Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DELLA TUSCIA DIPARTIMENTO DI SCIENZE DEI BENI CULTURALI CORSO TRIENNALE IN CONSERVAZIONE DEI BENI CULTURALI (CLASSI L1-L43) DISPENSE DI CHIMICA ANALITICA DOTT.SSA CLAUDIA PELOSI 1 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi INTRODUZIONE La prima parte del corso di Chimica analitica ha lo scopo di fornire le conoscenze e i concetti di base della chimica moderna indispensabili per approfondire lo studio dei materiali di interesse storico-artistico e archeologico con i quali lo studente del corso triennale in Beni culturali si troverà ad operare. Il campo della conservazione e del restauro si trova ad affrontare i materiali più svariati: inorganici e organici, elementi semplici e composti dalla struttura complessa, sostanze naturali e di sintesi, prodotti di alterazione che si originano da trasformazioni chimicofisiche della materia. È quindi indispensabile conoscere le proprietà fondamentali della materia e le sue principali trasformazioni sia per affrontare correttamente lo studio di un manufatto di interesse storico-artistico e archeologico, ma anche per programmare nella maniera migliore la sua conservazione nel tempo. Le conoscenze di base sono necessarie per lo sviluppo della seconda parte del corso di Chimica analitica che verterà sullo studio delle principali tecniche di indagine impiegate nel settore dei beni culturali. Queste dispense servono come supporto anche per gli studenti che non hanno mai seguito un corso di chimica e dunque mancano di quei concetti di base necessari per sviluppare gli argomenti propri del corso di chimica analitica. Partendo da queste premesse, le dispense saranno quindi articolate in una serie di argomenti fondamentali, di seguito elencati, con esempi e riferimenti ai settori di interesse dello studente in Beni Culturali. Si partirà dalla conoscenza e la lettura della tabella periodica degli elementi, strumento fondamentale del chimico per affrontare poi la materia e le sue proprietà. Nel primo capitolo, infatti, verranno fornite le basi per l’uso della tabella periodica insieme con alcuni concetti generali quali le unità di misura internazionali, le espressioni delle concentrazioni e la struttura dell’atomo. L’argomento successivo sarà costituito dai legami chimici che, “unendo” gli elementi, portano alla formazione dei composti e quindi a tutte le forme di materia che noi conosciamo; anche in questo caso gli esempi saranno riferiti ai beni culturali. In questa parte del corso (capitolo 2) verranno forniti anche i concetti fondamentali legati alle geometrie molecolari con esempi di composti inorganici e organici; è, infatti, 2 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi particolarmente importante conoscere, anche se in maniera generale, il legame che esiste tra le strutture molecolari e le proprietà e applicazioni dei diversi materiali. L’argomento successivo, trattato nel capitolo 3, sarà a questo punto logicamente costituito dalle forme di aggregazione dei composti chimici, ovvero gli stati della materia: gassoso, liquido, solido. Nel capitolo 4 verranno forniti alcuni concetti di base della termodinamica, una parte della chimica molto importante per comprendere la stabilità dei sistemi chimico-fisici e delle leggi che regolano gli equilibri. Nel capitolo 5 verranno trattati gli equilibri acido-base, il significato dei pH, la sua misura e alcuni esempi di titolazioni acido-base. Nel capitolo 6 saranno affrontati gli equilibri chimici in sistemi eterogenei: equilibri di solubilità; equilibri di ossido-riduzione. In questo capitolo verranno dati anche alcuni concetti di base di elettrochimica, sia per comprendere il funzionamento di alcuni semplici strumenti di laboratorio, come il pH-metro, sia per comprendere fenomeni importanti come quello della corrosione dei metalli. Lo studio degli equilibri eterogenei è molto importante per il settore dei beni culturali, perché strettamente connesso sia con le trasformazioni e le alterazioni che i materiali possono subire sia come metodi applicabili nel restauro. Infine, il settimo e ultimo capitolo è stato dedicato alla chimica organica e fornisce alcuni concetti di base per comprendere questa grande branca della chimica. In questo capitolo sono trattati anche i polimeri sia di sintesi che naturali (proteine, polisaccaridi, lipidi) e alcuni materiali organici importanti per il settore dei beni culturali (cere e resine naturali). 3 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi CAPITOLO 1 1.1 Elementi chimici e tabella periodica degli elementi La chimica è la scienza che studia le proprietà delle sostanze e delle reazioni che le trasformano in altre sostanze. Il metodo scientifico è seguito nella chimica, come in altre scienze, per verificare una ipotesi che, sottoposta a prove rigorosamente controllate negli esperimenti, si trasforma in legge scientifica quando riesce a mantenersi valida in tutte le prove effettuate. Due tradizioni si intrecciano lungo la storia della chimica: l’analisi (attraverso la decomposizione delle sostanze) e la sintesi (attraverso l’unione delle sostanze). La chimica parte dunque dal processo di analisi ovvero di determinazione della materia. La materia si presenta in vari stati (liquido, solido, gas) e può essere eterogenea o omogenea a seconda che presenti rispettivamente zone con proprietà differenti o uguali in ogni punto (Figg. 1-3) Fig. 1 – Classificazione della materia in base alle sue proprietà caratteristiche (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991). 4 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Fig. 2 – Esempio di un materiale eterogeneo (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991). La fase è una porzione di materia che presenta proprietà costanti in ogni suo punto (Fig. 3). Fig. 3 – Esempio di sistemi eterogenei costituiti da più fasi (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991). Le sostanze sono costituite da elementi i quali non possono essere ulteriormente decomposti in entità più piccole se non attraverso il decadimento radioattivo o le reazioni nucleari che sono in grado di trasformare un elemento in un altro. Il termine composto in chimica viene utilizzato per indicare sostanze costituite da due o più elementi. Gli atomi che costituiscono gli elementi chimici e quindi la materia non sono entità indivisibili ma sono costituite da particelle più piccole, l’evidenza delle quali si ebbe dagli studi effettuati a cavallo tra il 1800 e il 1900 sugli effetti di campi elettrici sufficientemente intensi sugli atomi e le molecole. Nel 1897 il fisico britannico J.J. Thomson condusse una serie di esperimenti schematizzati in fig. 4. 5 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Fig. 4 - Un apparecchio come quello usato da Thomson nel 1897 per scoprire l’elettrone (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) Quando si applica una differenza di potenziale tra gli elettrodi montati in un tubo di vetro con vuoto parziale, lo spazio tra gli elettrodi diventa luminescente. Thomson mostrò che tale scarica luminosa consisteva di un fascio di particelle identiche cariche negativamente ora chiamate elettroni. Egli riuscì a determinarlo deflettendo il fascio di particelle con campi elettrici e magnetici. L’esperimento di Thomson permise di determinare soltanto il rapporto carica/massa. Nel 1906 il fisico americano Robert Millikan con il suo studente H. A. Fletcher misurò il valore assoluto della carica elettrica elementare con un elegante esperimento. Il valore oggi accettato per la carica elementare, ovvero la carica dell’elettrone, è e = 1,6021773 x 10-19 C. Il valore della massa dell’elettrone è me = 9,109390 x 10-31 kg. Quasi contemporaneamente alla scoperta dell’elettrone, Henri Becquerel scoprì la radioattività il processo per cui certi atomi si disintegrano spontaneamente. Egli scoprì che gli atomi di uranio sono radioattivi. Poco più tardi Marie e Pierre Curie scoprirono altri elementi radioattivi come il radio, il polonio. Fu scoperto che le radiazioni emesse dalle sostanze radioattive sono di tre tipi: Nome originale Nome moderno Massa* Carica Raggi α Particelle α 4,00 +2 Raggi β Particelle β (elettroni) 5,49x10-4 -1 Raggi γ raggi γ 0 0 *in unità di massa atomica 6 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Nel 1911 Ernest Rutherford e un suo studente, Ernest Marsden, allestirono un esperimento in cui un sottile foglio d’oro veniva bombardato con particelle α. La maggior parte delle particelle passava senza apprezzabile deflessione attraverso il foglio. Alcune venivano deflesse solo leggermente, passando vicino ad un nucleo contenuto nel foglio, e solo poche erano deflesse all’indietro, quando collidevano direttamente con il nucleo. Quindi Rutherford scoprì che un atomo è prevalentemente spazio vuoto e che la carica positiva e praticamente tutta la massa si trovano concentrate in un volume molto piccolo al centro dell’atomo, che chiamò nucleo. Rutherford scoprì in seguito che la carica positiva in un atomo è dovuta ai protoni, particelle subatomiche con carica uguale a quella degli elettroni ma di segno opposto e massa pari a circa 1836 volte la massa di un elettrone. Nel 1920 Ernest Rutherford propose l’esistenza dei neutroni per spiegare la massa osservata del nucleo dell’atomo. Nel 1932 James Chadwick verificò sperimentalmente che nel nucleo vi era un altro tipo di particella con praticamente la stessa massa del protone ed elettricamente neutra. Rutherford propose quindi un modello atomico in cui il nucleo possiede una carica complessiva pari a +Ze con Z elettroni attorno al nucleo ad una distanza di circa 10-10 m. Questo è tuttora il modello base accettato per la struttura atomica. Le proprietà della materia si originano dalla carica +Ze del nucleo e dalla presenza di Z elettroni attorno al nucleo. Il numero Z si chiama numero atomico dell’elemento. Il numero di massa invece rappresenta il totale di protoni più neutroni e viene indicato con la lettera A. Molti elementi sono formati da due o più isotopi, atomi che contengono lo stesso numero di protoni ma un diverso numero di neutroni. Per esempio, nel caso dell’idrogeno l’isotopo più comune contiene un protone e un elettrone (H). C’è un altro isotopo, meno comune, che contiene un protone, un elettrone e un neutrone: questo isotopo più pesante è detto comunemente deuterio ed è indicato con il simbolo D. Il peso atomico di ciascun elemento è dato dalla somma dei pesi di ciascun isotopo, ciascuno moltiplicato per la sua abbondanza naturale. 7 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi (Da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) Ad esempio il peso atomico del cloro si calcola nel modo seguente: peso atomico Cl = 34,97 (75,77/100) + 36,97 (24,23/100) = 35,45 Il numero dei composti chimici noti è molto ampio e continua ad aumentare rapidamente con la ricerca. Il numero delle reazioni chimiche di questi composti è praticamente illimitato, certamente il loro studio è agevolato dall’osservazione che le proprietà degli elementi mostrano delle regolarità che permettono di classificarli in famiglie i cui membri manifestano proprietà chimiche e fisiche simili. Gli elementi sono elencati secondo il numero atomico Z e proprio in funzione di Z ricorrono regolarmente i comportamenti chimici degli elementi. La legge periodica dice che: LE PROPRIETA’ CHIMICHE DEGLI ELEMENTI SONO FUNZIONI PERIODICHE DEL NUMERO ATOMICO Z Quindi gli elementi possono essere sistemati in una tabella, detta Tavola Periodica, che visualizza immediatamente le similarità chimiche (fig. 5). 8 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Fig. 5 – Tavola periodica degli elementi La tavola periodica ordina gli elementi in gruppi (sistemati verticalmente) e in periodi (sistemati orizzontalmente). Vi sono otto gruppi di elementi principali (IA-VIIIA), dieci gruppi (tre periodi) di elementi metallici di transizione, un periodo di elementi con numero atomico da 57 a 71 detti terre rare o lantanidi e un periodo di elementi con numero atomico da 89 a 103 chiamati attinidi che risultano poco stabili e generalmente devono essere preparati artificialmente. Gli elementi sono classificati come metalli o non metalli in base alla presenza o assenza di lucentezza metallica, di una buona o scarsa capacità di condurre elettricità e calore, la malleabilità o la fragilità. Alcuni elementi presentano caratteristiche in parte simili ai metalli (antimonio, arsenico, boro, silicio e tellurio) e per questo vengono anche detti semimetalli o metalloidi. Le proprietà fisiche e chimiche degli elementi variano sistematicamente lungo la tavola periodica; importanti proprietà fisiche sono: il punto di fusione, il punto di ebollizione, la conducibilità termica ed elettrica, la densità, le dimensioni atomiche, la variazione di energia che si ha quando si aggiunge o si rimuove un elettrone dall’atomo neutro. 9 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Storicamente la tavola periodica degli elementi fu introdotta nel 1869-1870 dal russo Dmitri Mendeleev insieme al chimico tedesco Lothar Mayer, quando si conoscevano appena un terzo degli elementi oggi noti. 1.2 Concetto di mole Le masse atomiche sono costituite da una serie di numeri relativi i cui valori assoluti dipendono da uno standard definito, la massa dell’isotopo 12C. Ad essa viene assegnata la massa esatta 12 ed 1/12 di questa massa viene definito unità di massa atomica unificata, abbreviata u. L’unità di massa atomica unificata viene anche chiamata dalton in onore di uno dei chimici più importanti della storia. È stato determinato sperimentalmente che una mole di qualsiasi sostanza contiene 6,022x1023 unità formula. Questo numero è detto numero di Avogadro, da Amedeo Avogadro, uno scienziato italiano (1776-1856) che fu tra i primi sostenitori della teoria atomica. La definizione ufficiale di mole secondo il Sistema Internazionale di misura (SI) è: “LA MOLE È LA QUANTITÀ DI SOSTANZA DI UN SISTEMA CHE CONTIENE TANTE ENTITÀ ELEMENTARI QUANTI SONO GLI ATOMI PRESENTI IN 0,012 KG ESATTI DI CARBONIO-12. QUANDO SI USA LA MOLE DEVONO ESSERE SPECIFICATE LE ENTITÀ ELEMENTARI, CHE POSSONO ESSERE ATOMI, MOLECOLE, IONI, ELETTRONI, ALTRE PARTICELLE O GRUPPI DIVERSAMENTE SPECIFICATI DI TALI PARTICELLE” In altre parole una mole di sostanza è la quantità di materia che contiene un numero di Avogadro di particelle che possono essere atomi, molecole, ioni, elettroni, ecc., (fig. 6). 10 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi A B F G C E D Fig. 6 Quantità corrispondenti ad una mole di varie sostanze. A: grafite (C); B: permanganato di potassio (KMnO4); C: solfato di rame pentaidrato (CuSO4 · 5H2O); D: rame (Cu); E: cloruro di sodio (NaCl); F: bicromato di potassio (K2Cr2O7); G: antimonio (Sb), (da David W. Oxtoby, H.P. Gillis, Norman H. Nachtrieb, Chimica Moderna, EdiSES, 2001). 1.3 Sistema Internazionale di misura Il sistema di misura standard, adottato su scala mondiale, è conosciuto come Système International d’Unités. Le unità fondamentali da cui derivano tutte le altre sono: ♦ per la lunghezza il metro (m) ♦ per la massa il kilogrammo (kg) ♦ per il tempo il secondo (s) ♦ per la corrente elettrica l’ampere A ♦ per la temperatura il kelvin (K) ♦ per la quantità di sostanza la mole (mol) Le rimanenti grandezze fisiche (come energia, forza, carica, intensità di un campo magnetico, ecc.) vengono espresse in base alle unità fondamentali. La densità di un materiale, in particolare, è una grandezza derivata che si ottiene dal rapporto tra la massa e il volume: massa densità = ───── volume 11 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi La massa generalmente nei calcoli chimici si esprime in grammi (g) mentre il volume in centimetri cubici (cm3) oppure millilitri (ml). Quindi la desnità sarà espressa in grammi su centimetrocubo (g/cm3) 1.4 Espressioni della concentrazione Per concentrazione si intende la quantità di una sostanza contenuta in un determinato volume o in una determinata massa. Per esprimere la composizione di materiali che non siano costituiti da un singolo elemento o composto puro si impiegano quattro tipi fondamentali di espressioni: ● Misure massa-su-massa (m/m) ● Misure massa-su-volume (m/v) ● Misure volume-su-volume (v/v) ● Misure numero-su-volume (M,N) Misure massa-su-massa Una misura massa-su-massa esprime il rapporto fra la massa di un componente e la massa complessiva del campione. La massa percentuale, abbreviata in m% o %(m/m), è il rapporto, espresso in percentuale, fra la massa di un componente e la massa complessiva del campione. La percentuale %(m/m) viene denominata parti per cento. Frazioni più piccole vengono indicate utilizzando le parti per mille (ppt, ‰), le parti per milione (ppm), le parti per bilione (ppb) e le parti per trilione (pptr). Dicendo una parte per milione, ad esempio, si intende che un grammo della sostanza in questione è presente in un milione di grammi di soluzione o di miscela totale ppt = μg di sostanza/g di campione ppm = ng di sostanza/g di campione pptr = pg di sostanza/g di campione Misura massa-su-volume Una misura massa-su-volume esprime il rapporto fra la massa di un componente e il volume totale del materiale. Dal momento che la densità dei solventi varia con la temperatura, una misura precisa massa-su-volume dipende dalla temperatura della soluzione. 12 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Misura volume-su-volume Una misura volume-su-volume esprime il rapporto fra il volume di un componente e il volume totale del materiale. Di solito questa unità di espressione della concentrazione viene utilizzata per miscele di sostanze che sono tutte allo stato liquido, ad esempio miscele di solventi utilizzati nella pulitura. Dal momento che la densità dei solventi varia con la temperatura, una misura precisa massa-su-volume dipende dalla temperatura della soluzione. Misure numero-su-volume: MOLARITÀ (M) e NORMALITÀ (N) L’unità più frequentemente utilizzata per esprimere la concentrazione è la molarità (M, moli per litro). Come già visto, una mole si definisce come il numero di atomi di 12C contenuti in 12 g esatti di 12C. Questo numero di atomi è detto numero di Avogadro ed il valore attualmente riconosciuto è 6.0221438 · 1023. Il peso molecolare (P.M.) di una sostanza è il numero di grammi che contengono un numero di Avogadro di molecole. Il peso molecolare si ottiene sommando i pesi atomici degli atomi costituenti. I termini massa e peso sono in genere utilizzati indifferentemente anche se il peso si riferisce alla forza esercitata da una massa in un campo gravitazionale. Molarità (M) Si prepara una soluzione sciogliendo 12,00 g di benzene, C6H6, in una quantità di esano sufficiente a dare 250,0 ml di soluzione. Trovare la molarità del benzene. P.M. del benzene = 6 (peso atomico del carbonio) + 6 (peso atomico dell’idrogeno) = 6 (12,011) + 6 (1,008) = 78,114 g/mol L’unità relativa al peso molecolare, ovvero grammi per mole, spesso non viene espressa ma semplicemente sottintesa. Il numero di moli in 12,00 g è: 12,00 g/ 78,114 g/mol = 0,1536 mol La molarità (moli per litro) si ottiene dividendo il numero di moli per il numero di litri: 0,1536 mol/0,250 L = 0,6144 M 13 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Normalità (N) La normalita viene usata nelle reazioni acido-base e in quelle di ossido-riduzione ed è una misura di equivalenti. Il numero di equivalenti presenti in una mole di acido o di base è il numero di moli di protoni che può essere donato o accettato da una mole dell’acido o della stessa base. La normalità di una soluzione può essere messa in relazione alla molarità moltiplicando il valore della molarità per il numero di equivalenti presenti in una mole: normalità = molarita x numero di equivalenti mole-1 Per le reazioni acido-base: normalità = molarità x numero di protoni donati o accettati mole-1 Ad esempio l’acido acetico, CH3COOH può donare un protone: CH3COOH + H2O → H3O+ + CH3COOUna mole di acido acetico presenta un solo equivalente di protoni da donare in acqua quindi la normalità è uguale alla molarità. Invece l’acido solforico, un acido forte con formula H2SO4, può donare due protoni ad una base; una soluzione 1M di acido solforico contiene due equivalenti di protoni ed è perciò una soluzione 2 normale (2N). Un beneficio dell’utilizzo della normalità come misura di concentrazione è che non è necessario conoscere esattamente i meccanismi delle reazioni coinvolte, ma solo il loro effetto. Per esempio, in certe soluzioni molto complesse, è difficile scrivere le equazioni delle reazioni coinvolte. Invece, usando la normalità è possibile standardizzare il reagente per trovare gli equivalenti di protoni o elettroni in un dato volume. 1.5 Struttura dell’atomo Come abbiamo già visto l’atomo è costituito da un nucleo che contiene particelle elementari quali protoni e neutroni e da un numero variabile di elettroni disposti intorno al nucleo. Gli elettroni sono collocati in zone dello spazio che in base alla meccanica quantistica sono denominati orbitali. L’orbitale non è altro che una funzione matematica (detta funzione d’onda) che esprime la probabilità di trovare l’elettrone in un particolare punto dell’atomo. L’espressione matematica della funzione d’onda è data dall’equazione fondamentale della meccanica quantistica, ovvero l’equazione di Schrödinger, scoperta dal fisico austriaco Erwin Schrödinger nel 1925. 14 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Questa equazione tiene conto sia della natura ondulatoria delle particelle1 sia del principio di indeterminazione di Heisenberg2. Le funzioni d’onda vengono indicate di solito con la lettera greca psi, ψ, e sono in relazione alla posizione dell’elettrone. Il quadrato della funzione d’onda, ψ2, fornisce la densità di probabilità di trovare l’elettrone in un certo volume intorno all’atomo, definito dall’orbitale. Quindi non è possibile localizzare l’elettrone con precisione ma si può stabilire solo con quale probabilità esso si trovi in una certa regione (fig. 7). Fig. 7 Nella figura è mostrato il grafico di ψ21s in funzione di r. Anche se è maggiore la probabilità di trovare l’elettrone vicino al nucleo, la funzione d’onda non si azzera completamente all’aumentare di r. Esiste quindi una probabilità non nulla di trovare l’elettrone a qualunque distanza dal nucleo. La freccia indica la distanza oltre cui c’è solo una probabilità su cento di trovare l’elettrone. Nella figura, inoltre, sono mostrate due diverse possibilità di rappresentare l’orbitale, o funzione d’onda, 1s dell’idrogeno. La sfera delimita il volume entro cui la probabilità di trovare l’elettrone è del 99%. (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) 1 La luce sembra avere talvolta natura ondulatoria, talvolta corpuscolare, per questo si parla di dualismo onda-particella. Nel 1924 Louis de Broglie propose che anche la materia, che presenta certamente natura corpuscolare, in certe condizioni potrebbe manifestare anche proprietà ondulatorie. De Broglie propose che sia la luce che la materia seguano l’equazione: λ = h/mv dove m è la massa della particella e v la sua velocità. 2 Alla metà degli anni ’20, Werner Heisenberg, un fisico tedesco, dimostrò che non era possibile misurare accuratamente sia la posizione che il momento (mv, massa per velocità) di una particella nello stesso istante. Heisenberg dimostrò che se Δx è la distanza entro cui è localizzata una particella e Δp è l’intervallo dei valori del suo momento, queste due grandezze sono correlate dalla relazione: (Δx)(Δp) ≈ h Il principio di indeterminazione di Heisenberg è importante solo per particelle molto piccole (atomi e particelle subatomiche). 15 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Il numero intero n, che specifica l’energia dell’elettrone in un atomo di idrogeno è detto numero quantico. Per specificare le funzioni d’onda sono necessari tre numeri quantici indicati con n, l e ml. Il numero quantico n è detto numero quantico principale ed è sufficiente per determinare l’energia dell’elettrone in un atomo di idrogeno; ha valori n=1, 2, 3, 4, ...La funzione d’onda che descrive lo stato fondamentale dell’atomo di idrogeno dipende dalla distanza dell’elettrone dal protone e può essere descritta come ψ(r), dove r è la distanza dell’elettrone dal nucleo. La densità di probabilità per l’elettrone dell’atomo di idrogeno viene indicata come ψ21s(r) e siccome dipende solo dal valore di r e non dalla direzione di r nello spazio, si dice che ψ21s(r) ha simmetria sferica. Il numero quantico principale n specifica le dimensioni di un orbitale (fig. 8). Fig. 8 Le superfici che delimitano i volumi entro cui si ha la probabilità del 99% di trovare l’elettrone per gli orbitali 1s, 2s e 3s. I raggi delle sfere stanno in un rapporto di circa 1:2:5, quindi è evidente che n determina le dimensioni, ovvero l’estenzione spaziale, di un orbitale (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) Il numero quantico l, invece, specifica la forma di un orbitale e viene chiamato numero quantico azimutale. La risoluzione dell’equazione di Schrödinger limita i valori di l a 0, 1, 2, 3, ..., n-1. I valori permessi di l dipendono dal valore di n in base al seguente schema: n=1 l=0 n = 2 l = 0, 1 n = 3 l = 0, 1, 2 n = 4 l = 0, 1, 2, 3 .... .... 16 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi I valori di l vengono indicati mediante lettere: l 0, 1, 2, 3, ... denominazione s, p, d, f, ... Le lettere s, p. d, f, stanno per sharp (distinto), principal (principale), diffuse (diffuso) e fondamental (fondamentale). Gli orbitali vengono indicati scrivendo prima il valore numerico di n e quindi la lettera corrispondente al valore di l. Esempi: n=1 l=0 orbitali 1s n=2 l=1 orbitali 2p n=3 l=2 orbitali 3d n=4 l=3 orbitali 4f Molti orbitali hanno superfici sulle quali la densità di probabilità scende a zero: tali superfici si chiamano superfici nodali (fig. 9). Fig. 9 Nella figura è mostrato il grafico di ψ22s in funzione di r e la rappresentazione a densità di punti di un orbitale 2s. La distanza a cui si annulla la funzione d’onda indica una superficie nodale sferica dell’orbitale (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) Quando n=2 bisogna considerare anche gli orbitali 2p. La caratteristica più evidente dell’orbitale p è che esso non ha simmetria sferica. Visto lungo l’asse z, l’orbitale 2p 17 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi mostra una simmetria cilindrica rispetto al suo asse principale (fig. 10). Il piano xy è una superficie nodale per gli orbitali 2p orientati lungo l’asse z. Un orbitale 3p differisce da un orbitale 2p in quanto più grande (in quanto n è maggiore) e con più superfici nodali. Fig. 10 Due illustrazioni di un orbitale 2p: (a) rappresentazione a densità di punti; (b) la superficie che delimita il volume entro cui esiste la probabilità del 99% di trovare l’elettrone 2p. (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) Il terzo numero quantico, ml, detto numero quantico magnetico, determina l’orientamento spaziale dell’orbitale. Risulta che il numero quantico magnetico può assumere solo i valori l, l-1, l-2, ......, 1, 0, -1, -2, ..., -l. I valori permessi di ml dipendono dal valore di l in base al seguente schema: l=0 ml = 0 l=1 ml = 1, 0, -1 l=2 ml = 2, 1, 0, -1, -2 l=3 ml = 3, 2, 1, 0, -1, -2, -3 .... .... Quindi per l = 0, ovvero per gli orbitali s, ml può assumere un solo valore pertanto è possibile una sola orientazione spaziale, si ha un solo orbitale. 18 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Per l = 1, ovvero per gli orbitali p, ml può assumere tre valori pertanto sono possibili tre orientazioni spaziale, si hanno tre orbitali, indicati con px, py e pz (fig. 11). Fig. 11 Ciascuno dei tre orbitali p ha la stessa forma, ma i loro orientamenti spaziali sono diversi perché hanno lo stesso numero quantico azimutale ma diversi numeri quantici magnetici (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) Nel 1926 Wolfang Pauli, un giovane fisico tedesco, intuì che lo sdoppiamento osservato per alcune righe degli spettri atomici poteva essere spiegato se l’elettrone fosse esistito in due stati diversi. Poco dopo due scienziati olandesi, George Uhlenbeck e Samuel Goudsmit, identificarono questi due differenti stati dell’elettrone con una sua proprietà detta spin elettronico intrinseco. Ciò significa che l’elettrone ruota su se stesso in una delle due direzioni attorno al suo asse. Lo spin intrinseco dell’elettrone introduce un quarto numero quantico detto numero quantico di spin, che si indica con ms. Esso determina lo stato di spin dell’elettrone e può assumere valore +1/2 o -1/2. Nell’idrogeno l’energia dipende solo dal numero quantico principale e quindi orbitali con lo stesso valore di n hanno la medesima energia. Negli atomi polielettronici, l’energia degli orbitali dipende sia dal numero quantico n che dal numero quantico azumutale l: orbitali con lo stesso valore di n ma con valori diversi di l hanno perciò energia diversa (fig. 12). Nel 1926 Wolfang Pauli propose che nello stesso atomo non potessero esistere due elettroni con la stessa serie di numeri quantici, principio noto oggi come principio di esclusione di Pauli. In pratica, in base a questo principio non è possibile che i numeri quantici di spin degli elettroni di un dato orbitale assumano lo stesso valore: se così fosse gli elettroni avrebbero la stessa serie dei quattro numeri quantici. Quindi in ciascun orbitale possono esistere due soli elettroni con spin opposto. 19 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Il livello n = 1 viene chiamato K ed è completo con 2 elettroni. Il livello n = 2 viene chiamato L, per esso sono possibili 2 valori di l, 0 e 1. Il valore l = 0 corrisponde all’orbitale 2s che può contenere due elettroni con spin opposto. Il valore l = 1 corrisponde a tre orbitali 2p ciascuno dei quali può contenere due elettroni con spin opposto per un totale di sei elettroni. Il livello n = 3 viene chiamato M e può contenere in totale 18 elettroni. Il gruppo di orbitali individuati dai valori di l all’interno dei livelli principali si chiamano sottolivelli. Fig. 12 Energie relative di orbitali atomici. (a) Nell’idrogeno l’energia dipende solo dal numero quantico principale e quindi orbitali con lo stesso valore di n hanno la medesima energia. (b) Negli atomi polielettronici l’energia degli orbitali dipende sia dal numero quantico n che dal numero quantico l pertanto orbitali con lo stesso valore di n ma valori diversi di l hanno energia diversa (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) 20 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi La disposizione degli elettroni negli orbitali di un atomo si chiama configurazione elettronica di quell’atomo. Ad esempio l’elio ha configurazione elettronica 1s2. Per poter predire le configurazioni elettroniche degli stati fondamentali dei vari elementi occorre, infine, considerare la regola di Hund: per ogni insieme di orbitali con la stessa energia, cioè per ogni sottolivello, la configurazione elettronica dello stato fondamentale si ottiene sistemando gli elettroni in orbitali differenti dello stesso sottolivello con spin paralleli. Inoltre non vi saranno orbitali con due elettroni fino a che tutti ne conterranno uno. Questa configurazione corrisponde ad una condizione di energia minore e quindi più stabile. Gli orbitali occupati a più alta energia sono gli orbitali d per i metalli di transizione e gli orbitali f per i lantanidi e gli attinidi. Nella prima serie di transizione si assiste al riempimento progressivo dei cinque orbitali 3d. Per questo la prima serie dei metalli di transizione viene anche detta serie dei metalli di transizione 3d (fig.13). Fig. 13 Tavola periodica con l’indicazione di quali orbitali vengono riempiti dagli elettroni di valenza di ciascun elemento. I blocchi di elementi con lo stesso colore hanno uguali sottolivelli elettronici di valenza (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) 21 Corso di Chimica analitica scandio [Ar]4s23d1 titanio [Ar]4s23d2 vanadio [Ar]4s23d3 cromo [Ar]4s13d5 manganese [Ar]4s23d5 ferro [Ar]4s23d6 cobalto [Ar]4s23d7 nichel [Ar]4s23d8 rame [Ar]4s13d10 zinco [Ar]4s23d10 Dott.ssa Claudia Pelosi Il riempimento sistematico degli orbitali di un atomo con elettroni, cominciando con l’orbitale a minore energia e proseguendo a salire, tenendo in considerazione i principi e le regole su esposte, viene detto principio dell’”aufbau” (fig. 14). Fig. 14 Tavola periodica con l’indicazione delle configurazioni elettroniche dello stato fondamentale degli elettroni di valenza degli elementi. Sopra ciascun gruppo è indicata la configurazione elettronica esterna generale del gruppo stesso (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) 22 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Poiché gli elettroni sono distribuiti intorno al nucleo in modo diffuso, un atomo non presenta contorni netti e precisi. Tuttavia è possibile proporre una definizione operativa di raggio atomico basata su modelli concreti. Il raggio atomico ottenuto dalla misura delle distanze interatomiche di elementi in forma cristallina (quindi con strutture ordinate) vengono chiamati raggi cristallografici. I raggi cristallografici degli elementi dal litio al fluoro diminuiscono uniformemente da sinistra a destra perché la carica nucleare aumenta e lungo la riga della tavola periodica ed attrae più fortemente gli elettroni. I raggi cristallografici dei metalli alcalini aumentano scendendo nella tavola periodica dal litio al cesio. In questo caso la carica nucleare aumenta ma gli elettroni più esterni vanno ad occupare nuovi strati e questo effetto ha un peso maggiore dell’aumento dell’attrazione nucleare. 23 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi CAPITOLO 2 2.1 Tipi di legame chimico I legami chimici possono essere suddivisi in due grandi categorie ovvero i legami di tipo intramolecolare che si formano tra gli atomi e portano alla formazione delle molecole, e i legami di tipo intermolecolare che tengono unite le molecole e sono responsabili delle varie strutture della materia. LEGAMI INTRAMOLECOLARI ♦ LEGAME IONICO ♦ LEGAME COVALENTE ♦ LEGAME METALLICO LEGAMI INTERMOLECOLARI ♦ PONTE AD IDROGENO ♦ FORZE DI VAN DER WAALS ♦ INTERAZIONE DIPOLO/DIPOLO ♦ INTERAZIONE IONE/DIPOLO ♦ INTERAZIONE DIPOLO/DIPOLO INDOTTO ♦ FORZE DI LONDON 2.2 Caratteristiche dei legami: elettronegativià degli atomi Si ha un legame chimico quando due atomi si uniscono tra loro mettendo in compartecipazione elettroni. La forza motrice è una diminuzione dell’energia globale del sistema formato dalle due particelle. Un parametro importante nella formazione dei legami è l’elettronegatività dei due atomi. L'ELETTRONEGATIVITA' è la misura della tendenza di un atomo ad attrarre la coppia di elettroni di legame: l'elettronegatività si definisce come proporzionale all'energia di ionizzazione (I) e all'affinità elettronica (A) L’energia di ionizzazione di un atomo è la minima energia necessaria per strappare un elettrone all’atomo neutro in fase gassosa. L’affinità elettronica di un atomo è l’energia emessa quando esso acquista un elettrone. 24 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Gli accettori di elettroni (come gli alogeni) hanno energie di ionizzazione e affinità elettroniche elevate e sono quindi molto elettronegativi. I donatori di elettroni (come i metalli alcalini) mostrano energie di ionizzazione ed affinità elettroniche basse e sono detti elettropositivi. La maggior parte dei legami chimici non sono né puramente ionici né puramente covalenti ma hanno caratteristiche intermedie tra i due. Il modo in cui sono condivisi gli elettroni di legame è determinato dalla differenza di elettronegatività tra i due atomi impegnati nel legame. Fig. 15 Le elettronegatività degli elementi calcolate da Linus Pauling (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) Se l’elettronegatività è la stessa allora gli elettroni di legame sono equamente condivisi ed il legame viene detto covalente puro o legame apolare. Questa condizione si verifica in molecole biatomiche omonucleari. Se l’elettronegatività dei due atomi è diversa gli elettroni di legame non risultano condivisi egualmente ed il legame è detto legame polare. Il caso estremo di legame polare si ha quando la differenza di elettronegatività è grande, maggiore di circa 1,7: in tal caso la coppia di elettroni finisce completamente sull’atomo più elettronegativo e si forma un legame ionico puro. Il momento dipolare è una grandezza che misura la polarità di una molecola. Da 25 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi un punto di vista fisico i momenti dipolari sono grandezze vettoriali ovvero caratterizzate da una dimensione e da una direzione. Il momento dipolare di una molecola biatomica si rappresenta di solito con una freccia diretta lungo il legame da δ+ a δ- (con δ si rappresenta una carica parziale). Il momento dipolare è dato dall’equazione: μ = q ·r, dove q indica il valore della carica parziale espresso in coulomb e r la distanza tra gli atomi. Il momento dipolare è quindi espresso in coulomb·metri o in debye (D, un debye corrisponde a 3,338·10-30 C·m) Il momento dipolare di una molecola è il risultato complessivo delle polarità dei suoi legami. In una molecola può accadere che i singoli legami siano polari e abbiano perciò un momento dipolare, tuttavia la somma di tutti i vettori dei momenti dipolari potrebbe risultare nulla: si dice che la molecola è apolare (fig. 16). Fig. 16 Esempi di molecole non polari (anidride carbonica)e polari (acqua) (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) 2.3 Legame ionico e proprietà dei composti ionici Il legame ionico si instaura tra atomi di tipo diverso: 1 avente bassa Energia di Ionizzazione (Catione +) 1 avente elevata Affinità Elettronica (Anione -) Il legame ionico è un legame di tipo elettrostatico: gli ioni sono tenuti insieme da forze di tipo elettrostatico. Il trasferimento di uno o più elettroni dall’elemento metallico a quello non metallico porta alla formazione di ioni con configurazioni elettroniche molto stabili (gas nobili). Infatti, si ha una particolare stabilità quando un atomo, perdendo o acquistando elettroni, forma uno ione il cui guscio più esterno contiene otto elettroni 26 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi (ottetto): la tendenza degli atomi a raggiungere ottetti di valenza spiega gran parte della reattività chimica. Fig. 17 Alogeni (immagine a sinistra) e sodio (immagine a destra) si combinano facilmente dando origine al cloruro di sodio (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) I composti ionici, tranne quelli che hanno come anione il gruppo OH-, sono spesso indicati con il nome di sali per analogia con NaCl (cloruro di sodio), il comune sale da cucina (fig. 17). I composti ionici sono solidi a temperatura ambiente e presenteno generalmente temperature di fusione e di ebollizione molto elevate (fig. 18). Fig. 18 Due diverse rappresentazioni delle celle elementari del cloruro di sodio e del cloruro di cesio (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) 27 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Quando vengono sciolti in acqua i composti ionici si dissociano dando origine a ioni positivi e negativi (fig. 19). Fig. 19 Gli ioni in soluzione acquosa sono stabilizzati dall’interazione con le molecole d’acqua e si dicono solvatati (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) Se si immergono due elettrodi nella soluzione collegati ad una batteria, gli ioni positivi migreranno verso l’elettrodo negativo mentre quelli negativi andranno al polo positivo: il moto degli ioni attraverso la soluzione genera una carica elettrica. Sostanze come NaCl, CaCl2 le cui soluzioni acquose conducono corrente si chiamano elettroliti. A seconda della capacità di condurre corrente elettrica si parlerà di elettroliti forti ed elettroliti deboli. 1) Gli acidi HCl, HBr, HI, HNO3, H2SO4, HClO4 sono elettroliti forti. La maggior parte degli altri acidi sono elettroliti deboli. 2) Gli idrossidi solubili (idrossidi dei metalli del 1° e 2° gruppo tranne il berillio) sono elettroliti forti. 3) La maggior parte dei sali solubili sono elettroliti forti. 4) Gli alogenuri e i cianuri dei metalli con Z elevato sono spesso elettroliti deboli. 5) La maggior parte dei composti organici sono non – elettroliti. Gli acidi organici sono di solito elettroliti deboli. Nel settore dei beni culturali i composti ionici sono molto importanti soprattutto in riferimento a quelli che vengono indicati come sali solubili. Questi, costituiti generalmente da solfati, cloruri e nitrati, sono associati ai materiali lapidei (naturali e 28 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi artificiali3), sia perché possono esservi naturalmente contenuti sia perché derivanti da fattori esterni o da alterazione di altri materiali4. Questi sali sono particolarmente pericolosi perché, essendo solubili in acqua, vengono facilmente trasportati attraverso i materiali lapidei e possono depositarsi sia al loro interno che in superficie producendo subflorescenze ed efflorescenze. I sali solubili, inoltre, trattengono acqua, provocando, durante i cicli invernali di gelo e disgelo, forti variazioni di volume che, nel caso di presenza all’interno del materiali, causano la formazione di fessurazioni e distacchi. Inoltre, nel caso delle efflorescenze i sali solubili provocano anche un danno di tipo estetico sulla superficie del manufatto. 2.4 Nomi e formule dei composti ionici Il nome dei composti ionici è dato dal nome dell’anione seguito da quello del catione. Gli ioni possono essere sia monoatomici che poliatomici. Nel caso di cationi monoatomici come Na+, Ca2+ e gli altri metalli alcalini e alcalino-terrosi, il nome è lo stesso dell’elemento, quindi: ione sodio, ione calcio, ione bario, ione potassio, ecc. Quando invece un metallo forma ioni diversi, come nel caso dei metalli di transizione, essi vengono distinti aggiungendo un numero romano tra parentesi dopo il nome del metallo: Cu+, ione rame (I); Cu2+, ione rame (II); Fe2+, ione ferro (II); Fe3+, ione ferro (III); Sn2+, ione stagno (II); Sn4+, ione stagno (IV). Un metodo precedente per distinguere ioni diversi dello stesso elemento era quello di aggiungere i suffissi –oso (ione di carica minore) e –ico (ione di carica maggiore) alla radice del nome del metallo. Quindi Fe2+ era detto ione ferroso e Fe3+ ione ferrico. Cationi poliatomici importanti in chimica inorganica sono: lo ione ammonio NH4+; lo ione idronio H3O+ e lo ione Hg22+, ione mercurio (I). Per quanto riguarda il nome dell’anione si può far riferimento allo schema seguente: 3 I materiali lapidei naturali sono tutti i tipi di rocce e minerali presenti in natura; i materiali lapidei artificiali sono quelli prodotti dall’uomo per trattamento di quelli naturali, ad esempio le ceramiche, la calce, le malte, i cementi. 4 Ad esempio i nitrati si formano per decomposizione di materiali organici (che contengono azoto sotto forma di proteine); i cloruri possono provenire da aerosol marini o dall’uso di acido cloridrico che in passato veniva impiegato per la pulitura di patine bianche di carbonato di calcio; i solfati possono provenire da materiali di restauro quali i cementi e il gesso (solfato di calcio biidrato). 29 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi F- fluoruro CO32- carbonato Cl- cloruro HCO3- idrogeno carbonato - - bromuro NO2 I- ioduro NO3- nitrato H- idruro SiO44- silicato O2- ossido PO43- fosfato S2- solfuro HPO42- Br O2 2- O2 - perossido nitrito H2PO4 - 2- idrogeno fosfato diidrogeno fosfato superossido SO3 OH- idrossido SO42- solfato CN- cianuro HSO4- idrogeno solfato CNO- cianato ClO- ipoclorito SCN- tiocianato ClO2 - MnO4 - - manganato ClO3 CrO42- cromato ClO4 - Cr2O72- dicromato solfito clorito clorato perclorato La formazione di un composto ionico implica la neutralità della carica globale della molecola, quindi la carica positiva dei cationi deve bilanciare esattamente la carica negativa degli anioni. Di seguito sono riportati alcuni esempi di composti ionici: Bromuro di stagno(II) un catione 2+, due anioni 1- SnBr2 Permanganato di potassio un catione 1+, un anione 1- KMnO4 Solfato d’ammonio due cationi 1+, un anione 2- (NH4)2SO4 Diidrogenofosfato di ferro(II) un catione 2+, due anioni 1- Fe(H2PO4)2 2.5 Legame covalente e proprietà dei composti covalenti Il legame covalente si forma quando atomi che possiedono valori confrontabili di elettronegatività interagiscono tra di loro condividendo gli elettroni. Molte sostanze esistono in forma di molecole allo stato gassoso a temperatura ambiente, quindi è relativamente semplice produrre molecole isolate e determinarne sperimentalmente la struttura. Una molecola è un aggregato definito di atomi e risulta 30 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi stabile ovvero non si trasforma spontaneamente. La struttura di una molecola stabile è definita dalla disposizione tridimensionale degli atomi nello spazio che influenza alcune proprietà molecolari. La distanza di legame misura la distanza fra gli atomi e rende un’idea qualitativa delle dimesioni molecolari. Gli angoli di legame, invece, danno informazioni sulla forma delle molecole. Le distanze e gli angoli di legame medi5 possono essere misurati con tecniche spettroscopiche e con la diffrazione a raggi X. Un’altra caratteristica importante dei legami chimici è l’energia di legame, detta anche energia di dissociazione, ovvero l’energia necessaria per rompere una mole del legame chimico in questione. Il fattore energetico è molto importante per determinare la stabilità delle molecole. La teoria quantistica mostra che un legame chimico si forma quando gli atomi coinvolti si trovano ad una energia più bassa quando sono vicini tra di loro rispetti a quando sono distanti e che anche la geometria molecolare è quella che permette alla molecola di avere la più bassa energia. 2.6 Formule di rappresentazione di Lewis Gilbert N. Lewis fu uno dei maggiori chimici americani. Più di dieci anni prima della formulazione della teoria quantistica di Schrödinger egli aveva postulato che un legame covalente potesse essere descritto come una coppia di elettroni condivisa da due atomi. In base alla teoria di Lewis un atomo può essere rappresentato con i suoi elettroni di valenza come punti: .. : Cl · .. Il cloro ha un’elevata affinità elettronica e acquistando un elettrone raggiunge la condizione di ottetto assumendo la configurazione elettronica dell’argon. Quando due atomi di cloro si combinano essi mettono in compartecipazione i due elettroni spaiati assumendo ciascun atomo la configurazione di ottetto. Scrivendo le formule di Lewis si cerca sempre di soddisfare la regola dell’ottetto. Se l’elettronegatività è la stessa allora gli elettroni di legame sono equamente condivisi ed il legame viene detto covalente puro o legame apolare. 5 Le molecole non sono strutture rigide, ma possono vibrare intorno alla loro posizione di equilibrio, quindi i valori degli angoli di legame e delle distanze di legame ottenuti sperimentalmente risultano valori medi. 31 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Questa condizione si verifica in molecole biatomiche omonucleari (fig. 20). Se l’elettronegatività dei due atomi è diversa gli elettroni di legame non risultano condivisi egualmente ed il legame è detto legame polare (fig. 21). Il caso estremo di legame polare, come già visto, si ha quando la differenza di elettronegatività è grande, maggiore di circa 1,7: in tal caso la coppia di elettroni finisce completamente sull’atomo più elettronegativo e si forma un legame ionico puro. Fig. 20 Modelli molecolari di molecole di alogeni riportati in scala per mostrare le dimensioni relative degli atomi (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) Fig. 21 Modelli molecolari di alcune molecole in cui gli atomi sono legati con legami covalenti polari, riportati in scala per mostrare le dimensioni relative degli atomi (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) Nelle rappresentanzioni di Lewis, una coppia di elettroni condivisi può essere rappresentata anche mediante una breve linea (-). Le coppie di elettroni non condivise attorno ad un atomo sono chiamate coppie solitarie e non partecipano alla formazione del legame. Alcuni esempi di rappresentazione di formule di Lewis sono: 32 Corso di Chimica analitica NH3 .. H:N:H .. H Dott.ssa Claudia Pelosi H2O CH4 .. H:O:H .. H .. H:C:H .. H H .. H-N-H .. H-O-H .. │ H-C-H │ H Le formule di Lewis indicano solo i legami che uniscono gli atomi nelle molecole ma non mostrano le geometrie molecolari. In alcune molecole più di una coppia di elettoni viene condivisa dai due atomi che si legano formando doppi e tripli legami e sempre soddisfando la regola dell’ottetto. Esistono numerose molecole e ioni per i quali è possibile scrivere due o più formule di Lewis soddisfacenti senza spostare la posizione dei nuclei. La formula reale può essere considerata come una media tra le possibili formule. Ciascuna delle singole formule di Lewis si chiama forma risonante e l’uso di formule di Lewis multiple si chiama risonanza. Lo ione nitrato, ad esempio, è una molecola planare con ciascun legame N-O diretto verso un vertice di un triangolo equilatero; esistono tre formule di Lewis soddisfacenti per rappresentare questo ione: 33 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Un modo per scrivere le tre formule in una, ovvero come sovrapposizione delle tre o media è data dalla seguente rappresentazione grafica che viene detta ibrido di risonanza: La regola dell’ottetto in alcuni casi non può essere soddisfatta. In certi casi il numero totale degli elettroni è dispari e quindi è impossibile appaiare tutti gli elettroni. Una specie che ha uno o più elettroni spaiati si chiama radicale libero. A causa della presenza di elettroni spaiati i radicali liberi sono di solito molto reattivi. Ad esempio il biossido di cloro ClO2 possiede in totale 19 elettroni di valenza (7 del cloro e 6 per ciascun atomo di ossigeno), le due formule risonanti sono: 2.7 Jacobus vant’t Hoff e le geometrie molecolari Jacobus vant’t Hoff fu il chimico olandese che propose per primo la geometria tetraedrica del metano e di composti analoghi, nello stesso momento ma indipendentemente dal chimico francese Joseph Le Bel, nel 1874 (fig. 22). L’ipotesi di van’t Hoff e Le Bel segnò l’inizio della strutturistica chimica, ramo della chimica che studia forme, disposizioni e dimensioni delle molecole. Tramite l’impiego di tecniche spettroscopiche è stato possibile misurare distanze e angoli di legame e stabilire un gran numero di geometrie molecolari. Alcuni esempi sono mostrati in fig.23. 2.8 Teoria VSEPR La teoria della repulsione delle coppie elettroniche di valenza (valence shell electron-pair repulsion, VSEPR), parte dall’idea fondamentale che la forma di una molecola sia determinata dalla mutua repulsione dei doppietti elettronici nello strato di 34 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi valenza dell’atomo centrale. Naturalmente, la disposizione che minimizza la repulsione dipende dal numero di coppie elettroniche (fig.24). A) B) Fig. 22 Modelli molecolari del metano (CH4). A) modello molecolare a bastoncini e sfere. B) modello molecolare a sfere solide. Ciascun legame carbonio-idrogeno in una molecola di metano è diretto verso il vertice di un tetraedro regolare, le posizioni dei quattro atomi di idrogeno sono equivalenti e gli angoli di legame sono uguali a 109,5° (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) Fig. 23 Geometrie di varie molecole osservate sperimentalmente (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) 35 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Fig. 24 Serie di coppie di elettroni disposte sulla superficie di una sfera in modo tale da rendere minima la loro reciproca repulsione. (a) due coppie di elettroni disposte ai poli opposti della sfera; (b) tre coppie di elettroni disposte su un piano equatoriale ai vertici di un triangolo equilatero; (c) quattro coppie di elettroni disposte ai vertici di un tetraedro; (d) cinque coppie di elettroni disposte due ai poli della sfera e tre sul piano equatoriale, ai vertici di un triangolo equatoriale; (e) sei coppie di elettroni disposte ai vertici di un ottaedro regolare, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) Gli angoli di legame corrispondenti alle geometrie di fig. 24 sono riportati in fig. 25. Fig. 25 Angoli di legame corrispondenti alle geometrie molecolari mostrate in fig.25, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) La presenza di doppietti elettronici solitari influenza la forma delle molecole. 36 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi L’ammoniaca ha formula NH3. In questa molecola esistono quattro coppie di elettroni nello strato di valenza dell’atomo d’azoto: tre impegnate in legami covalenti e una come doppietto elettronico solitario. Le quattro coppie si respingono reciprocamente e quindi sono disposte secondo i vertici di un tetraedro. Tuttavia il doppietto solitario non è analogo alle coppie di elettroni impegnate nei legami covalenti ma occupa uno spazio maggiore ovvero è più diffuso del doppietto localizzato di un legame covalente. Questo determina una distorsione della geometria rispetto a quella tetraedrica regolare, in particolare provoca una diminuzione dell’angolo di legame H-N-H rispetto al valore 109,5° del tetraedro regolare. In particolare nel caso dell’ammoniaca l’angolo di legame è pari a 107, 3°. Fig. 26 Ruolo delle coppie di elettroni di legame e delle coppie solitarie nella determinazione della geometria molecolare, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) In una bipiramide trigonale i doppietti elettronici solitari occupano i vertici equatoriali (figg.27-28). Fig. 27 (a) forma ideale della molecola con angoli di legame equatoriale di 120° e angoli di legame assiale di 180°; (b) il doppietto elettronico libero in posizione equatoriale respinge i quattro legami covalenti zolfo-fluoro distorcendo la molecola rispetto alla geometria ideale (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) 37 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Fig. 28 (a) forma ideale della molecola con angoli di legame equatoriale e assiale di 90°; (b) i doppietti elettronici liberi in posizione equatoriale respingono i legami covalenti cloro-fluoro distorcendo la molecola rispetto alla geometria ideale (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) In una molecola ottaedrica due doppietti elettronici liberi occupano vertici opposti (fig.29). Fig. 29 (a) il doppietto elettronico libero nella molecola del pentafluoruro di bromo respinge i legami bromo-fluoro causando lo spostamento dell’atomo di bromo sotto al piano individuato dai quattro atomi di fluoro, gli angoli di legame F-Br-F sono leggermente inferiori alla misura di 90°; (b) i due doppietti elettronici liberi del tetrafluoruro di xenon sono posizionati ai vertici opposti dell’ottaedro perciò la molecola assume una geometria planare, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) 2.9 Principio della massima sovrapposizione e orbitali ibridi Le molecole poliatomiche possono essere descritte come gruppi di atomi tenuti insieme da legami covalenti. Un orbitale molecolare è una combinazione di orbitali atomici di atomi diversi. Quindi i legami delle molecole poliatomiche possono essere descritti in termini di orbitali di 38 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi legame. Gli orbitali che descrivono gli elettroni dei legami covalenti localizzati sono detti orbitali di legame localizzati e sono concentrati soprattutto nella regione compresa tra i due atomi uniti dal legame. Fig. 30 Gli orbitali di legame della molecola del metano possono essere descritti come quattro orbitali di legame carbonio-idrogeno diretti verso i vertici di un tetraedro, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) L’idea della sovrapposzione degli orbitali di valenza degli atomi nella formazione dei legami fu avanzata da Linus Pauling nel 1931. Pauling fu il primo ad usare il principio della massima sovrapposizione per spiegare i legami nelle molecole. Nel caso della molecola poliatomica neutra più semplice, BeH2, si prendono in considerazione gli orbitali 2s e uno degli orbitali 2p. La loro combinazione da origine a due orbitali equivalenti sull’atomo di berillio con due caratteristiche importanti: 1 – ciascuno di essi presenta un’ampia regione di sovrapposizione con l’orbitale 1s dell’atomo di idrogeno; 2 – essi sono orientati a 180° l’uno rispetto all’altro Questi due orbitali equivalenti vengono chiamati orbitali sp (fig.31). Gli orbitali composti da tipi differenti di orbitali atomici sono detti orbitali atomici ibridi. Gli orbitali di legame che si formano dalla sovrapposizione tra gli orbitali 1s degli atomi di idrogeno e gli orbitali ibridi sp del berillio hanno simmetria cilindrica lungo l’asse che unisce i nuclei del berillio e dell’idrogeno. 39 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Fig. 31 Formazione di orbitali ibridi sp per sovrapposizione di un orbitale 2s e un orbitale 2p del berillio. I due orbitali sp sono equivalenti e sono diretti reciprocamente a 180°, nell’ultima immagine a destra sono indicati anche i due orbitali 2p del berillio che non partecipano all’ibridazione: questi sono perpendicolari tra di loro e rispetto all’asse degli orbitali sp, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) Questi orbitali di legame si chiamano orbitali σ e il legame corrispondente viene chiamato legame σ (fig.32). Fig. 32 Formazione di due orbitali di legame σ localizzati equivalenti della molecola BeH2. I quattro elettroni di valenza della molecola (due dell’atomo di berillio e uno per ciascuno dei due atomi di idrogeno) occupano i due orbitali di legame localizzati σ1 e σ2 e formano i due legami localizzati berillioidrogeno, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) Un esempio di molecola con tre legami covalenti localizzati è il trifluoruro di boro, BF3, una molecola con geometria triangolare planare. I tre legami B-F sono equivalenti quindi si devono formare tre orbitali di legame equivalenti a simmetria triangolare planare. 40 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Per combinazione dell’orbitale 2s con due degli orbitali 2p del boro, si ottengono tre orbitali ibridi equivalenti orientati sul piano a 120° l’uno dagli altri (fig.33). Questi orbitali, formati dall’orbitale 2s e da due orbitali 2p, sono detti orbitali ibridi sp2. Fig. 33 Formazione di tre orbitali ibridi sp2, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) I tre orbitali sp2 del boro vanno poi a formare i tre orbitali di legame localizzati equivalenti con i tre atomi di fluoro, per sovrapposizione di ciascun orbitale sp2 con un orbitale 2p del fluoro. Fig. 34 Formazione di tre orbitali di legame σ localizzati equivalenti della molecola BeF3. I sei elettroni di valenza della molecola (tre dell’atomo di boro e uno per ciascuno dei tre atomi di fluoro) occupano i tre orbitali di legame localizzati σ1, σ2 e σ3 e formano i tre legami localizzati boro-fluoro, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) 41 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi I tre orbitali di legame localizzati hanno simmetria cilindrica quindi sono orbitali σ, ciascuno occupato da due elettroni con spin opposto (fig.34). La molecola del metano presenta una struttura tetraedrica con i quattro legami C-H equivalenti, pertanto per descrivere correttamente questa molecola è necessario che si formino quattro orbitali di legame equivalenti. Combinando l’orbitale 2s con i tre orbitali 2p dell’atomo di carbonio si ottengono quattro orbitali ibridi detti sp3 equivalenti e diretti secondo i vertici di un tetraedro (fig. 35). I quattro orbitali sp3 del carbonio vanno poi a formare i quattro orbitali di legame localizzati equivalenti con i quattro atomi di idrogeno, per sovrapposizione di ciascun orbitale sp3 con un orbitale 1s del’idrogeno. I quattro orbitali di legame localizzati hanno simmetria cilindrica quindi sono orbitali σ, ciascuno occupato da due elettroni con spin opposto (fig.36). Fig. 35 Formazione di quattro orbitali ibridi equivalenti sp3. L’angolo tra gli orbitali è di 109,5°, quindi tipico della struttura tetraedrica (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) 42 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Fig. 36 Formazione di quattro orbitali di legame σ localizzati equivalenti della molecola CH4. Gli otto elettroni di valenza della molecola (quattro dell’atomo di carbonio e uno per ciascuno dei quattro atomi di idrogeno) occupano i quattro orbitali di legame localizzati σ1, σ2, σ3 e σ4 e formano i quattro legami localizzati carbonio-idrogeno, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) Gli orbitali atomici ibridi possono interessare anche gli orbitali d. Per esempio dalla combinazione di un orbitale 3s, tre orbitali 3p e un orbitale 3d si originano cinque orbitali atomici ibridi con simmetria bipiramidale trigonale. Questi cinque orbitali si chiamano dsp3 ed hanno la caratteristica di non essere equivalenti tra di loro. Infatti essi formano due gruppi di orbitali equivalenti: una serie di tre orbitali equatoriali equivalenti ed una serie di due orbitali assiali equivalenti (es. PCl5, i legami tra cloro e fosforo si formano per sovrapposizione di ciascun orbitale ibrido dsp3 del fosforo con un orbitale 3p del cloro). Dalla combinazione di un orbitale 3s, tre orbitali 3p e due orbitali 3d si originano sei orbitali atomici ibridi con simmetria ottaedrica. Questi otto orbitali si chiamano d2sp3, sono disposti secondo i vertici di un ottaedro e sono equivalenti tra loro (es.SF6, i legami tra zolfo e fluoro si formano per sovrapposizione di ciascun orbitale ibrido d2sp3 dello zolfo con un orbitale 2p del fluoro). Un principio importante da tenere in considerazione nella combinazione degli orbitali atomici per formare orbitali ibridi è il principio di conservazione degli orbitali ovvero: il numero totale degli orbitali ibridi che risultano dalla combinazione degli orbitali atomici impiegati deve essere uguale al numero di questi ultimi. 43 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi I composti organici, indicati spesso come composti del carbonio, sono tutti descritti con l’ibridazione degli orbitali atomici del carbonio che non presenta sempre un’ibridazione di tipo sp3 ma può legarsi anche con ibridazione sp2 e sp, in questi casi non si hanno più soltanto legami semplici di tipo σ ma entrano in gioco anche legami doppi e tripli di tipo π. L’etilene (C2H4), ad esempio, è un gas a temperatura ambiente. Presenta un doppio legame tra i due atomi di carbonio: La sovrapposizione tra due orbitali ibridi sp2 costituisce il legame σ. La geometria della molecola è planare. Gli altri orbitali ibridi sp2 sono impegnati con legami σ con gli atomi di idrogeno. I restanti orbitali 2p degli atomi di carbonio sono perpendicolari al piano della molecola. La sovrapposizione di questi orbitali porta alla formazione di legami π. L’orbitale π ha simmetria analoga a quella degli orbitali p da cui si origina (fig. 37). (a) (b) Fig. 37 (a) Due atomi di carbonio uniti dalla combinazione dei loro orbitali ibridi sp2. L’orbitale di legame presenta simmetria cilindrica rispetto all’asse C-C e quindi è un orbitale di tipo σ. (b) I quattro orbitali di legame C-H derivano dalla sovrapposizione degli orbitali ibridi sp2 del carbonio con gli orbitali 1s dell’idrogeno, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) Gli orbitali 2p su ciascun atomo di carbonio, perpendicolari al piano del legame H-C-H, si sovrappongono formando un legame definito di tipo π. L’orbitale π è così definito 44 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi poiché presenta una sezione analoga a quella dell’orbitale p, esso blocca la molecola nella forma planare non permettendo la rotazione intorno al doppio legame (fig. 38). Fig. 38 Struttura della molecola dell’etilene con l’indicazione dei legami di tipo σ e di tipo π, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) Nel caso di una molecola con atomi diversi dal carbonio, ad esempio l’1,2dicloroetilene, CHCl=CHCl, poiché non è possibile alcuna rotazione intorno al legame C=C, questo composto esiste in due forme distinte dette isomeri: L’isomero trans è quello dove gli atomi di cloro si trovano in posizioni opporte rispetto al doppio legame; l’isomero cis è invece quello dove gli atomi di cloro si trovano dallo lato del doppio legame. Le molecole che presentano la stessa struttura di legame ma diversa disposizione spaziale vengono dette stereoisomeri. In molte molecole i legami di tipo π si estendono si estendono su più di due atomi adiacenti. Uno degli esempi più importanti in chimica organica è quello del benzene, C6H6 e di tutti i composti definiti aromatici, caratterizzati da anelli con orbitali delocalizzati. I legami nella molecola del benzene sono di tipo σ e π. Il carbonio, infatti, presenta un’ibridazione sp2 formando in totale dodici orbitali di legame di tipo σ: sei utilizzati per i legami C-C e sei per i legami C-H: si tratta quindi di una molecola planare con angoli di 120° (fig. 39). 45 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Fig. 39 Scheletro dei legami σ della molecola del benzene, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) I sei orbitali 2p degli atomi di carbonio, perpendicolari al piano dell’anello, si combinano formando sei orbitali di legame di tipo π che però non risultano “bloccati” sugli atomi di carbonio ma delocalizzati su tutta la molecola. La delocalizzazione degli elettroni π sull’anello benzenico è un esempio di delocalizzazione di carica corrispondente, nella teoria quantistica, alla risonanza descritta dalle formule di Lewis e conferisce alla molecola una ulteriore stabilizzazione rispetto a quella ipotetica con doppi legami localizzati (fig. 40). Fig. 40 Ciascun atomo di carbonio ha un orbitale 2p perpendicolare al piano dell’anello. Questi sei orbitali si combinano tra loro per formare sei orbitali π diffusi uniformemente sull’intero anello, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) Il benzene appartiene alla classe degli idrocarburi aromatici che presentano anelli relativamente stabilizzati dalla delocalizzazione degli elettroni π. Il benzene e molti altri idrocarburi aromatici vengono ottenuti per distillazione del petrolio e del catrame (vedi 46 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi par. 7.3). Nel settore dei beni culturali rivestono molta importanza alcune molecole, estratte da animali e piante, con anelli aromatici che risultano colorate e che nella storia delle tecniche artistiche sono state variamente impiegate per la tintura e la pittura. Esempi molto importanti sono la cocciniglia e il kermes, l’indaco, l’alizarina, la porpora, il legno del Brasile, ecc. La cocciniglia ed il kermes, ad esempio, sono coloranti rossi utilizzati fin dall’antichità sia per tingere tessuti che come lacche per dipingere. Si ottengono da due specie di insetti: l’insetto femmina della Dactylopus coccus, nel caso della cocciniglia, e l’insetto femmina della Kermes vermilio nel caso del Kermes. L’insetto del kermes vive su una specie di quercia comune in Spagna, nel sud della Francia e dell’Italia, in molte isole greche, chiamata scientificamente Quercus coccifera. I principi chimici che conferiscono il colore sono l’acido carminico (cocciniglia) e l’acido chermesico (kermes) (fig. 41). Fig. 41 Acido carminico I e acido chermesico II, (da Artists’ Pigments A Handbook of Their History and Characteristics, Volume 1, Robert L. Feller Editor, National Gallery of Art, Washington, 1986) Il principio colorante deve essere estratto dall’insetto, prelevato dalla pianta e seccato (fig. 42). L’acido carminico e l’acido chermesico venivano estratti con acqua e liscivia ottenuta dalle ceneri di quercia. Per preparare la lacca corrispondente, al liquido filtrato dalla liscivia veniva aggiunto dell’allume di rocca: si otteneva così una massa colorata che, una volta seccata e macinata, costituiva la lacca da impiegare per dipingere (fig. 43). 47 Corso di Chimica analitica (a) Dott.ssa Claudia Pelosi (b) Fig. 42 Dactylopius Coccus, insetto seccato (a) e Kermes vermilio, insetto seccato (b), (da Artists’ Pigments A Handbook of Their History and Characteristics, Volume 1, Robert L. Feller Editor, National Gallery of Art, Washington, 1986) Fig. 43 A, B, C, differenti preparazioni di cocciniglia; D, lacca di cocciniglia chiara con allumina; E, lacca di cocciniglia scura con allumina; F, lacca di cocciniglia con composti dello stagno, (da Artists’ Pigments A Handbook of Their History and Characteristics, Volume 1, Robert L. Feller Editor, National Gallery of Art, Washington, 1986) L’indaco e il guado sono due coloranti blu utilizzati fin dall’antichità sia per tingere tessuti che come lacche per dipingere. Si ottengono da due specie di piante: l’Indigofera tinctoria, nel caso dell’indaco, e l’Isatis tinctoria, nel caso del guado (fig. 44). Fig. 44 Pianta dell’indaco e del guado, da Elisabeth Blackwell Sammlung der Gewächse (Nuremburg, 1754), (da Artists’ Pigments A Handbook of Their History and Characteristics, Volume 3, E. W. Fitzhugh Editor, National Gallery of Art, Washington, 1997) 48 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi La molecola dell’indaco presenta due metà legate insieme in posizione 2, secondo la struttura B (fig. 45). Oltre alle molecole dell’indaco, il materiale colorante contiene l’isomero indirubina, noto anche come indaco rosso, secondo la struttura C Fig. 45 Molecole dell’indaco (B) e dell’indirubina (C), (da Artists’ Pigments A Handbook of Their History and Characteristics, Volume 3, E. W. Fitzhugh Editor, National Gallery of Art, Washington, 1997) L’analisi di campioni estratti dalle piante produttrici di indaco ha messo in risalto la presenza di isatina (2,3-dichetoindolina o 2,3-indolindione, formula A), indicando il fatto che l’indirubina si forma durante la sintesi dell’indaco dall’isatina e l’indossile (formula E, fig. 46). Fig. 46 Molecole dell’isatina (A) e dell’indossile (E) che combinate portano alla formazione dell’indirubina, (da Artists’ Pigments A Handbook of Their History and Characteristics, Volume 3, E. W. Fitzhugh Editor, National Gallery of Art, Washington, 1997) L’indaco si forma dall’idrolisi enzimatica o acida dell’indicano (formula D), un glucoside dell’indossile. L’idrolisi porta alla formazione dell’indossile che viene poi 49 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi ossidato dall’ossigeno dell’atmosfera a leucoindaco incolore (formula F) e poi ad indaco (fig. 47). Fig. 47 Molecole dell’indicano (D) e del leucoindaco (F), (da Artists’ Pigments A Handbook of Their History and Characteristics, Volume 3, E. W. Fitzhugh Editor, National Gallery of Art, Washington, 1997) Le fonti principali dell’indaco sono le piante del genere Indigofera coltivate fra 20° e 30° di latitudine nord in India, a Java, Sumatra, Madagascar, Filippine, Cina, Giappone, Sud Africa, America centrale, Venezuela e Brasile. In passato le piante del guado (Isatis tinctoria) erano coltivate anche in Normandia, Provenza, Linguadoca, Inghilterra e Germania. Il colorante veniva estratto in acqua, lasciando macerare per circa nove ore (in acqua fredda) o per circa 3 ore (in acqua calda) le foglie della pianta. Il liquido ottenuto dopo l’estrazione veniva agitato in contatto con l’aria per favorire l’ossidazione e quindi la formazione dell’indaco. La miscela veniva poi filtrata e l’indaco, una volta essiccato, modellato a forma di piccoli mattoni (fig. 48). Fig. 48 Campione di indaco commerciale dall’India e varie stesure del cororante: A) indaco puro; B) indaco mescolato con bianco di titanio (TiO2) 1:2; C) indaco mescolato con bianco di titanio 1:4; D) indaco mescolato con bianco di titanio 1:9. In tutti i casi il legante è nitrocellulosa, (da Artists’ Pigments A Handbook of Their History and Characteristics, Volume 3, E. W. Fitzhugh Editor, National Gallery of Art, Washington, 1997) 50 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi 2.10 Teoria degli orbitali molecolari La teoria dell’orbitale molecolare (MO, Molecular Orbital theory) si applica a tutte le molecole e è in grado di fornire spiegazioni circa la possibile formazione o meno di una molecola. Un orbitale molecolare che è concentrato nella regione compresa tra i due nuclei atomici è detto orbitale di legame perchè gli elettroni di tale orbitale servono a legare insieme i due nuclei. Esistono anche orbitali che si annullanno nella regione tra i due nuclei e si concentrano invece sui lati esterni, questi orbitali sono detti orbitali di antilegame. Gli orbitali di antilegame si indicano con le stesse lettere greche degli orbitali di legame aggiungendo un asterisco: orbitali σ* e orbitali π*. Nel caso della molecola H2 i due elettroni occupano l’orbitale di legame 1σ, quindi la molecola è stabile. Nel caso della molecola He2 sono presenti quattro elettroni di legame: due occupano l’orbitale molecolare 1σ mentre gli altri due vanno nell’orbitale 1σ*. Gli elettroni dell’orbitale di legame tendono ad attrarre i due nuclei mentre gli elettroni di antilegame tendono a separarli: il risultato complessivo è che l’azione degli elettroni di antilegame annulla quella degli elettroni di legame e quindi non si produce alcun legame. Questo è in accordo con il fatto che non è stata mai osservata sperimentalmente la molecola He2. 2.11 Legame metallico e proprietà dei metalli Il legame metallico tiene uniti tra loro gli atomi nei metalli (ad esempio gli atomi di ferro in una sbarra di ferro). Un metallo può essere considerato come un reticolato di ioni positivi immersi in una specie di nube di elettroni. Il legame metallico è quindi dovuto alla forza di attrazione che si esercita tra gli ioni positivi e la nube di elettroni. Dato che ogni atomo è circondato da un numero troppo grande di altri atomi per poter scambiare elettroni, si ha la sovrapposizione degli orbitali atomici di ciascun atomo con la formazione di una nube di elettroni, liberi di spostarsi da un atomo all’altro. Si parla anche di banda dei livelli energetici o “mare”. Al di sopra di questi livelli energetici occupati si trova un livello totalmente o parzialmente occupato chiamato livello di Fermi in cui gli elettroni hanno la più alta energia cinetica6 di tutti gli elettroni di valenza del cristallo e possono essere accelerati da un campo elettrico e quindi occupare livelli vuoti appena superiori. La migrazione degli elettroni causata dal campo elettrico 6 L’energia cinetica viene definita come parte dell’energia di un corpo che è associata al suo moto, espressa come mv2/2, dove m è la massa del corpo e v la velocità con cui si muove. 51 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi costituisce la corrente elettrica. Questi elettroni del livello di Fermi sono quindi responsabili dell’elevata conducibilità elettrica e termica dei metalli e sono anche gli elettroni liberati dall’effetto fotoelettrico che si produce quando un fotone trasmette loro energia sufficiente per espellerli dalla superficie del metallo. Molti metalli presentano strutture cristalline altamente simmetriche e solo pochi mostrano strutture cristalline più complesse (Ga, In, Sn, Sb, Bi e Hg). La nuvola degli elettroni delocalizzata su tutto il cristallo costituisce un legame molto forte per gli atomi del metallo determinando degli elevati punti di ebollizione. I punti di fusione sono molto variabili: il gallio ad esempio fonde a 29,78 °C mentre il tungsteno, che è il metallo più alto-fondente, fonde a 3410 °C. Le celle elementari che costituiscono la maggior parte dei metalli sono di tipi molto limitati, precisamente tre: cubica a facce centrate, cubica a corpo centrato, esagonale (fig. 49). Le celle elementari sono gli elementi di base del reticolo cristallino: cubico a facce centrate, cubico a corpo centrato, esagonale. Il ferro ad esempio presenta un reticolo cubico a corpo centrato; il rame, come la maggior parte dei metalli, ha un reticolo cubico a facce centrate. Fig. 49 Modelli di celle elementari dei metalli: a) cella cubica facce-centrata; b) cella cubica corpocentrata; c) cella esagonale, (da M. Leoni, Elementi di metallurgia applicata al restauro delle opere d’arte. Corrosione e conservazione dei manufatti metallici, OpusLibri, Firenze, 1984) Litio, sodio, potassio, rubidio, cesio e francio sono i cosiddetti metalli alcalini (gruppo IA della tavola periodica degli elementi) hanno proprietà chimiche analoghe e sono considerati come un gruppo. Il nome metalli alcalini deriva dal fatto che i loro idrossidi 52 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi sono alcalini. I metalli alcalini sono abbastanza teneri da poter essere tagliati con un coltello, hanno punti di fusione abbastanza bassi e sono molto reattivi. Berillio, magnesio, calcio, stronzio, bario, radio sono invece i cosiddetti metalli alcalino-terrosi, hanno proprietà chimiche analoghe e sono considerati il gruppo IIA. I metalli alcalino terrosi quando vengono scaldati in presenza di ossigeno bruciano con fiamma brillante formando ossidi bianchi secondo la reazione: 2Mg(s) + O2(g) → 2MgO(s) Il minerale berillo, Be3 Al2Si6 O18, è la principale fonte di berillio ed è usato anche come pietra dura. Il calcio è un elemento molto reattivo e reagisce con l’ossigeno e con il vapor d’acqua. Tagliato di fresco, si corrode rapidamente se esposto all’aria (fig. 50). Come ione Ca2+, è un costituente essenziale delle ossa, dei denti, delle rocce calcaree (marmi, travertino, ecc), delle piante e delle conchiglie di organismi marini. Lo ione Ca2+ gioca un ruolo fondamentale nella contrazione muscolare, nella visione e nell’eccitazione nervosa. I sali di stronzio sono utilizzati nelle torce segnaletiche e nei fuochi d’artificio. Il colore rosso è dovuto dalla luce emessa dagli atomi di stronzio eccitati elettronicamente. Fig. 50 Calcio allo stato elementare. Come si vede nell’immagine di destra, il calcio si corrode rapidamente se esposto all’aria, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) I metalli del gruppo IIIA sono: alluminio, gallio, indio e tallio. L’alluminio è l’elemento metallico più abbondante nella crosta terrestre dove si trova sotto forma di vari silicati 53 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi (ad esempio i vari tipi di argille) ed in estesi giacimenti di bauxite, AlO(OH) da cui si ottiene per elettrolisi. L’alluminio reagisce con l’ossigeno per formare l’ossido, ma resiste alla corrosione proprio perché esso forma un sottile strato di ossido che lo protegge. È un metallo tenero, leggero e viene impiegato per la produzione di leghe leggere con silicio, rame e magnsio. Gallio, indio e tallio sono anch’essi metalli teneri, di colore bianco argenteo. I metalli del gruppo IVA sono piombo e stagno. Nei loro composti si presentano sia sotto forma di M(II) che M(IV), ad esempio PbO2, biossido di piombo o tenorite, di colore nero è un importante prodotto di alterazione della biacca (un carbonato basico di piombo utilizzato fin dall’antichità come pigmento bianco in pittura). Il piombo si ottiene principalmente dal minerale galena (PbS). Altri minerali di piombo sono l’anglesite (PbSO4) e la cerrusite (PbCO3, la forma naturale della biacca che invece veniva preparata artificialmente per reazione di ossidazione del piombo metallico con aceto di vino in recipenti chiusi; questo contiene acido acetico che reagendo con il Pb metallico forma acetato di Pb che esposto all’aria assume la formula del carbonato di Pb). Il piombo è resistente alla corrosione ma essendo un metallo molto tenero, viene quasi sempre utilizzato in lega. Il piombo è presente in molti dei pigmenti più utilizzati nella storia delle tecniche artistiche seppur i sali di piombo sono tossici e possono portare ad avvelenamento cronico. Ad esempio, oltre la biacca, molti pigmenti gialli, utilizzati come tali o nelle tecniche vetrarie e di produzione di smalti e invetriature: giallo di piombo e stagno in varie forme (stannati di piombo); litargirio e massicot (due pigmenti rispettivamente gialli e rosso-arancione a base di ossido di piombo); giallo di Napoli (antimoniato di piombo), minio (tetrossido di piombo, Pb3O4). Dell’era industriale sono poi i cromati di piombo, prodotti con molteplici sfumature di colore (PbCrO4). Lo stagno si trova principalmente nel minerale cassiterite SnO2. Il suo uso nella storia è certamente legato alla produzione del bronzo (una lega rame/stagno) e nelle tecniche vetrarie dove trovava uso come opacizzante per i vetri colorati oltre che colorante nei pigmenti gialli a base di piombo e stagno. L’unico metallo del gruppo VA è il bismuto, un metallo bianco rosato presente in natura sotto forma di bismutinite, Bi3S3. Viene utilizzato nella produzione di leghe che, contraendosi per riscaldamento, trovano impiego nella produzione di oggetti che 54 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi altrimenti potrebbero rompersi a causa della dilatazione termica (impianti antincendio, fusibili, valvole di sicurezza). Nella zona centrale della tavola periodica sono collocati i metalli di transizione le cui caratteristiche variano da gruppo a gruppo: tutti quanti però presentano un’elevata densità e punto di fusione elevato (fig. 51). Molti dei composti dei metalli di transizione, inoltre, sono colorati. I metalli di transizione, nel settore dei materiali dei beni culturali, sono molto importanti perché si ritrovano sia come tali (rame, ferro, oro, argento, ecc) o come leghe (bronzo, rame-stagno; ottone, rame-zinco, ecc.) in vari oggetti e sculture, ma anche nei composti più utilizzati come materiali coloranti (pigmenti). Fig. 51 I metalli della serie di transizione 3d. Da sinistra a destra: titanio (Ti), zinco (Zn), rame (Cu), nichel (Ni), cobalto (Co) sopra e scandio (Sc), vanadio (V), cromo (Cr), manganese (Mn) e ferro (Fe) sotto, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) Praticamente tutti i pigmenti inorganici sia di origine naturale che di sintesi contengono un metallo di transizione: azzurrite e malachite sono carbonati basici di rame (fig. 52); cinabro e vermiglione sono solfuri di mercurio; ocre rosse e gialle, terre di varia natura sono pigmenti contenti ossidi di ferro e manganese; smaltino contiene cobalto; blu egiziano è un silicato di calcio e rame; gialli, arancioni e rossi di cadmio sono solfuri di cadmio; cromati di piombo; blu di cobalto è un ossido di cobalto; e così via. I metalli di transizione interna sono costituiti da due serie dette dei lantanidi e degli attinidi all’interno delle quali si verifica il riempimento degli orbitali 4f e 5f. La serie dei lantanidi inizia con il lantanio (La, numero atomico 57). La serie degli attinidi inizia con l’attinio (Ac, numero atomico 89) 55 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi I lantanidi sono anche chiamati terre rare perchè si riteneva che fossero presenti solo in quantità molto piccole. Gli attinidi sono elementi radioattivi, la maggior parte di essi non si trova in natura ma è prodotta solo nel corso di reazioni nucleari. (a) (b) (c) (d) Fig. 52 Azzurrite [2CuCO3·Cu(OH)2]: (a) campione di minerale da miniere dell’Arizona; (b) sezione stratigrafica di un dipinto in una zona realizzata con azzurrite; (c) particelle di azzurrite al microscopio ottico-mineralogico, 270x polarizzatori paralleli; (d) stessa immagine di (c) ma con polarizzatori incrociati (da Artists’ Pigments A Handbook of Their History and Characteristics, Volume 2, Ashok Roy Editor, National Gallery of Art, Washington, 1993) 2.12 Leghe e diagrammi di stato Le leghe sono composti formati da elementi diversi ed aventi proprietà metalliche. Si ottengono mediante fusione di un metallo con almeno un altro elemento, metallo (ad esempio bronzo ottenuto da rame e stagno) o metalloide (ad esempio l’acciaio ottenuto da ferro e carbonio). Vi sono due tipi di leghe. Le leghe sostituzionali sono quelle in cui alcuni degli atomi metallici del reticolo cristallino sono costituiti da altri atomi, generalmente di dimensioni simili. Ad esempio l’ottone in cui circa un terzo degli atomi di rame che formano il reticolo cristallino sono sostituiti da atomi di zinco. Le leghe 56 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi interstiziali sono quelle dove gli atomi di uno o più elementi addizionali si collocano si collocano nei siti interstiziali del reticolo metallico ospitante. Un esempio è l’acciaio nel quale gli atomi di carbonio vanno ad occupare i siti interstiziali di un cristallo di ferro rendendo così il materiale più forte e duro del ferro puro. Leghe molto importanti sono quelle del rame: oltre all’ottone già visto, occorre ricordare il bronzo, a base di rame e stagno, impiegato fin dall’antichità per la statuaria e molti oggetti di vario tipo. Generalmente si ha completa miscibilità fra gli elementi fusi ma possono esserci anche casi di immiscibilità totale o parziale. Il comportamento delle leghe può essere descritto dai diagrammi di fase o diagrammi di stato a due componenti nel caso di leghe binarie, o da rappresentazioni a più dimensioni nel caso di leghe ternarie o superiori. I diagrammi di stato per un solo componente, come si vedrà meglio in seguito, sono dei grafici che rappresentano l’andamento della pressione in funzione della temperatura per un determinato materiale e quindi le fasi in cui esso può esistere e gli equilibri tra le varie fasi. Nel caso di diagrammi di stato a due componenti, oltre a pressione e temperatura, bisogna prendere in considerazione anche la concentrazione (frazione molare) di uno dei due componenti. Pertanto si considera costante la pressione totale e si ottiene un diagramma bidimensionale dove le variabili sono temperatura e composizione. I diagrammi di stato per le leghe si ottengono sperimentalmente facendo fondere le miscele, raffreddando il liquido ottenuto e riportando in grafico la temperatura in funzione della frazione molare di uno dei due componenti. In fig. 53 è riportato un ipotetico diagramma di stato binario nel quale fra i due elementi si ha una completa miscibilità allo stato liquido e, allo stato solido completa immiscibilità di B in A e solubilità parziale di A in B. La linea a-e-b è detta linea del liquidus e separa il campo di esistenza della fase liquida dai campi sottostanti di coesistenza delle fasi solide con la fase liquida. La linea c-e-d-b, detta linea del solidus, separa le sottostanti fasi solide dai campi di esistenza delle fasi liquide e solide. La linea d-f indica il limite di solubilità allo stato solido di A in B. Nel campo 1 è presente la fase liquida; nel campo 2 è presente A solido e fase liquida; nel campo 3 si ha la presenza di soluzione solida β (cioè di A in B) e di fase liquida; nel campo 4 è presente la soluzione solida β; infine, nel campo 5 si trova A solido e la soluzione solida β. Nel caso di completa miscibilità fra i due 57 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi elementi sia allo stato solido che allo stato liquido i diagrammi risultano estremamente semplici e sono costituiti soltanto dalla linea del liquidus e da quella del solidus. Fig. 53 Campi di esistenza delle varie fasi in un ipotetico diagramma di stato binario, (da M. Leoni, Elementi di metallurgia applicata al restauro delle opere d’arte. Corrosione e conservazione dei manufatti metallici, OpusLibri, Firenze, 1984) Un punto importante nei diagrammi di stato delle leghe è il punto E, punto di incontro dei due tratti delle linee del liquidus che indica la concentrazione e la temperatura eutettica del sistema. L’eutettico è il punto di contemporanea separazione dalla fase liquida di due fasi solide. Il sistema è invariante e pertanto la solidificazione avviene a temperatura costante (arresto eutettico). La parola eutettico deriva dal greco: εύτηκτος che significa facile a fondersi. Infatti, la lega con composizione eutettica fonde ad una temperatura più bassa di tutte le altre leghe dello stesso sistema. Per convenzione tutte le leghe a sinistra della composizione eutettica si dicono ipoeutettiche mentre quelle a destra si dicono ipereutettiche. Altri punti caratteristici che possono essere presenti in un diagramma di stato sono: punto peritettico, punto in cui avviene la reazione fra la fase liquida e una fase solida con separazione di una nuova fase solida. Il sistema è invariante e pertanto la solidificazione avviene a temperatura costante. Il punto sintettico è un punto caratteristico di sistemi con intervallo di miscibilità allo stato liquido in cui si ha la separazione di una fase solida per reazione fra due liquidi. Il sistema è invariante e pertanto la solidificazione avviene a temperatura costante. Il punto eutettoide è un punto in cui avviene la decomposizione di una fase solida in due nuove fasi solide. Il sistema è invariante e pertanto la trasformazione avviene a 58 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi temperatura costante. Solo poche coppie di metalli formano leghe descrivibili con diagrammi di stato relativamente semplici, tuttavia i diagrammi complessi si possono costruire dall’unione di più diagrammi di stato di forma semplice. Il più importante dei diagrammi binari complessi è quello formato da ferro e carbonio; il ferro è un metallo che è presente in diverse forme allotropiche cioè esiste con diversi reticoli cristallini a seconda della temperatura. 2.13 Legame dativo o di coordinazione Strettamente collegato con i metalli di transizione è il legame dativo o legame di coordinazione. Quando due atomi si uniscono tra loro con un legame covalente, ma la coppia di elettroni che forma il legame è fornita da uno solo dei due (donatore ) all'altro (accettore), il legame che si forma è detto dativo. L'atomo accettore partecipa al legame mettendo in comune uno o più orbitali vuoti. Un esempio è dato dalla molecola dell’ammoniaca (NH3). L’ammoniaca possiede sull’atomo d’azoto un doppietto di elettroni esterni non impegnati in legami ma contenuti all’interno di un orbitale p. L’ammoniaca può quindi formare legami dativi con atomi o cationi capaci di ricevere coppie di elettroni. In genere si tratta di metalli della serie di transizione che possiedono orbitali d vuoti. I complessi dei metalli di transizione sono specie chimiche in cui alcuni anioni o molecole neutre, dette leganti, sono coordinati ad un atomo o ad uno ione di un metallo di transizione dando origine ad una grande varietà di geometrie e di stati di ossidazione. Gran parte della chimica dei complessi dei metalli di transizione può essere compresa in termini di riempimento degli orbitali d del metallo (fig. 54). Viene definito numero di coordinazione il numero di atomi direttamente legati al metallo centrale. Il ferro, ad esempio, nello stato di ossidazione +2 reagisce con gli ioni cianuro, CN-, in soluzione acquosa formando lo ione complesso [Fe(CN)6]4- in cui gli ioni cianuro sono direttamente legati al ferro con una geometria ottaedrica (fig. 55). Se in una soluzione acquosa di questo complesso si aggiunge una sale solubile di ferro (ad esempio un cloruro ferrico, FeCl3) si forma un solido di colore blu scuro: si tratta di un importante pigmento ovvero del blu di Prussia, scoperto agli inizi del 1700. In particolare il blu di Prussia è un ferrocianuro ferrico Fe4[Fe(CN)6]3 e contiene il ferro in entrambi i suoi stati di ossidazione (2 e 3). E’ stato ampiamente usato in pittura dalla sua scoperta ai giorni nostri (fig. 56). 59 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Fig. 54 Forma e orientazione relativa dee cinque orbitali d, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) Fig. 55 Lo ione complesso [Fe(CN)6]4-, di colore giallo, è ottaedrico con numero di coordinazione 6, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) Gli ioni dei metalli di transizione in soluzione acquosa formano ioni complessi legandosi con le molecole dell’acqua. Ad esempio il nichel (II) in soluzione acquosa forma lo ione complesso ottaedrico [Ni(H2O)6]2+ di colore verde. Se alla soluzione si aggiunge ammoniaca NH3, il colore cambia da verde a blu violetto in seguito alla reazione: [Ni(H2O)6]2+(aq) + 6NH3(aq) = [Ni(NH3)]2+(aq) + 6H2O(l) 60 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi La reazione di cambiamento dei leganti è detta reazione di sostituzione dei leganti. (a) (b) Fig. 56 Blu di Prussia: (a) particelle di pigmento viste al microscopio ottico-mineralogico, 320x; (b) reticolo cristallino cubico all’interno del quale sono state individuate, attraverso studi di diffrattometria dei raggi X, molecole d’acqua di tre tipologie: acqua interstiziale, acqua di cristallizzazione, acqua adsorbita, (da Artists’ Pigments A Handbook of Their History and Characteristics, Volume 3, E.W. Fitzhugh Editor, National Gallery of Art, Washington, 1997) I complessi del rame con l’ammoniaca sono detti complessi cuproammoniacali e sono interessanti perché presentano un intenso colore azzurro che in antichità è stato anche sfruttato per ottenere dei pigmenti azzurri di sintesi (azzurriti artificiali) a costi inferiori rispetto all’azzurrite naturale. I complessi di coordinazione presentano diversi tipi di geometrie a seconda del metallo e dei leganti. Il grande numero e l’estrema varietà dei possibili complessi di coordinazione rendono indispensabile una loro nomenclatura sistematica. Una serie semplificata di regole per la denominazione dei complessi è la seguente: 1 – L’anione viene nominato prima del catione. Per esempio tetracianonichelato (II) di potassio, K2[Ni(CN)4]. 2 – In qualsiasi ione complesso o molecola neutra vengono indicati prima i leganti e poi il metallo. Se nel complesso vi è più di un legante, allora questi vengono indicati in ordine alfabetico. Per esempio, diamminodicloropalladio (II), [Pd(NH3)2Cl2]. 3 – I nomi dei leganti negativi terminano in –o, mentre quelli neutri conservano il nome della molecola neutra. Alcuni leganti comuni hanno nomi particolari, come aquo per l’acqua, ammino per l’ammoniaca, carbonile per il monossido di carbonio CO. 61 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi 4 – Il numero dei leganti viene indicato mediante il relativo prefisso greco, come di-, tri-, tetra-, penta-, esa-. 5 – Se lo ione complesso è un catione si usa il nome del metallo. Se lo ione complesso è un anione si usa il nome del metallo con la desinenza –ato. Esempio tetraclorocobaltato(II) [CoCl4]2-. 6 – Lo stato di ossidazione del metallo viene indicato con il numero romano tra parentesi dopo il nome del metallo. Alcuni leganti si possono legare ad un catione metallico centrale in più di una posizione di coordinazione. I leganti che si uniscono ad uno ione metallico in più di una posizione di coordinazione sono detti leganti polidentati o leganti chelanti. Il complesso risultante viene detto chelato. Alcuni esempi di leganti che si legano in due posizioni di coordinazione sono lo ione ossalato (abbreviato in ox) e l’etilendiammina (abbreviato in en) (fig. 57). Il legame di un legante chelante può essere immaginato come una pinza con leve molecolari che attanaglia lo ione metallico. Un legante chelante che si lega in due posizioni di coordinazione del metallo viene detto bidentato; uno che si lega in tre posizioni viene detto tridentato, e così via. Lo ione etilendiamminotetracetato, EDTA4-, è l’esempio meglio conosciuto di legante esadentato. L’EDTA lega fortemente un gran numero di ioni metallici ed ha una gran varietà di impieghi. Viene usato come antidoto contro l’avvelenamento da metalli pesanti, come piombo o mercurio; come conservante alimentare grazie all’azione complessante e disattivante sugli ioni metallici che catalizzano le reazioni di deterioramento del cibo; come reagente in chimica analitica nella determinazione della durezza delle acque; nel restauro come complessante del calcio per la rimozione di incrostazioni calcaree, in questo caso viene utilizzato il sale bisodico dell’acido per garantire un grado di acidità 62 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi non troppo invasivo per i manufatti su cui si va ad applicare. Per i leganti polidentati occorre aggiungere una settima regola di nomenclatura: 7 – Se il legante unito allo ione metallico è un legante polidentato il nome del legante viene posto tra parentesi e viene usato il prefisso bis per due leganti e tris per tre leganti. Tris(etilendiammina)cobalto(III), [Co(H2NCH2CH2NH2)3]3+. Fig. 57 Ioni complessi formati tra il cobalto e lo ione ossalato e l’etilen diammina, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) 2.14 Legame ponte a idrogeno Il legame o ponte a idrogeno è un legame intermolecolare molto importante che spiega le proprietà chimiche fisiche di numerosi solventi e le interazioni tra composti polari come l’acqua e una varietà di materiali organici ed inorganici. Quando l’atomo di idrogeno è unito a un atomo molto elettronegativo, la coppia di elettroni che forma il legame non è ugualmente ripartita fra i due atomi, ma è spostata verso quello più elettronegativo. Il legame che si viene a formare è di tipo covalente 63 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi polare e mentre l’atomo più elettronegativo presenta una parziale carica negativa l’atomo di idrogeno presenta una parziale carica positiva. In virtù di tale polarità, l’atomo di idrogeno potrà unirsi con un legame dipolo-dipolo, detto legame a idrogeno (indicato con il tratteggio), all’atomo elettronegativo di una molecola vicina (fig. 58). (a) (b) Fig. 58 Nell’acqua allo stato liquido (a) sono presenti moltissimi legami a idrogeno poiché l’ossigeno possiede due doppietti elettronici liberi e quindi può formare due legami idrogeno. Nella struttura cristallina del ghiaccio (b) ogni atomo di ossigeno si trova al centro di un tetraedro formato da altri quattro atomi di ossigeno e l’intera struttura è tenuta insieme da legami a idrogeno, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) L’atomo di idrogeno presenta una carica molto concentrata per le sue ridotte dimensioni e quindi riesce ad attrarre fortemente atomi elettronegativi presenti in molecole vicine. In particolare, l’atomo di idrogeno interagisce con la coppia solitaria di elettroni di un altro atomo (O, N o F). La presenza dei legami a idrogeno nell’acqua spiega le particolari caratteristiche di questo composto così importante per la vita sulla terra. In particolare l’alto punto di ebollizione, l’espansione di volume durante il congelamento e altre proprietà. La capacità dell’acqua di formare legami a idrogeno è anche molto importante nel settore dei beni culturali per la conservazione dei materiali in quanto la maggior parte di essi presenta affinità più o meno marcate per l’acqua che può innescare diversi processi di degrado. Ad esempio nei materiali lapidei (carbonati, silicati, solfati, ecc.) l’acqua penetra facilmente proprio grazie alla formazione di legami a idrogeno trasportando 64 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi spesso composti salini solubili o parzialmente solubili. In funzione poi di variazioni di temperatura, l’acqua può solidificare o evaporare provocando in un caso possibili fessurazioni per aumento di volume, nell’altro depositi di sali all’interno o all’esterno dei materiali lapidei. Nel caso di materiali organici, come ad esempio le sostanze di tipo proteico (colle animali, uovo, caseina) o il legno (cellulosa, lignina, emicellulosa, e altre sostanze), l’acqua può favorire lo sviluppo di microorganismi, che vanno ad attaccare le proteine o i costituenti del legno alterandone la struttura, e può causare anche variazioni dimensionali e deformazioni del materiale stesso per eccessivo assorbimento. 2.15 Interazioni dipolo-dipolo L’interazione dipolo-dipolo è determinata da una forza di natura elettrostatica che si manifesta tra le molecole polari. Ogni molecola polare, infatti, presenta un’estremità positiva e un’estremità negativa. La parte positiva attira a sé la parte negativa di una molecola vicina; le varie molecole risultano così legate l’una all’altra da una forza attrattiva di natura elettrostatica, detta appunto interazione dipolo-dipolo (fig. 59). Le interazioni dipolo-dipolo sono sufficientemente forti da influenzare numerose proprietà fisiche dei liquidi come punto di ebollizione, punto di fusione e, nei solidi, le orientazioni molecolari. Fig. 59 – Le forze dipolo-dipolo si manifestano fra molecole che possiedono dipoli permanenti. (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991). 2.16 Interazioni ione-dipolo Le molecole polari hanno la proprietà di orientarsi in un campo elettrico, rivolgendo le proprie estremità cariche verso le cariche di segno opposto. Se sciogliamo in un solvente polare (cioè formato da molecole polari, tipo H2O ) una sostanza ionica (tipo NaCl), questa sostanza si dissocia in ioni positivi e ioni negativi. Ciascuno ione crea nell’ambito delle soluzioni un campo elettrico e le molecole polari del solvente, attratte 65 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi dagli ioni, si orientano e circondano ogni ione di molecole polari (dipoli). In questo caso tra le molecole polari e gli ioni si stabilisce un’interazione ione-dipolo (vedi fig. 19). 2.17 Interazioni dipolo-dipolo indotto L’interazione dipolo-dipolo indotto si forma tra una molecola polare (tipo H2O, HCl, NH3, ecc.) o uno ione e una non polare (tipo Cl2, Br2, ecc.). Le molecole polari infatti si comportano da dipoli elettrici e, se si trovano vicine a molecole non polari, esercitano su di esse un’induzione elettrostatica tale da polarizzarle, rendendole così dei dipoli indotti. Tra i dipoli (molecole polari) ed i dipoli indotti (molecole inizialmente non polari) si stabilisce quindi l’interazione dipolo-dipolo indotto (fig. 60). Fig. 60 – Le forze dipolo-dipolo indotto si manifestano fra ioni o molecole che possiedono dipoli permanenti e molecole non polari, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991). 2.18 Interazioni dipolo indotto-dipolo indotto: forze di dispersione di London Questo tipo di forze di attrazione vennero introdotte per primo dal fisico tedesco Fritz London nel 1930 per spiegare l’attrazione tra molecole non polari. Le forze di London, dette anche forze di dispersione, sono dovute alla formazione di un dipolo temporaneo in molecole non polari, questo dipolo può indurre la formazione di altro un dipolo temporaneo nella molecola vicina: l’interazione si dice anche dipolo temporaneo – dipolo temporaneo (o istantaneo), (fig. 61). Le forze di dispersione nascono da fluttuazioni nel tempo nella distribuzione degli elettroni su due atomi o molecole adiacenti, fluttuazioni che inducono un dipolo istantaneo in un’altra molecola. 66 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Fig. 61 – Le forze di dispersione sono dovute alla formazione di un dipolo temporaneo in molecole non polari, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991). Le interazioni deboli tra atomi e molecole (dipolo-dipolo, dipolo-dipolo indotto e dipolo indotto-dipolo indotto) vengono anche denominate forze di van der Waals dal nome del fisico olandese che per primo le descrisse nei suoi calcoli sui gas. Egli individuò anche le forze di repulsione che entrano in gioco quando atomi o molecole si avvicinano strettamente tra loro. Le forze di repulsione traggono origine dalla forza di repulsione tra le nuvole elettroniche interne, quando atomi o molecole vengono forzate ad avvicinarsi tra loro. Quindi atomi e molecole si comportano come se avessero un guscio esterno rigido che limita la distanza a cui potrebbero avvicinarsi ad altri atomi o molecole. Il raggio di questo guscio rigido viene chiamato raggio di van der Waals: la distanza minima tra molecole in uno stato condensato è individuata dalla somma dei raggi di van der Waals dei loro atomi. 67 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi CAPITOLO 3 3.1 Lo stato gassoso Un gas non ha né volume né forma definiti ma si espande fino ad occupare tutto il recipiente che lo contiene, a differenza di un liquido che possiede un volume definito ma fluisce per adattarsi alla forma del recipiente che lo contiene e di un solido che invece presenta un volume e una forma definiti. Queste caratteristiche dipendono dalla posizione e dal moto delle molecole: in un gas le forze tra le molecole sono trascurabili e le distanze tra di esse molto grandi; in un liquido e in un solido, invece, le molecole hanno forze di attrazione tra loro e si trovano in stretto contatto. In un liquido però le molecole possono muoversi una rispetto all’altra mentre in un solido sono localizzate in posizioni definite dello spazio. I gas, da un punto di vista macroscopico, di distinguono dai liquidi e dai solidi per la loro bassa densità; da un punto di vista microscopico il numero di molecole per unità di volume è minore e quindi le distanze fra le molecole malto maggiori rispetto a liquidi e solidi. I gas principali presenti sulla terra sono quelli dell’aria (azoto N2, circa 78%, ossigeno O2, circa 21%, argon Ar, circa 0,9%, biossido di carbonio CO2 circa 0,03%, neon Ne, elio He, metano CH4, kripton Kr, idrogeno H2, ossido di diazoto N2O, xenon Xe e altri costituenti le cui abbondanze variano molto quali: acqua H2O, ozono O3, monossido di carbonio CO, biossido d’azoto NO2, biossido di zolfo SO2 anche in funzione dell’effetto antropico). Alcuni gas sono scarsamente o per niente reattivi mentre altri possono avere un comportamento acido e corrosivo. Ad esempio un gas come SO2, che deriva da processi biologici e dai vulcani ma soprattutto dalla combustione di petrolio e carbone, a contatto con l’ossigeno e radicali reattivi presenti nell’atmosfera forma triossido di zolfo, SO3, che, reagendo con il vapore acqueo, forma acido solforico H2SO4 producendo le piogge acide: queste, oltre ad essere dannose per la salute, provocano gravi danni ai manufatti lapidei esposti all’aperto, soprattutto quelli contenenti carbonato di calcio, come i marmi, il travertino, e in generale le pietre calcaree, in base al seguente processo chimico: CaCO3(s) + H2SO4(aq) → CaSO4(s) + H2O(l) + CO2(g) 68 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Il solfato di calcio, presente sui manufatti lapidei come forma idrata e noto come gesso, oltre ad essere più solubile del carbonato di calcio e quindi meglio trasportabile dall’acqua provocando così la lenta disgregazione delle strutture lapidee a base di carbonato di calcio, trattiene spesso particelle carboniose formando le ben note croste nere. Le tre proprietà utili a descrivere i gas sono: il volume (V), la pressione (P) e la temperature (T). La pressione è la forza che un gas esercita su ogni area delle pareti del recipiente in cui si trova. Può essere espressa in diverse unità di misura: in base al Sistema Internazionale è kg m-1 s-2 e si chiama pascal (Pa). L’altra unità molto utilizzata è l’atmosfera definita come 1,01325x105 Pascal, equivalente ad una colonna di 760 mm di Hg a 0°C. Altre unità abbastanza utilizzate sono: il bar (1bar = 105 Pa) soprattutto nelle previsioni metereologiche e il torr definito come 1 torr = 1/760 atm, oppure 760 torr = 1 atm. Uno strumento utilizzato in laboratorio per la misura della pressione è il manometro, un tubo di vetro ad U riempito di mercurio, liquido utilizzato per la sua alta densità e scarsa reattività. La pressione di un gas si misura rilevando l’altezza della colonna di mercurio determinata dall spinta esercitata dal gas sul mercurio. Poiché l’altezza si misura in mm, di solito la pressione è espressa in mm di mercurio. L’unità torr deriva dal nome dello scienziato Evangelista Torricelli che inventò il barometro, uno strumento dal funzionamento del tutto analogo a quello del manometro. Il primo studio sistematico sul comportamento dei gas fu condotto dallo scienziato irlandese Robert Boyle, intorno al 1660. Boyle dimostrò attraverso esperimenti di laboratorio, che, a temperatura costante, il volume di un gas è inversamente proporzionale alla pressione, ovvero il prodotto pressione x volume è una costante: PV = C (a T costante e quantità di gas costante) Boyle osservò anche che il prodotto PV dipendeva dalla temperatura, ma fu soltanto più di un secolo dopo che furono eseguiti esperimenti di laboratorio che permisero di trovare una relazione tra pressione, temperatura e volume, grazie a Jacques Charles, uno scienziato francese che dimostrò che esisteva una correlazione lineare tra temperatura e volume e definì una nuova scala di temperatura che rendesse conto di questa relazione, aggiungendo 273,15 alla scala Celsius. Quindi, a pressione costante: 69 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi V = kT, dove T è la temperatura assoluta, correlata alla temperatura in gradi centigradi t dalla relazione: T = 273,15 + t. Il valore 273,25 fu chiaramente determinato da prove sperimentali. La legge di Charles si esprime in genere con la seguente equazione: V = V0 (1 + t/273,15°C) dove V è il volume del gas alla temperatura t e V0 il volume al punto di congelamento dell’acqua. La temperatura t = -273,15 °C è detta zero assoluto e, in base alla legge di Charles, a questo valore il volume diventa uguale a zero. Quindi lo zero assoluto è la temperatura limite al di sotto della quale non si può scendere. Pertanto la temperatura dello zero assoluto diventa una scelta logica per il punto di zero di una scala di temperatura. Questa scala, che si ottiene aggiungendo 273,15 alla temperatura Celsius, è detta scala di temperatura Kelvin, dal nome dello scienziato inglese lord Kelvin che la propose. La temperatura T nella scala assoluta si misura quindi in kelvin (K). Nel 1809 Gay-Lussac osservò che i volumi con cui si combinano i gas nelle reazioni chimiche stanno tra loro in rapporti esprimibili da numeri interi piccoli: questa osservazione è nota come legge dei volumi di combinazione di Gay-Lussac. Nel 1811 Avogadro, interpretando la legge di Gay-Lussac, concluse che molti comuni elementi gassosi come idrogeno, ossigeno, azoto, cloro erano presenti in natura come molecole biatomiche piuttosto che come atomi singoli. Avogadro avanzò l’ipotesi che volumi uguali di gas, alla stessa pressione e temperatura, contenessero lo stesso numero di molecole: questa ipotesi è oggi accettata come legge di Avogadro e implica che volumi uguali di gas alla stessa temperatura e pressione contengono lo stesso numero di moli n. A questo punto, combinando la legge di Boyle, quella di Charles e quella di Avogadro, si ottiene la seguente espressione che lega temperatura, pressione, volume e moli di gas, detta legge dei gas ideali: PV = nRT Questa legge è valida per gas che si trovano a pressioni inferiori a quella atmosferica ed è tanto più corretta quanto più si diminuisce la pressione. R è una costante definita 70 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi costante dei gas. Sperimentalmente è stato determinato che 1 mole di gas ideale, a 0°C e 1,00 atm occupa un volume di 22,4 l (detto volume molare). Ricavando R dalla legge dei gas ideali e sostituendo i valori su indicati per T, P, V e n si ottiene: R = PV/nT = (1,00 atm) (22,4l) / (1,00 mol) (273,15K) = 0,0821 l · atm · mol-1 · K-1 Nello studio dei gas rivestono una grande importanze le miscele (come si è visto l’aria stessa è costituita da molti gas diversi). Viene definita pressione parziale di ciascuno dei gas la pressione che tale gas eserciterebbe sulle pareti se fosse presente da solo nel recipiente. La legge di Dalton (dal nome del suo scopritore) dice che la pressione totale è uguale alla somma delle pressioni parziali dei singoli gas. Anche questa legge è valida per i gas ideali. Se si considera una miscela di gas A, B, C, ecc., la pressione parziale di un singolo gas è data da: PA = nART/V, pertanto la pressione totale sarà: Ptot = PA + PB + PC + … = (nA + nB + nC + …) RT/V = ntot RT/V Dividendo la prima equazione per la seconda, si ottiene: PA/Ptot = nA/ntot oppure PA = (nA/ntot) Ptot Il rapporto XA = nA/ntot viene definito frazione molare di A nella miscela. Si ottiene così l’espressione della pressione parziale del componente A in funzione della sua frazione molare e della pressione totale: PA = XA Ptot La legge dei gas ideali è una legge empirica, derivata da osservazioni sperimentali, la cui semplicità e generalità portano a supporre che debbano esserci spiegazioni a livello microscopico che coinvolgano le proprietà di atomi e molecole di un gas. Nel XIX secolo, grazie soprattutto ai fisici Rudolf Clausius, James Clerk Maxwell e Ludwig Boltzmann, fu sviluppata la teoria cinetica dei gas basata sul moto degli atomi e delle molecole. La teoria cinetica non parte da prove sperimentali ma da ipotesi e modelli che 71 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi possono però spiegare le proprietà dei gas che si misurano. Le ipotesi di partenza della teoria cinetica dei gas sono: 1 – un gas puro consiste di un gran numero di molecole identiche separate da grandi distanze, paragonate alle dimensioni molecolari, che si possono quindi considerare trascurabili; 2 – le molecole del gas sono in continuo movimento in direzioni casuali e con una certa distribuzione di velocità; 3 – tra una collisione e l’altra le molecole non esercitano alcuna forza tra di loro e quindi si spostano secondo linee rette con velocità costante; 4 – le collisioni delle molecole di gas con le pareti del recipiente sono elastiche e quindi avvegnono senza perdita di energia. Attraverso una serie di calcoli è possibile trovare una relazione che lega la velocità delle molecole del gas con la temperatura: ū2 = 3RT/ M dove ū2 è la velocità quadratica media e M è la massa molare. La velocità quadratica media è data dalla somma delle medie dei quadrati, lungo le varie direzioni, delle velocità per un certo numero N di molecole. In conclusione, a prescindere dai calcoli, la teoria cinetica dice che la velocità quadratica media delle molecole di un gas è direttamente proporzionale alla temperatura e inversamente proporzionale alla loro massa. Un altro importante risultato della teoria cinetica, dovuto agli studi di Maxwell e Boltzmann, è l’equazione che esprime la distribuzione delle velocità f(u) chiamata distribuzione di Maxwell- Boltzmann. Per un gas con molecole di massa m alla temperatura T si ha: f(u) = 4π (m/2πkBT)3/2 u2 exp (-mu2/2kBT) dove kB è la costante di Boltzmann data da R/N0, dove N0 è il numero di molecole contenute in una mole di gas. In base a questa equazione, aumentando la temperatura si ottiene che tutta la distribuzione delle velocità si sposta verso valori più grandi. Ad ogni temperatura corrisponde una sola curva di distribuzione. 72 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Si è detto che la legge dei gas espressa dall’equazione PV = nRT è valida per sistemi ideali ovvero a densità e pressione basse. Per sistemi reali fu proposta da Johannes van der Waals nel 1873 un’altra equazione, detta equazione di stato di van der Waals: (P + a n2/V2) (V – n b) = nRT P = nRT/(V – n b) - a n2/V2 Questa equazione tiene conto anche delle forze che agiscono tra le molecole e che sono repulsive a corte distanze ed attrattive a grandi distanze. Per effetto delle forze repulsive, le molecole non possono sovrapporsi escludendo le altre molecole dal volume che occupano, quindi il volume effettivamente disponibile per una molecola non è V, ma (V – n b) dove b è una costante che esprime il volume escluso per ogni mole. Per effetto delle forze attrattive, invece, il numero di molecole indipendenti nel gas è inferiore e quindi si riduce il numero di collisioni che avvengono con le pareti del recipiente con conseguente diminuzione della pressione. Van der Waals ipotizzò che questo effetto, poiché dipende dalle coppie di molecole, fosse proporzionale al quadrato del numero di molecole per unità di volume, ovvero n2/V2, a rappresenta la costante di proporzionalità che dipende dall’intensità delle forze attrattive. Le costanti a e b, dette costanti di van der Waals, dipendono dal tipo di gas e hanno valori calcolati sperimentalmente. 3.2 Liquidi e solidi Un confronto tra gas, liquidi e solidi può essere fatto sulla base di quelle che vengono definite proprietà di massa ovvero proprietà associate all’arrangiamento complessivo delle molecole e che misurano la risposta dell’arrangiamento all’applicazione di una perturbazione esterna. L’interpretazione molecolare qualitativa delle proprietà di massa richiede solo l’analisi delle forze di attrazione a lungo raggio e delle forze di repulsione a corto raggio tra le molecole. Il volume molare rappresenta il volume di una mole di sostanza; nel caso dei solidi il valore è circa 10 cm3, per i liquidi è circa 100 cm3 mentre per i gas si arriva a circa 24.000 cm3: questa grande differenza spiega perché i liquidi e i solidi sono detti fasi 73 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi condensate. Nei solidi e nei liquidi le molecole si trovano a distanze molto ravvicinate, nell’ordine di 3-5 x 10-10 m, mentre nei gas le distanza sono dell’ordine di 30 x 10-10 m. La compressibilità si definisce come la diminuzione relativa di volume quando viene aumentata la pressione applicata. Anche in questo caso i gas differiscono significativamente dai solidi e dai liquidi: i primi, infatti, sono molto compressibili a causa delle grandi distanze che esistono tra le molecole e quindi di notevoli spazi; solidi e liquidi, invece, sono praticamente incompressibili in quanto le molecole si trovano già a stretto contatto le une con le altre. Il coefficiente di espansione termica è definito come l’aumento di volume di una sostanza per aumento di un grado di temperatura. I gas presentano valori di coefficiente di espansione termica molto maggiori rispetto ai liquidi e ai solidi: anche in questo caso la spiegazione è legata alla vicinanza tra le molecole che nel caso delle fasi condensate è elevata e quindi sono presenti alte forze di attrazione intermolecolari che richiedono molta energia per allontanare le molecole. Nel caso dei gas, invece, queste attrazioni sono assenti e quindi risulta facile allontanare le molecole ulteriormente. La proprietà più caratteristica dei gas e dei liquidi è la fluidità che contrasta con la rigidità dei solidi. I liquidi anche se possiedono volumi definiti, non hanno però forme proprie come i solidi, pertanto possono scorrere facilmente sotto sforzo. Si definisce viscosità la resistenza allo scorrimento di uno strato sottile di molecole rispetto ad un altro strato sottile. Altre proprietà importanti sono la durezza (resistenza all’incisione) e l’elasticità (capacità di recupero della forma quando viene rimosso lo sforzo di deformazione): i solidi presentano generalmente queste proprietà, i liquidi e i gas no. Un’altra proprietà interessante è la diffusione: quando due sostanze vengono poste a contatto, cominciano a mescolarsi ovvero le molecole dell’una diffondono nell’altra. Le molecole dei gas diffondono molto velocemente mentre nei liquidi e nei solidi le volocità sono di gran lunga inferiori. Il coefficiente di diffusione di una sostanza misura la velocità di mescolamento per diffusione di tale sostanza. Nei solidi la diffusione è molto lenta e decisamente inferiore rispetto a quella di liquidi e gas. Nei liquidi e nei gas il mescolamento avviene anche per convezione nella quale il flusso netto di un’intera zona del fluido rispetto ad un’altra provoca un mescolamento a velocità nettamente superiori rispetto a quelle che si hanno per semplice diffusione. La 74 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi convezione è il meccanismo fondamentale di mescolamento dei fluidi negli oceani e nell’atmosfera. Le superfici di separazione tra fasi diverse rivestono una grande importanza in chimica e biologia. La superficie dell’acqua o di qualsiasi altro liquido a contatto con l’aria o con qualsiasi altro gas, si oppone ai tentativi di aumento della sua area. Questo perché le molecole presenti sulla superficie del liquido sono attirate verso il basso dalle forze intermolecolari. La tensione superficiale fa si che la superficie si comporti come una debole pellicola elastica, essa è il risultato delle attrazioni intermolecolari tra le molecole di un liquido. L’acqua presenta una tensione superficiale superiore a quella della maggior parte dei liquidi, ma il liquido con il valore in assoluto più elevato di tensione superficiale è il mercurio che infatti tende sempre a raggrupparsi in goccioline proprio a causa delle forti attrazioni intermolecolari che determinano un’elevata tensione superficiale. 3.3 Concetto di tensione di vapore Come già detto all’inizio di questo testo i gas, i liquidi e i solidi sono fasi che possono coesistere. Si supponga, ad esempio, di introdurre dell’acqua in un recipiente chiuso in cui è stato fatto il vuoto. Il sistema viene, inoltre, mantenuto a 25 °C tramite un termostato. La pressione viene misurata tramite un manometro. Appena dopo l’introduzione dell’acqua nel recipiente, la pressione del vapore acqueo comincia ad aumentare fino ad assumere un valore stabile pari a 0,03126 atm che rappresenta la tensione di vapore dell’acqua a 25 °C. Il sistema raggiunge quindi uno stato di equilibrio nel quale non si osservano più cambiamenti macroscopici fino a quando esso resta isolato. Da un punto di vista molecolare, all’interno del contenitore avvengono dei processi che portano il sistema verso lo stato di equilibrio. Inizialmente la pressione al di sopra del liquido è molto piccola e le molecole lasciano la superficie del liquido per passare allo stato gassoso: questo processo di evaporazione determina un aumento della pressione del vapore acqueo. Man mano che le molecole nella fase vapore aumentano, comincia a verificarsi anche il processo inverso, ovvero ci saranno molecole che urtando la superficie del liquido vi restano legate per effetto delle forze intermolecolari di attrazione: si verifica quindi il processo di condensazione. La velocità di condensazione aumenterà fino a diventare uguale a quella del processo di evaporazione: 75 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi il sistema ha raggiunto l’equilibrio di fase, caratterizzato da un ben preciso valore della pressione del vapore acqueo (fig. 62). Fig. 62 Raggiungimento dell’equilibrio nei processi di evaporazione e condensazione, (da David W. Oxtoby, H.P. Gillis, Norman H. Nachtrieb, Chimica moderna, EdiSES, Napoli, 2001) Quindi la tensione di vapore di un liquido può essere definita come la pressione di vapore all’equilibrio ovvero quando la velocità di evaporazione del liquido diviene uguale a quella di condensazione del vapore. All’equilibrio la tensione di vapore del liquido è costante e si chiama tensione di vapore all’equilibrio. La tensione di vapore di un liquido dipende dalla temperatura. In particolare maggiore è la temperatura, maggiore è la tensione di vapore. Questo perché maggiore è la temperatura tanto più è veloce il movimento delle molecole in fase liquida e quindi maggiore è la velocità di evaporazione. 3.4 Transizioni di fase e diagrammi di fase I tre stati della materia possono dar luogo a sei transizioni di fase. Solido → liquido FUSIONE Liquido → solido CONGELAMENTO Liquido → gas EVAPORAZIONE Gas → liquido CONDENSAZIONE Solido → gas SUBLIMAZIONE Gas → solido DEPOSIZIONE 76 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi La temperatura di ebollizione di un liquido è la temperatura alla quale la tensione di vapore del liquido diventa uguale alla pressione atmosferica. Quindi la temperatura di ebollizione di un liquido varia in funzione della pressione esterna. Il comportamento di un sistema con un solo componente può essere descritto dai diagrammi di fase che sono dei grafici in cui viene riportato l’andamento della pressione in funzione della temperatura per un determinato materiale e quindi le fasi in cui esso può esistere e gli equilibri tra le varie fasi. Il diagramma di fase dell’acqua (fig. 63), ad esempio, mostra contemporaneamente la curva di tensione di sublimazione (in grigio), quella di tensione di vapore (in rosso) e quella del punto di fusione (in blu). Le linee di equilibrio di fase sono i confini tra le regioni di stabilità delle fasi solida, liquida e gassosa. Il punto in cui le tre curve si intersecano (4,58 torr e 273,16 K) è detto punto triplo: in questo punto coesistono tutte e tre le fasi. Fig. 63 Diagramma di fase dell’acqua, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) La quantità di vapore acqueo presente nell’atmosfera si esprime in termini di umidità relativa. L’umidità relativa è il rapporto tra la pressione parziale del vapore acqueo nell’atmosfera e la tensione di vapore dell’acqua alla stessa temperatura x 100. La 77 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi temperatura dell’aria a cui l’umidità relativa raggiunge il 100% e detta punto di rugiada. 3.5 Proprietà delle soluzioni Una soluzione è una miscela di due o più sostanze, uniforme a livello molecolare. Una soluzione deve essere omogenea, cioè deve avere le medesime proprietà in ogni sua parte. Esistono diversi tipi di soluzioni, a seconda dello stato fisico in cui si trovano i componenti; nella tabella che segue sono riportati vari tipi di soluzioni con indicato lo stato fisico dei componenti iniziali e della soluzione finale. Componente 1 Componente 2 Soluzione Esempi gas gas gas aria, miscela aria/benzina nel motore a scoppio gas liquido liquido O2 in acqua, CO2 nelle bevande gassate gas solido solido H2 su Pt e Pd liquido liquido liquido acqua ed alcol, miscele varie di solventi liquido solido solido amalgama di mercurio con oro o argento solido liquido liquido cloruro di sodio in acqua solido solido solido leghe metalliche Nel caso di una soluzione solido – liquido il componente predominate è detto solvente mentre quelli presenti in quantità minori sono detti soluti. La concentrazione di un soluto in una soluzione indica la quantità di soluto sciolto in una certa quantità di solvente generalmente espressa come molarità (vedi par. 1.4). La solubilità implica un equilibrio chimico, ad esempio l’equilibrio che coinvolge il passaggio degli ioni di un sale (es. NaCl) in soluzione acquosa e la loro cristallizzazione a formare nuovamente il sale è un equilibrio dinamico. La solubilità è la quantità massima di una sostanza che può essere disciolta in una certa quantità di solvente ad una determinata temperatura. In queste condizioni si dice che la soluzione è satura: un’ulteriore piccola aggiunta di sostanza provoca la formazione di un precipitato che viene spesso detto corpo di fondo. Sebbene il soluto e il solvente possano essere qualsiasi combinazione di fasi solide, liquide e gassose, l’acqua allo stato liquido rappresenta senza dubbio il solvente più conosciuto e importante e quindi viene dato maggiore risalto alle soluzioni acquose, tenendo però in considerazione il fatto che la dissoluzione può avvenire in molti altri solventi. Esistono diverse specie che possono disciogliersi in acqua. Le sostanze 78 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi molecolari polari vengono facilmente portate in soluzione acquosa. Un esempio è rappresentato dagli zuccheri come il saccarosio, il fruttosio, il ribosio, ecc. che grazie alla presenza di numerosi gruppi –OH (idrossili) possono formare legami a idrogeno e interazioni dipolo-dipolo con le molecole d’acqua. Quando un solido ionico si scioglie in acqua gli ioni si allontanano dai loro siti nel solido in cui essi erano attratti fortemente da ioni di carica elettrica opposta. Nuove forti attrazioni rimpiazzano quelle perdute perché ciascuno ione viene circondato da un gruppo di molecole d’acqua (fig. 64, esempio del solfato di potassio). In questo caso le interazioni in gioco sono di tipo ione-dipolo. Fig. 64 Processo di solubilizzazione del solfato di potassio, (da David W. Oxtoby, H.P. Gillis, Norman H. Nachtrieb, Chimica moderna, EdiSES, Napoli, 2001) La solubilità di un gas in un liquido viene descritta dalla legge di Henry in base alla quale la pressione parziale Pgas di un gas in contatto con il liquido è direttamente proporzionale alla molarità del gas Mgas. Ovvero la solubilità del gas è direttamente proporzionale alla sua pressione parziale. 79 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Pgas = khMgas kh è la costante della legge di Henry e dipende dal tipo di gas, dal solvente e dalla temperatura. Per alcune soluzioni è stato dimostrato dal chimico francese François-Marie Raoult che la tensione di vapore del solvente è direttamente proporzionale alla frazione molare del solvente stesso, ovvero che l’andamento della tensione di vapore del solvente in funzione della sua frazione molare è descritto da una retta: P1 = X1P10 Questa relazione è nota come legge di Raoult e vale nel caso di soluti non volatili, ovvero per i quali la tensione di vapore sopra la soluzione sia trascurabile. P10 è la tensione di vapore del solvente puro e X1 è la sua frazione molare. Le soluzioni che soddisfano la legge di Raoult si dicono soluzioni ideali. La legge di Raoult costituisce la base per interpretare quattro proprietà delle soluzioni diluite note come proprietà colligative poiché esse dipendono soltanto da numero delle particelle in soluzione e non dalla loro natura. Queste proprietà sono: - abbassamento della tensione di vapore della soluzione rispetto a quella del solvente puro; - innalzamento ebullioscopico; - abbassamento crioscopico; - pressione osmotica. Per una miscela a due componenti X1 + X2 = 1, ovvero X1 = 1 - X2 e quindi la legge di Raoult può essere scritta come: ΔP = P1 - P10 = X1 P10 - P10 = - X2 P10 Da questa equazione risulta che la variazione di tensione di vapore del solvente è proporzionale alla frazione molare del soluto. Il segno negativo indica che si ha un abbassamento della tensione di vapore della soluzione rispetto al solvente puro. 80 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi L’altra importante proprietà colligativa è l’innalzamento ebullioscopico ovvero l’aumento della temperatura di ebollizione di una soluzione rispetto al solvente puro. Si esprime con la seguente relazione: ΔTb = Kb m Dove ΔTb è l’innalzamento del punto di ebollizione della soluzione rispetto al solvente puro, m è la molalità della soluzione, ovvero le moli di soluto in 1000 g di solvente e Kb la costante ebullioscopica che dipende dal tipo di solvente. Il fenomeno dell’innalzamento ebullioscopico può essere sfruttato per misurare le masse molari di una sostanza poiché, nota la costante Kb, dalla misura della variazione di temperatura si può ricavare m. L’abbassamento crioscopico rappresenta l’abbassamento del punto di congelamento di una soluzione rispetto al solvente puro. Si esprime con la seguente relazione: ΔTf = - Kf m Dove ΔTf è l’abbassamento del punto di congelamento della soluzione rispetto al solvente puro, m è la molalità della soluzione e Kf la costante crioscopica che dipende solo dalle proprietà del solvente. Come l’innalzamento ebullioscopico, anche l’abbassamento crioscopico può essere sfruttato per misurare le masse molari di una sostanza poiché, nota la costante Kf, dalla misura della variazione di temperatura si può ricavare m. La quarta proprietà colligativa è particolarmente importante in biologia cellulare perché svolge un ruolo fondamentale nel trasporto di molecole attraverso le membrane cellulari. Queste membrane sono semipermeabili perché consentono il passaggio selettivo delle molecole (ad esempio permettono il passaggio di molecole piccole come l’acqua ma non di grosse macromolecole come le proteine e i carboidrati). Prendiamo ad esempio una soluzione contenuta in un tubo capovolto che all’estremità inferiore è ricoperto da una membrana semipermeabile e sia c la concentrazione del soluto in moli per litro di soluzione. Quando l’estremità inferiore del tubo viene immersa in un recipiente contenente il solvente puro, il solvente passa dal recipiente al tubo attraverso 81 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi la membrana. Il volume della soluzione aumenta e questa risale lungo il tubo fino a raggiungere, all’equilibrio, un altezza h sopra il livello del solvente puro. La pressione nella soluzione è maggiore di quella presente nel solvente puro, ovvero la pressione atmosferica, e la differenza tra le due pressioni è detta pressione osmotica indicata dalla lettera greca π ed espressa dalla seguente relazione: π = cRT relazione scoperta dal chimico Jacobus van’t Hoff nel 1887. R è la costante dei gas e T la temperatura assoluta. Considerando che la concentrazione c può essere espressa come moli su volume n/V, si ottiene: πV = nRT che ricorda molto la legge dei gas ideali. Da misurazioni della pressione osmotica, come per le altre proprietà colligative, è possibile ottenere la massa molare di una sostanza disciolta in soluzione. Un colloide è una miscela di due o più sostanze in cui una fase è sospesa in una seconda fase. Le particelle colloidali sono molto più grandi delle molecole in una soluzione ma comunque piccole per poter essere rivelate ad occhio nudo. Le loro dimensioni sono dell’ordine di 10-9 – 10-6 m. Possono essere rivelate tramite l’effetto di diffusione che provocano su un fascio luminoso. In molti colloidi le particelle possiedono una carica netta positiva o negativa sulla loro superficie, bilanciata da una carica opposta di ioni in soluzione. La sedimentazione di questi colloidi può essere favorita sciogliendo dei sali nel mezzo disperdente: tale processo è detto flocculazione. Le particelle in sospensione si trovano in continuo stato di moto detto moto browniano dal nome del botanico scozzese Robert Brown che attraverso il microscopio osservò e descrisse per primo il moto di particelle di polline in acqua. 82 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi 3.6 Conducibilità delle soluzioni Una soluzione ionica conduce corrente elettrica per mezzo del moto degli ioni nella soluzione e la misurazione di quanto conduce la soluzione si può effettuare immergendo due elettrodi nella stessa e misurando la sua resistenza. La resistenza misurata dipende dai seguenti fattori: A – l’area supeficiale degli elettrodi; B – la forma degli elettrodi; C – la posizione relativa degli elettrodi in soluzione; D – l’identità delle specie in soluzione; E – la concentrazione delle specie in soluzione; F – la temperatura. Nella pratica la resistenza è convertita come se la misurazione fosse stata condotta in una cella di volume 1 cm3 tra due elettrodi piani ciascuno di 1 cm2 affacciati parallelamente ad una distanza di 1 cm. Questa misurazione di resistenza in una geometria specifica è detta resistività. Il reciproco della resistività è detta conducibilità o conduttanza specifica oppure conduttività. Quella branca dell’elettrochimica che si occupa di misurare la conducibilità delle soluzioni è detta conduttimetria. Una soluzione acquosa di solfato di potassio, ad esempio, conduce l’elettricità. Quando lamine metalliche (elettrodi) elettricamente caricate da una batteria vengono messe nella soluzione, gli ioni positivi (K+) migrano verso la lamina negativa, e gli ioni negativi (SO42-) verso la lamina positiva (fig. 65). Fig. 65 Soluzione acquosa di solfato di potassio con elettrodi, (da David W. Oxtoby, H.P. Gillis, Norman H. Nachtrieb, Chimica moderna, EdiSES, Napoli, 2001) 83 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Nella tabella che segue sono riportate le grandezze importanti in conduttimetria. Grandezza Unità di misura Simbolo Resistenza (R) ohm Ω Conduttanza ohm-1 = mho = siemens Ω-1 = Ω-1 = S Resistività (ρ) ohm centimetro, ohm metro Ω cm, Ω m Conduttività (κ) mho cm-1, siemens cm-1 Ω-1 cm-1 = S cm-1 = S m-1 Le misure di conducibilità sono importanti in molti campi, in particolare: - contaminazione delle acque - contenuto di sali in caldaie e impianti in genere - concentrazione degli ioni nell’effluente di una colonna per cromatografia ionica - concentrazione di acidi in soluzioni utilizzati in processi industriali - concentrazione di fertilizzanti liquidi appena il fertilizzante è applicato - controllo della presenza di sali solubili in strutture lapidee, murature, dipinti murali, ecc. - controllo dei processi di rimozione dei sali solubili da dipinti murali e materiali lapidei in genere. 3.7 Proprietà dei cristalli I cristalli possono essere classificati in base ai legami chimici tra gli atomi, gli ioni o le molecole che li costituiscono ma anche in base ai tipo e al numero degli elementi di simmetria che possiedono nella loro struttura. Gli elementi di simmetria principali sono: il centro di simmetria, l’asse di rotazione e il piano di simmetria o di riflessione. Un’operazione di simmetria produce il ricoprimento dell’oggetto a cui è applicata ovvero tutti i punti originali vengono ricoperti dagli analoghi od equivalenti punti dello stesso oggetto. Le strutture cristalline sono formate da un reticolo tridimensionale ordinato, il reticolo cristallino, nel quale l’unità ripetitiva più piccola che può essere usata per generare l’intero cristallo è detta cella elementare. Gli elementi geometrici che descrivono la cella elementare, lati e angoli, sono detti costanti di cella. E’ convenzione generale in cristallografia scegliere, tra tutte le possibili celle, quelle che hanno volume minore e che sono dette celle semplici o primitive (cubico, tetragonale, 84 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi ortorombico, trigonale, esagonale, monoclino, triclino). Celle elementari non primitive necessarie in cristallografia sono: a corpo centrato, a facce centrate e a basi centrate. La scoperta dei raggi X nel 1895 da parte di Wilhelm Roengten, permise ai cristallografi di avere uno strumento molto potente per studiare le strutture cristalline che fino a quel momento erano state osservate solo attraverso il microscopio. Max von Laue ebbe, infatti, l’originale idea che i cristalli potevano comportarsi come dei reticoli per la diffrazione dei raggi X, radiazioni elettromagnetiche con lunghezza d’onda dello stesso ordine di grandezza delle distanze interplanari. Max von Laue ricevette il premio Nobel nel 1914 per la sua teoria sulla diffrazione dei raggi X. Nello stesso periodo W.H. Bragg e il figlio W.L. Bragg proposero un metodo più semplice per interpretare la diffrazione dei raggi X da parte dei cristalli. L’applicazione della legge di Bragg permise per la prima volta la determinazione della struttura cristallina del cloruro di sodio e del cloruro di potassio e valse agli studiosi il premio Nobel nel 1915. Quando i raggi X attraversano un cristallo essi interagiscono con gli atomi e vengono deviati; le radiazioni uscenti si combinano o meglio interferiscono costruttivamente, rafforzandosi, o distruttivamente, annullandosi. L’interferenza costruttiva si ha quando il cammino percorso dalle onde che interferiscono differisce di un multiplo intero di lunghezze d’onda. La legge di Bragg lega le lunghezze d’onda λ con la distanza d tra i piani reticolari e con l’angolo θ di incidenza dei raggi X mediante la seguente relazione: nλ = 2 d sen θ n = 1, 2, 3, … Per avere interferenza costruttiva delle onde diffratte la distanza percorsa dalle onde deve essere un multiplo intero di lughezze d’onda. Gli angoli θ sono detti angoli di Bragg e vengono utilizzati per determinare le costanti di cella. Facendo ruotare il cristallo attorno ad opportune orientazioni è possibile determinare i valori di d per diversi piani cristallini. Infine, le intensità dei raggi diffratti permettono di determinare la posizione degli atomi all’interno della cella del cristallo. La struttura cristallina più semplice è sicuramente il reticolo cubico primitivo riscontrato soltanto nel polonio (elemento chimico con Z = 84, gruppo VIA della tavola periodica). I metalli alcalini cristallizzano nel reticolo cubico a corpo centrato (b.c.c., body centered cell) mentre altri metalli come alluminio, nichel, rame e argento 85 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi cirstallizzano nel reticolo cubico a facce-centrate (f.c.c., face centered cell). Nei cristalli gli atomi, gli ioni o le molecole sono disposte in siti relativamente rigidi e gli spazi tra di loro sono ridotti. Tuttavia esistono degli spazi vuoti che presentano geometrie ben definite, determinate dalla struttura del cristallo e sono detti siti interstiziali. Questi siti sono molto importanti soprattutto per cristalli che contengono atomi di tipo diverso quindi con raggi notevolmente differenti. I cristalli possono essere classificati in relazione ai legami chimici presenti come: cristalli molecolari, ionici, metallici e covalenti. I cristalli molecolari sono quelli formati dai gas nobili, da O2, N2, alogeni, CO2, alcuni alogenuri metallici, Al2 Cl6, FeCl3, BiCl3 e la grande maggioranza dei composti organici (fig. 66). Le forze che tengono unite le molecole in questo tipo di cristalli sono le tipiche forze intermolecolari già discusse in precedenza (forze di van der Waals); trattandosi di forze deboli, i cristalli molecolari hanno bassi punti di fusione, sono teneri e si deformano facilmente. (a) (b) Fig. 66 (a) Cella elementare della CO2, (b) mappa di densità elettronica dell’acido benzoico ottanuta da misure di diffrazione dei raggi X, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) I cristalli ionici sono formati dagli ioni degli elementi che li costituiscono. Composti ionici sono gli alogenuri dei metalli alcalini (tranne del cesio) che cristallizzano nel sistema cubico a facce centrate. Altri composti che presentano questo tipo di reticolo sono gli alogenuri d’ammonio, gli ossidi e i solfuri dei metalli alcalino-terrosi. Quando il rapporto tra il raggio del catione e quello dell’anione, come negli alogenuri di cesio, supera 0,732, la struttura cristallina più stabile è quella nota appunto come struttura del cloruro di cesio. Si tratta di una struttura che può essere descritta da due 86 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi celle cubiche primitve compenetrate tra di loro. Quando invece il rapporto tra il raggio del catione e quello dell’anione diventa minore di 0,414, la struttura stabile è quella della blenda cubica o sfalerite (dal nome del solfuro di zinco, primo rappresentante di questa classe, ZnS), nella quale gli ioni solfuro, S2-, formano un reticolo cubico f.c.c mentre gli ioni zinco, Zn2+, occupano metà dei siti interstiziali tetraedrici disponibili. La fluorite (CaF2) presenta una struttura ancora diversa: i cationi formano un reticolo f.c.c. mentre gli anioni occupano tutti gli otto siti interstiziali tetraedrici disponibili in modo che la cella unitaria contiene quattro ioni Ca2+ e otto ioni F-. I valori dei rapporti tra i raggi degli ioni (0,732 e 0,414) non sono numeri casuali ma sono calcolati sulla base delle dimensioni delle celle elementari e dei possibili siti interstiziali, considerando gli ioni come sfere rigide ed incomprimibili. I cristalli ionici, grazie alle notevoli forze di attrazione elettrostatica tra gli ioni, sono solidi duri, con alte temperature di fusione ed assai fragili. I cristalli metallici sono già stati discussi al par. 2.11, a proposito del legame metallico. Infine, i cristalli covalenti sono quelli dove gli atomi si legano con legami di tipo covalente. L’esempio principale è il diamante che appartiene al sistema cubico a facce centrate. Ciascun atomo di carbonio del diamante presenta quattro orbitali ibridi di tipo sp3 orientati verso i vertici di un tetraedro. Ciascuno di questi orbitali ibridi si lega all’orbitale sp3 di un altro atomo di carbonio con un legame covalente di tipo σ. Quindi, ciascun atomo di carbonio si lega con altri quattro atomi di carbonio, attraverso legami covalenti, disposti ai vertici di un tetraedro. Questo tipo di cristalli fonde a temperature molto alte, proprio per la forza notevole del legame covalente, sono molto duri e fragili. La forma del carbonio stabile termodinamicamente a temperatura ambiente non è però il diamante ma la grafite, formata da strati di atomi di carbonio organizzati, all’interno di ciascuno strato, in anelli esagonali. Gli atomi di carbonio si legano tra di loro con orbitali ibridi sp2, formando quindi legami σ; l’orbitale p che resta a ciascun atomo di carbonio va a formare dei legami π tra gli strati, estesi su tutto il piano. Gli elettroni π delocalizzati su tutto lo strato rendono la grafite un ottimo conduttore, quasi quanto un metallo. I cristalli possono presentare dei difetti: vacanze, poiché manca un atomo dal sito del reticolo; difetti interstiziali perché un atomo si trova in un sito diverso da quello che normalmente occupa. Queste due tipologie di difetti possono anche coesistere in uno 87 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi stesso cristallo: in questo caso si parla di difetto di Frenkel. Nei cristalli reali solo una piccola parte dei normali siti reticolari risulta non occupata: tali vacanza sono dette difetti di Schottky e la loro quantità dipende dalla temperatura. In alcuni casi i difetti dei cristalli ionici portano alla formazione di strutture colorate: per assorbimento di radiazione ad energia elevata è possibile che uno ione negativo perda un elettrone diventando così un atomo neutro che non viene più trattenuto nel cristallo dalle forze elettrostatiche poiché privo di carica e può quindi sfuggire. L’elettrone rimasto migra fino ad incontrare una vacanza anionica dove resta intrappolato per attrazione dei cationi circostanti. Questo difetto cristallino è detto centro-F (ovvero centro di colore) poiché fa si che il cristallo risulti colorato. 3.8 I solidi amorfi I solidi amorfi seppur spesso presentino proprietà chimiche, meccaniche, elettriche e magnetiche simili a quelle dei cristalli, non hanno però a livello atomico la struttura regolare tipica dei solidi cristallini. I solidi amorfi possono contenere atomi uniti da legami molecolari, ionici, covalenti o metallici. Un esempio di solido amorfo è il vetro che, nelle comuni finestre, presenta una composizione approssimativa del tipo: Na2O · CaO · (SiO2)6. I legami presentano sia caratteristiche ioniche che covalenti, infatti gli ioni Na+ e Ca2+ si trovano all’interno di una maglia formata da legami Si-O che hanno caratteristiche di covalenza. Per ottenere strutture amorfe come quella del vetro occorre raffreddare velocemente una sostanza liquefatta in modo che questa non abbia il tempo di cristallizzare. La temperatura alla quale si verifica la trasformazione del liquido sottoraffreddato allo stato di solido vetroso è detta temperatura di transizione vetrosa ed è solitamente indicata con la sigla Tg. Infatti, l’aumentata viscosità del liquido comporta ad un certo punto la difficoltà delle molecole e degli ioni di organizzarsi. La trasformazione non si verifica nettamente come per un passaggio liquido-cristallo, ma avviene in un certo intervallo di temperatura. 88 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi CAPITOLO 4 4.1 Cenni di termodinamica In questo capitolo verrà trattato l’equilibrio chimico ovvero lo stato in cui si portano molte reazioni nel quale prodotti e reagenti sono presenti in rapporti definiti. La condizione di equilibrio, come si vedrà, è descritta quantitativamente dalla costante di equilibrio che dipende dalla temperatura a cui la reazione è effettuata. Prima di descrivere gli equilibri chimici è però opportuno fare alcuni cenni di termodinamica, scienza che misura calore e temperatura e permette di predire la costante di equilibrio dalle proprietà fisiche di reagenti e prodotti. In termodinamica esistono poche leggi che permettono però di riassumere una grande varietà di comportamenti sperimentali. La termodinamica prende in considerazione le proprietà macroscopiche di un sistema le quali possono essere misurate. Lo scopo è quello di prevedere quali processi chimici e fisici sono possibili e in quali condizioni e di calcolare quantitativamente le proprietà dello stato di equilibrio. In termodinamica è importante la terminologia impiegata poiché, facendo uso di modelli, ciascun termine ha un preciso significato. In termodinamica un sistema è una porzione dell’universo su cui si esegue un determinato esperimento. Un sistema contiene sempre una certa quantità di materia ed è descritto da parametri che sono definiti durante l’esperimento. Un sistema chiuso è quello che non permette lo scambio di materia con l’esterno. Un sistema si dice invece aperto quando i suoi confini permettono lo scambio di materia con l’esterno. Tutto ciò che esiste al di fuori del sistema e con il quale esso può scambiare materia ed energia è detto ambiente. Il sistema e il suo ambiente costituiscono l’universo termodinamico per un determinato processo in esame. In un sistema termodinamico si possono definire due tipologie di proprietà: estensive ed intensive. Le proprietà estensive sono quelle ottenute come somma delle proprietà dei vari sottosistemi in cui il sistema principale è suddiviso. Volume, massa ed energia sono proprietà estensive. Le proprietà intensive presentano invece lo stesso valore della corrispondente proprietà in ciascuno dei sottosistemi. La temperatura e la pressione sono tipiche proprietà intensive: se un sistema ad esempio ha una temperatura di 298 K ed è suddiviso in tre parti, la temperatura in ciascuna parte è sempre 298 K. Uno stato termodinamico è una condizione macroscopica in cui le proprietà sono misurate, mantenute fisse su 89 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi determinati valori ed indipendenti dal tempo (proprietà vincolate). Quando un sistema viene liberato dai vincoli di laboratorio che sono serviti a prepararlo e le sue proprietà non cambiano più nel tempo si dice che il sistema ha raggiunto uno stato di equilibrio. Un processo termodinamico cambia lo stato di un sistema e può essere di tipo fisico (variazione di pressione) oppure di tipo chimico (cambiamento nella distribuzione della materia). Un processo termodinamico può, inoltre, essere reversibile o irreversibile. Un processo reversibile si realizza attraverso una serie continua di stati termodinamici e l’equilibrio viene raggiunto dopo un tempo infinitamente lungo. Si tratta quindi di una situazione ideale a cui però il sistema reale può essere approssimato portando avanti il processo abbastanza lentamente e con spostamenti piccoli. Un processo irreversibile non può invece essere rappresentato con un cammino termodinamico poiché gli stati intermedi non sono stati termodinamici ovvero proprietà come densità e temperatura cambiano rapidamente sia nello spazio che nel tempo. 4.2 Il primo principio della termodinamica Il primo principio della termodinamica mette in relazione la variazione di energia di un processo termodinamico con la quantità di lavoro eseguito sul sistema e con la quantità di calore trasferito al sistema. Il lavoro viene definito il prodotto della forza che agisce su un corpo per la distanza attraverso la quale la forza agisce. Un tipo di lavoro importante in chimica è quello di tipo pressione-volume associato ad un gas che viene compresso o espanso sotto l’azione di una pressione esterna. In questo caso si può dimostrare che il lavoro è dato dalla relazione: w = -PestΔV Quando ΔV > 0, ovvero nel caso di un’espansione, w < 0 e quindi il sistema compie lavoro ovvero agisce sull’ambiente. Quando invece ΔV < 0 ovvero nel caso di una compressione del gas, allora w > 0 e quindi il lavoro è eseguito sul sistema. L’energia può essere di vari tipi: energia cinetica, associata ad un oggetto in movimento; l’energia potenziale, associata ad un oggetto in un campo gravitazionale; l’energia interna ovvero l’energia totale di un sistema. L’energia interna è dovuta ai movimenti, alle posizioni e all’energia conservata nei legami chimici. La quantità di 90 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi energia trasferita tra due oggetti inizialmente a diversa temperatura è detta energia termica o calore. Il calore specifico di una sostanza viene definito come la quantità di calore necessaria per aumentare di un grado centigrado la temperatura di un grammo massa di quella sostanza. In definitiva, calore e lavoro sono due modi per trasferire energia e in entrambi i casi l’unità di misura è il joule. Prima che fosse stato compreso il rapporto tra calore, energia e lavoro, alla metà del XIX secolo, fu definita la caloria come: quantità di calore necessaria per aumentare la temperatura di un grammo d’acqua da 14,5 a 15,5 °C. Successivi esperimenti dimostrarono che la caloria non è un’unità indipendente ma è legata al joule dalla relazione: 1 cal = 4,184 joule. Il primo principio della termodinamica afferma che la variazione di energia interna di un sistema è data dalla somma del calore (q) e del lavoro (w) che attraversano il sistema: ΔE = q + w L’energia interna è una funzione di stato poiché, benchè sia q che w dipendono singolarmente dal percorso seguito per passare tra due stati del sistema (e quindi non sono funzioni di stato), la loro somma non ne dipende. In qualunque processo, il calore aggiunto al sistema è perso necessariamente dall’ambiente, quindi: qsis = -qamb. Allo stesso modo, il lavoro eseguito sul sistema è fornito dall’ambiente, quindi: wsis = -wamb. Utilizzando il primo principio della termodinamica e sommando le due relazioni si ottiene: ΔEsis = -ΔEamb. Pertanto l’energia dell’universo sarà: ΔEuniv = ΔEsis + ΔEamb = 0 Quindi, in qualunque processo l’energia totale dell’universo non cambia ovvero l’energia si conserva. Il calore specifico, così come è stato definito in precedenza, non è del tutto preciso perché non tiene conto della pressione e del volume. Una grandezza più precisa è la capacità termica C, ovvero la quantità di calore necessaria per innalzare di 1 K la temperatura di un sistema. q = CΔT 91 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi La capacità termica si misura in J K-1. E’ necessario definire due capacità termiche: quella a pressione costante CP e quella a volume costante CV, poiché sperimentalmente si osserva che il calore trasferito non è lo stesso se si lavora a pressione costante o a volume costante. In termodinamica risultano particolarmente utili le capacità termiche molari cV e cP ottenute dividendo le capacità termiche per le moli di sostanza presente nel sistema. A volume costante si ha pertanto: qV = n cV ΔT dove n è il numero di moli. A pressione costante si ottiene invece la relazione: qP = n cP ΔT A questo punto si può definire il calore specifico a volume costante o a pressione costante come la capacità termica riferita ad un grammo di sostanza. Nella maggior parte degli esperimenti si opera a pressione costante (quella atmosferica) e quindi sarebbe utile trovare una relazione tra qP ad una proprietà di stato simile all’energia interna. Considerando che il lavoro sia soltanto di tipo pressione-volume e la pressione esterna sia costante: ΔE = qP – PestΔV. Assumendo che la pressione esterna sia uguale a quella interna del sistema P e che, poiché P è costante, si può scrivere PΔV = Δ(PV), si ottiene: qP = Δ(E + PV). La somma E + PV è chiamata entalpia e viene indicata con la lettera H. A pressione costante si ottiene quindi la relazione: ΔH = qP = ΔE + PΔV L’entalpia è una funzione di stato e quindi è indipendente dal cammino seguito nel processo. Nel caso la pressione non sia costante si deve usare la relazione più generale: ΔH = ΔE + Δ(PV) 4.3 Termochimica Lo studio degli effetti termici nelle reazioni chimiche è chiamato termochimica e poiché le reazioni chimiche sono studiate normalmente a pressione costante, i calori di reazione 92 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi misurati e tabulati sono entalpie di reazione. Quando una reazione avviene con assorbimento di calore si dice endotermica (ΔH positivo), quando invece avviene liberazione di calore (ΔH negativo). Ad esempio la reazione di dissociazione del carbonato di calcio, utilizzata fin dall’antichità per la preparazione della calce viva (ossido di calcio) è una reazione fortemente endotermica: CaCO3(s) → CaO(s) + CO2(g) ΔH = + 158 kJ Quindi per preparare la calce viva che poi, dopo spegnimento in acqua, veniva utilizzata per la preparazione di malte e intonaci di vario genere, era necessario cuocere il calcare in appositi forni alla temperatura di circa 850 °C. Poiché l’entalpia è una funzione di stato, gode della proprietà additiva, ovvero se si sommano due o più equazioni chimiche per darne un’altra, le entalpie delle reazioni corrispondenti si sommano. Questo concetto è noto come legge di Hess. Le entalpie possono essere associate anche a passaggi di stato ovvero a processi fisici dove non si ha un cambiamento chimico della sostanza. Si avrà quindi l’entalpia molare di fusione, ΔHfus, che rappresenta il calore trasferito a pressione costante per fondere una mole di sostanza; l’entalpia molare di evaporazione, ΔHev, che rappresenta il calore trasferito ad una sostanza, a pressione costante, per farne evaporare una mole. Come per molte altre grandezze chimico-fisiche, anche l’entalpia non può essere misurata in assoluto, ma si possono ottenere solo differenze di entalpia. A questo scopo occorre però definire uno stato di riferimento rispetto al quale considerare le differenze, in particolare per le sostanze chimiche si definisce uno stato standard con le seguenti caratteristiche: per i liquidi e i solidi lo stato standard è lo stato stabile da un punto di vista termodinamico alla pressione di 1 atm e ad una temperatura di riferimento; per i gas, lo stato standard è una fase gassosa con comportamento ideale alla pressione di 1 atm e ad una temperatura di riferimento; per le soluzioni, lo stato standard è una soluzione 1 M ideale alla pressione di 1 atm e ad una temperatura di riferimento. I valori delle entalpie per lo stato standard sono individuate da un apice ° dopo il simbolo e come temperatura di riferimento generalmente si utilizza quella di 25 °C = 298,15 K. Per convenzione le entalpie dello stato standard hanno valore zero. Quando un elemento o un composto chimico esiste in più forme, si considera quella più 93 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi stabile termodinamicamente per lo stato standard. Ad esempio l’ossigeno è presente nell’atmosfera come O2 e come O3 (ozono), tuttavia la forma più stabile è O2 ed a questa si assegna entalpia zero nello stato standard, mentre O3 avrà un’entalpia diversa da zero. La variazione di entalpia per una reazione chimica nella quale reagenti e prodotti si trovano nel loro stato standard si dice entalpia standard (ΔH°) per quella reazione. Si definisce invece entalpia standard di formazione di un composto (ΔH°f) la variazione di entalpia relativa alla rezione che porta alla formazione di una mole del composto a partire dagli elementi nei loro stati stabili, a T = 298,15 K e P = 1 atm. Per una generica reazione chimica: aA + bB → cC + dD, la variazione di entalpia standard è data dalla somma delle entalpie standard di formazione dei vari composti che partecipano alla reazione moltiplicate per i rispettivi coefficienti stechiometrici, ovvero: ΔH° = cΔH°f(C) + dΔH°f(D) – aΔH°f(A) – bΔH°f(B). Un’altra grandezza importante è l’entalpia di legame, ovvero la variazione di entalpia che si ha quando un legame viene rotto in fase gassosa. L’entalpia di legame è sempre positiva perché occorre sempre fornire energia la sistema per rompere dei legami stabili. 4.4 Processi spontanei in termodinamica Una trasformazione si definisce spontanea quando si realizza senza alcun intervento esterno che possa influenzarla ovvero spontaneamente. In termodinamica viene introdotta una nuova funzione di stato che definisce la direzione di un processo spontaneo nota come entropia. L’entropia aumenta nel verso della spontaneità del processo. Per comprendere i cambiamenti spontanei in natura occorre utilizzare un approccio di tipo statistico (termodinamica statistica) valutando quindi il comportamento di insiemi numerosi di atomi e molecole. Il legame tra l’entropia (S) ed i movimenti molecolari è dato dal numero degli stati microscopici o microstati che le molecole hanno a disposizione. Questo numero è indicato dal simbolo Ω e tiene conto di tutte le possibili posizioni e quantità di moto per le N molecole di un sistema. L’equazione che mette in relazione il numero dei microstati con l’entropia fu scoperta dal fisico austriaco Boltzmann verso la fine del 1800 e si esprime nella forma: S = kB lnΩ 94 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi kB è la costante di Boltzmann data dal rapporto tra la costante universale dei gas R e il numero di Avogadro N0. Questa costante è molto importante perché esprime un legame tra il mondo microscopico (atomi e molecole) e quello macroscopico della materia e della termodinamica. Quindi, in base a questa relazione, è possibile affermare che l’entropia di un sistema isolato aumenta all’aumentare del numero di microstati disponibili per le molecole o gli atomi del sistema. Un modo comune di trattare l’entropia è quello di correlarla con il disordine: un sistema ordinato presenta bassa entropia perché gli atomi e le molecole si trovano in posizioni fisse nello spazio. Appena si tolgono i vincoli dal sistema, le molecole sono libere di muoversi ed occupare più posizioni, il disordine aumenta e così anche l’entropia. 4.5 Il secondo principio della termodinamica Il secondo principio della termodinamica ebbe origine da considerazioni pratiche legate al rendimento delle macchine a vapore agli inizi della Rivoluzione Industriale (tardo XVIII secolo). Sadi Carnot, un ufficiale dell’esercito napoleonico, appartenente agli assistenti tecnici, nel tentativo di migliorare il rendimento dei motori a vapore, propose un processo ciclico noto come ciclo di Carnot. Le conclusione degli esperimenti di Carnot furono che le perdite di energia dell’ambiente non possono essere completamente eliminate e che il rendimento del motore non potrà mai essere maggiore di un limite noto come rendimento termodinamico. Gli studi e i risultati di Carnot sono stati poi ripresi da altri scienziati ed esposti in termini più generali. In particolare Rudolf Clausius: non c’è dispositivo che può trasferire calore da un serbatoio più freddo ad uno più caldo senza dispendio di lavoro; e da Kelvin: non c’è dispositivo che possa trasformare calore in lavoro assorbendolo interamente da un serbatoio senza provocare altri effetti. Queste affermazioni possono essere considerate equivalenti all’enunciato del secondo principio della termodinamica che si vedrà oltre ed in pratica esprimono i concetti che il calore fluisce spontaneamente sempre da un corpo più caldo ad uno più freddo e che per raffreddare un corpo occorre sempre svolgere un lavoro. Clausius definì la variazione di entropia di un sistema dallo stato iniziale (i) allo stato finale (f) con la seguente relazione: f ΔS = ∫i dqrev/T 95 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Il calcolo della variazione di entropia si ottiene risolvendo l’integrale lungo un qualsiasi percorso reversibile tra gli stati i e f per i quali dqrev e T siano noti. Nel caso di un processo reversibile isotermico, ovvero che avviene a temperatura costante, l’integrale si semplifica e si ottiene: f f ΔS = ∫i dqrev/T = 1/T ∫i dqrev = qrev/T Nel caso di espansione e compressione di un gas ideale a temperatura costante si può correlare il calore trasferito isotermicamente e reversibilmente con i volumi V1 e V2 tra i quali il gas si espande o si comprime, sfruttando l’equazione di stato dei gas ideali: qrev = nRT ln (V2/V1) Quindi la variazione di entropia sarà: ΔS = nR ln (V2/V1) a temperatura costante. L’entropia di un gas aumenta quando il gas si espande (V2>V1) mentre diminuisce quando il gas si comprime (V2<V1). Anche per i processi di transizione di fase possono essere definite delle espressioni per la variazione di entropia. Ad esempio nel caso di un processo di fusione, a temperatura costante Tf, uguale alla temperatura di fusione del solido, e a pressione costante (il processo è reversibile), si ottiene: ΔSfus = qrev/Tf = ΔHfus/Tf L’entropia aumenta quando un solido passa allo stato fuso e quando un liquido passa allo stato vapore; per i processi inversi l’entropia diminuisce. Per la maggior parte dei liquidi, l’entropia molare di evaporazione è circa la stessa e, in base alla regola di Trouton, il suo valore risulta: ΔSev = 88 ± 5 J K-1 mol-1 96 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Esistono delle eccezioni alla regola di Trouton e una di queste è l’acqua che presenta un’entropia molare di evaporazione pari a 109 J K-1 mol-1. La particolarità dell’acqua è ancora una volta legata alla presenza del legame idrogeno che determina un ordine maggiore rispetto ad altri liquidi e quindi un’entropia più bassa nello stato liquido. Si consideri a questo punto l’ambiente all’interno del quale il sistema termodinamico è collocato. Durante uno scambio di calore tra il sistema e l’ambiente, a pressione costante, si può considerare che il calore preso dall’ambiente sia uguale a quello perso dal sistema ovvero qamb = -ΔHsis. La variazione di entropia dell’ambiente sarà: ΔSamb = ΔHsis/Tamb. Per una reazione esotermica l’ambiente acquista calore e la sua variazione di entropia sarà positiva; per un processo endotermico, invece, l’ambiente perde calore e la sua variazione di entropia risulterà negativa. A questo punto è possibile arrivare ad enunciare il secondo principio della termodinamica. La variazione di entropia in un sistema reversibile è data da: ΔS = qrev/T; inoltre, per un processo irreversibile e reversibile che coinvolgano gli stessi stati iniziali e finali è sempre vero che qrev>qirrev e quindi ΔS > qirrev/T. Combinando le equazioni si ottiene l’espressione seguente, nota come disugualianza di Clausius: ΔS ≥ q/T Questa equazione dice che il calore assorbito dal sistema in un processo spontaneo è sempre minore di TΔS. In un processo reversibile, invece, il calore assorbito dal sistema è uguale a TΔS. Nel caso di un sistema isolato non si ha alcun trasferimento di calore per cui q = 0 e ΔS > 0. L’universo, nel suo insieme, può essere considerato un sistema isolato, ne conseguono a questo punto gli enunciati del secondo principio della termodinamica: - in un processo reversibile la somma dell’entropia di un sistema e del suo ambiente non cambia - in un processo irreversibile la somma dell’entropia di un sistema e del sua ambiente aumenta - un processo per il quale ΔStot < 0 è impossibile. 97 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi 4.6 Il terzo principio della termodinamica Come per le entalpie, anche per le entropie è necessario scegliere dei valori assoluti considerando uno stato di riferimento. A questo proposito è importante considerare la seguente osservazione sperimentale ovvero che in qualunque processo termodinamico che coinvolge fasi pure nei loro stati di equilibrio, la variazione di entropia si avvicina a zero man mano che il sistema si avvicina allo zero assoluto (0 K). Ne consegue quindi il terzo principio della termodinamica in base al quale: - l’entropia di qualunque sostanza nel suo stato di equilibrio raggiunge il valore zero alla temperatura dello zero assoluto. Questo principio può essere compreso anche sulla base della relazione di Boltzmann, infatti man mano che il sistema tende allo zero assoluto il numero di microstati diminuisce fino ad arrivare ad un solo microstato allo zero assoluto. Per un solo microstato l’espressione kB lnΩ diventa uguale a zero (poiché ln 1 = 0) e quindi S = 0. 4.7 L’energia libera di Gibbs Si è visto che la variazione di entropia totale (sistema più ambiente) costituisce un criterio per stabilire se un processo è spontaneo, reversibile o impossibile. Sarebbe però più utile avere una funzione di stato che fornisca la realizzabilità di un processo senza considerare l’ambiente. A tale proposito, per un sistema a temperatura e pressione costante, viene definita una funzione di stato denominata energia libera di Gibbs, indicata con la lettera G. Poiché ΔSamb = -ΔHsis/T per processi a T e P costanti, la variazione di entropia totale sarà : ΔStot = ΔSsis + ΔSamb = ΔSsis – ΔHsis/T, ovvero, ΔStot = - (ΔHsis- T ΔSsis)/T, poiché T è costante si può scrivere l’equazione come: ΔStot = Δ(Hsis- TSsis)/T. L’energia libera di Gibbs è definita come: G = H - TS E quindi ΔStot = - (ΔGsis)/T. Dato che la temperatura assoluta è sempre positiva, ΔStot e ΔGsis hanno sempre segno opposto, per processi a temperatura e pressione costante, pertanto: 98 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi ΔGsis < 0 processo spontaneo ΔGsis = 0 processo reversibile ΔGsis > 0 processo non spontaneo La variazione di energia libera di Gibbs per una reazione chimica a temperatura costante è data dalla relazione: ΔG = ΔH – TΔS Come per l’entalpia e l’entropia non è possibile conoscere il valore assoluto dell’energia libera per una sostanza e quindi si definisce un’energia libera standard di formazione di Gibbs, ΔG°f, ovvero la variazione di energia libera per la reazione che porta alla formazione di un composto nel suo stato standard, a partire dagli elementi nel loro stato standard. Per un elemento che si trovi nel suo stato standard, ΔG°f = 0 4.8 L’equilibrio chimico L’equilibrio chimico è un equilibrio dinamico. L’equilibrio si raggiunge quando la velocità della reazione diretta diventa uguale alla velocità della reazione inversa. All’equilibrio le concentrazioni dei reagenti e dei prodotti non variano ulteriormente nel tempo. Lo stesso stato di equilibrio può essere raggiunto partendo sia dal lato dei reagenti che quello dei prodotti dell’equazione chimica. Lo stato di equilibrio è caratterizzato dalla costante di equilibrio della reazione che lega le concentrazioni dei reagenti e dei prodotti che partecipano al processo chimico. L’espressione della costante di equilibrio di una reazione chimica è uguale al rapporto tra il prodotto delle concentrazioni dei prodotti ed il prodotto delle concentrazioni dei reagenti, con ciascuna concentrazione elevata ad una potenza pari al coefficiente stechiometrico di quella specie nell’equazione bilanciata. La legge di azione di massa definisce definisce l’espressione della costante di equilibrio di una reazione chimica. Per una generica reazione: aA + bB cC + dD 99 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi la costante di equilibrio, in base alla legge di azione di massa risulta: KC = [C]ceq [D]deq [A]aeq [B]beq Il pedice C indica che la reazione si svolge in soluzione. Nel caso di reazioni in fase gassosa si utilizza la costane KP e al posto delle concentrazioni si utilizzano le pressioni. Da un punto di vista termodinamico, una reazione chimica può essere descritta prendendo in considerazione la sua variazione di energia libera di Gibbs. In una reazione spontanea ΔG < 0 mentre in condizione di equilibrio ΔG = 0. La costante di equilibrio e l’energia libera standard sono grandezze correlate e si può dimostrare che è valida la seguente realzione: ΔG° = - RT lnK Quando una reazione si trova in una condizione diversa da quella presente all’equilibrio il rapporto delle concentrazioni dei reagenti e dei prodotti non sarà più uguale alla costante di equilibrio ma verrà denominato quoziente di reazione Q ovvero una grandezza che ha la stessa espressione della costante di equilibrio ma a valori di concentrazione delle specie chimiche arbitrari, non necessariamente all’equilibrio. K è la costante di equilibrio. L’espressione dell’energia libera sarà: ΔG = ΔG° + RT lnQ Ovvero: ΔG = - RT lnK + RT lnQ ΔG = RT ln(Q/K) All’equilibrio Q/K = 1, ovvero Q = K e ΔG = 0. Quando Q/K < 1, ovvero Q < K, ΔG < 0 e la reazione procede spontaneamente da sinistra a destra; Q/K > 1, ovvero Q > K, ΔG > 0 e la reazione procede spontaneamente da destra a sinistra, ovvero in senso opposto a come è scritta. 100 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi 4.9 Il principio di Le Châtelier Henri Le Châtelier (1850-1936) formulò, nel 1884, il principio che porta il suo nome: Se una reazione chimica viene sottoposta ad un cambiamento delle condizioni di reazione che la spostano dal suo stato di equilibrio allora la reazione procede verso una nuova condizione di equilibrio nella direzione in cui il cambiamento delle condizioni viene, almeno in parte, annullato. Le condizioni che possono influenzare una reazione all’equilibrio chimico sono: 1 – concentrazione di un reagente o di un prodotto; 2 – volume di reazione o pressione applicata 3 – temperatura. In generale, una diminuzione del volume di reazione provoca uno spostamento dell’equilibrio di reazione verso il lato con il minor numero di moli di specie gassose. In una reazione endotermica un aumento della temperatura provoca uno spostamento della reazione all’equilibrio verso destra, ovvero verso i prodotti. Per una reazione esotermica, ovvero una reazione che avviene con liberazione di energia, quando la temperatura aumenta l’equilibrio di reazione si sposta verso sinistra. Da un punto di vista termodinamico è possibile esprimere matematicamente la dipendenza della costante di equilibrio dalla temperatura, infatti, tenendo conto della relazione – RTlnK = ΔG° = ΔH° - TΔS, si ottiene: ln K = - ΔG°/RT = -ΔH°/RT + ΔS°/R Riportando in grafico lnK in funzione di 1/T si ottiene una retta con pendenza –ΔH°/R e intercetta ΔS°/R. Oltre al metodo grafico si possono collegare con un’espressione matematica i valori delle costanti di equilibrio a diverse temperature. Si considerino K1 e K2 le costanti di equilibrio alle temperature T1 e T2. Esprimendo le due costanti di equilibrio con l’equazione su riportata e sottraendo le due equazioni si ottiene una relazione nota come nequazione di van’t Hoff: ln (K2/K1) = -ΔH°/R [1/T2 – 1/T1] Queste equazioni presuppongono che ΔH e ΔS non varino con la temperatura, almeno in un limitato intervallo. 101 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi CAPITOLO 5 5.1 Equilibri acido-base Le reazioni acido-base sono molto importanti nella chimica perché si riscontrano in tantissimi processi della vita di tutti i giorni. La maggior parte dei processi chimici sono reagolati dall’acidità presente nel sistema; nel settore dei beni culturali l’acidità e la basicità sono fattori importanti per le possibili alterazioni dei materiali e quindi per la loro conservazione (si pensi come esempio alle famose piogge acide che determinano l’alterazione chimica dei monumenti esposti all’aperto, soprattutto, come già visto, quelli costituiti da carbonato di calcio). Le reazioni acido-base avvengono sia in fase gassosa che in fase solida che in soluzione (acquosa e non), tuttavia per semplicità e importanza verranno trattiti solo gli equilibri in soluzione acquosa. La prima definizione di acidi e basi fu data da Arrhenius nel XIX secolo. Secondo Arrhenius un acido è una sostanza che in soluzione acquosa produce ioni H+(aq) e una base è una sostanza che in soluzione acquosa produce ioni OH-(aq). Una teoria più moderna, e oggi comunemente accettata e utilizzata, è quella formulata indipendentemente da Johannes Brønsted e Thomas Lowry nel 1923 e che non considera gli acidi e le basi come separati, ma introduce il concetto di equilibri acidobase. Secondo la teoria di Brønsted-Lowry: un acido è definito come un donatore di protoni, una base come un accettore di protoni. Quindi, secondo la teoria di Brønsted-Lowry, si parla in termini di reazioni acido-base. Si consideri ad esempio la reazione tra acqua e acido acetico: CH3COOH(aq) + H2O(l) = H3O+(aq) + CH3COO-(aq) acido1 base2 acido2 base1 Gli acidi e le basi si presentano come coppie coniugate acido-base. Gli acidi e le basi forti sono completamente dissociati in soluzione acquosa. Questa affermazione è stata verificata sperimentalmente mediante misure di conducibilità. Si dice anche che l’acqua ha un effetto livellante su un certo gruppo di acidi e basi nel senso che questi si comportano da acidi forti e basi forti quando il solvente è l’acqua. 102 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Gli acidi e le basi che in soluzione acquosa non sono completamente dissociati sono detti acidi e basi deboli. Gli acidi organici sono quasi sempre acidi deboli; quelli più comuni sono gli acidi carbossilici tra i quali il più importante è l’acido acetico (CH3COOH). ___________________________________________________________________ ACIDI FORTI BASI FORTI HClO4 acido perclorico LiOH idrossido di litio HNO3 acido nitrico NaOH idrossido di sodio H2SO4 acido solforico KOH idrossido di potassio HCl acido cloridrico RbOH idrossido di rubidio HBr acido bromidrico CsOH idrossido di cesio HI acido iodidrico TlOH idrossido di tallio Ca(OH)2 idrossido di calcio Sr(OH)2 idrossido di stronzio Ba(OH)2 idrossido di bario ___________________________________________________________________ Alcune sostanze si comportano come acidi o come basi a seconda delle condizioni di reazione e sono dette anfotere. L’esempio più importante è quello dell’acqua poiché a seconda che essa si trovi a reagire con un acido o con una base si comporterà da base o da acido rispettivamente. Oltre le teorie di Arrhenius e Brønsted-Lowry, esiste la teoria acido-base di Lewis in base alla quale gli acidi vengono definiti come accettori di doppietti elettronici mentre le basi vengono definite come donatori di doppietti elettronici. La definizione di Lewis permette di spiegare e descrivere il comportamento di molti ossidi binari che possono essere considerati come anidridi di acidi o basi. Ad esempio la 103 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi maggior parte degli ossidi dei non metalli si comportano come anidridi acide ovvero reagiscono con l’acqua formando soluzioni acide: N2O5(s) + H2O(l) → 2H+(aq) + 2NO3-(aq) SO3(g) + H2O(l) → H+(aq) + HSO4-(aq) Un altro esempio importante di reazione acido-base di Lewis è quella tra un’anidride acida e una basica: CaO(s) + CO2(g) → CaCO3 (s) In questa reazione la base di Lewis CaO cede un doppietto elettronico all’acido CO2 per formare un legame covalente dativo nello ione CO32-. Questa reazione ricorda il processo di carbonatazione, ovvero la reazione che avviene in fase acquosa negli affreschi dove la calce viva, applicata sotto forma di malta in miscela con altri materiali (sabbia, pozzolana, coccio pesto, fibre vegetali e animali, ecc) reagisce con l’anidride carbonica presente nell’aria formando il carbonato di calcio che provoca il processo di presa e indurimento e fissa i pigmenti dello strato pittorico. 5.2 Il concetto di pH In acqua esiste un equilibrio: H2O(l) + H2O(l) = H3O+(aq) + OH-(aq) Ovvero: 2H2O(l) = H3O+(aq) + OH-(aq) La costante per questo equilibrio è: Kw = [H3O+][OH-] La concentrazione dell’H2O non compare in quanto in soluzioni acquose [H2O] è costante. La costante Kw si chiama prodotto ionico dell’acqua. A 25°C il valore della Kw é: Kw = 1,00x10-14 M2. Dalla stechiometria della reazione si può notare che in acqua pura gli ioni H3O+ e gli ioni OH- sono prodotti in un rapporto 1:1, quindi la loro concentrazione è uguale: [H3O+] = [OH-] = 1,00x10-7 M. Una soluzione acquosa 104 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi neutra viene definita una soluzione in cui: [H3O+] = [OH-]. Una soluzione acquosa acida viene definita una soluzione in cui: [H3O+] > [OH-]. Una soluzione acquosa basica viene definita una soluzione in cui: [H3O+] < [OH-] Il pH è semplicemente una misura convenzionale dell’acidità di una soluzione adottata perché numericamente comoda. Per esprimere l’acidità in termini di pH si utilizza una scala logaritmica: pH = -log10[H3O+] analogamente: pOH = -log10[OH-] In acqua pura a 25 °C [H3O+] = 1,0x10-7 M, quindi: pH = -log10 (1,0x10-7) = 7,00. Sfruttando le proprietà dei logaritmi, si può scrivere: -log10[H3O+][OH-] = -log10[H3O+] - log10[OH-] = 7,00 + 7,00 = 14,00 = -log10 Kw pertanto: pH + pOH = pKw = 14,00 Ricapitolando, in soluzione acquosa, a 25 °C: pH < 7 soluzione acida pH = 7 soluzione neutra pH > 7 soluzione basica 5.3 Tipi di acidi e basi Nel caso di acidi e basi deboli la dissociazione in soluzione acquosa non è completa e viene descritta da un equilibrio chimico. Ad esempio per un acido generico HA si ha: HA(aq) + H2O(l) = H3O+(aq) + A-(aq) Questo equilibrio è descritto dalla costante di ionizzazione acida Ka scritta in accordo con il principio di azione di massa: Ka = [H3O+] [A-]/[HA] 105 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Il valore della costante di ionizzazzione acida da una misura quantitativa della forza di un acido in un dato solvente. Come per il pH spesso è conveniente esprimere la Ka in forma logaritmica: pKa = -logKa. Nel caso di basi deboli si parla di costante di ionizzazione basica o costante di protonazione Kb. Ad esempio nel caso di una base generica B: B(aq) + H2O(l) = BH+(aq) + OH-(aq) Kb = [BH+] [OH-]/[B] In genere la base coniugata di un acido debole è una base debole e quindi la reazione di dissociazione può essere scritta come un equilibrio. Se HB è un acido debole: HB(aq) + H2O(l) = H3O+(aq) + B-(aq) L’acqua si comporta da base accettando un protone. Nella reazione inversa lo ione idronio trasferisce un protone allo ione B- comportandosi quindi come acido mentre Bsi comporta come base. La base B- è detta base coniugata dell’acido HB e la coppia HB/B- è detta coppia coniugata acido-base. Per questa reazione si può scrivere: Ka=[H3O+][B-]/[HB] Analogamente per la base coniugata: B-(aq) + H2O(l) = HB(aq) + OH-(aq) si può scrivere: Kb=[HB][OH-]/[B-] Moltiplicando le due costanti si ottiene: Ka Kb = [H3O+][OH-] = Kw, ovvero, passando ai logaritmi: pKa + pKb = 14,00. 5.4 Indicatori acido-base Esistono numerosi acidi organici deboli che cambiano colore per perdita di un protone: composti con queste caratteristiche vengono chiamati indicatori, perché sono in grado di indicare, mediante il loro colore, il pH di una soluzione. Gli indicatori cambiano colore in uno stretto intervallo di pH e possiedono colori così intensi che possono essere utilizzati a concentrazioni bassissime, in modo che, aggiunti ad una soluzione, non ne influenzino praticamente il pH (fig. 67). 106 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Fig. 67 Variazioni di colore di diversi indicatori a diversi valori di pH, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) Indicando con HIn la forma acida dell’indicatore e con In- la forma della base coniugata, in soluzione acquosa si ha il seguente equilibrio: HIn(aq) + H2O(l) = H3O+(aq) + In-(aq) Questo equilibrio è descritto dalla costante di dissociazione acida dell’indicatore: Kai = [H3O+][In-]/[HIn]. Questa relazione può essere anche scritta nella forma: [H3O+]/Kai = [HIn]/ [In-] 107 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Se la concentrazione dello ione idronio è grande rispetto a Kai, allora il rapporto [H3O+]/Kai è grande e la concentrazione di indicatore nella forma indissociata è molto maggiore di quelle dell’indicatore nella forma dissociata: la soluzione avrà quindi la colorazione della forma acida dell’indicatore. Se nella soluzione sono presenti le due forme dell’indicatore in quantità simile, cioè se [HIn] ≈ [In-] allora la soluzione appare color arancio. In questo caso [H3O+] ≈ Kai, ovvero pH ≈ pKai. 5.5 Idrolisi Non sempre gli acidi e le basi sono specie elettricamente neutre, ci sono anche dei sali che, disciolti in soluzione, liberano cationi o anioni acidi o basici. Ad esempio il cloruro di ammonio, NH4Cl, disciolto in acqua libera ioni NH4+ che reagisce con l’acqua secondo una reazione acido-base: NH4+(aq) + H2O(l) = H3O+(aq) + NH3(aq) La costante dell’equilibrio è: Ka=[H3O+][NH3]/[NH4+] = 5,6 x 10-10. Idrolisi è un termine generale che viene utilizzato per indicare la reazione di una sostanza con l’acqua ed è applicato in particolare ad una reazione nella quale il pH cambia dal suo valore neutro, 7, quando si scioglie in acqua un sale che si comporta da acido o da base. Si tratta semplicemente di reazioni acido-base che avvengono però solo per quei sali contenenti ioni che sono acidi coniugati di basi deboli o basi coniugate di acidi deboli. In generale si può dire che: - le basi coniugate di acidi forti monoprotici sono anioni neutri che non reagiscono quindi con l’acqua per formare ioni OH-. Le basi coniugate di acidi deboli, come lo ione acetato, sono anioni basici che reagiscono con l’acqua per formare OH-, dando quindi idrolisi basica. Lo ione idrogenosolfato, HSO4-, è un anione acido a causa della sua reazione di seconda dissociazione acida, in acqua può quindi dare luogo ad idrolisi acida: HSO4 -(aq) + H2O(l) = H3O+(aq) + SO42-(aq); – non vi sono cationi basici, ma solamente cationi acidi e cationi neutri. Gli ioni dei metalli alcalini ed alcalino terrosi (tranne Be2+) sono tutti neutri. Gli acidi coniugati di basi deboli, come ad esempio NH4+, sono acidi e danno quindi idrolisi acida; 108 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi – molti ioni metallici sono acidi in soluzione acquosa, dove esistono legati ad un certo numero di molecole d’acqua. Essi vengono quindi detti ioni solvatati. Un esempio di catione acido solvatato è Fe(H2O)63+(aq). 5.6 Soluzioni tampone Si dice soluzione tampone, una soluzione che mantiene il pH pressochè costante anche quando si aggiungono piccole quantità di un acido o dia una base. Una soluzione normalmente contiene un acido debole e la sua base coniugata in concentrazione circa uguali. Le soluzioni tampone sono importantissime nel controllo della solubilità di molti ioni e nel mantenere costante il pH in processi biochimici e fisiologici. Le proteine e in particolare gli enzimi sono estremamente sendibili al pH e le loro funzioni come molecole biologiche sono fortemente legate al valore del pH. Si consideri un acido HA e la sua base coniugata A-, l’espressione dell’equilibrio può essere scritta nella forma: [H3O+] = Ka[HA]/[A-]. La concetrazione degli ioni idronio e quindi il pH dipende dal rapporto tra la concentrazione dell’acido debole e della sua base coniugata. Se queste concentrazioni sono circa uguali e abbastanza grandi, una loro piccola variazione per aggiunta di un acido o di una base non varierà in maniera significativa il loro rapporto e quindi il pH si manterrà pressochè costante. Un tampone viene dunque creato scegliendo un acido debole disciolto in soluzione acquosa insieme ad una il più possibile simile concentrazione della sua base coniugata. Poiché si tratta di acidi e basi deboli, la dissociazione si può considerare minima e quindi si può scrivere con buona approssimazione che la concentrazione dell’acido all’equilibrio è uguale a quella dell’acido iniziale, [HA] = [HA]0, e che la concentrazione della base coniugata all’equilibrio è uguale a quella della base iniziale, [A-] = [A-]0. Quindi la relazione scritta sopra diventa: [H3O+] = Ka[HA]0/[A-]0. Trasformando tutte le grandezze in termini logaritmici si ottiene la seguente importante relazione, nota come equazione di Henderson-Hasselbalch: pH ≈ pKa – log10 ([HA]0/[A-]0) Questa equazione, seppur approssimata, può essere utilizzata per progettare dei tamponi a valori prefissati di pH, come già detto un tampone ottimale è quello nel quale l’acido e 109 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi la sua base coniugata hanno concentrazioni il più possibile simili. Chiaramente un tampone non possiede una capacità infinita di annullare le variazioni di pH: se si aggiunge un acido forte o una base forte in quantità tale da consumare tutta la base o tutto l’acido è chiaro che il tampone perde la sua funzione. 5.7 Titolazioni acido-base Le reazioni acido – base sono reazioni di neutralizzazione e risultano complete quando il numero delle moli della base che ha reagito è uguale al numero delle moli di acido che ha reagito, ovvero quando: MacidoVacido = MbaseVbase. Si supponga di aggiungere lentamente una soluzione acquosa di una base forte, come NaOH(aq), ad una soluzione acquosa di un acido forte, come HCl(aq): questa operazione viene detta titolazione ed il grafico del pH della soluzione risultante in funzione del volume della soluzione aggiunta, cioè il titolante, è detta curva di titolazione. La forma della curva di titolazione dipende dal valore della costante Ka (o Kb, a seconda del tipo di titolazione che si sta eseguendo) e dalle concentrazioni dell’acido e della base reagenti. Il punto di equivalenza di una titolazione è il punto in cui sono presenti quantità stechiometricamente equivalenti di acido e base. Nelle titolazioni gli indicatori vengono utilizzati per evidenziare il completamento della reazione acido base: il punto in cui l’indicatore cambia il colore è detto punto finale o punto di viraggio. Nel caso della titolazione di un acido forte (HCl) con una base forte (NaOH), la curva di titolazione avrà la forma di fig. 68. Chiaramente in una titolazione la concentrazione del titolante è esattamente nota e viene utilizzata per determinare la concentrazione incognita di titolato. Quello che occorre determinare in una titolazione è il punto di fine e quindi il volume esatto di titolante impiegato per completare la reazione di neutralizzazione. Il punto di fine può essere valutato o con un indicatore, come già detto, o in modo molto più preciso con una misura strumentale del pH, come si vedrà in seguito. Nel caso di una titolazione di un acido debole con una base forte la curva avrà una forma diversa da quella vista per la titolazione di un acido forte con una base forte (fig. 69). Il punto di mezzo corrisponde alla formazione di una soluzione tampone poiché le concentrazioni di acido e base coniugata sono uguali. In questo punto, infatti, piccole 110 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi aggiunte di base forte non portano ad una significativa variazione del pH, inoltre si verifica la condizione per cui pH = pKa. Fig. 68 Illustrazione schematica dell’apparecchitura utilizzata in una titolazione acido-base e curva di titolazione di HCl con NaOH, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) Fig. 69 Curva di titolazione dell’acido acetico con NaOH, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) 111 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Nel caso di una titolazione di una base con un acido, la curva di titolazione avrà un andamento analogo ma si potrebbe dire “opposto” a quello visto per la titolazione di un acido con una base forte (fig. 70). Fig. 70 Curva di titolazione di NH3 con HCl, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) 5.8 Acidi poliprotici Gli acidi che hanno più di un protone dissociabile sono detti acidi poliprotici. Alcuni esempi sono costituiti dall’acido solfidrico H2S e solforico H2SO4 (acidi diprotici), dall’acido fosforico H3PO4 (acido triprotico). Chiaramente questi acidi danno origine a diversi equilibri di dissociazione acida anche se la costante dell’equilibrio, dopo la prima dissociazione, diventa molto piccola. Questo si verifica perché, la carica negativa che si forma per la perdita di uno ione idrogeno nella prima ionizzazione fa si che il secondo idrogeno sia più fortemente legato e quindi più difficilmente cedibile. L’acido solforico è un acido forte relativamente alla prima dissociazione mentre diventa debole nella seconda ionizzazione. Un esempio importante di acido diprotico debole sia in prima che seconda ionizzazione è l’acido carbonico formato per solvatazione della CO2 (acqua carbonatata). H2CO3(aq) + H2O(l) = H3O+(aq) + HCO3-(aq) Per questo equilibrio Ka1 = 4,3x10-7 112 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi HCO3-(aq) + H2O(l) = H3O+(aq) + CO32-(aq) Per questo equilibrio Ka2 = 4,8x10-11 In realtà gli equilibri di dissociazione dell’acido carbonico sono complicati dal fatto che la maggior parte della CO2 disciolta rimane come tale, CO2(aq), e solo una piccola frazione si trasforma in acido carbonico. Approssimativamente 0,034 moli di CO2 si sciolgono in 1 litro d’acqua a 25 °C e a pressione atmosferica. 113 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi CAPITOLO 6 6.1 Equilibri eterogenei, concetto di attività Nel caso di gas ideali o soluzioni ideali, è possibile descrivere l’equilibrio attraverso la legge di azione di massa, utilizzando le pressioni parziali o le concentrazioni. Nel caso però siano presenti solidi o liquidi allo stato puro che partecipano all’equilibrio, la concentrazione non descrive più bene l’equilibrio e occorre introdurre il concetto di attività. Questo parametro descrive lo stato termodinamico di una sostanza confrontandolo con uno stato di riferimento; è legato alla pressione e alla concentrazione di una specie attraverso il coefficiente di attività. L’attività dello stato di riferimento ha sempre valore unitario e quindi la variazione di energia libera di Gibbs per portare un sistema dallo stato di riferimento ad uno stato termodinamico generico è determinata solo dall’attività dello stato generico. Il coefficiente di attività γi di una specie gassosa non ideale è legato alla pressione dalla relazione: ai = γi Pi/Prif Lo stato di riferimento per un gas ideale è quello ad 1 atm di pressione. Per i gas ideali γi = 1 e dunque l’attività coincide con la pressione. Nel caso di una soluzione non ideale, l’attività di un soluto i sarà data dalla relazione: ai = γi ci/crif Anche in questo caso γi = 1 per una soluzione ideale nello stato di riferimento, crif = 1M, e quindi l’attività coincide con la concentrazione. Per le sostanze pure (solidi e liquidi) gli stati di riferimento sono quelli stabili ad 1 atm e le attività in questi stati sono pari a 1. La costante di equilibrio può a questo punto essere espressa in modo più generale attraverso le attività, ovvero: K = aCc aDd/aAa aBb Questa equazione rappresenta la legge di azione di massa per casi più generali. 114 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi 6.2 Equilibri di solubilità Le reazioni di dissoluzione e precipitazione dei solidi nelle soluzioni costituiscono una classe di reazioni chimiche estremamente importanti in molti settori, non solo della chimica, ma anche della medicina, dell’ingegneria, dell’ecologia e dei beni culturali (si ricordi il problema già accennato dei sali solubili). Una soluzione nella quale è stato disciolto tanto soluto da stabilire un equilibrio tra la sua forma disciolta e quella solida, presente come corpo di fondo, è detta soluzione satura. Se si aggiunge tanto solvente da portare in soluzione tutto il solido disciolto (in accordo con il principio di le Châtelier) si dice che la soluzione è insatura. La precipitazione controllata, che sfrutta le diverse solubilità dei solidi, viene utilizzata ampiamente in chimica per la purificazione dei prodotti di reazione. Durante questo processo però possono separarsi insieme alla sostanza desiderata anche delle impurezze che debbono in qualche modo essere eliminate per ottenere dei prodotti di reazione altamente purificati. Si ricorre allora al processo di ricristallizzazione per cui un prodotto impuro viene sciolto e riprecipitato più volte, controllando opportunamente le condizioni di reazione, sfruttando le diverse solubilità tra il prodotto desiderato e le impurezze. Le reazioni di dissoluzione e precipitazione raggiungono spesso molto lentamente la condizione di equilibrio e possono servire anche settimane o più per ottenere una soluzione satura. Inoltre, spesso si formano delle soluzioni soprasature ovvero soluzioni nelle quali la concentrazione del soluto supera il suo valore di equilibrio e può occorrere anche moltissimo tempo perché si raggiunga la condizione di soluzione satura. La solubilità di una sostanza in un certo solvente, come già visto, è definita come la quantità massima di quella sostanza che si scioglie all’equilibrio in un volume definito del solvente ad una data temperatura. La maggior parte delle reazioni di solubilizzazione di composti ionici è endotermica pertanto, in base al principio di Le Châtelier, la solubilità aumenta all’aumentare della temperatura. Non tutti i composti ionici presentanto lo stesso grado di solubilità e si possono riassumere dei criteri empirici per individuare velocemente se un composto ionico è più o meno solubile. 1 – Tutti i sali di sodio, potassio e ammonio sono solubili , solubilità maggiore di 0,1 mol l-1. 2 – Tutti i nitrati, gli acetati e i perclorati sono solubili. 115 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi 3 – Tutti i sali d’argento, di piombo e di mercurio (I) sono insolubili. 4 – Tutti i cloruri, i bromuri e gli ioduri sono solubili. 5 – Tutti i carbonati, i solfuri, gli ossidi e gli idrossidi sono insolubili. 6 – Tutti i solfati, tranne quelli di calcio e di bario, sono solubili. I criteri di solubilità devono essere applicati nell’ordine in cui sono elencati: in caso di discordanza ha la prevalenza il criterio che viene enunciato prima. Ad esempio il solfuro di sodio Na2S è solubile perché il criterio 1 afferma che tutti i sali di sodio sono solubili. Il solfato di piombo, PbSO4, è insolubile perché, anche se il criterio 6 afferma che i solfati sono solubili, il criterio 3 afferma che tutti i sali di piombo sono insolubili. L’equilibrio tra un solido ionico ed i suoi ioni costituenti in soluzione è regolato dalla legge di azione di massa. AgBrO3(s) = Ag+(aq) + BrO3-(aq) La costante di equilibrio per questa reazione è: Kps = [Ag+][BrO3-] Il pedice ps sta per prodotto di solubilità e Kps viene detta prodotto di solubilità. Il bromato d’argento solido non compare nella costante in quanto è un solido puro e quindi la sua concentrazione è costante. Il valore sperimentale per questa costante è 5,8x10-5 M2. La solubilità si può ottenere dalla Kps. Infatti, sempre considerando il bromato d’argento in acqua a 25 °C, all’equilibrio si ottiene: [Ag+][BrO3-] = 5,8x10-5 M2. Dalla stechiometria della reazione si ha che [Ag+] = [BrO3-] = solubilità = s. Dall’espressione della Kps si ottiene: Kps = 5,8x10-5M2 = [Ag+][BrO3-] = s2 ; perciò s = (5,8x10-5M2)1/2 = 7,6x10-3 M. Per un sale generico AxBy la solubilità è data da: s = [A]/x = [B]/y 6.3 Effetto dello ione a comune La solubilità di un solido ionico diminuisce se nella soluzione è presente uno ione a comune. Infatti, la presenza di un eccesso di ioni (positivi o negativi), che erano già in 116 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi soluzione, riduce la concentrazione consentita dal prodotto di solubilità di quegli ioni e quindi la solubilità diminuisce. Questo fenomeno è noto come effetto dello ione comune: se la soluzione ed il sale che in essa deve essere disciolto hanno uno ione in comune, allora la solubilità del sale diminuisce. Per comprendere meglio questo concetto consideriamo l’esempio del bromato d’argento a 25 °C in una soluzione acquosa 0,10 M di bromato di sodio. Il bromato di sodio è un sale solubile e quindi è completamente dissociato in acqua; lo ione sodio Na+ è uno ione spettatore che non rientra nei calcoli di solubilità. La solubilità del bromato d’argento è data da: s = [Ag+]. Gli ioni bromato provengono sia dalla dissociazione del bromato d’argento che da quella del bromato di sodio, pertanto la loro concentrazione sarà: [BrO3-] = s + 0,10 M. Quindi, sostituendo nell’espressione della Ksp si avrà: s(s+0,10 M) = 5,8x10-5 M2. Poichè s è molto più piccolo di 0,10 M si può trascurare e quindi l’equazione diviene: s(0,10 M) ≈ 5,8x10-5 M2 da cui s ≈ 5,8x10-4 M. Questo valore di solubilità è decisamente inferiore a quello del bromato d’argento puro che si è visto essere uguale a 7,6x10-3 M. 6.4 Effetto del pH sulla solubilità Molti solidi, poco solubili in acqua, aumentanto moltissimo la loro solubilità in presenza di acidi. Ad esempio solfuri di rame e nichel, presenti nei minerali, possono essere portati in soluzione con acidi forti per poter poi isolare i metalli che sono molto ricercati ed impiegati in vari settori dell’industria. Come già visto, il carbonato di calcio presenta scarsissima solubilità in acqua, ma in presenza di acidi la solubilità aumenta e può essere portato facilmente in soluzione: è il caso delle piogge acide che provocano la dissoluzione e quindi il degrado dei manufatti esposti all’aperto e costituiti da carbonato di calcio (marmo, travertino e pietre calcaree in generale). Nel caso degli idrossidi metallici il pH ha un effetto diretto sulla solubilità. Infatti, gli ioni OH- partecipano direttamente all’equilibrio di solubilità e quindi un aggiunta di ioni H3O+, reagendo con gli OH-, determina uno spostamento dell’equilibrio di dissoluzione verso destra. È il caso, ad esempio, dell’idrossido di zinco: Zn(OH)2(s) = Zn2+(aq) + 2OH-(aq) 117 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi 6.5 Effetto della formazione di complessi La formazione di un complesso di coordinazione di uno ione metallico con dei leganti, porta ad un aumento della solubilità di un solido. Ad esempio gli ioni Ag+(aq) reagiscono con NH3(aq) formando un complesso di coordinazione secondo la reazione: Ag+(aq) + 2NH3(aq) = Ag(NH3)2+(aq) La costante per questo equilibrio è nota come costante di formazione e in questo caso ha il valore di: Kf = 2,0x107M-2. Un valore così elevato della costante indica che la formazione del complesso è favorita e quindi in presenza di ammoniaca gli ioni argento reagiranno con essa formando il complesso di coordinazione. Per il principio di Le Châtelier, l’equilibrio di dissociazione di un sale d’argento, ad esempio: AgBr(s) = Ag+(aq) + Br-(aq) Ksp = 7,7x10-13 si sposterà verso destra poiché gli ioni Ag+ vengono sottratti all’equilibrio: questo risulterà pertanto in una maggiore dissociazione e quindi in una maggiore solubilità del sale. 6.6 Reazioni di ossido-riduzione Le reazioni che avvengono con un trasferimento di elettroni da un reagente ad un altro sono dette reazioni di ossidoriduzione o reazioni a trasferimento di elettroni (più comunemente sono indicate come reazioni redox). Per capire le reazioni di ossidoriduzione occorre definire il numero di ossidazione degli elementi nelle specie chimiche e definire delle semplice regole per determinarlo. Il numero di ossidazione esprime la carica (positiva o negativa) che l’atomo possiede nella reazione redox e che non coincide necessariamente con la carica effettiva. In pratica i numeri di ossidazione servono per bilanciare stechiometricamente le equazioni delle reazioni di ossidoriduzione. Anche in questo caso esistono delle regole generali per poter assegnare i numeri di ossidazione ai vari elementi: 1 – ad atomi allo stato elementare è assegnato numero di ossidazione 0; 118 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi 2 – la somma algebrica dei numeri di ossidazione di tutti gli atomi di una specie chimica deve essere uguale alla carica della specie; 3 – i metalli alcalini nei loro composti hanno sempre numero di ossidazione +1; 4 – il fluoro nei suoi composti ha sempre numero di ossidazione -1; 5 - i metalli alcalino-terrosi lo zinco e il cadmio nei loro composti hanno sempre numero di ossidazione +2; 6 – alluminio e gallio nei loro composti hanno sempre numero di ossidazione +3; 7 – l’idrogeno nei suoi composti ha numero di ossidazione +1; 8 – l’ossigeno nei suoi composti ha numero di ossidazione -2; Nei casi in cui possono sorgere dubbi nell’applicazione di queste regole si deve tenere conto del fatto che la priorità delle regole è decrescente dalla n. 1 alla n. 8. Si consideri la semplice reazione di ossido-riduzione: Zn(s) + Cu2+(aq) = Cu(s) + Zn2+(aq) Si dice che lo ione rame 2+ è ridotto a rame metallico perché il processo evolve attraverso un decremento (riduzione) del numero di ossidazione del rame (da +2 a 0): Cu2+(aq) + 2e- = Cu(s) riduzione Si dice che lo zinco metallico è ossidato a zinco 2+ perché la reazione implica un aumento del numero di ossidazione dello zinco (da 0 a 2+) : Zn(s) = Zn2+(aq) + 2e- ossidazione Il reagente che contiene l’elemento che è ridotto è detto agente ossidante (elettronaccettore) o più semplicemente ossidante, mentre quello che contiene l’atomo che si ossida è detto agente riducente (elettrondonatore) o più semplicemente riducente. Le reazioni di ossido-riduzione possono essere scomposte in due semireazioni: la semireazione di ossidazione e la semireazione di riduzione e possono essere più agevolmente bilanciate procedendo separatamente al bilanciamento delle due semireazioni. Si consideri ad esempio la semplice reazione di ossido-riduzione: Fe(s) + Cl2(aq) = Fe3+(aq) + Cl-(aq) 119 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi L’equazione così come è scritta non è bilanciata. Il metodo più semplice e sistematico per bilanciare la reazione è il metodo delle semireazioni, che risulta utile soprattutto per reazioni di ossidoriduzione particolarmente complesse. Si procede per passaggi successivi seguendo l’ordine riportato di seguito. 1 – Dividere l’equazione in due equazioni distinte per la semireazione di ossidazione e la semireazione di riduzione: Fe(s) = Fe3+(aq) Cl2(aq) = Cl-(aq) ossidazione riduzione 2 – Bilanciare l’equazione di ciascuna semireazione rispetto a tutti gli elementi tranne ossigeno e idrogeno: Fe(s) = Fe3+(aq) Cl2(aq) = Cl-(aq) 3 – Bilanciare l’equazione di ciascuna semireazione rispetto all’ossigeno aggiungendo l’appropriato numero di molecole d’acqua al membro in difetto di ossigeno: Fe(s) = Fe3+(aq) Cl2(aq) = Cl-(aq) 4 – Bilanciare l’equazione di ciascuna semireazione rispetto all’idrogeno aggiungendo l’appropriato numero di ioni H+ al membro in difetto di idrogeno: Fe(s) = Fe3+(aq) Cl2(aq) = Cl-(aq) 5 - Bilanciare l’equazione di ciascuna semireazione rispetto alla carica aggiungendo l’appropriato numero di elettroni al membro con eccesso di carica positiva: Fe(s) = Fe3+(aq) + 3eCl2(aq) + 2e- = 2Cl-(aq) 6 – Moltiplicare membro a membro ciascuna equazione delle semireazioni per numeri interi in modo tale che il numero totale degli elettroni ceduti dalla semireazione di ossidazione sia uguale al numero di quelli acquistati nella semireazione di riduzione: 2Fe(s) = 2Fe3+(aq) + 6e3Cl2(aq) + 6e- = 6Cl-(aq) 7 – Scrivere l’equazione completa bilanciata sommando membro a membro le due semireazioni bilanciate e semplificando i termini simili. 120 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi 2Fe(s) + 3Cl2(aq) = 2Fe3+(aq) + 6Cl-(aq) Si consideri adesso una reazione di ossido-riduzione un po’ più complessa, nella quale entrano in gioco anche i bilanciamenti degli ioni H+ e degli atomi di ossigeno, quindi in soluzione acida: Fe2+(aq) + Cr2O72-(aq) = Fe3+(aq) + Cr3+(aq) Seguendo lo stesso procedimento visto in precedenza, si ottiene: 1 – Dividere l’equazione in due equazioni distinte per la semireazione di ossidazione e la semireazione di riduzione: Fe2+(aq) → Fe3+(aq) ossidazione Cr2O72-(aq) → Cr3+(aq) riduzione 2 – Bilanciare l’equazione di ciascuna semireazione rispetto a tutti gli elementi tranne ossigeno e idrogeno: Fe2+(aq) → Fe3+(aq) Cr2O72-(aq) → 2Cr3+(aq) 3 – Bilanciare l’equazione di ciascuna semireazione rispetto all’ossigeno aggiungendo l’appropriato numero di molecole d’acqua al membro in difetto di ossigeno: Fe2+(aq) → Fe3+(aq) Cr2O72-(aq) → 2Cr3+(aq) + 7H2O(l) 4 – Bilanciare l’equazione di ciascuna semireazione rispetto all’idrogeno aggiungendo l’appropriato numero di ioni H+ al membro in difetto di idrogeno: Fe2+(aq) → Fe3+(aq) 14H+(aq) + Cr2O72-(aq) → 2Cr3+(aq) + 7H2O(l) 5 - Bilanciare l’equazione di ciascuna semireazione rispetto alla carica aggiungendo l’appropriato numero di elettroni al membro con eccesso di carica positiva: Fe2+(aq) → Fe3+(aq) + e14H+(aq) + Cr2O72-(aq) + 6e- → 2Cr3+(aq) + 7H2O(l) 6 – Moltiplicare membro a membro ciascuna equazione delle semireazioni per numeri interi in modo tale che il numero totale degli elettroni ceduti dalla semireazione di ossidazione sia uguale al numero di quelli acquistati nella semireazione di riduzione: 6Fe2+(aq) → 6Fe3+(aq) + 6e14H+(aq) + Cr2O72-(aq) + 6e- → 2Cr3+(aq) + 7H2O(l) 121 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi 7 – Scrivere l’equazione completa bilanciata sommando membro a membro le due semireazioni bilanciate e semplificando i termini simili. 6Fe2+(aq) + 14H+(aq) + Cr2O7-2(aq) → 6Fe3+(aq) + 2Cr3+(aq) + 7H2O(l) Le reazioni di ossidoriduzione che avvengono in ambiente basico si bilanciano aggiungendo ioni OH-, anziché H+, e, di conseguenza, sarà necessario aggiungere molecole d’acqua nell’altro membro dell’equazione chimica per ottenere il bilanciamento degli atomi di idrogeno e di quelli di ossigeno. Si consideri, ad esempio, la reazione di dissoluzione del cloro in soluzione basica: Cl2(g) → ClO3-(aq) + Cl-(aq) Questa reazione di ossido riduzione viene detta disproporzione poiché la stessa sostanza, ovvero il cloro, viene sia ossidata che ridotta nella stessa reazione. 1 – Dividere l’equazione in due equazioni distinte per la semireazione di ossidazione e la semireazione di riduzione: Cl2(g) → ClO3 -(aq) ossidazione Cl2(g) → Cl-(aq) riduzione 2 – Bilanciare l’equazione di ciascuna semireazione rispetto a tutti gli elementi tranne ossigeno e idrogeno: Cl2(g) → 2ClO3 -(aq) Cl2(g) → 2Cl-(aq) 3 – Bilanciare l’equazione di ciascuna semireazione rispetto all’ossigeno aggiungendo l’appropriato numero di ioni OH- al membro in difetto di ossigeno: Cl2(g) + 6OH-(aq) → 2ClO3 -(aq) Cl2(g) → 2Cl-(aq) 4 – Bilanciare l’equazione di ciascuna semireazione rispetto all’idrogeno aggiungendo l’appropriato numero di molecole d’acqua al membro in difetto di idrogeno e bilanciando la reazione: Cl2(g) + 12OH-(aq) → 2ClO3 -(aq) + 6H2O(l) Cl2(g) → 2Cl-(aq) 5 - Bilanciare l’equazione di ciascuna semireazione rispetto alla carica aggiungendo l’appropriato numero di elettroni al membro con eccesso di carica positiva: 122 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Cl2(g) + 12OH-(aq) → 2ClO3 -(aq) + 6H2O(l) + 10eCl2(g) + 2e-→ 2Cl-(aq) 6 – Moltiplicare membro a membro ciascuna equazione delle semireazioni per numeri interi in modo tale che il numero totale degli elettroni ceduti dalla semireazione di ossidazione sia uguale al numero di quelli acquistati nella semireazione di riduzione: Cl2(g) + 12OH-(aq) → 2ClO3 -(aq) + 6H2O(l) + 10e5Cl2(g) + 10e-→ 10Cl-(aq) 7 – Scrivere l’equazione completa bilanciata sommando membro a membro le due semireazioni bilanciate e semplificando i termini simili. 6Cl2(g) + 12OH-(aq) → 2ClO3-(aq) + 10Cl-(aq) + 6H2O(l) L’equazione ottenuta può anche essere divisa per due, pertanto la reazione finale sarà: 3Cl2(g) + 6OH-(aq) → ClO3-(aq) + 5Cl-(aq) + 3H2O(l) 6.7 Cenni di elettrochimica L’elettrochimica è lo studio dei processi chimici che si verificano al passaggio di una corrente elettrica attraverso un materiale. Il passaggio di corrente elettrica attraverso un elettrolita viene detto elettrolisi. Le modificazioni chimiche durante l’elettrolisi avvengono in corrispondenza degli elettrodi. Da una reazione di ossidoriduzione si può ricavare una corrente elettrica mediante un apparecchio chiamato cella elettrochimica. Una cella elettrochimica è caratterizzata dal suo voltaggio, che è una misura della forza con cui una corrente elettrica viene spinta attraverso un conduttore. Il voltaggio della cella dipende dalla concentrazione delle varie specie presenti nella cella di reazione. Lo studio dell’elettrochimica ebbe inizio nel 1791, quando lo scienziato italiano Luigi Galvani dimostrò che una corrente elettrica era in grado di provocare la contrazione di una zampa di rana. Partendo dagli studi di Galvani, Alessandro Volta costruì un apparecchio, detto pila voltaica, costituito da parecchi dischi di metalli diversi, ad esempio zinco e rame, alternati e separati tra loro da tamponi di stoffa impregnati di una soluzione salina. Michael Faraday impiegò le pile voltaiche per studiare l’effetto del passaggio di una corrente elettrica attraverso soluzioni di vari elettroliti e scoprì che in 123 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi certe condizioni il passaggio di corrente provoca reazioni chimiche che non potrebbero verificarsi altrimenti. Una reazione chimica provocata dal passaggio di corrente è detta elettrolisi (fig. 71). Fig. 71 Elettrolisi dell’acqua contenente solfato di sodio. Il gas che si svolge sull’elettrodo di platino collegato con il disco di zinco superiore della serie di celle è idrogeno mentre il gas che si svolge sull’elettrodo di platino collegato con il disco di rame sul fondo della pila è ossigeno. La corrente è trasportata attraverso la soluzione da ioni Na+(aq) e ioni SO42-(aq), (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) Faraday scoprì che al passaggio di una corrente elettrica attraverso le soluzioni di molti sali si formano depositi dei metalli corrispondenti. Controllando la corrente elettrica che attraversa la soluzione si può controllare il numero di elettroni forniti alla reazione elettrochimica. L’intensità di corrente elettrica viene misurata in ampere (A): un ampere è definito come il flusso di un coulomb di carica al secondo. corrente = carica/tempo I = Q/t carica totale = corrente x tempo Q=I·t (coulomb = ampere x secondi) Le sperimentazioni e le osservazioni di Faraday sono raccolte nelle leggi di Faraday che dicono: Prima legge: L’entità di una reazione elettrochimica dipende esclusivamente dalla quantità di elettricità che attraversa la soluzione. Ovvero la massa di una sostanza, prodotta o consumata ad un elettrodo, è proporzionale alla quantità di carica elettrica che è passata attraverso la cella. 124 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Seconda legge: La quantità in peso di una sostanza depositata come metallo o liberata come gas dal passaggio di una determinata quantità di elettricità è direttamente proporzionale al peso molare della sostanza diviso il numero degli elettroni scambiati per unità formula nel corso della reazione. Faraday introdusse una costante, che si ritroverà in tutte le relazioni principali dell’elettrochimica, e che viene detta costante di Faraday, indicata con il simbolo F. F = 96485,31 coulomb per mole = 9,648531 x104 Cmol-1. Le leggi di Faraday furono scoperte nel 1833, quindi mezzo secolo prima che fosse scoperto l’elettrone e che fosse compresa la base atomica dell’elettricità. Il valore di F può essere ricavato considerando che la carica dell’elettrone è pari a 1,6021773x10-19 C e che il numero di Avogadro è pari a 6,022137x1023mol-1. Quindi, una mole di elettroni possiede una carica pari a: Q = (6,022137x1023mol-1)(1,6021773x10-19 C) = 96.485,31 C mol-1, che rappresenta appunto la costante di Faraday. Nell’apparecchio per l’elettrolisi visto prima la corrente viene trasportata da cationi e anioni che si muovono in direzioni opposte verso due barrette di platino che vengono dette elettrodi. Un elettrodo è costituito da una fase solida sulla cui superficie avvengono reazioni ossidoriduzione: l’elettrodo su cui avviene la semireazione di riduzione è detto catodo; l’elettrodo su cui avviene la semireazione di ossidazione è detto anodo. Molti prodotti chimici vengono preparati industrialmente mediante elettrolisi. Ad esempio i metalli alcalini ed alcuni metalli alcalino-terrosi vengono preparati industrialmente mediante elettrolisi. Tutto l’idrossido di sodio e gran parte del cloro prodotto negli Stati Uniti vengono preparati mediante il processo cloro-alcali, basato sull’elettrolisi di una soluzione acquosa concentrata di NaCl. La reazione complessiva è: 2NaCl(aq) + 2H2O(l) → 2NaOH(aq) + Cl2(g) + H2(g) Le due semireazioni sono: 2Na+(aq) + 2H2O(l) + 2e- → 2NaOH(aq) + H2(g) 2Cl-(aq) → Cl2(g) + 2e- al catodo all’anodo 125 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi 6.8 Celle elettrochimiche Una cella elettrochimica produce elettricità direttamente da una reazione chimica. Si consideri la reazione spontanea: Zn(s) + CuSO4(aq) → Cu(s) + ZnSO4(aq) Una cella elettrochimica che sfrutta questa reazione è formata da due diversi metalli, Zn e Cu, immersi in soluzioni elettrolitiche contenenti rispettivamente gli ioni metallici Zn2+ e Cu2+ e mantenute in contatto elettrico mediante un ponte salino. Il ponte salino è costituito da una soluzione satura di KCl miscelata con agar, una sostanza gelatinosa aggiunta allo scopo di trattenere nel tubo la soluzione salina e di evitare la miscelazione delle soluzioni. Il ponte salino costituisce un percorso per la corrente ionica tra la soluzione di solfato di zinco e quella di solfato di rame impedendone al contempo la miscelazione (fig. 72). Fig. 72, Esempio di cella elettrochimica, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) Gli elettrodi sono collegati a cavi elettrici che permettono alla cella elettrochimica di fornire corrente elettrica ad un circuito esterno. Le semireazioni di cella sono: Zn(s) → Zn2+(aq) +2e- ossidazione dello zinco Cu2+(aq) + 2e- → Cu(s) riduzione del rame Gli elettroni prodotti per ossidazione dello zinco all’elettrodo di zinco si spostano attraverso il circuito esterno verso l’elettrodo di rame, dove vengono consumati nella riduzione di Cu2+(aq) a Cu(s). Poiché ioni Zn2+(aq) vengono prodotti nella soluzione che 126 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi contiene l’elettrodo di zinco, degli ioni negativi, in questo caso Cl-(aq), devono fluire attraverso il ponte salino verso la soluzione di solfato di zinco per mantenere la neutralità elettrica della soluzione. D’altra parte, poiché dalla soluzione contenente l’elettrodo di rame vengono rimossi ioni Cu2+(aq), degli ioni positivi, in questo caso K+(aq), devono fluire attraverso il ponte salino verso la soluzione di solfato di rame per mantenere la neutralità elettrica. Un diagramma di cella è una rappresentazione grafica sintetica di una cella elettrochimica: Zn(s) | ZnSO4(aq) || CuSO4(aq) | Cu(s) Le barre verticali semplici indicano la separazione tra fasi distinte in contatto tra loro, la doppia barra indica il ponte salino. La convenzione adottata per scrivere le equazioni che descrivono le reazioni di cella è quella di scrivere la semireazione dell’elettrodo di sinistra come equazione della semireazione di ossidazione e la semireazione dell’elettrodo di destra come equazione della semireazione di riduzione. Le celle elettrochimiche che funzionano spontaneamente vengono dette anche celle galvaniche o celle voltaiche. Collegando gli elettrodi ad un circuito esterno, in particolare ad un voltmetro, è possibile misurare la differenza di potenziale che si produce in seguito alla reazione di ossido-riduzione che avviene spontanemente nelle soluzioni della celle voltaica. Un elettrodo che coinvolge specie chimiche gassose è detto elettrodo a gas. L’elettrodo a gas più importante è l’elettrodo ad idrogeno. Questo elettrodo è costituito da una spirale di platino inserita nel compartimento della cella elettrochimica che contiene le specie H+(aq) e H2(g). Il platino è un metallo relativamente non reattivo, che fornisce semplicemente la superficie su cui avviene la reazione di riduzione senza parteciparvi. Accoppiando un elettrodo ad idrogeno con un elettrodo di zinco si ottiene il seguente diagramma di cella (fig. 73): Zn(s) | Zn2+(aq) || H+(aq) | H2(g) | Pt(s) 127 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Fig. 73 Esempio di cella elettrochimica con elettrodo a gas, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) Facendo riferimento alla termodinamica, occorre introdurre un tipo di lavoro fondamentale in elettrochimica, ovvero il lavoro elettrico welettr che sarà dato dalla relazione welettr = -QΔE. Il segno negativo è dovuto al fatto che si tratta di lavoro eseguito dal sistema (in questo caso la cella elettrochimica), in base alla convenzione stabilita in termodinamica. ΔE è la differenza di potenziale che si genera per spostamento attraverso il circuito della carica Q. A temperatura e pressione costante, dalla termodinamica sia ha che il lavoro massimo che può eseguire il sistema sarà dato dalla variazione di energia libera: welettr,max = ΔG. Pertanto ΔG = -QΔE = -nFΔE (per un processo reversibile). Per reazioni che avvengono in una cella elettrochimica, la variazione di energia libera standard, ΔG°, sarà in relazione al voltaggio standard di cella, ΔE°: ΔG° = -nFΔE°. Il voltaggio standard della cella elettrochimica è quello calcolato quando i reagenti e i prodotti sono nei loro stati standard. È importante sottolineare il fatto che non è possibile misurare potenziali elettrici di un singolo elettrodo, mentre è possibile misurare solamente differenze di potenziale. Se però si attribuisce un valore arbitrario al potenziale standard di una semicella di riferimento, è possibile poi, per differenza, determinare i potenziali standard di tutte le altre semicelle. Per convenzione si pone uguale a zero il potenziale standard di riduzione dell’elettrodo a idrogeno, cioè si pone E° = 0 per la semireazione di elettrodo: 2H3O+(aq, 1M) + 2e- → H2(g, 1 atm) + 2H2O(l) 128 E° = 0 per convenzione Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Quando due semicelle vengono combinate per formare una cella galvanica, avviene la riduzione nella semicella con il potenziale maggiore (catodo) e l’ossidazione nella semicella con il potenziale minore (anodo). Quindi per la cella elettrochimica completa si può scrivere: ΔE°cella = E°(catodo) - E°(anodo) Queste equazioni possono essere utilizzate per compilare la tabella dei potenziali standard di riduzione. Infatti, i potenziali standard delle singole semireazioni vengono, per convenzione, riportati come potenziali di riduzione partendo da quelli più positivi via via fino a quelle più negativi. Un forte agente ossidante è una specie chimica che si riduce facilmente e sarà quindi caratterizzata da un potenziale di riduzione molto positivo. Ossidanti forti sono il fluoro, F2, l’acqua ossigenata, H2O2, l’ozono O3, il cloro, Cl2, l’ossigeno, O2, ecc. Un forte agente riducente è una specie chimica che si ossida facilmente e sarà quindi caratterizzata da un potenziale molto negativo. Riducenti forti sono generalmente i metalli alcalini e alcalino-terrosi, l’idrogeno, H2, ecc. 6.9 L’equazione di Nernst Walther Nernst fu uno dei pionieri dell’elettrochimica e ricevette il premio Nobel per la chimica per i suoi studi sulla dipendenza dei potenziali di cella dalla concentrazione degli elettroliti, dalle dimensioni degli elettrodi e da altri fattori. Il potenziale di cella è una misura della forza motrice della reazione e quindi l’effetto della variazione di concentrazione di un reagente o di un prodotto su di esso può essere spiegato in termini qualitativi applicando il principio di Le Châtelier alla reazione di cella. Da un punto di vista termodinamico si ha che ΔG = ΔG° + RT lnQ, dove si ricordi che Q è il quoziente di reazione. Considerando che ΔG = -nFΔE e che ΔG° = -nFΔE°, si ottiene la seguente relazione che rappresenta appunto l’equazione di Nernst: ΔE = ΔE° - RT/nF lnQ Considerando che lnQ = 2,303 log10Q, e sostituendo i valori delle costanti R e F a temperatura di 298,15 K, si ottiene l’equazione di Nernst nella forma: 129 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi ΔE = ΔE° - 0,0592/n log10Q L’elettrochimica fornisce un modo conveniente ed accurato per determinare le costanti di equilibrio di molte reazioni chimiche in soluzioni. Infatti, poiché la variazione di energia libera standard è legata alla costante di equilibrio dalla relazione: ΔG° = -RTlnK e poiché: ΔG° = -nFΔE°, combinando le due espressioni si ha: RTlnK = nFΔE°, lnK = nF/RT ΔE° e quindi: log10 K = n/0,0592 ΔE° (a 25 °C) Lo stesso risultato può essere ottenuto a partire dall’equazione di Nernst che a 25° C ha la seguente espressione: ΔE = ΔE° - 0,0592/n log10Q Quando si raggiunge la condizione di equilibrio non si ha più variazione del potenziale e dunque ΔE = 0 e Q = K, pertanto vale la relazione ΔE° = 0,0592/n log10K. 6.10 Tipi di elettrodi Una branca molto importante della chimica analitica è costituita dalla potenziometria che sfrutta la misura del voltaggio delle celle per ottenere informazioni chimiche. La cella per la misura potenziometrica è costituita da un elettrodo indicatore (ad esempio platino), che risponde alla concentrazione dell’analita, e da un elettrodo di riferimento che mantiene un potenziale costante e definito. Un comune elettrodo di riferimento quello ad argento-cloruro d’argento (fig. 74a), basato sulla reazione: AgCl(s) + e- → Ag(s) + Cl- E (KCl saturo) = + 0,197 V Un altro elettrodo di riferimento molto utilizzato in elettrochimica è l’elettrodo a calomelano saturo (E.C.S, fig. 74b), basato sulla reazione: 130 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Hg2Cl2(s) + 2e- → 2Hg(l) + 2Cl- E (KCl saturo) = + 0,197 V Il cloruro mercuroso, Hg2Cl2, è detto calomelano. (a) (b) Fig. 74 Elettrodi di riferimento ad argento-cloruro d’argento (a) e a calomelano saturo (b), (da D. C. Harris, Chimica analitica quantitativa, Zanichelli, 1991) In potenziometria sono particolarmente importanti gli elettrodi iono-selettivi ovvero queli elettrodi che rispondono selettivamente ad una sola specie in soluzione. Questi elettrodi sono costituiti da una membrana che separa il campione incognito dall’interno dell’elettrodo dove è presente lo ione da determinare a concentrazione nota e costante. La differenza di concentrazione dello ione da misurare, nella soluzione interna all’elettrodo e nel campione, genera attraverso la membrana una differenza di potenziale che, una volta misurata, permetterà di determinare la concentrazione dello ione nel campione, essendo quella interna all’elettrodo nota e costante. L’elettrodo iono-selettivo più importante e utilizzato è l’elettrodo a vetro per la misura del pH. Gli elettrodi a vetro utilizzati oggi sono elettrodi combinati (fig. 75), ovvero elettrodi che comprendono in un unico corpo sia l’elettrodo a vetro vero e proprio che l’elettrodo di riferimento. Questo elettrodo può essere schematizzato come: 131 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Ag(s) | AgCl(s) | Cl-(aq) || H+(aq, esterno) ¦ H+(aq, interno), Cl-(aq) | AgCl(s) | Ag(s) La linea tratteggiata verticale indica la membrana di vetro. È stato dimostrato da studi sperimentali che nell’elettrodo a vetro, la membrana si porta in equilibrio con gli ioni H+ su ciascuna superficie e che sono gli ioni Na+ che trasportano la carica attraverso la membrana coordinandosi con gli atomi di ossigeno carichi negativamente e presenti nel reticolo del vetro della membrana. Poiché la concentrazione di Cl- è costante in ciascun compartimento dell’elettrodo e quella di H+ è costante all’interno della membrana di vetro, l’unico fattore che può produrre una differenza di potenziale è una variazione di pH nella soluzione al di fuori della membrana di vetro. Fig. 75 Elettrodo combinato per la misura del pH, avente un elettrodo di riferimento ad argento-cloruro d’argento, (da D. C. Harris, Chimica analitica quantitativa, Zanichelli, 1991) L’elettrodo a vetro viene utilizzato normalmente nei pH-metri, strumenti di laboratorio o portatili, che vengono appunto impiegati per la misura del pH. Gli elettrodi a vetro, prima di essere utilizzati, devono essere tarati per mezzo di soluzioni tampone a pH noto e definito. In genere, per la maggior parte dei pH metri, la taratura viene effettuata immergendo l’elettrodo a vetro in una soluzione a pH = 7 e aspettando che si equilibri. Poi, l’elettrodo viene immerso nella seconda soluzione tampone il cui pH viene scelto in funzione dell’intervallo di misura che sperimentalmente si pensa di utilizzare, in genere 132 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi pH = 4 o pH = 9. Ogni volta, prima di immergere l’elettrodo in una soluzione, esso deve essere accuratamente sciacquato e asciugato. Infine, l’elettrodo a vetro deve sempre essere conservato in una soluzione acquosa di KCl per evitare che lo strato di gel idratato della membrana si asciughi e quindi occorrano poi tempi molto lunghi per rigenerarlo. 6.11 La corrosione dei metalli La corrosione dei metalli è uno dei problemi più gravi per le società industriali con costi elevatissimi per le nazioni più industrializzate. La corrosione coinvolge chiaramente il settore dei beni culturali e della conservazione dei manufatti metallici soprattutto quelli esposti all’aperto (statue e portali) nelle aree urbane ad alta densità abitativa. Gli effetti della corrosione sono sia visibili (formazione di strati superficiali ad esempio di ruggine nel caso del ferro) che invisibili (rotture e indebolimenti del metallo sotto la superficie). La corrosione può essere vista come una cella galvanica “corto-circuitata” nella quale alcune zone della superficie del metallo funzionano da catodo e altre da anodo e il circuito elettrico si chiude con il flusso degli elettroni attraverso il metallo stesso. Queste celle elettrochimiche si formano nelle parti del metallo dove sono presenti impurezze oppure stress meccanici del materiale. Nel caso del ferro, uno dei metalli notoriamente più facilmente soggetti a corrosione, la reazione anodica è: Fe(s) → Fe2+(aq) + 2eSono possibili diverse reazioni catodiche a seconda che sia presente ossigeno oppure questo sia carente (ad esempio manufatti immersi o seppelliti). Nel secondo caso le reazioni di corrosione sono: Fe(s) → Fe2+(aq) + 2e2H2O(l) + 2e- → 2OH- + H2(g) (anodo) (catodo) Fe(s) + 2H2O(l) → Fe2+(aq) + 2OH- + H2(g) La reazione di corrosione del ferro è molto più rilevante in presenza di ossigeno e acqua, in questo caso la reazione catodica è: 133 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi ½ O2(g) + 2H3O+(aq) + 2e- → 3H2O(l) Gli ioni Fe2+ che si formano nello stesso tempo all’anodo, migrano al catodo dove vengono ulteriormente ossidati per azione di O2 e passono allo stato di ossidazione +3 formando la ruggine (Fe2O3 · xH2O), un ossido di ferro (III) idrato: 2Fe2+(aq) + ½ O2(g) + (6+x)H2O(l) → Fe2O3 · xH2O + 4H3O+(aq) Sul catodo si forma la ruggine mentre all’anodo il metallo si consuma per perdita di ioni che, una volta formatisi per ossidazione, migrano verso il catodo. I sali disciolti favoriscono la corrosione poiché forniscono un elettrolita che migliora il flusso della carica attraverso la soluzione. Anche l’acidità aumenta la corrosione, infatti gli ioni H3O+ partecipano attivamente alla reazione vera e propria di corrosione; la CO2 (che produce ioni H3O+ e HCO3-) aumenta la corrosione; l’inquinamento da ossidi di zolfo, che formano acido solforico disciolto nelle piogge acide, favorisce la corrosione. Un metodo per proteggere i metalli dalla corrosione è quello di verniciarli, tuttavia la vernice può deteriorarsi o graffiarsi. Una protezione molto più efficace è quella della passivazione, mediante la quale si forma sulla superficie del metallo un sottile strato di ossido che previene ulteriori reazioni elettrochimiche. Alcuni metalli si passivano spontaneamente per esposizione all’aria, ad esempio l’alluminio forma uno strato di Al2O3. Un altro metodo, infine, è quello di usare un anodo sacrificale, ovvero un altro metallo che si ossida molto più facilmente di quello che deve essere protetto e quindi si consuma per primo. Chiaramente, l’anodo sacrificale deve essere periodicamente sostituito prima che si consumi completamente. 134 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi CAPITOLO 7 7.1 Cenni di chimica organica La chimica organica può essere definita come la chimica dei composti del carbonio. L’atomo di carbonio possiede la capacità di stabilire legami covalenti con altri atomi di carbonio formando catene o anelli di atomi di carbonio. Quasi tutti i composti di importanza biologica sono costituiti da molecole contenenti molti atomi di carbonio. Nei composti organici, il carbonio può presentare, come già visto al par. 2.9, diversi tipi di ibridazione dei suoi orbitali formando legami singoli (ibridazione di tipo sp3), doppi (ibridazione sp2) e tripli (ibridazione sp). Una caratteristica importante dei composti organici è la presenza di isomeria strutturale ovvero molecole che hanno la stessa formula chimica ma diversa struttura. Un tipo di isomeria già discussa al par. 2.9 (p.46) è quella di tipo geometrico (stereoisomeria cis-trans). Un'altra isomeria molto importante per i composti organici è quella ottica o chiralità. Un atomo di carbonio che si lega tramite legami singoli con quattro atomi o gruppi diversi può esistere in due forme che sono una l’immagine speculare dell’altra non interconvertibili una nell’altra senza rottura dei legami e riarrangiamento molecolare. I due isomeri ottici vengono chiamati anche enantiomeri e, se separati, essi ruotano il piano della luce polarizzata in direzioni diverse: si dice che le molecole sono otticamente attive. Gli isomeri ottici hanno le stesse proprietà fisiche ma diverso comportamento chimico nel caso si trovino ad interagire con molecole otticamente attive. Le proteine sono un esempio molto importante dell’isomeria ottica; anche in campo farmacologico questo concetto è di fondamentale importanza per la progettazione di sostanze che spesso hanno attività curativa solo in una forma isomerica mentre nell’altra possono risultare addirittura dannosi. I composti organici possono essere classificati come segue: a) alifatici, composti nei quali gli atomi di carbonio sono legati tra di loro per formare: una catena lineare; una catena ramificata; una catena chiusa. b) aromatici, composti con gruppi caratteristici disposti su uno o più anelli di benzene. c) eterociclici, composti che hanno nella loro catena ciclica anche atomi diversi dal carbonio. 135 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi 7.2 Idrocarburi alifatici I composti organici formati soltanto da carbonio ed idrogeno sono detti idrocarburi. Gli idrocarburi che presentano soltanto legami semplici sono detti alcani. Il metano, CH4, è il primo membro della serie degli alcani seguito da etano, C2H6, propano, C3H8, butano, C4H10, ecc (fig. 76). Fig. 76 Primi tre membri della serie degli alcani, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) Il quarto membro della serie degli alcani, il butano, può esistere in due forme: il normal butano e l’isobutano che presentano la stessa formula chimica ma struttura diversa e quindi proprietà chimiche e fisiche diverse (fig. 77). Composti con la stessa formula molecolare ma diverse strutture sono detti isomeri strutturali. Fig. 77 Isomeri strutturali del butano, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) 136 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Negli alcani ciascuno dei quattro legami del carbonio è impegnato con un altro atomo: la capacità di ciascun carbonio è satura, perciò gli alcani vengono detti idrocarburi saturi. I legami semplici carbonio-carbonio negli alcani sono legami σ. Il carbonio, negli alcani, ha un’ibridazione di tipo sp3 (geometria tetraedrica). I membri successivi della serie vengono indicati con un prefisso che indica il numero di atomi di carbonio (pent-, es-, ept-, ott-, ecc.) con la desinenza –ano che indica che si tratta di un alcano. I primi quattro alcani sono gas a temperatura ambiente mentre alla stessa temperatura gli alcani dal n-pentano al n-decano sono liquidi. Gli alcani più pesanti sono solidi cerosi. Il punto di ebollizione degli alcani aumenta in funzione del peso molecolare, in accordo con il fatto che le forze di van der Waals tra le molecole aumentano proporzionalmente alle dimensioni delle molecole stesse. Il numero degli isomeri strutturali aumenta in funzione del numero di atomi di carbonio presenti nell’alcano. Esistono tre isomeri del pentano (fig. 78). Fig. 78 Isomeri strutturali del pentano, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) La fonte principale di composti organici sulla Terra è costituita da una miscela naturale detta petrolio. Altre fonti importanti sono il carbone minerale, il gas naturale, e la fermentazione di sostanze naturali. Il petrolio è una miscela complessa di idrocarburi contenente composti organosolforati e organoazotati. Il trattamento iniziale del 137 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi petrolio nelle raffinerie consiste nella distillazione frazionata un processo che separa il petrolio in frazioni con intervalli diversi di punti di ebollizione. Etere di petrolio 20°-60° C Nafta 60° - 100° C Benzina 40° - 205° C Cherosene 175° - 325° C Gasolio > 275 °C e oli combustibili. Il residuo della distillazione è detto asfalto. Gli alcani e gli alcani sostituiti possono essere denominati sistematicamente secondo le regole IUPAC (International Union of Pure and Applied Chemistry). Si consideri come esempio il composto: Esempio di applicazione della nomenclatura IUPAC, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) 1 – Per gli alcani a catena lineare si usa il nome con la desinenza –ano senza il prefisso n. 2 – Per ottenere il nome di un alcano ramificato o sostituito occorre anzitutto riconoscere all’interno della molecola la catena lineare più lunga di atomi di carbonio. 3 – Gli atomi di carbonio della catena principale vengono numerati in successione, cominciando dall’estremità per la quale il primo atomo di carbonio sostituito ottiene la numerazione più bassa. 4 – La denominazione dei gruppi legati alla catena principale è quella riportata nella tabella mostrata di seguito. I gruppi che derivano dagli alcani sono detti gruppi alchilici. Quindi il composto in esame si chiamerà: 2-cloro-3-metilpentano. 5 – Se alla catena principale sono legati due o più gruppi differenti essi vengono citati in ordine alfabetico. Ad esempio se nel composto sopra considerato il cloro stesse in posizione 3 e il gruppo metile in posizione 2, l’alcano si chiamerebbe: 3-cloro-2metilpentano. 138 Corso di Chimica analitica GRUPPO NOME -CH3 Metile -CH2CH3 Etile -CH2CH2CH3 Propile CH3CH2CH3 Isopropile Dott.ssa Claudia Pelosi | -CH=CH2 Vinile -C5H6 fenile -F Fluoro -Cl Cloro -Br Bromo -I Iodio -NH2 Amino -NO2 Nitro 6 – Se alla catena principale sono legati due o più gruppi identici si usano i prefissi numerali di-, tri-, tetra-. Ciascun gruppo deve essere denominato e numerato, anche se due gruppi identici sono legati allo stesso atomo di carbonio. I cicloalcani sono idrocarburi con una molecola ciclica con formula generale CnH2n. In genere si preferisce indicare i cicloalcani con figure geometriche semplici (triangolo per il ciclopropano, quadrato per il ciclobutano, pentagono per il ciclopentano, ecc). Esempi di derivati dei cicloalcani, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991) 139 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi La molecola del cicloesano ha una disposizione non planare degli atomi di carbonio con formazione di due strutture. Nella struttura a sedia del cicloesano si individuano due tipi di legami carbonio-idrogeno: assiale ed equatoriale. Strutture del cicloesano, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991) Una delle reazioni più importanti degli alcani è quella di combustione che avviene in presenza di ossigeno portando alla formazione di anidride carbonica e acqua. Queste reazioni sono fortemente esotermiche e costituiscono il presupposto dello sfruttamento degli idrocarburi come combustibili. C3H8(g) + 5O2(g) → 3CO2(g) + 4H2O(l) ΔH = -2040 kJ Altre reazioni tipiche degli alcani sono quelle di sostituzione: se una miscela di un alcano con cloro gassoso viene sottoposta all’azione di radiazioni UV avviene una reazione in cui uno o più atomi di idrogeno dell’alcano vengono sostituiti da atomi di cloro. Ad esempio per il metano si ha: UV CH4(g) + Cl2(g) → CH3Cl(g) + HCl(g) La funzione della radiazioni UV è quella di scindere i legami nella molecola di cloro e di produrre radicali liberi altamente reattivi che quindi reagiscono subito con il metano. Variando le concentrazioni relative di metano e cloro è possibile ottenere diversi prodotti: clorometano, diclorometano, triclorometano, tetracloruro di carbonio. 140 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Un alcano in cui alcuni atomi di cloro sono stati sostituiti da atomi di alogeno è detto alogenuro alchilico o alogenoalcano. Gli idrocarburi che contengono uno o più doppi legami sono detti alcheni. Questi idrocarburi sono detti insaturi in quanto non tutti gli atomi di carbonio sono legati a quattro altri atomi. Il termine più semplice della serie degli alcheni è l’etilene, un composto molto importante a livello industriale in quanto il 40% circa di tutte le sostanze organiche prodotte industrialmente deriva da esso. Gli atomi di carbonio nell’etilene hanno un’ibridazione di tipo sp2; il doppio legame è formato da un legame σ e un legame π. etilene La nomenclatura IUPAC degli alcheni considera come riferimento la catena più lunga di atomi di carbonio contenente il doppio legame. Il nome del composto si ottiene sostituendo la desinenza –ano nel nome dell’alcano con la desinenza –ene per indicare l’alchene specificando anche con un numero l’atomo di carbonio che precede il doppio legame. Una caratteristica importante dei doppi legami carbonio-carbonio è la geometria planare imposta alla porzione circostante della molecola. Nomenclatura IUPAC della molecole del 2-butene, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) Gli alcheni sono più reattivi degli alcani in quanto il doppio legame carbonio-carbonio presente nella molecola costituisce un centro reattivo. Gli alcheni, oltre alle reazioni di 141 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi combustione danno origine a reazioni di addizione. La reazione di idrogenazione, ad esempio, è una reazione di addizione di idrogeno con formazione di un alcano: Reazione di idrogenazione del propene; come catalizzatori si usano in genere nichel e platino in polvere, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) Le reazioni di idrogenazione si utilizzano, ad esempio, per rendere solidi gli oli vegetali che normalmente a temperatura ambiente sono liquidi. Altre reazioni di addizione sono quelle degli alogeni (clorurazione, bromurazione, ecc., degli alcheni) e di acqua in ambiente acido per formare alogeno derivati (solventi e intermedi di reazione) e alcoli (si veda più avanti al par. 7.5). I doppi legami possono essere presenti anche nei composti ciclici che vengono detti cicloalcheni. Un tipico cicloalchene è il cicloesene. I dieni sono idrocarburi con più di un doppio legame. A seconda della posizione dei due doppi legami si possono avere: ♦ dieni con legami cumulati chiamati alleni. ♦ dieni con legami coniugati. ♦ dieni con legami isolati. Per assegnare il nome a questi composti il suffisso -ene deve essere preceduto da un prefisso indicante il numero di doppi legami nella molecola e da numeri indicanti la posizione dei doppi legami. Ad esempio l’1,3-butadiene presenta la seguente formula: CH2=CH-CH=CH2 1,3 butadiene L’1,3 butadiene viene ottenuto in grandissima quantità dal petrolio e è il prodotto di partenza per la produzione delle gomme sintetiche. Gli idrocarburi che contengono un triplo legame vengono detti alchini. L’alchino più semplice è l’acetilene, C2H2. L’acetilene è un gas incolore con odore penetrante. La molecola dell’acetilene è lineare con ibridazione sp degli atomi di carbonio. 142 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi H-C≡C-H etino o acetilene L’acetilene può essere prodotto mediante reazione tra carburo di calcio ed acqua: CaC2(s) + 2H2O(l) → Ca(OH)2(s) + C2H2(g) Questa reazione viene sfruttata nelle lampade usate dagli speleologi nelle grotte. Una volta che l’acetilene si è formato questo brucia in presenza di ossigeno producendo la fiamma. La nomenclatura IUPAC degli alchini si basa sulla catena più lunga di atomi di carbonio consecutivi contenenti il triplo legame. Il nome del composto viene ottenuto sostituendo con –ino la desinenza –ano nel nome dell’alcano corrispondente ed indicando con un numero l’atomo di carbonio che precede il triplo legame. Nomenclatura IUPAC di un alchino (3-metil-1-pentino), (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) 7.3 Idrocarburi aromatici Il benzene è il termine più semplice di quella classe di idrocarburi che sono detti aromatici. Il benzene è un liquido incolore con odore caratteristico, velenoso e infiammabile (punto di ebollizione 80,1 °C). Nel benzene i sei atomi di carbonio sono ibridati sp2 e sono disposti ai vertici di un esagono regolare (vedi par. 2.9). La molecola risulta planare con angoli di legame di 120°; gli elettroni p del carbonio che non partecipano alla formazione degli ibridi sp2 e quindi dei legami σ, si sovrappongono per formare i legami π delocalizzati su tutta la molecola. La delocalizzazione degli elettroni π conferisce una maggiore stabilità alla molecola: infatti, le reazioni che subisce il benzene sono quasi esclusivamente reazioni di sostituzione degli atomi di idrogeno con altri atomi o gruppi. Moltissimi sono i derivati dal benzene e il loro studio costituisce un’intera branca della chimica organica. Alcuni composti aromatici sono costituiti da diversi anelli fusi insieme con proprietà simili a quelle del benzene. 143 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Esempi di composti aromatici policiclici, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991) Il radicale che si ottiene rimuovendo un idrogeno dall’anello del benzene è detto radicale fenile. Il benzene è un prodotto del petrolio e viene impiegato per produrre materie plastiche, medicinali, fibre, vernici, lacche e sostanze coloranti, linoleum e molti altri prodotti. Nei composti aromatici monosostituiti il sostituente può essere posizionato su uno qualsiasi degli atomi di carbonio dell’anello benzenico essendo questi tutti equivalenti; nel caso invece dei composti con più sostituti le posizioni del benzene, rispetto ad un gruppo principale, vengono indicate come: ♦ orto, posizione più vicina al sostituente di riferimento; ♦ para, posizione diametralmente opposta al sostituente di riferimento; ♦ meta, posizione intermedia tra quella orto e quella para rispetto al sostituente di riferimento. Sostituzione nel benzene, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) Alcuni importanti derivati del benzene sono mostrati di seguito: 144 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Alcuni importanti derivati del benzene, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) È possibile indicare le posizioni sul benzene con dei numeri. I numeri di posizione dei sostituenti devono essere i più piccoli possibili. Gli idrocarburi aromatici derivati dal benzene e che possiedono una catena laterale alifatica sono chiamati areni. Il radicale -R può derivare dagli alcani, dagli alcheni e dagli alchini. Il nome di questi composti viene generalmente assegnato aggiungendo il termine benzene al nome del radicale presente. Alcuni areni hanno nomi correnti più usati dei nomi derivati dalla nomenclatura IUPAC. Ad esempio il metilbenzene, utilizzato come solvente, viene comunemente chiamato toluene. I benzeni con due gruppi –CH3 (1,2 dimetilbenzene, 1,3 dimetilbenzene e 1,4 dimetilbenzene) vengono chiamati comunemente xileni (orto, meta e para xilene, a seconda della posizione relativa dei due gruppi metilici) e anche questi derivati sono utilizzati come solventi. 7.4 Gruppi funzionali in chimica organica Come già detto gli idrocarburi sono composti organici costituiti da carbonio e idrogeno. Tuttavia in moltissimi composti organici uno o più atomi di idrogeno sono sostituiti da elementi diversi come ossigeno, azoto, alogeni. I gruppi funzionali nelle molecole organiche consistono di atomi diversi dal carbonio e dalla parte di molecola adiacente a questi atomi. I gruppi funzionali determinano le proprietà caratteristiche delle molecole organiche e la loro reattività. 145 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi I composti organici della classe degli alcoli sono caratterizzati dalla presenza del gruppo –OH legato ad una catena idrocarburica. Il nome degli alcoli, secondo la IUPAC, si ottiene sostituendo la desinenza –olo alla desinenza –o del nome dell’alcano corrispondente alla catena di atomi di carbonio consecutivi più lunga contenente il gruppo –OH. I nomi comuni degli alcoli si ottengono invece dalla parola alcol seguita dal nome del gruppo alchilico al quale è legato il gruppo –OH. Il gruppo –OH può essere legato a un carbonio primario (alcool primario), a un carbonio secondario (alcool secondario), a un carbonio terziario (alcool terziario). Esempi di alcoli, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991) In una molecola può essere presente più di un gruppo ossidrilico. Il nome viene assegnato indicando i numeri che individuano la posizione dei gruppi ossidrili nella molecola e aggiungendo il suffisso diolo o triolo (a seconda che siano presenti due o tre gruppi –OH rispettivamente) al nome dell’alcano: CH2 – CH2 | | OH OH 1,2 etandiolo meglio noto come glicole etilenico CH2 – CH – CH2 | | | OH OH OH 1,2,3 propantriolo meglio noto come glicerina o glicerolo L’etanolo e il metanolo sono senza dubbio gli alcoli più importanti, utilizzati soprattutto come solventi ma anche come intermedi di reazione. La produzione di alcol etilico viene condotta per fermentazione degli zuccheri, per l’utilizzo nelle bevande alcoliche, ma soprattutto per idratazione diretta dell’etilene: CH2 = CH2 + H2O → CH3-CH2OH Questa reazione viene condotta, a livello industriale, a 300-400 °C e ad una pressione di 60-70 atm, utilizzando come catalizzatore acido fosforico. 146 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Quando i gruppi ossidrilici sono legati all’anello benzenico i composti risultanti formano una classe a parte denominata classe dei fenoli, dal nome del composto più semplice, il fenolo (C6H5OH). Il fenolo, a differenza degli alcoli, presenta la caratteristica di essere debolmente acido. La ragione di questa acidità sta nel fatto che lo ione fenato, ovvero la base coniugata del fenolo, presenta una carica negativa delocalizzata sull’anello benzenico e quindi la sua formazione è favorita. Il fenolo trova impiego soprattutto nella produzione di materie plastiche, farmaci e fibre sintetiche. Il fenolo viene prodotto dal cumene (isopropilbenzene, a sua volta prodotto dalla reazione tra benzene e propilene in ambiente acido) per ossidazione industriale con O2. Questa reazione è importante perché consente di ottenere un altro composto organico molto utilizzato, l’acetone: Sintesi del fenolo, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991) Gli eteri sono composti caratterizzati da un ossigeno a cui sono legati due radicali. Per denominarli si assegna il nome ai radicali legati all’ossigeno e vi si aggiunge il termine etere. Gli eteri però si possono considerare anche come alcani sostituiti da un gruppo alcossi (RO-). Il più importante composto di questa classe è il dietil etere, spesso chiamato soltanto etere: C2H5-O-C2H5. Il dietil etere è un importante solvente per le reazioni organiche e in passato è stato utilizzato anche come anestetico. Il dietil etere viene preparato per reazione di condensazione tra due molecole di etanolo, a 140°C, in presenza di acido solforico concentrato che agisce da disidratante. 2CH3CH2OH + H2SO4 → CH3CH2OCH2CH3 + H2O Un altro etere molto importante è il metil t-butil etere (MTBE) che sta sempre più sostituendo il piombo tetraetile nelle benzien quale additivo per aumentare il numero di ottano. 147 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi CH3 | CH3-O-C-CH3 | CH3 Metil t-butil etere Gli eteri possono essere anche ciclici, come l’ossido di etilene che viene prodotto a partire dall’etilene per azione di ossigeno in presenza di argento come catalizzatore. Oltre ad essere trasformato in glicole etilenico, l’ossido di etilene trova impiego nella produzione di fibre, pellicole e detersivi. L’ossido di propilene viene impiegato per la produzione di materie plastiche, cellophane e fluidi idraulici. Ossido di etilene e di propilene, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991) Questi eteri con anelli a tre elementi vengono detti anche epossidi. Le aldeidi e i chetoni sono composti caratterizzati dal gruppo funzionale C=O detto carbonile; aldeidi e chetoni sono infatti detti composti carbonilici. Mentre nell’aldeide al carbonile è legato un idrogeno, nel chetone il carbonio carbonilico è legato a due radicali. Le formule generali sono: Formule generali di aldeidi e chetoni, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991) Il carbonio del gruppo carbonilico è ibridato sp2 e le molecole, pertanto, giacciono in un piano. Il nome delle aldeidi viene assegnato cambiando il suffisso –o dell’alcano in – ale. Il nome dei chetoni viene assegnato cambiando il suffisso –o dell’alcano in –one. 148 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi La numerazione viene assegnata: nel caso delle aldeidi partendo dall’atomo di carbonio aldeidico; nel caso dei chetoni usando il numero più basso possibile per evidenziare la posizione del carbonile. Il carbonile è un gruppo polare perché il legame carbonioossigeno risente della maggiore elettronegatività dell’ossigeno rispetto al carbonio. Alcuni esempi di aldeidi e chetoni, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991) La formaldeide è un gas con un odore penetrante e caratteristico; è uno degli agenti irritanti che si formano nello smog fotochimico. La maggior parte della formaldeide prodotta industrialmente viene impiegata nella produzione di materie plastiche. La formaldeide si scioglie rapidamente in acqua e una soluzione al 40% chiamata formalina, viene impiegata per conservare reperti biologici poichè, legandosi con l’azoto dei batteri, ne impedisce l’attacco sui tessuti da conservare. L’acetaldeide è un liquido incolore ed infiammabile con spiccato odore di frutta; viene usata nella produzione di profumi ed aromatizzanti, materie plastiche e gomme sintetiche, sostanze coloranti e un gran numero di altri prodotti chimici. Le aldeidi si ottengono per ossidazione degli alcoli primari. I chetoni si possono ottenere per ossidazione degli alcoli secondari. Gli acidi carbossilici alifatici e aromatici sono caratterizzati dal gruppo funzionale carbossilico –COOH. Se questo gruppo è legato ad un radicale alifatico R, il composto 149 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi sarà un acido carbossilico alifatico con formula generale R-COOH. Se invece il gruppo carbossilico è direttamente legato sul benzene si ha un acido carbossilico aromatico. Il nome degli acidi carbossilici alifatici viene assegnato trasformando il suffisso –o degli alcani in –oico e premettendo la parola acido. Gli acidi carbossilici aromatici si considerano derivati dall’acido benzoico. Alcuni esempi di acidi carbossilici, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991) Il primo acido della serie degli alifatici è l’acido formico, così chiamato perchè fu isolato per la prima volta per estrazione dai corpi triturati delle formiche; è un liquido fumante, incolore, molto solubile in acqua, che costituisce uno degli agenti irritanti contenuti nel liquido liberato dal morso delle formiche; è il più forte degli acidi carbossilici e la forza come acidi diminuisce all’aumentare della lunghezza della catena idrocarburica. L’acido acetico è un liquido limpido incolore con un caratteristico odore pungente. L’acido puro è chiamato acido acetico glaciale perché solidifica a 18 °C. Viene ampiamente utilizzato nell’industria per la produzione di materie plastiche ed acetati, di sostanze farmaceutiche, di coloranti e insetticidi, in fotografia e per la produzione di molte altre sostanze organiche. Gli acidi carbossilici sono polari. Formano legami idrogeno tra più molecole di acidi carbossilici e tra molecole di acidi carbossilici e altre molecole polari come l’acqua. Man mano che si allunga la catena degli acidi carbossilici alifatici diventa meno importante la funzione carbossilica rispetto al resto della molecola e la solubilità in acqua diminuisce. Quando la catena alifatica è piuttosto lunga (C>12), gli acidi carbossilici vengono detti acidi grassi. Come si vedrà più avanti alcuni di questi acidi grassi sono componenti fondamentali 150 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi degli oli cosiddetti siccativi, che debbono le loro proprietà proprio alle caratteristiche di questi acidi grassi. C15H31COOH acido palmitico C17H35COOH acido stearico C17H33COOH acido oleico C17H31COOH acido linoleico L’acido acetico viene preparato industrialmente soprattutto attraverso il processo di carbonilazione tra metanolo e ossido di carbonio (entrambi derivati da gas naturali), su un catalizzatore costituito da rodio (Rh) e iodio (I2). La reazione globale è: Rh, I2 CH3OH(g) + CO(g) → CH3COOH(g) Se la molecola ha due gruppi carbossilici il nome viene assegnato considerando il composto come un acido alcandioico. Alcuni esempi di acidi -dioici, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991) Gli acidi carbossilici reagiscono con gli alcoli e fenoli in presenza di un catalizzatore acido per dare origine agli esteri, con formazione di acqua come prodotto secondario. Il nome dell’estere viene dato specificando il gruppo alchilico dell’alcool seguito dal nome dell’acido carbossilico con la desinenza –ato. Ad esempio, l’estere che si forma per reazione tra l’alcol metilico e l’acido acetico si chiama acetato di metile. Uno degli esteri più importanti nella produzione industriale è l’acetato di vinile ottenuto dalla reazione dell’acido acetico con etilene e ossigeno, utilizzando come catalizzatore il cloruro di rame (II) o di palladio: 151 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi O O || CuCl2 || CH3C-OH + CH2=CH2 + ½ O2 → CH3C-O-O-CH=CH2 + H2O acido acetico etilene acetato di vinile Gli esteri sono liquidi incolori, volatili, spesso con un piacevole odore. Infatti, molti di essi sono presenti nella frutta e nei fiori e ne danno il caratteristico odore. Ad esempio il benzil acetato è il principale componente dell’olio di gelsomino e viene impiegato anche nella preparazione di profumi. Le anidridi sono composti caratterizzati da un ossigeno posto fra due gruppi acilici. Il nome di questa classe di composti viene ottenuto da quello dell’acido carbossilico premettendo il termine anidride. Alcuni esempi di anidridi, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991) Le anidridi sono composti liquidi; quelli volatili sono irritanti e aggrediscono la pelle. Non sono molto solubili in acqua. Le anidridi si preparano a partire dagli acidi carbossilici per eliminazione d’acqua da due molecole di acido, in presenza di acido solforico e calore. L’anidride acetica può essere ottenuta per disidratazione dell’acido acetico e viene impiegata nell’industria per la produzione di rayon e di materie plastiche. Alcuni composti, pur avendo il gruppo carbossilico come gruppo prevalente, presentano anche un altro gruppo funzionale: ♦ se il secondo gruppo è il gruppo ossidrilico, i composti si chiamano idrossiacidi (ossiacidi) e possono essere α, β, o γ a seconda della posizione del gruppo –OH rispetto al gruppo carbossilico: 152 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Alcuni esempi di ossiacidi, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991) ♦ se il secondo gruppo è il gruppo carbonilico, i composti si chiamano chetoacidi. Il nome viene dato da quello dell’acido carbossilico indicando con le lettere dell’alfabeto greco la posizione del carbonile: Alcuni esempi di chetoacidi, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991) L’acido piruvico è un liquido incolore dall’odore pungente. È presente come prodotto intermedio in processi fermentativi e biologici. Numerosi composti organici di importanza biologica contengono azoto. Le ammine sono composti organici derivati dall’ammoniaca per sostituzione parziale o totale degli idrogeni con radicali alchilici o arilici. Se un solo atomo di idrogeno dell’ammoniaca è sostituito il composto che ne deriva sarà un’ammina primaria; se vengono sostituiti due idrogeni, il composto sarà un’ammina secondaria; se vengono sostituiti tutti gli idrogeni si avrà un’ammina terziaria. Le ammine sono denominate come derivati dell’ammoniaca, ossia viene dato il nome ai radicali legati all’azoto aggiungendo il termine ammina. Le ammine possono formare legami idrogeno con l’acqua perciò la loro solubilità in acqua è simile a quella degli alcoli di peso molecolare corrispondente; la solubilità diminuisce rapidamente all’aumentare del numero degli atomi di carbonio. Le ammine aromatiche si considerano derivate del composto fondamentale (anilina o amminobenzene) in cui il nome del sostituente legato all’atomo di azoto viene fatto precedere dalla lettera N. Le ammine sono delle basi poiché la coppia di elettroni 153 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi sull’atomo di azoto può accettare uno ione idrogeno, come accade anche per l’ammoniaca. Le ammine sono utilizzate come solventi e come intermedi di reazioni. L’anilina, ad esempio, è il precursore di molti coloranti di sintesi detti appunto all’”anilina”. Esempi di ammine alifatiche e aromatiche, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991) Un’ammina primaria o secondaria, come pure l’ammoniaca, può reagire con un acido carbossilico con formazione di un’ammide. Le ammidi, quindi, possono essere considerate derivati degli acidi carbossilici e sono caratterizzate dal gruppo funzionale CONRR’, dove R e R’ possono essere atomi di idrogeno o gruppi alchilici (o arilici). I legami di tipo ammidico sono molto importanti in campo biochimico perché costituiscono i legami principali delle catene delle proteine. Il nome delle ammidi viene assegnato cambiando il suffisso –oico dell’acido carbossilico in ammide. Le ammidi hanno punti di ebollizione elevati dovuti alla presenza di forti legami idrogeno. Le ammidi a basso peso molecolare sono solubili in acqua. Un’ammide di grande importanza sia nell’industria che negli organismi viventi è l’urea, che presenta la formula H2N-CO-NH2. Alcuni organismi, compreso l’uomo, eliminano i loro cataboliti azotati sotto forma di urea. Commercialmente viene prodotta per sintesi dall’ammoniaca e dal biossido di carbonio; trova impiego come fertilizzante, come materia prima per la produzione di materie plastiche e come integratore per l’alimentazione del bestiame. 154 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Esempi di ammidi alifatiche e aromatiche, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991) Altri composti azotati sono i nitrili, caratterizzati dal gruppo ciano (CN) legato a una catena alifatica o aromatica. Il nome viene assegnato cambiando il suffisso –oico dell’acido carbossilico in nitrile: Esempi di nitrili alifatici e aromatici, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991) I nitrili trovano impiego soprattutto nell’industria per la sintesi di materie plastiche, fibre e gomma sintetica. Possono essere preparati a partire dalle ammidi eliminando acqua per azione del pentossido di fosforo, oppure dagli alogenuri alchilici primari per trattamento con KCN (cianuro di potassio). I nitroderivati sono composti caratterizzati dal gruppo nitro (NO2) legato ad una catena alifatica o aromatica. Il nome viene assegnato indicando la posizione del gruppo NO2 sulla catena alifatica con il numero più piccolo possibile: Esempi di nitroderivati alifatici e aromatici, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991) 155 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi 7.5 Composti eterociclici I composti eterociclici sono caratterizzati da una struttura ciclica in cui uno o più atomi sono diversi dal carbonio. Gli atomi diversi sono: azoto, ossigeno, zolfo. Le molecole dei composti eterociclici hanno carattere aromatico. Sono composti abbondanti in natura e insieme a quelli di sintesi esplicano funzioni fisiologiche importanti negli organismi animali e nelle piante. Sono presenti negli acidi nucleici (DNA e RNA), negli alcaloidi, nelle antocianine, nei flavoni, nei pigmenti ematici, nella clorofilla, nelle vitamine, nelle proteine (imidazolo e indolo presenti in alcuni amminoacidi). Esempi di composti eterociclici, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991) 7.6 I polimeri Tutti i polimeri sintetici e naturali sono formati da lunghe catene di atomi. Negli ultimi 50 anni sono stati sintetizzati polimeri artificiali dalle proprietà incredibilmente differenti. Grazie alle loro eccellenti proprietà chimiche e fisiche, le fibre sintetiche e le gomme artificiali hanno sostituito per molti scopi gli stessi materiali naturali. Molte sostanze di importanza biologica, come le proteine, l’amido, la cellulosa, gli acidi nucleici, sono polimeri. Le proteine sono presenti in tutte le cellule e la varietà dello loro funzioni è sbalorditiva. Alcune proteine sono i principali 156 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi componenti strutturali della pelle, dei tendini, dei muscoli, dei capelli e del tessuto connettivo, mentre altre controllano la regolazione e la trasmissione degli impulsi nervosi o, come gli ormoni, gli enzimi ed i regolatori di geni, dirigono e controllano le varie reazioni chimiche che avvengono nell’organismo. Tutte le reazioni biologiche necessitano di uno o più catalizzatori proteici detti enzimi. La comprensione della struttura e delle funzioni delle proteine è una delle grandi conquiste della scienza moderna e costituisce tuttora un settore di ricerca molto attivo. Gli acidi nucleici (DNA e RNA) sono le molecole in cui gli organismi viventi immagazzinano le informazioni genetiche e attraverso le quali essi trasmettono queste informazioni di generazione in generazione. L’addizione ripetuta di piccole molecole (dette monomeri) che porta alla formazione di una lunga catena continua viene detta polimerizzazione e la catena formata viene detta polimero. Nella polimerizzazione per addizione i monomeri reagiscono tra di loro per formare la catena polimerica senza perdita di atomi o molecole. Il processo di polimerizzazione si svolge in tre stadi: inizio, propagazione e terminazione. L’inizio prevede la formazione di radicali liberi (iniziatori) che si producono per azione di luce o calore. I radicali liberi sono molto reattivi poiché possiedono un elettrone spaiato e quindi reagiscono rapidamente con il monomero per ristabilire una configurazione elettronica completa. A questo punto inizia la reazione di propagazione per reazione del radicale formato dalla combinazione di un monomero con l’iniziatore con altri monomeri. A ciascun passaggio, il gruppo terminale della catena rimane con un elettrone spaiato e quindi è molto reattivo. La reazione di polimerizzazione viene terminata quando le estremità radicaliche di due diverse catene s’incontrano oppure per trasferimento di un atomo di idrogeno da un gruppo terminale ad un altro. Il polimero di sintesi per addizione più semplice è il polietilene, formato dalla unione consecutiva di più molecole di etilene, CH2=CH2. La polimerizzazione dell’etilene può essere avviata da un radicale libero come il radicale ossidrile, HO·: HO· + H2C=CH2 → HOCH2CH2· HOCH2CH2· + H2C=CH2 → HOCH2CH2CH2CH2· HOCH2CH2CH2CH2· + H2C=CH2 → HOCH2CH2CH2CH2 CH2CH2· 157 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi La catena continua ad allungarsi fino a che non intervengono reazioni di terminazione, come quelle in cui due radicali liberi si combinano. La reazione di polimerizzazione dell’etilene può anche essere scritta schematicamente nel modo seguente: nH2C=CH2 → -(CH2CH2)nIl polietilene è un polimero flessibile e resistente, usato nella fabbricazione di pellicole e fogli per imballaggio, rivestimenti per cavi elettrici, vaschette portaghiaccio, contenitori da frigo, bottiglie, sacchetti per alimenti e per confezioni sacchetti per la spesa (shoppers) e per moltissimi altri articoli. Altri materiali polimerici molto conosciuti sono fabbricati a partire da altri monomeri. Ad esempio il Teflon viene prodotto dal tetrafluoroetilene: (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) Il Teflon è un polimero eccezionalmente inerte, resistente ed ininfiammabile, usato per le superfici antiaderenti di pentole e padelle, come isolante elettrico, per la produzione di tubi in plastica e di articoli in grado di sopportare temperature bassissime. Un secondo importante meccanismo di polimerizzazione è quello di polimerizzazione per condensazione nella quale per ogni addizione di una unità monomerica alla catena polimerica viene eliminata una piccola molecola, come l’acqua. La formazione del Nylon è un esempio di polimerizzazione per condensazione. Il Nylon viene formato nella reazione di un composto diaminico, in particolare l’1,6 diamminoesano, e da un acido dicarbossilico, l’acido 1,6 esandioco (acido adipico), in base al processo di seguito schematizzato che produce anche molecole d’acqua. La reazione continua sia dall’estremità amminica che da quella carbossilica con formazione del Nylon. 158 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) La polimerizzazione, sia per addizione che per condensazione, può essere ottenuta con monomeri tutti uguali o con monomeri diversi. Nel secondo caso si parla di copolimero a composizione irregolare. Nei casi visti fono ad ora i monomeri hanno uno o al massimo due siti reattivi per la reazione di polimerizzazione e quindi si formano solo polimeri a catena lineare. Quando però i monomeri hanno tre o più siti reattivi allora è possibile anche la formazione di legami trasversali che portano alla formazione di strutture reticolate. Un importante esempio di legami incrociati è quello delle resine fenolo-formaldeide formate dalla reazione tra il fenolo e l’aldeide formica. La reazione tra questi composti, in ambiente acido, porta alla formazione di catene lineari a partire dal metilol fenolo (il primo composto che si forma). Formazione di un polimero lineare fenolo-formaldeide chiamato novolac, (da David W. Oxtoby, H.P. Gillis, Norman H. Nachtrieb, Chimica moderna, EdiSES, Napoli, 2001) Se la reazione viene terminata con un eccesso di formaldeide si formeranno dei di- e trimetilol-fenoli i quali hanno più di due siti reattivi e possono formare legami trasversali sulla catena polimerica dando origine a polimeri reticolati. I moderni polimeri fenolo-formaldeide sono ampiamente utilizzati come adesivi. 159 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi I polimeri di sintesi trovano oggi applicazione in moltissimi campi dell’attività umana e ne vengono prodotti sempre di nuovi con proprietà chimico-fisiche e meccaniche diverse. Anche il settore del restauro e della conservazione non è rimasto estraneo ai materiali polimerici di sintesi e ne fa un ampio uso, a partire, ad esempio, dal Paraloid B72 (sul mercato statunitense noto come Acryloid B-72), un copolimero di metilacrilato e etilmetacrilato (MA/EMA): Monomeri del Paraloid B72, (da L. Borgioli, Polimeri di sintesi per la conservazione della pietra, Collana i Talenti, Editore il Prato, Padova, 2002. Le resine acriliche hanno pesi molecolari normalmente compresi tra 30.000 e 100.000. Gli acrilati presentano maggiore flessibilità; i metacrilati presentano maggiore resistenza a trazione. La scelta del Paraloid B-72, nel vasto panorama commerciale delle resine acriliche, è dovuta alle sue caratteristiche intrinseche ovvero: buon potere adesivo, solubilità in solventi organici compatibili con le strutture, reversibilità, buona resistenza alla luce e alle radiazioni UV in particolare. Il Paraloid B-72 si applica generalmente in soluzioni che possono variare dal 2-3% al 5%, tramite siringa, sotto vuoto, goccia a goccia o a pennello ed è utilizzato come consolidante per moltissimi tipi di materiali, dalla pietra, alle malte, al legno. Nel campo del restauro sono molto utilizzate anche le resine epossidiche. Questa classe di polimeri, il cui brevetto risale al 1938, si distingue per le sue eccezionali caratteristiche meccaniche e di adesione che ne hanno permesso l’uso in moltissimi settori industriali sia come adesivi che come rivestimenti. Le resine epossidiche più utilizzate sono quelle che derivano dalla polimerizzazione per condensazione di epicloridrina e difenilolpropano (bisfenolo A), dette anche resine DGEBA (diglicidiletere di bisfenolo A). 160 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Formazione di una resina epossidica, (da L. Borgioli, Polimeri di sintesi per la conservazione della pietra, Collana i Talenti, Editore il Prato, Padova, 2002. Dalla condensazione di questi due monomeri di ottengono catene lineari, in forma di liquidi viscosi, che possono ulteriormente reagire in presenza di agenti di reticolazione, per dare una struttura tridimensionale, un solido insolubile e resistente ad acidi e basi. Nel settore del restauro l’utilizzo principale delle resine epossidiche è quello per il consolidamento strutturale. Inoltre, vengono impiegati anche come adesivi. Infine, la miscelazione delle resine epossidiche con inerti selezionati, viene utilizzata per la ricostruzione di pezzi mancanti e stuccature. Esistono moltissimi altri polimeri di sintesi utilizzati nel settore del restauro e della conservazione, ma va oltre gli scopi di questa dispensa trattarli più ampiamente e si rimanda a testi dedicati a questo argomento per un eventuale approfondimento. 7.7 I polimeri naturali: le proteine Le proteine sono polimeri naturali le cui unità monomeriche sono formate da aminoacidi. Gli amminoacidi differiscono l’uno dall’altro soltanto nel gruppo laterale G legato all’atomo di carbonio centrale. Nelle proteine si trovano comunemente 20 diversi aminoacidi. Tranne la glicina, che è l’aminoacido più semplice, tutti gli aminoacidi hanno quattro gruppi diversi legati all’atomo di carbonio centrale. 161 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Formula generica di un amminoacido e due esempi di amminoacidi, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) I legami tratteggiati indicano che l’idrogeno e il gruppo laterale G si trovano sotto al piano della pagina, mentre i legami a cuneo in grassetto indicano che il gruppo amminico e carbossilico si trovano sotto il piano della pagina. Gli aminoacidi mostrano il fenomeno dell’isomeria ottica e quindi le loro molecole si presentano come enantiomeri ovvero isomeri non sovrapponibili di cui uno è l’immagine speculare dell’altro. I due isomeri ottici di un aminoacido vengono indicati scrivendo D e L davanti al nome dell’aminoacido: Enantiomeri dell’alanina, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) D sta per destro-, L sta per levo- poiché gli isomeri ottici hanno la proprietà di ruotare il piano della luce polarizzata in senso orario (destrogiro) o in senso antiorario (levogiro) rispettivamente. Gli isomeri ottici hanno le stesse proprietà chimiche ma, con pochissime eccezioni, nei sistemi biologici sono presenti soltanto gli isomeri L degli aminoacidi. Le reazioni chimiche sono pertanto eccezionalmente stereospecifiche cioè dipendono in modo straordinario dalla forma dei reagenti. Sembra che la vita sulla terra si sia originata da aminoacidi L e ha continuato ad usare solo isomeri L. Questa caratteristica delle proteine viene sfruttata in certi casi per la datazione di un reperto di tipo biologico con un metodo che viene detto racemizzazione degli amminoacidi. Come già detto, infatti, un organismo mentre è in vita ha solo amminoacidi e quindi proteine con enantiomeri di tipo L. Quando però l’organismo cessa di vivere e quindi non vengono più prodotti amminoacidi, quelli presenti iniziano a trasformarsi dalla 162 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi forma L alla forma D fino a che verrà raggiunta una uguale concentrazione dei due enantiomeri: in questa situazione si forma un racemo. Riuscendo a misurare la concentrazione dei due enantiomeri e conoscendo il tempo di racemizzazione di un determinato amminoacido, sarà possibile risalire all’età del reperto, dal momento almeno che è cessata la funzione biologica dell’amminoacido. Le proteine vengono formate mediante reazioni di condensazione tra amminoacidi con un processo molto simile a quello visto per la formazione del nylon. Il gruppo carbossilico di un aminoacido reagisce con il gruppo amminico di un altro aminoacido. Il legame che si forma viene chiamato legame peptidico. Formazione di un dipeptide, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) Ulteriori reazioni di condensazione di un dipeptide con altre molecole di aminoacidi formano un polipeptide. Le proteine sono polipeptidi presenti in natura. Ciascuna proteina ha un numero specifico di unità monomeriche di aminoacidi disposti lungo lo scheletro polipeptidico in una sequenza ben precisa. L’ordine degli aminoacidi in un polipeptide viene detta struttura primaria del polipeptide. La struttura primaria di una proteina la caratterizza in modo univoco. Formazione di un polipeptide, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) 163 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Le molecole proteiche non sono strutture lineari ma hanno delle forme spaziali. Negli anni ’50 due chimici americani, Linus Pauling e R.B. Corey, attraverso studi di diffrazione dei raggi X dimostrarono che molte delle proteine sono composte da segmenti in cui la catena polipeptidica è avvolta a spirale che essi chiamarono elica α. La forma a spirale deriva dallo stabilirsi di legami idrogeno tra gruppi peptidici della catena. Questa forma ad elica presente in segmenti diversi di una catena proteica viene detta struttura secondaria (fig. 79). I legami idrogeno possono essere rotti esponendo la molecola a una opportuna fonte energetica; questo spiega perché le proteine perdano facilmente l’attività biologica per riscaldamento (denaturazione). Fig. 79 – Struttura secondaria ad α-elica di una proteina (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991). La denaturazione, che può essere provocata anche dalla luce, da agenti biologici oltre che dal calore, è spesso associata con una diminuzione di solubilità e spesso conduce ad una coagulazione della proteina. La perdita di solubilità durante l’invecchiamento garantisce la tenacia di un film pittorico ottenuto con un legante proteico. E’ stato dimostrato che le proteine che contengono zolfo (uovo e caseina) sono più sensibili alla denaturazione. Le colle animali sono molto stabili. L’umidità è certamente uno dei fattori principali della denaturazione delle proteine poiché provoca lo sviluppo di muffe e batteri che attaccano facilmente il legame peptidico. 164 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi La forma complessiva di una proteina in acqua deriva da un’interazione complessa tra i gruppi laterali degli aminoacidi della catena proteica ed il solvente; questa interazione provoca avvolgimenti e ripiegature della catena proteica per formare una struttura tridimensionale che viene detta struttura terziaria. La struttura terziaria è fondamentale perché ogni proteina possa svolgere la sua funzione biologica (fig. 80). Fig. 80 Struttura terziaria della mioglobina, la proteina che immagazzina e trasporta l’ossigeno nei muscoli, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) La mioglobina ha 153 unità di aminoacidi. I punti neri indicano gli atomi di carbonio legati da legami peptidici. Il sito di legame dell’O2 è evidenziato in rosso. I segmenti cilindrici dritti sono tratti ad elica α che sono poi disposti secondo una particolare struttura tridimensionale, che rappresenta appunto la struttura terziaria. Infine, la struttura quaternaria di una proteina è costituita dall’unione di più catene proteiche (fig. 81). Le proteine possono anche essere distinte in proteine fibrose, se la loro forma si presenta complessivamente come molto allungata (esempio il collagene); in proteine globulari, che si presentano con una forma grossolanamente sferica (proteine dell’uovo). 165 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Fig. 81 – Confronto tra le varie strutture di una proteina: a) struttura secondaria ad α-elica; b) struttura terziari con ripiegamento delle α-eliche; c) struttura quaternaria con associazione di pià catene proteiche in fibre, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991). Tra le proteine importanti nel campo del restauro e dei beni culturali si ricorda la caseina, una proteina ottenuta dal latte per precipitazione con acidi (solforico, cloridrico, lattico). La caseina è costituita da una miscela di proteine (α, β e γ caseine), caratterizzate dalla presenza del fosforo (0,8 %). Il loro peso molecolare varia da 75.000 a 375.000. La caseina è praticamente insolubile in acqua al suo punto isoelettrico, pari a pH = 4,67. Per poterla sciogliere in acqua il pH deve essere portato a circa 9-13 aggiungendo una base: in questo modo si formano i caseinati. Ciò è dovuto alla reazione tra la base e i gruppi carbossilici acidi liberi che nella caseina sono prevalenti rispetto ai gruppi amminici. Se vengono utilizzati ammoniaca o idrossido di sodio, come basi, la soluzione che si ottiene resta stabile per parecchie ore, ma il prodotto, una volta seccato, è molto sensibile all’umidità. Se, invece, si utilizza la calce spenta il prodotto finale ha maggiore stabilità all’acqua, tuttavia deve essere utilizzato entro una o due ore. L’aggiunta di aldeide formica o di cloruro di rame rende il film meno sensibile all’acqua. La caseina viene spesso utilizzata come colloide protettivo nelle emulsioni. Viene utilizzata anche come colla e per ritocchi a secco nelle pitture murali. Dopo l’Ottocento la caseina è stata utilizzata per la preparazione delle tele e molto spesso nella rintelatura dei dipinti. In generale le tempere a caseina sono caratterizzate dalla rapidità di essiccamento. Lo scarso uso che si è fatto storicamente della caseina 7 Il punto isoelettrico di una proteina è il valore di pH al quale le cariche positive bilanciano esattamente quelle negative della proteina e questa nel complesso risulta neutra. 166 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi come medium è dovuto principalmente alla rapidità dei processi degenerativi che il film subisce nel tempo soprattutto a carico delle proprietà meccaniche. Il collagene è la principale proteina che costituisce la pelle, le ossa e i tendini dei mammiferi ed è l’unica fonte per ottenere le sostanze note come gelatine e colle animali. A seconda di come viene condotto il processo di idrolisi possono essere ottenute gelatine con alto peso molecolare, ad esempio quelle usate in fotografia (peso molecolare 150.000-50.000) o nell’alimentazione (peso molecolare 100.000-20.000), oppure prodotti a più basso peso molecolare come le colle animali (40.000-10.000). Quindi la distinzione tra gelatine e colle animali è basata unicamente sul peso molecolare del polimero e dalla sua purezza. Gli amminoacidi principali delle gelatine e delle colle animali sono: glicina, prolina e idrossiprolina. Le molecole della gelatina e delle colle animali sono lunghe e flessibili. In soluzione hanno una conformazione elicoidale alla quale si devono molte delle loro proprietà: l’abilità a passare facilmente e in modo reversibile da una soluzione viscosa (sol) ad uno stato stabile (gel) per semplice raffreddamento. Lo stato di gel si ottiene per effetto dell’attrazione di un numero limitato di siti non ingombri nella molecola e che permettono alle catene polimeriche di stare unite. La gelatina e le colle animali si rigonfiano in acqua fredda e al di sopra dei 30 °C passano in soluzione. Per preparare una soluzione è necessario lasciare la gelatina, o la colla animale, in acqua fredda per circa 15-30 minuti (se in polvere), 2 ore se in pezzi. Successivamente viene riscaldata a bagnomaria ad una temperatura di circa 60 °C facendo attenzione a non superare questo valore in quanto si provocherebbe la denaturazione delle proteine. Una volta che la colla animale è stata applicata su una superficie essa cambia il suo stato dalla forma sol alla forma gel per raffreddamento passando attraverso una fase intermedia viscosa. Il processo di essiccamento va avanti fino a che la gelatina o la colla animale ritorna all’originale stato solido. La contrazione della colla durante l’asciugatura è proporzionale alla quantità d’acqua utilizzata per la soluzione. In genere si utilizzano 70 g di colla per litro d’acqua. Le qualità adesive della gelatina e delle colle animali sono dovute solo in parte all’ancoraggio meccanico. Le interazioni chimico-fisiche sono molto importanti e possono essere sfruttate anche per materiali porosi come ad esempio il legno. Il potere adesivo è l’abilità di uno strato ad aderire ad un substrato. L’adesione è l’abilità di uno strato a rimanere attaccato al suo substrato. In pittura, il medium lega i 167 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi pigmenti insieme e li fa aderire al supporto. Nel caso di un legame tra due superfici, l’adesivo crea un ponte tra i due supporti. Nell’adesione meccanica il film liquido può penetrare nelle irregolarità della superficie di un substrato e restare ancorato dopo l’essiccamento. All’inizio, il film deve essere abbastanza liquido per poter bagnare la superficie. Il substrato, da parte sua, dovrebbe essere abbastanza poroso e il film non dovrebbe contrarsi durante l’asciugatura. Le cause meccaniche non sono in grado di spiegare da sole il fenomeno dell’adesione, ma occorre considerare anche l’adesione chimico-fisica che pone pone in gioco un insieme complesso di differenti forze di attrazione (Van der Waals, legami polari, legami ionici, legami covalenti, legami idrogeno), che agiscono a differenti livelli a seconda del substrato e dell’adesivo. Le stesse forze sono responsabili della bagnabilità di un supporto da parte di un film liquido o della forza del legame dell’adesivo tra un film secco e il substrato stesso. Uno strato con scarsa bagnabilità non aderirà bene. L’adesione richiede più energia di quella necessaria per bagnare una superficie: più di 1-2 Kcal. I composti non polari hanno un basso potere adesivo in quanto possono formare soltanto deboli legami di Van der Waals. E’ evidente che l’adesione di un film ad un substrato polare aumenta con il numero di gruppi polari presenti nel materiale che deve formare il film. La viscosità delle soluzioni di gelatina o colla animale varia notevolmente con il pH ad una data concentrazione. Questo fenomeno è legato alla repulsione tra ioni che può provocare il “rotolamento” o meno delle molecole. Il minimo di viscosità si ottiene, infatti, al punto isoelettrico, pH = 4,5-5. 7.8 Concetti generali di soluzioni, dispersioni, emulsioni Una soluzione è una miscela omogenea di due o più sostanze all’interno della quale le particelle (molecole o ioni) hanno un diametro dell’ordine di 0,001 μm (1μm = un micron, ovvero un milionesimo di metro). In genere il componente principale si chiama solvente, il componente o i componenti minori si chiamano soluti. Una dispersione è una sospensione, in un fluido, di particelle relativamente fini di una certa sostanza, che non possiede propensione a dissolversi o a combinarsi con il fluido. Il fluido viene indicato come fase esterna o mezzo disperdente. Quando le particelle sono sostanze colloidali, le dimensioni, in diametro, dei colloidi varia da 0,0001 a 0,2 μm. Queste dispersioni colloidali hanno la proprietà di diffondere 168 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi la luce visibile dando un effetto “lattiginoso” che è noto come effetto Tyndall. Questo tipo di sospensioni si formano ad esempio mescolando proteine (bianco dell’uovo, rosso d’uovo, caseina, gelatina, ecc.) o polisaccaridi (gomma tragacanth, amido, ecc.) in acqua. Queste stesse sostanze possono così agire da colloidi protettivi per stabilizzare i pigmenti. Nelle dispersioni non-colloidali il diametro delle particelle varia da 10 a 500 μm (ad esempio pigmenti macinati, polvere, ecc.). Un’emulsione è una dispersione di due liquidi che sono insolubili uno nell’altro. Un liquido forma la fase esterna o mezzo disperdente, l’altro è invece ridotto in forma di minute goccioline che costituiscono la fase interna o fase dispersa. Le emulsioni presentano lo stesso effetto Tyndall delle dispersioni. La fase esterna determina le proprietà di un’emulsione: così in un’emulsione “olio in acqua” è l’acqua che determina la viscosità e il carattere dell’emulsione. L’emulsione “olio in acqua” è un’emulsione magra: ovvero può essere resa più densa con l’addizione di olio (ad esempio la maionese) o resa più fluida aggiungendo acqua o un solvente acquoso (ad esempio l’aceto). L’emulsione “acqua in olio” è un’emulsione grassa: ovvero può essere resa più densa con l’aggiunta di acqua e resa più fluida con l’aggiunta di olio o di un solvente oleoso. Queste emulsioni sono instabili. Ad esempio quando l’acqua viene progressivamente aggiunta all’olio agitando, le goccioline d’acqua si avvicinano sempre di più tra di loro fino a subire un processo di coalescenza al cosiddetto punto critico. Questo punto critico viene raggiunto quando l’emulsione contiene il 74,04% d’acqua. Le emulsioni possono essere stabilizzate con l’aggiunta di un tensioattivo o di colloidi protettivi. Quando un pigmento viene mescolato con un legante, esso rimane in sospensione omogenea. La sua massa, tuttavia, tende a portarlo verso il fondo del recipiente o in superficie a seconda della sua densità. Alcuni leganti (proteine e polisaccaridi) sono in grado di eliminare questo effetto. Queste molecole hanno proprietà colloidali ovvero aumentano la viscosità del medium, cosicché diminuisce il movimento delle particelle di pigmento ed interagisce con esse. E’ stato osservato che quando viene fatta passare corrente elettrica attraverso una sospensione colloidale alcune delle particelle si spostano verso il polo positivo mentre altre verso quello negativo. Questo fenomeno è dovuto al fatto che ogni particella è come se fosse circondata da uno strato di colloidi di protezione: questi colloidi assorbono in maniera selettiva certi ioni presenti nel liquidi assumendo una carica elettrica. 169 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi 7.9 Gli enzimi Gli enzimi sono particolari proteine dotate di attività catalitica. Grazie alla loro presenza e alla specificità ed efficienza della loro azione, le reazioni biochimiche possono avvenire nelle cellule con sufficiente velocità anche alla temperatura fisiologica. Le cellule contengono migliaia di enzimi diversi. L’assenza o la carenza di un enzima può condurre a seri disturbi fisiologici. Gli enzimi sono caratterizzati da un’elevata specificità sia per il tipo di reazione catalizzata che per il tipo di molecola di cui accelerano la trasformazione. Il meccanismo esatto della catalisi dei vari enzimi è tuttora oggetto di ricerca, ma una descrizione semplice dell’attività enzimatica è rappresentata dal modello (o teoria) serratura/chiave. In questa descrizione l’enzima lega sulla sua superficie la molecola del substrato, la molecola che reagisce, in modo tale che essa possa subire l’attacco chimico nelle migliori condizioni (ovvero orientandola in modo che essa subisca l’attacco del reattivo nelle condizioni steriche più favorevoli da un punto di vista energetico): il sito di legame (sito attivo) dell’enzima è tale da poter legare un solo tipo di substrato o eventualmente tipi molto simili (fig. 82). La nomenclatura internazionale assegna ad ogni enzima un nome che si riferisce al tipo di reazione catalizzata o al substrato su cui agisce e che termina con il suffisso –asi (lipasi, deidrogenasi, proteasi, ecc.) Fig. 82 Meccanismo di azione di un enzima, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991) 170 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Nel settore del restauro le caratteristiche degli enzimi vengono sfruttate per la pulitura quando si richiede alta selettività nella rimozione di una sostanza senza intaccarne altre. In questo campo l’applicazione degli enzimi è ancora in via sperimentale ma esistono già molti formulati che vengono spesso utilizzati nella pulitura. Gli enzimi proteolitici (ovvero enzimi che provocano l’idrolisi e quindi la scissione di proteine) possono essere: di origine animale (Pepsina, Tripsina, Pancreatina e Proteasi gastriche); di origine vegetale (Bromelaina, Papaina, Ficina, ricavati dai frutti di ananas, papaya e fico); di origine microbica, isolati da varie specie di batteri soprattutto Bacillus e funghi, in particolare Aspergillus. Gli enzimi lipolitici (ovvero enzimi che idrolizzano esteri e grassi in generale) possono essere: di origine animale (Lipasi pancreatiche); di origine vegetale (Lipasi ricavate dai germi di frumento, avena e simili); di origine microbica isolati da varie specie di batteri, soprattutto Bacillus, e funghi in articolare Aspergillus e Penicillum. Le amilasi (enzimi che idrolizzano gli amidi) possono essere: di origine animale (Ptialina e Amilasi pancreatiche); di origine vegetale (da tuberi); di origine microbica (da Bacillus e Aspergillus). 7.10 I polimeri naturali: i polisaccaridi I carboidrati (detti anche glucidi o glicidi o idrati di carbonio) sono molecole costituite da carbonio, idrogeno e ossigeno. I carboidrati hanno una grandissima importanza biologica come materiale di sostegno nelle piante (cellulosa) o come materiale energetico per piante e animali (amido, glicogeno). Chimicamente le molecole dei carboidrati sono caratterizzate da più gruppi ossidrili e da un gruppo carbonilico (aldeidico o chetonico: nel primo caso sono indicati come aldosi, nel secondo come chetosi). A seconda della complessità della molecola, i carboidrati possono essere classificati come: monosaccaridi, disaccaridi e polisaccaridi. A loro volta i monosaccaridi possono essere classificati in aldosi e chetosi. Il glucosio, di formula bruta C6H12O6, è uno dei monosaccaridi più importanti (costituente della cellulosa), cioè un composto organico naturale polifunzionale costituito da sei atomi di carbonio, cinque gruppi ossidrilici e un gruppo aldeidico: è quindi un aldoso. Il galattosio è il monosaccaride presente nel disaccaride lattosio, lo zucchero del latte. Il 171 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi glucosio è il monosaccaride biologicamente più importante essendo una delle principali fonti di energia per la cellula. Formule di struttura del glucosio e del galattosio, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991). La fotosintesi clorofilliana dà luogo alla formazione di glucosio e ossigeno a partire dall’anidride carbonica presente nell’aria e dall’energia fornita dalla luce solare. Il glucosio è presente allo stato libero in alcuni frutti e nel miele, ma per la maggior parte è presente nelle molecole come saccarosio e soprattutto come cellulosa e amido. Fra gli aldopentosi (monosaccaridi a 5 atomi di carbonio con funzione aldeidica) hanno particolare importanza il D-ribosio ed il D-2-desossiribosio che entrano nella costituzione degli acidi nucleici (DNA e RNA). Formule di struttura del ribosio e del desossiribosio, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991). 172 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Fra i chetosi ha particolare importanza il fruttosio che, insieme al glucosio, si trova nel disaccaride saccarosio, il comune zucchero di canna o di barbabietola. Formula di struttura del fruttosio, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991). L’unione di due monosaccaridi dà luogo a un disaccaride; quella di più monosaccaridi dà luogo ai polisaccaridi. Il legame si forma tra un gruppo –OH di una unità di monosaccaride e il gruppo –OH in posizione 1 della unità successiva, con perdita di una molecola d’acqua. Le due unità sono così unite da un ponte di ossigeno; questo tipo di legame viene detto glucosidico e viene distinto in α o in β a seconda che l’ossidrile in posizione 1 appartenga a un α- o a un β- monosaccaride. Il saccarosio, ad esempio, è un disaccaride ricavato dalla canna da zucchero e dalle barbabietole. È costituito dall’unione di glucosio e fruttosio. Il lattosio è costituito dall’unione di glucosio e galattosio ed è contenuto nel latte. Il maltosio è costituito da due molecole di glucosio e si forma dal processo di fermentazione che porta alla produzione della birra e durante la digestione dei polisaccaridi alimentari. I polisaccaridi più importanti sono tutti costituiti da grosse molecole formate da moltissime unità di D-glucosio; i principali sono la cellulosa, l’amilosio, l’amilopectina, l’amido e il glicogeno. La cellulosa è il polisaccaride più abbondante nel regno vegetale; costituisce circa il 50% del legno e si trova soprattutto nelle pareti delle cellule vegetali, cui conferisce rigidità e resistenza. La cellulosa ha una grande importanza industriale: legno, carta, cotone sono costituiti da cellulosa quasi pura; derivati della cellulosa sono utilizzati per la fabbricazione di esplosivi (nitrocellulosa); di fibre tessili artificiali e di materiali di largo impiego quali la celluloide e il cellophane. 173 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi La molecola di glucosio lineare o aperta, in soluzione ciclizza per formazione di un legame tra l’ossidrile alla posizione C-5 e il carbonio carbonilico, il C-1: per via della conformazione assunta preferenzialmente dalla molecola, questi atomi si trovano vicini nello spazio. Nella ciclizzazione, il carbonio carbonilico si trasfoma in carbonio ossidrilico. La forma ciclica, detta emi-acetalica, è il β–glucosio. Forma aperta e emi-acetalica del glucosio, (da G. Banik, P. Cremonesi, A. de La Chapelle, L. Montalbano, Nuove metodologie nel restauro del materiale cartaceo, Collana i Talenti, Editore Il Prato, Padova, 2003 Il gruppo –OH alla posizione C-1 può trovarsi al di sopra o al di sotto del piano dell’anello: le due conformazioni sono dette rispettivamente α- e β-glucosio o meglio αe β-glucopiranosio (il termine pirano indica un anello a sei termini contenente ossigeno). Il β-glucopiranosio è quello che costituisce la cellulosa; l’α-glucopiranosio si trova ad esempio nell’amido. α e β glucosio, (da G. Banik, P. Cremonesi, A. de La Chapelle, L. Montalbano, Nuove metodologie nel restauro del materiale cartaceo, Collana i Talenti, Editore Il Prato, Padova, 2003 Due molecole di β-glucosio possono reagire tra di loro, secondo una reazione di condensazione, eliminando una molecola d’acqua e legandosi con un legame di tipo etereo, detto legame β-1,4-glucosidico, a formare il disaccaride cellobiosio. In maniera del tutto analoga il cellobiosio può reagire con due molecole di β-glucosio, una alla 174 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi posizione C-1 e una alla posizione C-4, formando, dopo un numero n di condensazioni, il polisaccaride cellulosa. Formazione e struttura della cellulosa, (da G. Banik, P. Cremonesi, A. de La Chapelle, L. Montalbano, Nuove metodologie nel restauro del materiale cartaceo, Collana i Talenti, Editore Il Prato, Padova, 2003 Il numero n, detto grado di polimerizzazione (in inglese DP ovvero Degree of Polymerization), nella cellulosa nativa è di almeno 10.000. La cellulosa ha una struttura a catena lineare e può essere definita un omo-polimero (poiché contiene un solo tipo di monomero), formato per policondensazione da unità monomeriche di β-glucosio, unite tra loro con legame β-1,4-glucosidico. In realtà è più corretto considerare come monomero la reale unità costitutiva del polimero ovvero il disaccaride cellobiosio. L’amilosio è anch’esso di origine vegetale ed è presente nell’amido. È costituito da unità di α-D-glucosio unite l’una all’altra da legami 1-4 α-glucosidici a formare lunghe catene. La presenza di legami α-glucosidici rende l’amilosio digeribile e utilizzabile dal nostro organismo. L’amilopectina è un altro costituente dell’amido. Come l’amilosio è costituita da grosse molecole formate da centinaia di unità di α-D-glucosio; a differenza dell’amilosio, però, non è una molecola lineare ma ramificata. La struttura ramificata giustifica l’insolubilità in acqua di questo polisaccaride, al contrario dell’amilosio, che invece è moderatamente solubile. L’amido è costituito da amilosio e amilopectina; insieme alla cellulosa è il più importante polisaccaride vegetale; le piante lo accumulano sotto forma di granuli in numerosi tessuti, soprattutto in quelli embrionali dove serve come materiale energetico necessario per le prime fasi dello sviluppo della nuova 175 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi pianta. Il glicogeno ha la struttura simile a quella dell’amilopectina, anche se più ramificata, ma si trova solo nelle cellule animali e per questo viene chiamato amido animale; si trova soprattutto nel fegato e nel tessuto muscolare in depositi che hanno la funzione di riserva energetica. 7.11 I lipidi I lipidi vengono distinti in oli e grassi: i primi sono solidi a temperatura ambiente e sono prevalentemente di origine animale, i secondi sono liquidi a temperatura ambiente e sono soprattutto di origine vegetale. I lipidi sono composti biologicamente importanti perché costituenti delle membrane cellulari, di alcuni ormoni e di alcune vitamine. Le principali classi di lipidi di rilevante importanza biologica sono i trigliceridi, i fosfolipidi e gli steroidi. I trigliceridi sono esteri della glicerina con acidi grassi. Sono i principali costituenti degli oli vegetali e dei grassi animali. Formula di struttura di un trigliceride, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991). Quando i gruppi R1, R2, R3 sono costituiti da acidi grassi insaturi i trigliceridi che si formano sono detti oli siccativi. Gli acidi grassi che partecipano alla formazione degli oli siccativi sono: l’acido oleico (un doppio legame); l’acido linoleico (due doppi legami); l’acido linolenico (tre doppi legami). Acido oleico: CH3-(CH2)7-CH=CH-(CH2)7-COOH Acido linoleico: CH3-(CH2)4-CH=CH-CH2-CH=CH-(CH2)7-COOH Acido linolenico: CH3-CH2-CH=CH-CH2-CH=CH-CH2-CH=CH-(CH2)7-COOH Quando esposti all’aria, il doppio legame degli oli siccativi reagisce con l’ossigeno O2 provocando la polimerizzazione con reticolazione degli oli: si forma così un film sottile e rigido che può inglobare, se usato come legante nella pittura ad olio, i pigmenti o 176 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi servire da strato protettivo e decorativo nel caso delle vernici oleo-resinose. Gli oli siccativi sono stati per molti secoli i medium più popolari e diffusi. Un olio viene detto siccativo quando, una volta applicato in uno strato sottile, forma un film continuo nell’arco di qualche giorno. Il potere siccativo è legato alla concentrazione di acidi grassi poli-insaturi presenti nell’olio, poiché i loro doppi legami C=C rendono possibile le reazioni di polimerizzazione e ossidazione che portano alla formazione del film. Un olio per essere considerato siccativo deve possedere almeno il 65% di acidi grassi poliinsaturi. Inoltre, la presenza di acido linolenico è essenziale per un rapido essiccamento. Gli oli contengono anche acidi grassi saturi che sono molto stabili nel tempo e non variano la loro concentrazione con l’invecchiamento del film. La velocità dell’essiccamento può essere accelerata con l’aggiunta di catalizzatori o con accorgimenti come ad esempio la cottura dell'olio prima dell'uso che produce una parziale polimerizzazione. Tra i catalizzatori più comuni ed utilizzati rientrano i sali di piombo (biacca, minio, litargirio), di cobalto (ossido di cobalto), manganese (terre di Siena e d’ombra). Tutti gli oli hanno tendenza ad ingiallire con l’invecchiamento. A parità di altri parametri, l’olio di lino ingiallisce più rapidamente degli altri oli siccativi. Il film di olio di lino secco, grazie alla propria struttura reticolata con molecole residue di gliceridi allo stato liquido imbrigliate all’interno dei vuoti che ne flessibilizzano il film, ha caratteristiche di resistenza, coesione, elasticità che giustificano pienamente l’impiego così diffuso che ne è stato fatto storicamente nelle tecniche pittoriche. Gli oli siccativi, come tutte le sostanze organiche, non sono esenti da processi di degrado che man mano ne modificano le qualità originarie. La solidità del film viene lentamente a diminuire con il trascorrere del tempo a causa di un insieme di reazioni che lo rendono progressivamente più sensibile all’umidità. Processi ossidativi portano alla rottura parziale delle maglie reticolari del polimero con formazione di terminali di minori dimensioni che possono poi reagire con i pigmenti e formare composti organo-metallici. Sotto un insieme di tensioni l’olio essicca formando un film strutturalmente non omogeneo ma differenziato in tanti microscopici nuclei “a forma di cella” all’interno dei quali continuano a sussistere tensioni che lentamente si amplificano e si manifestano nel macroscopico fenomeno della craquelure. La formazione della craquelure è comune a tutti i film pittorici ed è determinata anche da altri fattori, estranei al legante, ad esempio dai movimenti delle preparazioni e del supporto. E’ opportuno far osservare che le 177 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi proprietà dei film a olio sono spesso alterate dagli interventi di restauro che i dipinti periodicamente subiscono, in particolare dagli interventi di pulitura durante i quali l’uso non appropriato di solventi, soprattutto in passato, ha favorito la lisciviazione dei gliceridi liquidi ancora presenti nel film secco e necessari alla sua flessibilità. L’olio di lino viene estratto dai semi della pianta del lino (Linum usitatissimum). Possedendo un’alta percentuale di acido linolenico, l’olio di lino secca più rapidamente di tutti gli altri oli siccativi. La composizione dipende da un certo numero di fattori come la qualità dei semi, il clima e il terreno ed anche dai metodi di estrazione e di raffinazione. Durante l’estrazione devono essere evitate alte temperature che possono causare alterazioni come alcune relative al colore e modificazioni della composizione dei trigliceridi. L’olio di papavero viene estratto dai semi del papavero, Papaver somniferum. L’olio di papavero non contiene acido linolenico e quindi secca molto più lentamente dell’olio di lino. Tende ad ingiallire meno rispetto all’olio di lino. L’olio di noce viene estratto dai frutti dell’albero di noce, Juglans regia. L’olio di noce contiene il 12% di acido linoleico e quindi presenta capacità siccative maggiori rispetto all’olio di papavero. I fosfolipidi hanno soprattutto importanza strutturale in quanto sono i costituenti principali delle membrane cellulari, sono caratterizzati dalla presenza, all’interno della molecola, di un gruppo fosforico. Le lecitine, ad esempio, sono costituite da una molecola di glicerolo in cui due funzioni ossidriliche sono esterificate da due molecole di acidi grassi , mentre la terza è esterificata da una molecola di acido fosforico a sua volta legata ad una molecola organica polare (colina). Formula generale di una lecitina, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991). 178 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi Gli steroidi presentano come struttura di base una molecola costituita da un sistema tetraciclico di atomi di carbonio legati ad atomi di idrogeno, detto ciclopentanoperidrofenantrene. Lo steroide più importante è il colesterolo costituente della membrana citoplasmatica e della bile e precursore degli ormoni steroidei e di altre sostanze di grande importanza biologica. Altre sostanze di natura steroidea sono le vitamine D. (a) (b) Strutture di base di uno steroide generico (a) e del colesterolo (b), (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991). 7.12 Le cere Le cere (qualche volta chiamati ceridi) sono sostanze solide che fondono facilmente (da 40 a 100 °C a seconda del tipo di cera). Sono costituiti principalmente da esteri di acidi saturi a lunga catena e alcoli. La fonte delle cere naturali può essere: animale, vegetale e minerale. Le cere possiedono una struttura amorfa o cristallina. CERE MINERALI: paraffina e cere microcristalline, cera montana, ozokerite e ceresina CERE VEGETALI: cera carnauba, candelilla CERE ANIMALI: cera d’api, cera cinese, lanolina, spermaceti La paraffina e le cere microcristalline sono estratte dal petrolio: la paraffina per distillazione, le cere microcristalline per estrazione con solvente in quanto con il calore possono decomporsi. La paraffina è costituita soprattutto da idrocarburi saturi a lunga catena. Le cere microcristalline contengono, rispetto alla paraffina, anche catene cicliche e ramificate. Nel campo del restauro trovano impiego soltanto le cere microcristalline, soprattutto come consolidanti e protettivi, utilizzate soprattutto per la loro inerzia chimica, l’idrorepellenza e la totale reversibilità. 179 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi La cera montana è estratta dalla lignite soprattutto in Germania e nell’ovest degli Stati Uniti utilizzando una miscela di solventi (in genere benzene:etanolo in proporzione 85:15). La cera montana è composta da una miscela di esteri a lunga catena, acidi grassi liberi, alcoli e idrocarburi. Presenta un colore variabile dal marrone al nero e questo ne limita l’uso; è molto dura e fonde a circa 80°C; è solubile in solventi aromatici e solventi clorurati, in etil-metil-chetone e diossano. Generalmente non viene utilizzata da sola ma piuttosto come additivo di altre cere per conferire maggiore durezza e lucentezza a queste e per elevarne il punto di fusione. L’ozokerite si trova generalmente nei depositi bituminosi del Miocene. Viene estratta per fusione del bitume in acqua bollente: la cera resta in superficie e può essere facilmente separata. L’ozokerite contiene una miscela di idrocarburi saturi e insaturi con elevato peso molecolare, alcuni idrocarburi liquidi e alcuni composti ancora non ben identificati contenenti ossigeno. L’ozokerite è resistente all’azione di acidi e basi; è solubile negli idrocarburi aromatici e clorurati ma non è solubile negli alcoli; è più dura della cera d’api e indurisce con l’invecchiamento. La ceresina è un’ozokerite purificata; è stata impiegata nel restauro come consolidante; presenta una struttura cristallina molto fine. La cera di candelilla si ottiene da una pianta, Euphorbia antisyphilitica che cresce soprattutto nelle zone meridionali del nord America e in Messico. La cera è separata dalla pianta in acqua bollente con aggiunta di una piccola quantità di acido solforico. La candelilla è costituita principalmente da un idrocarburo, l’entriacontano CH3(CH2)29CH3; sono presenti anche alcoli. La cera di caldelilla presenta un colore che va dal giallo al bruno; è molto dura e fragile per questo viene usata soprattutto come additivo per rendere più dure altre cere. È solubile in acetone, oli, solventi clorurati a caldo, trementina. La cera carnauba è un essudato delle foglie di una palma brasiliana, Copernicia prunifera. La cera si ottiene sbattendo le foglie essiccate. La cera carnauba è costituita principalmente da esteri (circa l’85%), da acidi grassi liberi (circa il 3%), da alcoli a lunga catena ed idrocarburi, da componenti resinosi (circa il 5%). La cera carnauba presenta un colore generalmente verdastro con punto di fusione di circa 82-85 °C; è dura e fragile e per questo è impiegata soprattutto come additivo di altre cere per aumentare il punto di fusione, la durezza, la resistenza, la lucentezza, e per diminuirne 180 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi la plasticità e la tendenza a cristallizzare. A temperatura ambiente la cera carnauba è scarsamente solubile in solventi apolari; la solubilità aumenta a circa 45 °C: La cera d’api, prodotta dall’insetto Apis Mellifica, è la cera di gran lunga più usata nel campo artistico in tutti i periodi storici. La cera viene raccolta fondendo il favo in acqua calda. Veniva poi sbiancata esponendola al sole: i prodotti di ossidazione erano poi rimossi per lavaggio e filtrazione. La cera d’api è composta di esteri di acidi a lunga catena e alcoli a 21-36 atomi di carbonio. È presente anche una colla, la propoli, come pure pigmenti e altre sostanze. La cera d’api è solubile in solventi aromatici, idrocarburi clorurati e alcoli a caldo. La cera cinese è secreta dall’insetto Coccus ceriferus che vive nell’ovest della Cina. La cera cinese è composta principalmente da un estere, il ceril cerotato. Presenta colore biancastro, è dura, lucida e cristallina; è insolubile in acqua ma facilmente solubile in idrocarburi aromatici e leggermente solubile in alcoli e eteri. Viene utilizzata soprattutto per la produzione di candele, la preparazione di miscele di cere per il trattamento della pelle e dei pavimenti, per la finitura dei tessuti in seta e cotone e per il trattamento della carta. La cera di spermaceti si ricava da un organo contenuto nella testa dei capodogli e di cetacei simili. La cera di spermaceti è composta principalmente da cetil palmitato. Presenta colore biancastro, è traslucente e relativamente fragile; è solubile in alcol bollente, cloroformio, carbonio disolfuro, oli. Viene utilizzata soprattutto nell’industria dei cosmetici per preparare emulsioni; trova anche impiego per produrre candele, saponi, miscele di cere e nel trattamento dei tessuti. La lanolina è contenuta nella lana grezza di pecora e si estrae lavando la lana con un detergente. La lanolina si separa per centrifugazione e viene purificata con acqua e alcali per rimuovere gli acidi liberi e altre impurezze. La lanolina è composta da una miscela complessa di esteri di acidi grassi e alcoli. Questi ultimi sono alcoli alifatici, steroidi o triterpeni. La lanolina contiene circa il 30% d’acqua. Ha un aspetto untuoso e colore che va dal biancastro al giallastro; è solubile in idrocarburi aromatici e clorurati, e in alcol a caldo. La principale proprietà della lanolina è quella di formare con facilità emulsioni acquose stabili con proprietà ammorbidenti e vengono impiegate anche nel trattamento della pelle e del cuoio. 181 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi 7.13 Le resine naturali Le resine terpeniche costituiscono una delle più diffuse classi di sostanze nel regno vegetale. Tutte le resine e i composti terpenici derivano dallo stesso composto di base, l’isoprene: CH3 | CH2=CH-C=CH2 isoprene A seconda del numero di unità di isoprene nella molecola, i terpeni sono classificati come segue: - Monoterpeni: 2 unità di isoprene (olio di trementina, olio di lavanda, olio di rosa, olio di spigo, ecc.) - Sesquiterpeni: 3 unità di isoprene (vetiver, bergamotto, patchouli, citronella, ecc.) - Diterpeni: 4 unità di isoprene (sandracca, copali, colofonia, ecc.) - Triterpeni: 6 unità di isoprene (mastice, dammar, elemi, ecc.) - Gomma: n unità di isoprene. I mono- e sesquiterpeni sono liquidi e spesso servono da solventi per i di- e triterpeni. Le resine naturali sono state impiegate fin dall’antichità non solo come componenti delle vernici ma anche come leganti e adesivi. Tra i monoterpeni e i sesquiterpeni si annoverano: l’olio di trementina, viene estratto dalle secrezioni di varie specie di pino. Ha un indice di rifrazione tra 1,465 e 1,483; punto di ebollizione tra 150 e 180 °C. É utilizzato soprattutto come solvente per le resine terpeniche; l’olio di spigo, viene estratto dai fiori dalla lavanda (Lavandula latifolia). Come la trementina è utilizzato in qualità di solvente per resine terpeniche e oli; la trementina di Venezia, viene estratta dalla pianta del larice (Larix decidua) che cresce nelle montagne dell’Europa centrale. La resina è contenuta all’interno del tronco della pianta che quindi deve essere forato per estrarla. Il foro deve essere poi chiuso in modo che la resina possa riformarsi in assenza d’aria. Questa resina è stata ampiamente utilizzata nel XVIII e XIX secolo; la trementina di Strasburgo, viene estratta da una specie di abete (Abies excelsa). La resina si trova sulla superficie del tronco e può essere facilmente prelevata. Questo tipo di oli essenziali e oleoresine contengono, oltre ai componenti volatili, anche sostanze più o meno viscose che induriscono per ossidazione 182 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi e polimerizzazione. Questi processi sono lenti e nel tempo, con l’invecchiamento, portano alla formazione di sostanza colorate con scurimento del film che hanno costituito. I diterpeni includono: la colofonia, viene estratta soprattutto dagli alberi di pino di varie specie. A seconda del metodo di estrazione si hanno tre tipi di colofonia: “Gemma” di colofonia è una sostanza secreta dagli alberi di pino con la funzione di legare le fibre del legno; è costituita da una miscela di colofonia (68-72%), trementina (22-24%), e acqua (5-12%). Tramite filtrazione e decantazione si eliminano le impurezze minerali e vegetali; successivamente per distillazione si separa la trementina dalla colofonia. La Colofonia del legno è ottenuta per estrazione del legno con solventi aromatici; questo processo è impiegato soprattutto nel nord America. L’Olio di colofonia è un prodotto che si forma nella manifattura della cellulosa dal legno dei pini. Contiene il 54% circa di acidi resinici ma anche acidi grassi insaturi (50%) che devono essere separati. La colofonia presenta alcuni difetti che ne limitano l’uso come componente delle vernici: ha un basso punto di fusione; è suscettibile di fenomeni di ossidazione con rapido scurimento e invecchiamento; il suo alto contenuto di acidi liberi ne limita l’uso con pigmenti sensibili agli acidi e con la carta; la sua alta capacità di ritenzione del solvente porta alla formazione di film a lentissimo indurimento e che quindi resta molle per tempi lunghi. Nonostante i suoi difetti la colofonia è stata comunque impiegata per la formulazione di vernici soprattutto nell’Europa occidentale. La sandracca è un diterpene estratto da alcune piccole conifere della famiglia delle Cupressaceae presenti nel nord Africa, nel bacino del Mediterraneo e in Australia. Contiene acidi resinici e acidi grassi insaturi, tranne l’acido abietodienico. La sandracca presenta le stesse limitazioni della colofonia con una minore tendenza allo scurimento. E’ stata impiegata per le vernici soprattutto in mescolanza con olio di lino. Per copali si intendono alcune resine con differenti origini; le più dure sono quelle di origine fossile talvolta derivate da specie vegetali ora estinte. La fonte principale per le copali è costituita dalle Araucariaceae (conifere) e le Caesalpinaceae (legumi). Contengono numerosi acidi resinici (acido sandraccopimarico, acido abietico, acido agatico, ecc.). La maggior parte delle copali ha elevato punto di fusione. Sono insolubili nella maggior parte dei solventi e oli. Per solubilizzarle vengono sottoposte a pirolisi: le resine perdono il 20% in peso e subiscono decarbossilazione rendendole così meno 183 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi acide e solubili in oli e trementina, anche se divengono colorate. Sono state ampiamente utilizzate per vernici con ottime proprietà siccative e ottiche. Le dammar sono resine triterpeniche che provengono da piante della famiglia delle Dipterocarpaceae (Angiosperme) che si trovano soprattutto in Nuova Zelanda, Filippine e Indonesia. Contengono alcuni terpeni caratteristici: dammarano, oleanano e ursano. Le dammar sono solubili in molti solventi organici (white spirit, solventi aromativi, trementina) e per questo ampiamente utilizzate per le vernici; sono anche ottime resine poiché ingialliscono poco rispetto alle resine diterpeniche. La dammar ha anche buone proprietà adesive e per questo è stata a volte impiegata come additivo per le cere per aumentare le qualità adesive. Sono solo debolmente acide e possono essere impiegate con quasi tutti i pigmenti. Un difetto delle dammar è che formano film di bassa resistenza che con l’invecchiamento ingialliscono e diventano meno solubili. Le resine mastice provengono da piante della famiglia delle Anacardiaceae (Angiosperme), principalmente dalla pianta del pistacchio, Pistacia lentiscus, che si trova in tutto il bacino del Mediterraneo. Contengono alcuni terpeni caratteristici: eufano, acido oleanico. La mastice è solubile in idrocarburi aromatici e forma dei film lucenti e flessibili. Anche la mastice ha trovato largo impiego nella formulazione di vernici. Le elemi provengono da piante della famiglia delle Burseraceae (Angiosperme), che producono anche balsami; si trovano in molte regioni dell’Africa, in Messico, in Brasile nelle Filippine. Contengono alcuni terpeni caratteristici: α e β amirina e ufano; inoltre, contengono alcuni derivati terpenici volatili che sono responsabili dell’aroma (emelolo o emelecina). L’elemi è solubile in idrocarburi aromatici e negli alcoli, è usata soprattutto come plasticizzante e e da buona adesione e lucentezza al film. 184 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi INDICE INTRODUZIONE p. 2 1.1 Elementi chimici e tabella periodica degli elementi p. 4 1.2 Concetto di mole p. 10 1.3 Sistema internazionale di misura p. 11 1.4 Espressioni della concentrazione p. 12 1.5 Struttura dell’atomo p. 14 CAPITOLO 1 CAPITOLO 2 2.1 Tipi di legame chimico p. 24 2.2 Caratteristiche dei legami: elettronegativià degli atomi p. 24 2.3 Legame ionico e proprietà dei composti ionici p. 26 2.4 Nomi e formule dei composti ionici p. 29 2.5 Legame covalente e proprietà dei composti covalenti p. 30 2.6 Formule di rappresentazione di Lewis p. 31 2.7 Jacobus vant’t Hoff e le geometrie molecolari p. 34 2.8 Teoria VSEPR p. 34 2.9 Principio della massima sovrapposizione e orbitali ibridi p. 38 2.10 Teoria degli orbitali molecolari p. 51 2.11 Legame metallico e proprietà dei metalli p. 51 2.12 Leghe e diagrammi di stato p. 56 2.13 Legame dativo o di coordinazione p. 59 2.14 Legame ponte a idrogeno p. 63 2.15 Interazioni dipolo-dipolo p. 65 2.16 Interazioni ione-dipolo p. 65 2.17 Interazioni dipolo-dipolo indotto p. 66 2.18 Interazioni dipolo indotto-dipolo indotto: forze di dispersione di London p. 66 185 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi CAPITOLO 3 3.1 Lo stato gassoso p. 68 3.2 Liquidi e solidi p. 73 3.3 Concetto di tensione di vapore p. 75 3.4 Transizioni di fase e diagrammi di fase p. 76 3.5 Proprietà delle soluzioni p. 78 3.6 Conducibilità delle soluzioni p. 82 3.7 Proprietà dei cristalli p. 84 3.8 I solidi amorfi p. 88 CAPITOLO 4 4.1 Cenni di termodinamica p. 89 4.2 Il primo principio della termodinamica p. 90 4.3 Termochimica p. 92 4.4 Processi spontanei in termodinamica p. 94 4.5 Il secondo principio della termodinamica p. 95 4.6 Il terzo principio della termodinamica p. 98 4.7 L’energia libera di Gibbs p. 98 4.8 L’equilibrio chimico p. 99 4.9 Il principio di Le Châtelier p. 101 CAPITOLO 5 5.1 Equilibri acido-base p. 102 5.2 Il concetto di pH p. 104 5.3 Tipi di acidi e basi p. 105 5.4 Indicatori acido-base p. 106 5.5 Idrolisi p. 108 5.6 Soluzioni tampone p. 109 5.7 Titolazioni acido-base p. 110 5.8 Acidi poliprotici p. 112 186 Corso di Chimica analitica Dott.ssa Claudia Pelosi CAPITOLO 6 6.1 Equilibri eterogenei, concetto di attività p. 114 6.2 Equilibri di solubilità p. 115 6.3 Effetto dello ione a comune p. 116 6.4 Effetto del pH sulla solubilità p. 117 6.5 Effetto della formazione di complessi p. 118 6.6 Reazioni di ossido-riduzione p. 118 6.7 Cenni di elettrochimica p. 123 6.8 Celle elettrochimiche p. 126 6.9 L’equazione di Nernst p. 129 6.10 Alcuni esempi di elettrodi p. 130 6.11 La corrosione dei metalli p. 133 CAPITOLO 7 7.1 Cenni di chimica organica p. 135 7.2 Idrocarburi alifatici p. 136 7.3 Idrocarburi aromatici p. 143 7.4 Gruppi funzionali in chimica organica p. 145 7.5 Composti eterociclici p. 156 7.6 I polimeri p. 157 7.7 I polimeri naturali: le proteine p. 161 7.8 Concetti generali di soluzioni, dispersioni, emulsioni p. 169 7.9 Gli enzimi p. 170 7.10 I polimeri naturali: i polisaccaridi p. 172 7.11 I lipidi p. 173 7.12 Le cere p. 179 7.13 Le resine naturali p. 182 INDICE p. 185 187