragonese di Sicilia. A seguito di tutto ciò, nel
novembre dello stesso anno, Pietro fu scomunicato dal papa Martino IV, che non solo non lo
riconobbe come re di Sicilia, ma lo dichiarò decaduto anche dal regno di Aragona che offrì al
principe Carlo, terzogenito del re di Francia Filippo III l'Ardito, e futuro conte di Valois. Re Pietro,
allora, lasciata la moglie Costanza in Sicilia come reggente, rientrò in Aragona.
I maggiorenti francesi in due assemblee a Bourges (novembre 1283) e a Parigi (febbraio 1284)
avevano invocato una crociata contro il regno d'Aragona, alla quale avevano aderito con entusiasmo
sia Carlo d'Angiò che Filippo III di Francia, e, nel corso del 1284, anche papa Martino IV che, oltre
all'assistenza spirituale (scomunica e crociata contro la Sicilia[50]) diede una consistente somma di
denaro a Carlo che preparò così una flotta in Provenza, che avrebbe poi dovuto unirsi ad un'altra
parte della flotta, che attendeva nel porto di Napoli, per incontrarsi successivamente ad Ustica con il
resto della flotta, composto da trenta galere, con a bordo l'armata italo-angioina, proveniente da
Brindisi. Ma il 5 giugno la flotta siciliano-aragonese, sotto il comando del Lauria si presentò
dinanzi al porto di Napoli e il principe di Salerno e figlio di Carlo, Carlo lo Zoppo uscì dal porto
con la sua flotta napoletana per combattere il Lauria, che invece lo sconfisse e fece prigioniero lui e
parecchi nobili napoletani. Quando il sovrano arrivò a Gaeta e seppe della sconfitta e dovette
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rinunciare all'invasione della Sicilia; assediò allora invano Reggio e poi, con le truppe assottigliate
dalle diserzioni, si diresse in Puglia per riorganizzarsi e imporre l'esazione di nuove imposte.
Durante il viaggio, gravemente ammalato e stremato da una febbre persistente, morì a Foggia il 7
gennaio 1285. Le sue spoglie sono conservate in Francia, in un pregevole monumento funebre nella
Basilica di Saint Denis.
Gli successe il figlio Carlo lo Zoppo, che al momento della successione era prigioniero in Aragona.
Un regno tra papi, sete di potere, tasse
Negli anni tra il 1246 ed il 1278 Carlo I d'Angiò, con un'intensa attività militare e diplomatica, si
impadronì gradualmente di moltissimi territori, tanto che, nel momento di maggior fulgore, finì per
avere sotto il suo controllo un vero e proprio impero, che si estendeva da vaste zone della Francia
centrale e delle Fiandre, alla Provenza ed alla Borgogna, da gran parte dell'Italia, Sicilia compresa,
all'Albania ed al Peloponneso. Di particolare rilievo rimane la conquista della supremazia in Italia,
che si deve certo in primis all'idea avuta da Urbano IV (o, meglio, dal suo maggiore consigliere, il
cardinale Riccardo Annibaldi) di contrapporlo a Manfredi, ma che fu materialmente realizzata dal
successore di Urbano, Clemente IV. Fu infatti grazie all'appoggio incondizionato, anche economico,
di questo pontefice, che l'Angioino, divenuto il leader indiscusso della parte guelfa, in soli due anni
riuscì ad annientare letteralmente la casa di Svevia, e quindi i ghibellini, sconfiggendo ed uccidendo
prima Manfredi, poi Corradino.
Dopo la morte di Clemente IV ed il lunghissimo conclave viterbese che la seguì, l'elezione di
Gregorio X non piacque certo a Carlo, poiché il pontefice piacentino non gli mostrò mai particolare
amicizia, cercando anzi un atteggiamento di corretta equidistanza con i suoi avversari. Morto
Gregorio nel 1276 anche i tre papi che, nello stesso 1276, si susseguirono a distanza di pochi mesi
uno dall'altro (Innocenzo V, Adriano V e Giovanni XXI), non furono graditi, per un motivo o per
l'altro, al sovrano angioino; le cose poi peggiorarono ulteriormente per lui il 25 novembre 1277 con
l'elezione di Niccolò III, un Orsini, da sempre nemico di Carlo, e che non mancò di manifestargli la
sua ostilità, seppur ammantata da una formale correttezza. Accadde così che, per un decennio,
l'Angioino non trovò più sostegno nei papi e ciò contribuì non poco a limitare la sua influenza, e
non solo in Italia. Né valse a migliorare le cose l'ascesa al soglio di Pietro -il 22 febbraio 1281- di
papa Martino IV, il vecchio amico Simon de Brion, per la cui elezione Carlo tanto si era adoperato
anche in passato: oramai la situazione nel regno si era gravemente deteriorata ed il supporto di
questo pontefice amico non gli giovò particolarmente.
Le mire espansionistiche del sovrano lo avevano infatti portato a mettere in pratica una serie di
misure che gli avevano alienato le simpatie dei sudditi. Diffidando della lealtà dei nobili italiani,
aveva sostituito quasi ovunque i maggiorenti locali con uomini francesi, o comunque stranieri, di
sua fiducia, generando diffuso malcontento. Aveva inoltre investito i suoi militari di un enorme
potere, creando così momenti di grande disagio e tensione. Per di più, il fatto di dover mantenere
pienamente operativo un imponente esercito, in guarnigioni spesso tra loro molto lontane, lo
obbligava ad elevate spese, per far fronte alle quali ricorreva a pesantissime imposizioni fiscali, da
cui esentava il clero, con ulteriori conseguenze assai negative in mezzo al popolo. Il malcontento
cominciò a manifestarsi sin dal 1273, con vari moti nell'Italia settentrionale, che causarono la
progressiva perdita d'influenza di Carlo in molte zone del Piemonte, della Liguria, della Lombardia
e della Toscana; furono quelli i primi importanti segnali di una situazione generalmente negativa nei
territori dominati dal sovrano angioino, situazione che trovò poi il suo momento più esplosivo nel
1282 con la rivolta dei Vespri Siciliani. Si trattò in realtà di una rivolta da tempo fomentata e
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preparata, anche ad opera di Pietro III di Aragona, non a caso marito di Costanza di Hohenstaufen,
figlia di Manfredi, cosicché il desiderio di nuove conquiste del sovrano aragonese finì per sommarsi
alla brama di vendetta della moglie. Alla fine, come sopra meglio precisato, lo scontro con Pietro
d'Aragona espose Carlo ad una serie di insuccessi - con la conseguente perdita della Sicilia - che si
protrassero poi fino al 1285, anno della sua morte.
Il giudizio degli storici nei confronti del re angioino è stato sin dall'inizio molto controverso, diviso
tra coloro che hanno fermamente condannato la sua eccessiva sete di potere, la sua crudeltà, i suoi
atteggiamenti dispotici e la sua spregiudicatezza, e coloro che, invece, ne hanno generosamente
elogiato il coraggio, la religiosità e la fermezza. Così gli storici francesi si sono abitualmente
espressi con toni molto positivi fino ad autentiche apologie, specie da parte di quelli che hanno visto
in lui il vero erede e successore di Carlo Magno; i tedeschi invece, valutando molto negativamente
l'annientamento della casa di Svevia -considerata un esempio di illuminato progresso-, lo hanno
giudicato un brutale arrogante, avido e privo di sensibilità. Nella storiografia italiana hanno
prevalso, fino alla fine del XIX secolo, i toni nazionalistici ed antifrancesi, specie con riferimento
alla vicenda dei Vespri Siciliani. Va comunque notato come, negli ultimi decenni, gli storici si siano
espressi quasi ovunque con maggiore equilibrio, sottolineando luci ed ombre del regno di Carlo e
finendo per descriverlo come un sovrano brutale ma dotato di una religiosità quasi bigotta,
introverso ma capace di impensabili momenti di sensibilità, onesto e cavalleresco ma anche crudele
ed arrogante; esemplari, per queste valutazioni, rimangono le due guerre combattute (1266 e 1268)
rispettivamente contro Manfredi e contro Corradino.
La Sicilia aragoneseIl regno di Pietro III (1282-1285) e dei suoi successori
Pietro, la cui conquista della Sicilia non era frutto di una azione militare, ma bensì diplomatica, per
governare, aveva bisogno dell’apporto dei baroni che lo avevano sponsorizzato e delle loro milizie.
Ad essi, ben prima dello sbarco in Sicilia, mediante prudenti e rassicuranti contatti, aveva promesso
che sarebbero state ripristinate le leggi del tempo di Guglielmo I. Ora, avendo gratificato di
importanti attribuzioni sia Giovanni da Procida che Ruggero di Lauria ed Alaimo da Lentini, era
stato costretto ad assumere l’impegno di mantenere distinte le due corone, di Aragona e di Sicilia, al
fine di garantire l’autonomia di quest’ultima. Impegno mai effettivamente messo in atto in quanto la
Sicilia, oltre a restare nelle mire di riconquista degli Angiò e del Papa, rappresentava per la Spagna
uno sbocco commerciale ed il trampolino per l’eventuale conquista del meridione continentale.
Essendo il figlio maggiore di Carlo I d’Angiò, Carlo lo Zoppo ancora prigioniero, la reggenza del
regno fu affidata al figlio di quest’ultimo, Carlo Martello (1271-1295), sotto la tutela di Carlo di
Valois, figlio del re di Francia Filippo III a cui il Papa era ricorso per sollecitare un intervento a
salvaguardia della dinastia angioina. Il Papa infatti, quale manovra ritorsiva, aveva spinto Filippo III
ad invadere l’Aragona, operazione che, pur avviata con scarso successo, non ebbe seguito per la
scomparsa di quest’ultimo, cui succedeva il figlio Filippo IV il Bello.
Nello stesso 1285 venivano a mancare gli altri protagonisti della contesa, Martino IV (in aprile) e
Pietro d’Aragona (in novembre).
A papa Martino successe Onorio IV (Giacomo Savelli, 1285-87), temperamento più incline alla
pace ma, pur non condividendo il governo tirannico imposto dagli angioini, non era meno
interessato alla loro sorte che vedeva strettamente legata a quella della fazione guelfa d’Italia.
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A Pietro III d’Aragona succedettero i figli Alfonso III, sul trono di Spagna ed, in Sicilia, il
secondogenito Giacomo che assunse il titolo di Giacomo II (1286) e cercò di mantenere gli impegni
assunti dal padre con l’aristocrazia baronale e prelatizia e con il popolo. Onorio IV non riconobbe le
investiture dei figli di Pietro I d’Aragona e Giacomo II cercò di stabilire buoni rapporti con il Papa,
ma risultando vani tali sforzi, non fece cessare le incursioni degli aragonesi nei territori angioini in
Provenza (dove imperversava il Lauria), sulle coste adriatiche (battute da Berengario Villaraut) ed
ancora nel golfo di Napoli (dal Lauria).
Interrotta la guerra sul mare era ripresa violenta quella sulla terraferma con Giacomo che, risalendo
la Calabria, ricevette la resa di numerosi centri tra cui Monteleone, Maida, Amantea .
Giacomo che aveva fatto allettanti promesse in materia fiscale, alla scomparsa del fratello Alfonso,
avvenuta dopo pochi mesi dall’insediamento sul trono di Aragona, insistette per assumere la
titolarità delle due corone, stabilendosi in Spagna ed inviando in Sicilia (1291), quale suo
luogotenente, il fratello Federico.
Carlo Lo Zoppo, per ottenere la libertà, lasciò in ostaggio tre dei suoi figli (Ludovico, Roberto e
Raimondo) e rinunciò al regno di Sicilia, ma tale atto non fu riconosciuto dal Papa. Il successore
Nicolò IV (Girolamo Masci, 1288-1292) tentò di ristabilire il dominio angioino in Sicilia
incoronando Carlo II d’Angiò “lo Zoppo” re di Napoli e Sicilia (1289).
Il regno di Federico III (1296-1337).
Alla scomparsa di Onorio, la Santa Sede rimase vacante per circa due anni prima della elezione di
Papa Bonifacio VIII (Benedetto Caetani, 1294-1303 che fece seguito al breve pontificato di
Celestino V). Bonifacio stabilì un accordo con la monarchia francese il cui sostegno, in cambio
della difesa degli interessi francesi, gli permise di avere una grande influenza nella intricatissima
situazione italiana. Appena insediato, ratifica il Trattato di Anagni (1295, precedentemente vergato
da Papa Celestino) tra Giacomo II d’Aragona e Carlo II d’Angiò che prevedeva, da parte
dell’aragonese, la cessione in feudo della Sicilia e di Malta quale compenso dell’investitura nei
feudi di Sardegna e Corsica.
I siciliani, che avevano cacciato i Francesi, si sentono esclusi da questo baratto, per cui, convocato il
parlamento, dichiarano decaduto Giacomo d’Aragona ed incoronano (1296) re di Sicilia Federico,
che assume il nome di Federico III (1296-1337). Tale nomina ledeva gli accordi del Papato con
Giacomo II che veniva così a trovarsi nella condizione di avversario di suo fratello ed alleato degli
Angioini.
Federico, quale primo atto di governo, sottopone al giudizio del parlamento e promulga uno Statuto
di libertà Costitutiones regales che affida al sovrano ed al popolo (nobiltà e sindaci) il potere
legislativo, configurando un periodo di moderazione, sicurezza e sviluppo di commerci ed
agricoltura. Il re la cui nomina era stata propiziata dal potentato locale schierato contro le scelte di
interessi esterni si vide costretto ad aumentare le concessioni ai sostenitori siciliani o trapiantati
spagnoli che si rafforzavano, coagulando raggruppamenti familiari, ed a creare nuovi conti.
Inoltre, la conciliazione con il Papato e con gli angioini del fratello Giacomo II, per via del trattato
di Anagni, indusse Federico a collegarsi con l’imperatore Enrico VII di Lussemburgo, facendo di
conseguenza confluire su di se il consenso del partito ghibellino d’Italia.
Ma alle intenzioni di pace di Federico III seguirono, pur con l’approvazione del popolo, iniziative di
guerra che lo indussero a risalire la Calabria ionica e giungere fino alla Puglia conquistando molti
centri, tra cui Lecce ed Otranto.
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Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al
Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in
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Successivamente (1298) sollecitato dagli angioini, sostenuto dal Papa e da una parte del baronato
siciliano sempre pronto a schierarsi con chi poteva meglio garantire i propri interessi, Giacomo si
decise a portare la guerra in Sicilia, contro il fratello che riteneva un usurpatore, in uno scenario
articolato in cui la vittoria si alternava alla sconfitta. E la significativa vittoria che Giacomo II
ottenne a Capo d’Orlando (1299) fu, malgrado l’apporto degli Angioini e di Ruggero di Lauria (27)
bilanciata da quelle di Federico III a Falconaria ed a Gagliano (1300).
Gli Angioini, con Roberto d’Angiò, nipote di Carlo I, nella speranza di far riprendere quota alle loro
azioni, cinsero d’assedio Messina, il cui vano risultato li indusse a chiedere ed ottenere una tregua.
Questa fu usata per convincere, con il sostegno del Papa, il re di Francia Carlo di Valois ad
intraprendere, con un forte esercito, la riconquista della Sicilia dove Federico, protetto nella
fortificata Caltabellotta, una cittadina di origine araba in provincia di Agrigento, aveva organizzato
la resistenza. Carlo di Valois, sbarcato a Termini (maggio 1302), operò vanamente il tentativo di
conquistare prima Caccamo e quindi Corleone, dove gli abitanti non solo resistettero ma
contrattaccarono inducendo i francesi a togliere l’assedio.
Mentre Federico III faceva concentrare le forze a Corleone, Carlo di Valois, constatata la precaria
situazione delle sue truppe afflitte dal caldo ed, angosciato dalla prospettiva di una prevedibile
sconfitta o di una poco onorevole ritirata, decise di trattare una pace con Federico.
La Pace di Caltabellotta (1302)
La Pace di Caltabellotta avrebbe dovuto porre termine a diciannove anni di guerra seguiti alla
rivolta del Vespro.
Con tale accordo firmato nel castello di Caltabellotta tra Federico III e Carlo di Valois, per conto di
Carlo II d’Angiò, si stabiliva che Federico avrebbe conservato la sovranità di una Sicilia
indipendente come re di Trinacria, che avrebbe sposato (1303) Eleonora, figlia di Carlo II (sorella
di Roberto, duca di Calabria), che ai figli nati dal matrimonio sarebbe toccato il feudo di Sardegna e
che vi sarebbe stata reciproca restituzione delle terre occupate da Carlo in Sicilia e da Federico nel
meridione continentale. Il Papa volle che fossero apportate delle modifiche nel senso che la Sicilia
continuasse ad essere feudo della Chiesa ed altre che Federico non mantenne, continuando, tra
l’altro, a farsi denominare Re di Sicilia.
Il trattato prevedeva inoltre il ritorno della Sicilia agli angioini, alla morte di Federico II d’Aragona,
ciò che non si realizzò mai. Infatti, allorché Federico III rivendicò il titolo di re per il figlio Pietro,
la guerra, infruttuosamente per l’angioino Roberto d’Angiò, riprese (1312) e si protrasse ad
intervalli fino al 1372.
Una delle conseguenze del trattato che sanciva il distacco delle due parti del regno, il meridione
insulare aragonese da quello continentale angioino, fu che la Calabria, per lungo tempo collegata
alla Sicilia e che aveva tentato di associarsi alla sommossa siciliana, rimase congiunta al Regno di
Napoli
Il Vespro aveva rivelato la presa di coscienza del popolo siciliano e la sua vocazione all’autonomia,
attuata di fatto in età bizantina, mantenuta con i musulmani, soddisfatta dai normanni, trascurata
dagli svevi e tradita dagli angioini.
Il Parlamento siciliano
Il Parlamento siciliano in epoca aragonese, composto da feudatari, sindaci delle città, dai conti e dai
baroni era presieduto e convocato dal re. La funzione principale era la difesa dell'integrità della
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Sicilia, come valore massimo anche nei confronti dell'assolutismo del re e nell'interesse di tutti i
siciliani. Il re, infatti, non poteva stringere accordi di qualunque natura (politica, militare o
economica) ne dichiarare guerre senza aver prima consultato ed ottenuto l'approvazione dell'organo
parlamentare che, per costituzione, doveva essere convocato almeno una volta l'anno nel giorno di
«Tutti i Santi». Il Parlamento costituzionalmente aveva il compito di eleggere il re e di svolgere
anche la funzione di organo garante del corretto svolgimento della giustizia ordinaria esercitata da
giustizieri, giudici, notai e dagli altri ufficiali del regno.
La pace aveva interrotto per un decennio le vicendevoli scorrerie nei due territori che ripresero nel
1312 con vicende governate più dagli interessi di parte che da quelli del regno.
L’avvento dei regimi popolari nei Comuni Italiani
Il "popolo" era il nascente ceto medio dei populares escluso inizialmente dall'attività politica che era
ad esclusivo appannaggio dei Milites, i cavalieri aristocratici di stampo feudale. Con l'apogeo delle
città si erano venuti a creare ceti di "gente nova" (per citare la stessa espressione usata da Dante
Alighieri), che erano composti dai signori del contado inurbati in città, arricchiti dalla richiesta di
derrate alimentari causata dalla crescita demografica, dai banchieri, dai mercanti, dai professionisti
di arti liberali (giuristi e medici), dagli artigiani e, nelle città di mare, dagli armatori che si erano
arricchiti con i commerci con gli stati crociati.
A partire dalla seconda metà del XIII secolo i populares riuscirono a entrare gradualmente nella vita
politica di molte città italiane, tramite l'istituzione di assemblee del "Popolo" che eleggevano un
Capitano del Popolo che andava ad affiancare il Podestà, espressione della classe aristocratica. Il
Capitano del Popolo esercitava il suo controllo sul Podestà mentre rimanevano autonomi due
consigli a cui partecipavano i rappresentanti delle Arti e dei Mestieri e i Gonfalonieri, capi di
compagnie militari legate alle varie parrocchie. In pratica, la figura del Capitano del Popolo doveva
bilanciare politicamente la forza delle famiglie nobili rappresentando il ceto borghese dell'epoca.
Il regime del popolo è caratterizzato dal rafforzamento degli apparati giudiziari nel tentativo di
porre un freno alle lotte cittadine. In molte città dell’Italia comunale, la seconda metà del XIII sec. è
segnata dallo scatenarsi di lotte di fazioni che i regimi di popolo sono il più delle volte incapaci di
fermare quando non vi prendono direttamente parte, andando fino a escludere dal sistema politico,
se non addirittura a espellere dalla città, un numero talvolta cospicuo di cittadini: sono le famose
legislazioni antimagnatizie che vengono adottate in alcune città per porre un freno alle lotte tra le
fazioni e le famiglie rivali.
Altro importante settore di intervento fu quello delle tasse introducendo la tassazione diretta dei
beni e creando le liste degli estimi nel tentativo di ridurre le esenzioni fiscali dei milites, dei nobiles
e delle proprietà ecclesiastiche.
Altra importante novità della politica popolare fu la conquista del contado, il tentativo cioè di
allargare la sfera di potenza dei Comuni nei confronti della comunità rurali e delle città minori.
Alcuni Comuni (ad esempio Bologna, Firenze, Vercelli) emanarono legislazioni che liberavano i
servi della gleba dalla dipendenza dei loro signori: era un ulteriore mossa per indebolire i
tradizionali signori feudali.
A Bologna si ebbe un comune di popolo e un capitano del popolo già a partire dal 1228.
Nell'esperienza di Firenze, nel 1250, per liberarsi dal dominio di Federico II di Svevia, i fiorentini
cercarono di darsi un proprio ordinamento politico istituendo un governo del popolo vecchio (o
primo popolo) di cui il capitano del popolo era una delle massime magistrature, assieme al
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Consiglio degli anziani, e partecipava quindi alla vita politica della città. Nella Compagna
Communis da cui doveva nascere la Repubblica di Genova, il ruolo del capitano del popolo – che
avrebbe prodotto figure di rilievo storico come quella di Guglielmo Embriaco – ebbe ugualmente
fondamentale importanza. Mantova ebbe il suo primo capitano del popolo con Luigi Gonzaga che,
con l'uccisione di Rinaldo dei Bonacolsi, diede inizio alla signoria dei Gonzaga, durata sino al 1708.
Bologna 1228
Parma 1244
Milano 1240 con Pagano della Torre
Firenze 1250
Lucca 1250
Orvieto 1250
Piacenza 1250
Roma 1252-1258
Volterra 1253
Siena 1253
Perugia 1255
Genova 1257
Cremona 1271
Mantova 1328 con Ludovico I Gonzaga
Un caso paradigmatico: Firenze
Il regime podestarile
Nel 1207 infatti il governo venne riformato e si passò dai consoli a un unico podestà, un cavaliere
preferibilmente forestiero, affinché si tenesse imparziale e al di fuori dalle contese tra le fazioni
cittadine. Il primo podestà fu Gualfredotto da Milano. I requisiti per accedere alla carica erano la
dignità cavalleresca, l'abilità militare e la conoscenza giuridica, che di fatto restringevano la scelta
ai soli rampolli di famiglie aristocratiche. Nella pratica poi esisteva un consiglio oligarchico ristretto
e uno collegiale, del quale facevano parte i capitani delle Arti: entro la prima metà dei Duecento il
sistema delle corporazioni era completamente organizzato.
Crescita demografica
Nel corso del Duecento Firenze visse il suo apogeo: già tagliata fuori dalla Francigena vi si collegò,
effettuando una vera e propria rivoluzione stradale, grazie all'attrattività del suo mercato economico
ed alla sicurezza del contado assoggettato da una serie di azioni militari.
Si era formato in quel periodo un nuovo ceto: i ricchi mercanti che avevano iniziato a legarsi con
politiche matrimoniali all'antica aristocrazia, univano il lusso e la raffinatezza al grande potere
economico delle loro imprese, venendo poi definiti grandi o magnati.
Dal contado inoltre proveniva un flusso sempre maggiore di genti, spesso immigrati di qualità
provvista di capitali e forte spirito d'iniziativa che in breve tempo avrebbero moltiplicato la
popolazione e l'economia cittadina. Ma forte era anche la richiesta di manodopera a basso costo, che
convogliò in città folle di subalterni, che non trovavano posto nella città antica delle torri, per
questo si affollavano in miseri "borghi", cioè zone densamente abitate a ridosso degli accessi
entranti nelle mura urbane. Firenze alla fine del XIII si calcola che avesse ben 100.000 abitanti
Guelfi e ghibellini
L'inizio delle contese tra guelfi e ghibellini viene fatto risalire tradizionalmente alla contesa tra
Amidei e Buondelmonti del 1216, ma i primi scontri effettivi si ebbero quando Federico II decise di
inviare in città il proprio figlio naturale Federico d'Antiochia (podestà dal 1246) per appoggiare il
partito ghibellino. Grazie alla propaganda guelfa la lotta agli eretici si fuse con quella ai
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ghibellini Nel 1244 Pietro da Verona accese gli animi di una parte della popolazione chiedendo una
riforma politica e sociale.
Il governo ghibellino rispose istituzionalizzando le Arti e introducendo rappresentanti del Popolo (la
nuova borghesia) accanto al podestà. Federico d'Antiochia governò con metodi duri e nel 1248
represse con energia un tentativo di insurrezione guelfa: egli, nei piani del padre, avrebbe dovuto
assoggettare la città al controllo imperiale. Dopo l'iniziale resistenza i guelfi vennero scacciati
lasciando la città in mano ai ghibellini, in particolare alla famiglia Uberti. Nel frattempo gli esuli
guelfi si erano sparsi nel contado, mantenendo capitali, prestigio e contatti con la curia pontificia.
Il "Governo del Primo Popolo"
Il 21 settembre 1250, l'esercito fiorentino fu sbaragliato in una imboscata guelfa a Figline Valdarno:
un mese dopo un'insurrezione guidata dal "Popolo" scacciava Federico e tutte le grandi famiglie che
lo avevano appoggiato. Iniziava così il florido periodo del Popolo Vecchio o del Primo Popolo.
Dal punto di vista politico le istituzioni ricalcarono la situazione creata dai ghibellini nel 1244-46,
con un doppio sistema: da una parte il comune col podestà e due consigli; dall'altra il Popolo con un
capitano (forestiero come il podestà), affiancato da altri due consigli: quello degli Anziani di 12
membri eletto dalle 20 compagnie militari, quindi su base territoriale, e quello dei 24 consoli delle
Arti. Il potere esecutivo e quello di iniziativa legislativa spettavano al capitano del Popolo e al
Consiglio degli Anziani, ma le leggi dovevano essere ratificate prima dai due consigli podestarili.
Il crescere di importanza delle Arti segnava una sempre maggiore diffidenza verso il ceto
aristocratico, sia esso guelfo o ghibellino, per questo, sebbene fedeli nell'alleanza col papato e
distaccati da Manfredi di Svevia, i popolani fiorentini non si guardavano dal dirsi guelfi. Risale a
quegli anni lo scapitozzamento delle torri dei nobili, provvedimento sia di ordine pubblico che
simbolico e morale. Nel 1255 si costruiva il palazzo del Popolo, poi detto il Bargello.
Il decennio del Primo Popolo vide il fiorire straordinario delle attività economiche, sostenute anche
dalla propria valuta in oro, il fiorino: introdotto nel 1252, fu la prima moneta aurea dell'Europa
occidentale, grazie al valore sia in peso che in lega che rimaneva straordinariamente costante,
assicurando una straordinaria diffusione in tutta Europa e nel bacino del Mediterraneo, quale
moneta per le transazioni economiche importanti, i grossi pagamenti e i prestiti internazionali.
La Battaglia di Montaperti (1260)
La salita alla ribalta di Manfredi di Svevia dopo la sconfitta di Ezzelino da Romano (1259), la
rivalità di Siena (rivale in campo economico), di Pisa e l'ostilità dei ghibellini esuli furono le forze
che si coalizzarono in una guerra contro Firenze che ebbe il suo momento decisivo il 4 settembre
1260 con la Battaglia di Montaperti: sconfitti disastrosamente i guelfi, i ghibellini ripresero la città,
dando il via a una serie di ritorsioni che consisterono nell'esilio, la confisca dei beni e la distruzione
delle case per i guelfi. Ma quando il vicario di Manfredi in Toscana propose nel 1264 di radere al
suolo la città, come Federico I aveva fatto con Milano un secolo prima, la dura opposizione di
Farinata degli Uberti salvò Firenze.
L'intervento di Urbano IV
Nel 1263 papa Urbano IV, deciso ad abbattere Manfredi in favore di Carlo d'Angiò, scomunicò i
ghibellini di Firenze e di Siena. Più che le implicazioni religiose di tale provvedimento,
preoccupava la conseguenza che ogni buon cristiano era sollevato dal pagare i debiti verso gli
scomunicati. Le grandi compagnie commerciali si affrettarono a fare omaggio alla Santa Sede, in
cambio di un documento che li metteva in condizione di esigere i propri crediti.
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La Battaglia di Benevento (1266)
Bastò la notizia che Manfredi era stato sconfitto nella battaglia di Benevento (febbraio 1266) per far
insorgere il Popolo contro i ghibellini, che vennero definitivamente scacciati. Si instaurò un
governo sempre più a tinte guelfe (sebbene il Popolo e la Parte Guelfa fossero ancora entità
distinte), suggellato dalla nomina a podestà di Carlo d'Angiò stesso, dal 1267.
Gli anni '80
Nel 1280 grazie ad una pace mediata dal cardinale Latino Malabranca Orsini molti ghibellini
poterono tornare in patria. Presto la sorte in Italia sembrò però sorridere di nuovo ai ghibellini (la
salita al potere del nuovo imperatore Rodolfo d'Asburgo, la stabilizzazione del potere ghibellino in
Romagna con Guido da Montefeltro e i Vespri siciliani contro Carlo d'Angiò in Sicilia),
riaccendendo le tensioni tra le fazioni. A Firenze ne approfittò il Popolo, sempre latentemente in
conflitto con l'aristocrazia, che ottenne delle modifiche istituzionali tra il 1282 e il 1284 senza gravi
scosse, quali: l'istituzione del collegio dei sei priori delle Arti (uno per sestiere), di un gonfaloniere
scelto dalle Arti, di un consiglio, di reparti armati e inoltre di far entrare i propri esponenti nel
consiglio del podestà. Si rafforzava così ulteriormente la voce delle organizzazioni professionali,
non senza l'appoggio di alcune famiglie guelfe, degli imprenditori e dei banchieri.
La rivale Pisa veniva nel frattempo sconfitta da Genova nel 1284, iniziando la sua decadenza che
avrebbe portato alla conquista da parte di Firenze nel 1406.
La Battaglia di Campaldino (1289)
La battaglia di Campaldino (11 giugno 1289) non fu solo la definitiva sconfitta dei ghibellini,
rinvigoriti dalla situazione internazionale, ma era anche un modo dei "magnati" (l'aristocrazia) di
sottolineare la propria importanza grazie all'uso che essi avevano delle armi, rispetto alla fascia
"popolana" (rappresentata dalla borghesia imprenditoriale).
Gli Ordinamenti di Giustizia
La risposta a questa ondata di guelfismo aristocratico furono i rivoluzionari Ordinamenti di
Giustizia promulgati dal podestà Giano Della Bella, varate nel 1293 e ammorbidite nel 1295, che
tagliavano fuori dalla vita politica i "magnati", rendendo necessaria l'iscrizione ad una Arte per
accedere ai priorati ed ai consigli di governo, oltre che predisponendo una serie di strumenti per
tutelare i cittadini da possibili ritorsioni degli armati dei magnati. Risale a quella riforma
l'istituzione del gonfaloniere di giustizia, supremo magistrato eletto dal consiglio dei priori della
Arti, che era garante del nuovo ordinamento.
L'ammorbidimento del '95 permise ad alcuni magnati di rientrare nel governo cittadino, mentre il
fautore della riforma, Giano, veniva esiliato per sospetti di volersi fare signore di Firenze: uno
scotto che dovette pagare nonostante l'appoggio incondizionato di gran parte del Popolo come
testimoniato da Dino Compagni. Il suo esilio fu una sorta di patto tacito tra Popolo e aristocrazia
guelfa: il primo aveva infatti bisogno della seconda per le sue alleanza col Papa, il Re di Francia e
gli Angioini che permettevano la prosperità dei commerci e delle attività bancarie. La
discriminazione tra magnati di antica e nuova ricchezza era ormai sempre più sfumata, come
dimostra il sistema di dichiarazione dei magnati, su segnalazione popolare, che talvolta includeva
anche esponenti provenienti "dal Popolo". In definitiva la discriminazione non era basata sul profilo
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sociale o sullo stile di vita, ma più che altro sul piano politico: era un magnate chiunque potesse dar
sospetto di attentare alla supremazia del Popolo nel governo della città.
Guelfi Bianchi e Neri
Un ulteriore motivo di tensione fu rappresentato dalla scissione del partito guelfo nelle due fazioni
dei Donati (i "neri", più legati al papato e sostenuti dall'élite mercantile e finanziaria) e dei Cerchi (i
"bianchi", moderati). Il periodo di disordini, che coinvolse anche Carlo di Valois, ingombrante
ospite cittadino inviato da Papa Bonifacio VIII, si concluse con la cacciata dei bianchi (tra cui
Dante Alighieri in consorteria con i Gherardini di Montagliari). L'oligarchia mercantile, che però
doveva contrastare l'opposizione sia dei nobili sia delle altre Arti, le 5 «mediane» e le 9 «minori», il
cui malcontento cresceva, mentre si acuiva il contrasto fra "popolo grasso" e "popolo minuto". Ma
le controversie non si conclusero con la cacciata dei Bianchi, in quanto anche la fazione dei Neri si
divise in Donateschi (capeggiati da Corso Donati) e dei Tosinghi (seguaci di Rosso Della Tosa).
Dopo l'uccisione di Corso Donati e la cacciata dei suoi seguaci la situazione cittadina si
tranquillizzò temporaneamente.
Il Trecento: Il culmine economico
Il primo Trecento segnò nuovi record per l'economia, l'arte e la cultura fiorentina. In quegli anni si
lavorò al completamento dei grandi cantieri aperti nel Duecento (Cattedrale, Palazzo vecchio e
mura) e se ne iniziarono di nuovi: il Campanile di Giotto, la Loggia della Signoria e la Loggia del
Bigallo, che sono in genere considerati il canto del cigno dell'architettura gotica a Firenze.
L'economia era trainata dalle imprese bancarie (degli Spini, dei Frescobaldi, dei Bardi, dei Peruzzi,
dei Mozzi, degli Acciaiuoli e dei Bonaccorsi), che prestavano denaro ad alto tasso (e ad alto rischio)
ai papi di Avignone ed ai sovrani di tutta Europa (soprattutto ai re di Francia e di Inghilterra), e
dalle industrie manifatturiere, soprattutto laniere: è stato calcolato che a Firenze si raffinassero e si
producessero direttamente tra il 7% e il 10% di tutti i panni di lana prodotti in Occidente, con una
grande richiesta di tinture pregiate, di allume (fissante per i colori) e di manodopera, la quale era
impiegata nelle circa trenta fasi della lavorazione dei fiocchi di lana fino alla pregiata stoffa. Il
commercio, le attività bancarie e quelle manifatturiere si sostenevano a vicenda generando un
circolo virtuoso che macinava straordinarie ricchezze, le quali non toccavano però la gran parte dei
malpagati ceti subalterni della città e del contado.
Debolezza militare
La Firenze del Trecento era però debole militarmente, come dimostrarono alcune sconfitte nei primi
decenni del Trecento, che compromisero il prestigio cittadino, ma non portarono a rovesciamenti
istituzionali: la battaglia di Montecatini del 1315 e la battaglia di Altopascio del 1325, entrambe
contro le forze ghibelline.
Firenze dopotutto si stava avviando a diventare guida di uno Stato regionale, con un territorio di
influenza che andava dal Basso Valdarno, al Chianti, alla Valdelsa all'Alto Valdarno fino
all'Appennino, con influenza su centri minori e città come Prato, Pistoia e poi Arezzo.
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L'affermazione delle signorie nel Nord Italia (1259-1328)
Le signorie precoci
Il processo che portò all’affermarsi delle signorie in Italia non fu né lineare né univoco. Infatti
nacquero per poi scomparire rapidamente alcune signorie personali nel nord Italia già nella prima
metà del XIII secolo. Un caso già trattato è quello di Ezzelino III da Romano. Ma forse è il caso di
ricordare altre due signorie precoci quella di Oberto Pelavicino e quella Guglielmo VII di
Monferrato.
Oberto II Pelavicino (o Pallavicino), marchese. 1197?–1269
Figlio di un Pelavicino nipote di Oberto I, di una famiglia che aveva feudi nel Piacentino,
Parmigiano e Cremonese; fu un capo del partito ghibellino in Lombardia e in Emilia. Con Federico
II (1238) combatté contro Brescia, l'anno dopo era vicario imperiale di Lunigiana, nel 1243 (già col
titolo di marchese) fu a capo del vicariato di Versilia, Garfagnana e Lunigiana. Dopo la morte
dell'imperatore, Pelavicino vide ridimensionato il suo potere, riuscendo comunque a inserirsi nelle
lotte fra le città e i partiti, e fu podestà e poi signore di Pavia (1253), Cremona e Piacenza. Alleato
d'Ezzelino da Romano contro i guelfi, ruppe con lui (1258) dopo l'acquisto in comune di Brescia, e
unitosi a re Manfredi contribuì al crollo d'Ezzelino a Cassano. Parve salire a più alta potenza
quando i Torriani lo fecero (1260) capitano generale e signore di Milano, nello stesso tempo in cui
era signore di Brescia, Pavia, Piacenza e Alessandria. La riscossa guelfa (1264-65), che seguì alla
venuta di Carlo d'Angiò, dopo averlo ridotto al solo Borgo San Donnino, lo cacciò definitivamente
da Milano. La sua signoria si estinse con la sua morte.
Guglielmo VII Marchese Di Monferrato. 1240 – 1292
Degli Aleramici di Monferrato, nacque da Bonifacio II e da Margherita di Savoia, e successe al
padre nel 1253, restando sotto la tutela della madre. I primi segni di una sua politica personale
appaiono nel 1260, quando acquistò la signoria ad Alessandria e si unì ad Asti per arginare la
dominazione di Carlo I d'Angiò, che andava allargandosi in Piemonte. Nuovo e più forte alleato
trovò nel 1261 in Manfredi di Sicilia, dal quale peraltro si staccò per collegarsi con Carlo nel 1264,
appena questi ebbe deciso la spedizione contro lo Svevo. Dopo Benevento (1266), Carlo continuò le
conquiste in Piemonte, attraversando la via a Guglielmo , che, presi accordi con un forte gruppo di
cardinali antiangioini, si recò (1271) alla corte di Alfonso X di Castiglia, aspirante alla corona
imperiale, ne sposò la figlia Beatrice (era vedovo di Isabella di Gloucester) e fu da lui creato suo
vicario in Italia. Tornato in patria, combatté dapprima con forze impari contro gli Angioini; poi,
alleatosi con Asti e Genova, e successivamente con altri comuni e feudatari subalpini, concorse a
distruggere il dominio di Carlo in Piemonte (1278). Poté allora raccogliere i frutti della sua politica:
dal 1278 al 1280 ottenne la capitania di guerra e la signoria in alcuni comuni (Vercelli, Alessandria,
Acqui, Tortona, Casale, Ivrea, Milano), che, travagliati da crisi sociali e costituzionali, avevano già
fatto i primi esperimenti di signoria con altri e con lo stesso Guglielmo
Il suo dominio ha caratteri singolari: quasi dappertutto i trattati che stipulano con lui i comuni,
hanno nello stesso tempo la forma dell'assunzione in servizio di un capitano di guerra, a cui si
conferiscono soltanto poteri esecutivo-militari, quella dell'alleanza col grande feudatario, investito
di ampi poteri giurisdizionali su terre e uomini, e infine, dove Guglielmo faceva valere antichi diritti
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feudali della sua casa, quella della soggezione feudale. In qualche comune (Vercelli, Alessandria,
Milano) conseguì, subito o in processo di tempo, la piena signoria.
La notevole potenza raggiunta da Guglielmo VII cominciò a ritorcersi contro di lui. Alessandria e
Asti si ribellarono alla sua signoria, Guglielmo lasciò il controllo di Milano ad un suo vicario e
mosse contro le città ribelli. Nella campagna, però, egli venne fatto prigioniero dalle truppe di
Tommaso III di Savoia e, per ottenere la libertà, dovette cedere Torino, Grugliasco e Collegno, oltre
che provvedere al pagamento di un enorme riscatto in oro. Era il 21 giugno 1280. Da quel momento
il capoluogo piemontese avrebbe legato indissolubilmente il suo destino con quello della dinastia
sabauda.
La disfatta e le continue guerre sostenute in seguito indebolirono il suo controllo su Milano, ove
Ottone Visconti lo destituì con la forza il 27 dicembre 1281, cacciando dalla città il podestà da lui
eletto. A compensare la perdita di Milano, Guglielmo VII ottenne la signoria su Alba. La figlia
Violante sposò l'imperatore Andronico II Paleologo e la situazione politica sembrò stabilizzarsi. Ma
le nuove campagne di Guglielmo si impantanarono in un continuo alternarsi di vittorie e sconfitte
tanto veloci quanto effimere. Dopo aver riconquistato e riperso Alessandria per l'ennesima volta, gli
astigiani corruppero gli alessandrini con una forte somma e la costrinsero a sollevarsi contro il
marchese. Compreso quanto stava accadendo ad Alessandria, Guglielmo si spinse in armi fino
davanti alla città, ove si accampò. Gli alessandrini lo convinsero allora ad entrare dentro le mura per
negoziare protetto solo da una piccola scorta. Venne allora catturato e rinchiuso in una gabbia di
ferro. Guglielmo morì dopo un anno, il 6 febbraio 1292 forse di fame, forse per l'avvilimento,
certamente ancora prigioniero dei suoi nemici. Anche in questo caso la sua signoria si concluse con
la sua morte.
Le signorie che si consolidano
Le Signorie furono l'evoluzione istituzionale di molti comuni urbani dell'Italia centro-settentrionale
attorno alla metà del XIII secolo. Esse si svilupparono a partire dal conferimento della carica di
podestà o di capitano del popolo ai capi delle famiglie preminenti, con poteri eccezionali e durata
spesso vitalizia. In tal modo si rispondeva all'esigenza di un governo stabile e forte che ponesse
termine all'endemica instabilità istituzionale ed ai violenti conflitti politici e sociali, soprattutto tra
magnati e popolari. I signori più forti e ricchi riuscirono quindi ad ottenere la facoltà di designare il
proprio successore, dando così inizio a dinastie signorili attraverso la legittimazione dell'imperatore,
che concedeva il titolo di Duca (spesso dietro forti compensi da parte dei Signori). Rimanevano
tuttavia funzionanti le istituzioni comunali, sebbene spesso si limitassero a ratificare le decisioni del
Signore.
Le più importanti furono quelle dei Medici, Gonzaga e Sforza. Ma anche quelle dei Della Torre,
Visconti, Montefeltro, Estensi, Della Scala e Malatesta ebbero, in momenti diversi, notevole
importanza.
Inizialmente le Signorie non erano istituzioni legittime ma si presentarono come "cripto-Signorie",
cioè delle "Signorie nascoste", in quanto si aggiunsero alle istituzioni comunali senza mostrarsi
apertamente e senza mostrare cambiata l'istituzione vigente. Con questa Signoria ancora in ombra
(ma già forte) salirono al potere molti avventurieri, ma soprattutto famiglie di antica nobiltà feudale,
che, dopo aver governato per una o due generazioni, decisero di legittimare il loro potere e di
renderlo ereditario. Così ottennero nel XIV secolo il titolo di vicario imperiale e tra il XIV e il XV
secolo i titoli di duca e marchese. L'assegnazione di questi titoli è indice della stabilizzazione dei
poteri signorili e della debolezza crescente degli Imperatori tedeschi, che già dalla seconda metà del
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Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al
Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in
parte da Wikipedia, da Treccani.it, da www.cronologia.leonardo.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio
Bergami. XIV Lezione: La seconda metà del XIII Secolo
XIV secolo non riuscivano a controllare le regioni settentrionali, rendendo così possibile
l'affermazione delle Signorie, che successivamente si evolsero in Principati con dinastie ereditarie;
ciò avvenne quando i Signori, riconoscendo l'imperatore e pagando una quantità di denaro, vennero
legittimati e riconosciuti come autorità da sudditi e principi.
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Bergami. XIV Lezione: La seconda metà del XIII Secolo
Milano
1240 Della Torre
1277 Visconti
Ferrara
1242 Estensi
Verona
1225 Ezzelino
1262 Della Scala
Mantova
1272 Bonacolsi
1328 Gonzaga
Rimini
1295 Malatesta
Padova
1237 Ezzelino
Urbino
1226
1318 Carraresi
1302
Della Torre
1311 Visconti
1328
Della Scala
1337 Carraresi
Montefeltro
Ferrara
Dopo essere stata al centro di continue lotte fra le famiglie guelfe degli Adelardi e dei Giocoli
quelle ghibelline dei Salinguerra e Torelli, passò definitivamente alla parte guelfa grazie al
matrimonio di Azzo VI d'Este con l'ultima erede degli Adelardi
Azzo VII d’Este (morto nel 1264)
Alla morte prematura di Aldobrandino I, nel 1215, venne riscattato dalla madre Alisia d'Antiochia
che pagò una forte somma ai banchieri di Firenze per liberarlo.
Salì giovanissimo al potere, ma nei primi anni fu sotto la tutela della madre e di alcuni nobili. Gli
venne rinnovata l'investitura della Marca di Ancona da parte del Papa Onorio III e ottenne la
protezione dell'imperatore Federico II.
In seguito venne in contrasto con l'Imperatore e divenne capo dei guelfi della Marca. Le vicende
legate alle campagne militari nel nord Italia di Federico II videro alternarsi i ghibellini alleati
dell'imperatore alla guida delle città sino al 1239 quando l'imperatore, sconfitto, tornò nel sud Italia.
Nel 1242 si impadronì di Ferrara, dopo la vittoria riportata contro Ezzelino III da Romano,
iniziando la signoria estense su quella città.
Alla morte di Azzo VII (1264) Obizzo divenne il principale pretendente alla supremazia nella
signoria ferrarese. Il padre Rinaldo era morto nel 1251 (avvelenato dall'imperatore Corrado che lo
teneva prigioniero in Puglia) ed i Salinguerra ormai erano stati sconfitti nella lotta per il potere e
presto anche le resistenze residue vennero superate.
All'inizio le famiglie ostili agli estensi contestarono le umili origini di Obizzo ed a Ferrara tentarono
di opporsi ma grazie all'appoggio di molte città guelfe emiliane e romagnole, tra cui Modena e
Reggio, e soprattutto grazie al potente arcivescovo di Ravenna, Filippo Fontana, durante
un'assemblea pubblica in piazza Obizzo II venne proclamato signore perpetuo di Ferrara.
A Modena, dopo l'insediamento ufficiale, avvenuto nel 1289, Obizzo fece costruire il castello,
prima residenza ducale degli estensi. Il nuovo signore fece rientrare in città tutti i guelfi esuli, e
mantenne in esilio solo i discendenti della famiglia Grasolfi, a capo della parte ghibellina.
Obizzo si rivelò uomo capace di mantenere il potere e di ingraziarsi il popolo, conquistando, dopo
Ferrara e Modena, anche Reggio Emilia. Nel 1290, ormai a capo di una vasta area, fu in grado di
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organizzare un esercito da inviare alla crociata in Terrasanta che Papa Niccolò IV stava tentando di
preparare.
Alla sua morte, avvenuta probabilmente per mano del figlio Azzo VIII d'Este nel 1293, si ebbero
conflitti per la successione non avendo Obizzo indicato il suo erede.
Le autorità cittadine nominarono Azzo VIII per diritto di primogenitura, ma egli subì una violenta
contestazione dai fratelli che affermarono che secondo la legge longobarda, a cui si attenevano gli
Estensi i possedimenti dovevano essere divisi in modo equo fra i tre figli e cioè Ferrara ad Azzo
VIII, Modena ad Aldobrandino e Reggio Emilia a Francesco.
Ma l'instaurazione del ducato estense non durò a lungo: agli inizi del Trecento gli Este erano in
conflitto con Bologna, Mantova e Verona e furono pertanto minacciati nel possedimento della
stessa Ferrara. Azzo VIII d'Este chiese quindi aiuto a Venezia ottenendo rinforzi. Ma alla morte di
Azzo VIII il trono passò al nipote Folco II d'Este e non al figlio Fresco d'Este, escluso dalla
successione. Francesco, per arrivare al possedimento del trono, offrì il feudo di Ferrara a Clemente
V con in cambio il riconoscimento del suo potere sulla città.
Le truppe pontificie occuparono così Ferrara in nome della chiesa insediandovi il marchese
Francesco d'Este. Il 1308 sancì l'inizio della cosiddetta guerra di Ferrara, terminata nel 1309.
Nonostante la successiva vittoria dei ferraresi e dello Stato della Chiesa su Venezia, Ferrara visse
alcuni anni difficili prima del totale insediamento degli Este avvenuto nel 1332.
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