DISPENSE DI CHIMICA ANALITICA DOTT.SSA CLAUDIA PELOSI

Corso di Chimica analitica
Dott.ssa Claudia Pelosi
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DELLA TUSCIA
DIPARTIMENTO DI SCIENZE DEI BENI CULTURALI
CORSO TRIENNALE IN CONSERVAZIONE DEI BENI
CULTURALI (CLASSI L1-L43)
DISPENSE DI CHIMICA ANALITICA
DOTT.SSA CLAUDIA PELOSI
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Corso di Chimica analitica
Dott.ssa Claudia Pelosi
INTRODUZIONE
La prima parte del corso di Chimica analitica ha lo scopo di fornire le conoscenze e i
concetti di base della chimica moderna indispensabili per approfondire lo studio dei
materiali di interesse storico-artistico e archeologico con i quali lo studente del corso
triennale in Beni culturali si troverà ad operare.
Il campo della conservazione e del restauro si trova ad affrontare i materiali più svariati:
inorganici e organici, elementi semplici e composti dalla struttura complessa, sostanze
naturali e di sintesi, prodotti di alterazione che si originano da trasformazioni chimicofisiche della materia. È quindi indispensabile conoscere le proprietà fondamentali della
materia e le sue principali trasformazioni sia per affrontare correttamente lo studio di un
manufatto di interesse storico-artistico e archeologico, ma anche per programmare nella
maniera migliore la sua conservazione nel tempo.
Le conoscenze di base sono necessarie per lo sviluppo della seconda parte del corso di
Chimica analitica che verterà sullo studio delle principali tecniche di indagine impiegate
nel settore dei beni culturali.
Queste dispense servono come supporto anche per gli studenti che non hanno mai
seguito un corso di chimica e dunque mancano di quei concetti di base necessari per
sviluppare gli argomenti propri del corso di chimica analitica.
Partendo da queste premesse, le dispense saranno quindi articolate in una serie di
argomenti fondamentali, di seguito elencati, con esempi e riferimenti ai settori di
interesse dello studente in Beni Culturali.
Si partirà dalla conoscenza e la lettura della tabella periodica degli elementi, strumento
fondamentale del chimico per affrontare poi la materia e le sue proprietà. Nel primo
capitolo, infatti, verranno fornite le basi per l’uso della tabella periodica insieme con
alcuni concetti generali quali le unità di misura internazionali, le espressioni delle
concentrazioni e la struttura dell’atomo.
L’argomento successivo sarà costituito dai legami chimici che, “unendo” gli elementi,
portano alla formazione dei composti e quindi a tutte le forme di materia che noi
conosciamo; anche in questo caso gli esempi saranno riferiti ai beni culturali. In questa
parte del corso (capitolo 2) verranno forniti anche i concetti fondamentali legati alle
geometrie molecolari con esempi di composti inorganici e organici; è, infatti,
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particolarmente importante conoscere, anche se in maniera generale, il legame che
esiste tra le strutture molecolari e le proprietà e applicazioni dei diversi materiali.
L’argomento successivo, trattato nel capitolo 3, sarà a questo punto logicamente
costituito dalle forme di aggregazione dei composti chimici, ovvero gli stati della
materia: gassoso, liquido, solido. Nel capitolo 4 verranno forniti alcuni concetti di base
della termodinamica, una parte della chimica molto importante per comprendere la
stabilità dei sistemi chimico-fisici e delle leggi che regolano gli equilibri.
Nel capitolo 5 verranno trattati gli equilibri acido-base, il significato dei pH, la sua
misura e alcuni esempi di titolazioni acido-base.
Nel capitolo 6 saranno affrontati gli equilibri chimici in sistemi eterogenei: equilibri di
solubilità; equilibri di ossido-riduzione. In questo capitolo verranno dati anche alcuni
concetti di base di elettrochimica, sia per comprendere il funzionamento di alcuni
semplici strumenti di laboratorio, come il pH-metro, sia per comprendere fenomeni
importanti come quello della corrosione dei metalli. Lo studio degli equilibri eterogenei
è molto importante per il settore dei beni culturali, perché strettamente connesso sia con
le trasformazioni e le alterazioni che i materiali possono subire sia come metodi
applicabili nel restauro.
Infine, il settimo e ultimo capitolo è stato dedicato alla chimica organica e fornisce
alcuni concetti di base per comprendere questa grande branca della chimica. In questo
capitolo sono trattati anche i polimeri sia di sintesi che naturali (proteine, polisaccaridi,
lipidi) e alcuni materiali organici importanti per il settore dei beni culturali (cere e resine
naturali).
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CAPITOLO 1
1.1 Elementi chimici e tabella periodica degli elementi
La chimica è la scienza che studia le proprietà delle sostanze e delle reazioni che le
trasformano in altre sostanze.
Il metodo scientifico è seguito nella chimica, come in altre scienze, per verificare una
ipotesi che, sottoposta a prove rigorosamente controllate negli esperimenti, si trasforma
in legge scientifica quando riesce a mantenersi valida in tutte le prove effettuate.
Due tradizioni si intrecciano lungo la storia della chimica: l’analisi (attraverso la
decomposizione delle sostanze) e la sintesi (attraverso l’unione delle sostanze).
La chimica parte dunque dal processo di analisi ovvero di determinazione della materia.
La materia si presenta in vari stati (liquido, solido, gas) e può essere eterogenea o
omogenea a seconda che presenti rispettivamente zone con proprietà differenti o uguali
in ogni punto (Figg. 1-3)
Fig. 1 – Classificazione della materia in base alle sue proprietà caratteristiche (da R.C. Smoot, J.S. Price,
R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991).
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Fig. 2 – Esempio di un materiale eterogeneo (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso
di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991).
La fase è una porzione di materia che presenta proprietà costanti in ogni suo punto (Fig.
3).
Fig. 3 – Esempio di sistemi eterogenei costituiti da più fasi (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D.
Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991).
Le sostanze sono costituite da elementi i quali non possono essere ulteriormente
decomposti in entità più piccole se non attraverso il decadimento radioattivo o le
reazioni nucleari che sono in grado di trasformare un elemento in un altro.
Il termine composto in chimica viene utilizzato per indicare sostanze costituite da due o
più elementi.
Gli atomi che costituiscono gli elementi chimici e quindi la materia non sono entità
indivisibili ma sono costituite da particelle più piccole, l’evidenza delle quali si ebbe
dagli studi effettuati a cavallo tra il 1800 e il 1900 sugli effetti di campi elettrici
sufficientemente intensi sugli atomi e le molecole. Nel 1897 il fisico britannico J.J.
Thomson condusse una serie di esperimenti schematizzati in fig. 4.
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Fig. 4 - Un apparecchio come quello usato da Thomson nel 1897 per scoprire l’elettrone (da Donald A.
McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
Quando si applica una differenza di potenziale tra gli elettrodi montati in un tubo di
vetro con vuoto parziale, lo spazio tra gli elettrodi diventa luminescente. Thomson
mostrò che tale scarica luminosa consisteva di un fascio di particelle identiche cariche
negativamente ora chiamate elettroni. Egli riuscì a determinarlo deflettendo il fascio di
particelle con campi elettrici e magnetici. L’esperimento di Thomson permise di
determinare soltanto il rapporto carica/massa. Nel 1906 il fisico americano Robert
Millikan con il suo studente H. A. Fletcher misurò il valore assoluto della carica
elettrica elementare con un elegante esperimento. Il valore oggi accettato per la carica
elementare, ovvero la carica dell’elettrone, è e = 1,6021773 x 10-19 C. Il valore della
massa dell’elettrone è me = 9,109390 x 10-31 kg.
Quasi contemporaneamente alla scoperta dell’elettrone, Henri Becquerel scoprì la
radioattività il processo per cui certi atomi si disintegrano spontaneamente. Egli scoprì
che gli atomi di uranio sono radioattivi. Poco più tardi Marie e Pierre Curie scoprirono
altri elementi radioattivi come il radio, il polonio.
Fu scoperto che le radiazioni emesse dalle sostanze radioattive sono di tre tipi:
Nome originale
Nome moderno
Massa*
Carica
Raggi α
Particelle α
4,00
+2
Raggi β
Particelle β (elettroni) 5,49x10-4
-1
Raggi γ
raggi γ
0
0
*in unità di massa atomica
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Nel 1911 Ernest Rutherford e un suo studente, Ernest Marsden, allestirono un
esperimento in cui un sottile foglio d’oro veniva bombardato con particelle α. La
maggior parte delle particelle passava senza apprezzabile deflessione attraverso il
foglio. Alcune venivano deflesse solo leggermente, passando vicino ad un nucleo
contenuto nel foglio, e solo poche erano deflesse all’indietro, quando collidevano
direttamente con il nucleo.
Quindi Rutherford scoprì che un atomo è prevalentemente spazio vuoto e che la carica
positiva e praticamente tutta la massa si trovano concentrate in un volume molto piccolo
al centro dell’atomo, che chiamò nucleo.
Rutherford scoprì in seguito che la carica positiva in un atomo è dovuta ai protoni,
particelle subatomiche con carica uguale a quella degli elettroni ma di segno opposto e
massa pari a circa 1836 volte la massa di un elettrone.
Nel 1920 Ernest Rutherford propose l’esistenza dei neutroni per spiegare la massa
osservata del nucleo dell’atomo. Nel 1932 James Chadwick verificò sperimentalmente
che nel nucleo vi era un altro tipo di particella con praticamente la stessa massa del
protone ed elettricamente neutra.
Rutherford propose quindi un modello atomico in cui il nucleo possiede una carica
complessiva pari a +Ze con Z elettroni attorno al nucleo ad una distanza di circa 10-10
m. Questo è tuttora il modello base accettato per la struttura atomica.
Le proprietà della materia si originano dalla carica +Ze del nucleo e dalla presenza di Z
elettroni attorno al nucleo.
Il numero Z si chiama numero atomico dell’elemento.
Il numero di massa invece rappresenta il totale di protoni più neutroni e viene indicato
con la lettera A.
Molti elementi sono formati da due o più isotopi, atomi che contengono lo stesso
numero di protoni ma un diverso numero di neutroni.
Per esempio, nel caso dell’idrogeno l’isotopo più comune contiene un protone e un
elettrone (H). C’è un altro isotopo, meno comune, che contiene un protone, un elettrone
e un neutrone: questo isotopo più pesante è detto comunemente deuterio ed è indicato
con il simbolo D.
Il peso atomico di ciascun elemento è dato dalla somma dei pesi di ciascun isotopo,
ciascuno moltiplicato per la sua abbondanza naturale.
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(Da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
Ad esempio il peso atomico del cloro si calcola nel modo seguente:
peso atomico Cl = 34,97 (75,77/100) + 36,97 (24,23/100) = 35,45
Il numero dei composti chimici noti è molto ampio e continua ad aumentare
rapidamente con la ricerca. Il numero delle reazioni chimiche di questi composti è
praticamente illimitato, certamente il loro studio è agevolato dall’osservazione che le
proprietà degli elementi mostrano delle regolarità che permettono di classificarli in
famiglie i cui membri manifestano proprietà chimiche e fisiche simili. Gli elementi sono
elencati secondo il numero atomico Z e proprio in funzione di Z ricorrono regolarmente
i comportamenti chimici degli elementi.
La legge periodica dice che:
LE PROPRIETA’ CHIMICHE DEGLI ELEMENTI SONO FUNZIONI
PERIODICHE DEL NUMERO ATOMICO Z
Quindi gli elementi possono essere sistemati in una tabella, detta Tavola Periodica, che
visualizza immediatamente le similarità chimiche (fig. 5).
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Fig. 5 – Tavola periodica degli elementi
La tavola periodica ordina gli elementi in gruppi (sistemati verticalmente) e in periodi
(sistemati orizzontalmente). Vi sono otto gruppi di elementi principali (IA-VIIIA), dieci
gruppi (tre periodi) di elementi metallici di transizione, un periodo di elementi con
numero atomico da 57 a 71 detti terre rare o lantanidi e un periodo di elementi con
numero atomico da 89 a 103 chiamati attinidi che risultano poco stabili e generalmente
devono essere preparati artificialmente.
Gli elementi sono classificati come metalli o non metalli in base alla presenza o assenza
di lucentezza metallica, di una buona o scarsa capacità di condurre elettricità e calore, la
malleabilità o la fragilità. Alcuni elementi presentano caratteristiche in parte simili ai
metalli (antimonio, arsenico, boro, silicio e tellurio) e per questo vengono anche detti
semimetalli o metalloidi.
Le proprietà fisiche e chimiche degli elementi variano sistematicamente lungo la tavola
periodica; importanti proprietà fisiche sono: il punto di fusione, il punto di ebollizione,
la conducibilità termica ed elettrica, la densità, le dimensioni atomiche, la variazione di
energia che si ha quando si aggiunge o si rimuove un elettrone dall’atomo neutro.
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Storicamente la tavola periodica degli elementi fu introdotta nel 1869-1870 dal russo
Dmitri Mendeleev insieme al chimico tedesco Lothar Mayer, quando si conoscevano
appena un terzo degli elementi oggi noti.
1.2 Concetto di mole
Le masse atomiche sono costituite da una serie di numeri relativi i cui valori assoluti
dipendono da uno standard definito, la massa dell’isotopo 12C. Ad essa viene assegnata
la massa esatta 12 ed 1/12 di questa massa viene definito unità di massa atomica
unificata, abbreviata u.
L’unità di massa atomica unificata viene anche chiamata dalton in onore di uno dei
chimici più importanti della storia.
È stato determinato sperimentalmente che una mole di qualsiasi sostanza contiene
6,022x1023 unità formula. Questo numero è detto numero di Avogadro, da Amedeo
Avogadro, uno scienziato italiano (1776-1856) che fu tra i primi sostenitori della teoria
atomica.
La definizione ufficiale di mole secondo il Sistema Internazionale di misura (SI) è:
“LA MOLE È LA QUANTITÀ DI SOSTANZA DI UN SISTEMA CHE
CONTIENE TANTE ENTITÀ ELEMENTARI QUANTI SONO GLI ATOMI
PRESENTI IN 0,012 KG ESATTI DI CARBONIO-12. QUANDO SI USA LA
MOLE DEVONO ESSERE SPECIFICATE LE ENTITÀ ELEMENTARI, CHE
POSSONO ESSERE ATOMI, MOLECOLE, IONI, ELETTRONI, ALTRE
PARTICELLE
O
GRUPPI
DIVERSAMENTE
SPECIFICATI
DI
TALI
PARTICELLE”
In altre parole una mole di sostanza è la quantità di materia che contiene un numero di
Avogadro di particelle che possono essere atomi, molecole, ioni, elettroni, ecc., (fig. 6).
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A
B
F
G
C
E
D
Fig. 6 Quantità corrispondenti ad una mole di varie sostanze. A: grafite (C); B: permanganato di potassio
(KMnO4); C: solfato di rame pentaidrato (CuSO4 · 5H2O); D: rame (Cu); E: cloruro di sodio (NaCl); F:
bicromato di potassio (K2Cr2O7); G: antimonio (Sb), (da David W. Oxtoby, H.P. Gillis, Norman H.
Nachtrieb, Chimica Moderna, EdiSES, 2001).
1.3 Sistema Internazionale di misura
Il sistema di misura standard, adottato su scala mondiale, è conosciuto come Système
International d’Unités. Le unità fondamentali da cui derivano tutte le altre sono:
♦ per la lunghezza il metro (m)
♦ per la massa il kilogrammo (kg)
♦ per il tempo il secondo (s)
♦ per la corrente elettrica l’ampere A
♦ per la temperatura il kelvin (K)
♦ per la quantità di sostanza la mole (mol)
Le rimanenti grandezze fisiche (come energia, forza, carica, intensità di un campo
magnetico, ecc.) vengono espresse in base alle unità fondamentali.
La densità di un materiale, in particolare, è una grandezza derivata che si ottiene dal
rapporto tra la massa e il volume:
massa
densità = ─────
volume
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La massa generalmente nei calcoli chimici si esprime in grammi (g) mentre il volume in
centimetri cubici (cm3) oppure millilitri (ml). Quindi la desnità sarà espressa in grammi
su centimetrocubo (g/cm3)
1.4 Espressioni della concentrazione
Per concentrazione si intende la quantità di una sostanza contenuta in un determinato
volume o in una determinata massa.
Per esprimere la composizione di materiali che non siano costituiti da un singolo
elemento o composto puro si impiegano quattro tipi fondamentali di espressioni:
● Misure massa-su-massa (m/m)
● Misure massa-su-volume (m/v)
● Misure volume-su-volume (v/v)
● Misure numero-su-volume (M,N)
Misure massa-su-massa
Una misura massa-su-massa esprime il rapporto fra la massa di un componente e la
massa complessiva del campione. La massa percentuale, abbreviata in m% o %(m/m), è
il rapporto, espresso in percentuale, fra la massa di un componente e la massa
complessiva del campione.
La percentuale %(m/m) viene denominata parti per cento.
Frazioni più piccole vengono indicate utilizzando le parti per mille (ppt, ‰), le parti per
milione (ppm), le parti per bilione (ppb) e le parti per trilione (pptr).
Dicendo una parte per milione, ad esempio, si intende che un grammo della sostanza in
questione è presente in un milione di grammi di soluzione o di miscela totale
ppt = μg di sostanza/g di campione
ppm = ng di sostanza/g di campione
pptr = pg di sostanza/g di campione
Misura massa-su-volume
Una misura massa-su-volume esprime il rapporto fra la massa di un componente e il
volume totale del materiale. Dal momento che la densità dei solventi varia con la
temperatura, una misura precisa massa-su-volume dipende dalla temperatura della
soluzione.
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Misura volume-su-volume
Una misura volume-su-volume esprime il rapporto fra il volume di un componente e il
volume totale del materiale. Di solito questa unità di espressione della concentrazione
viene utilizzata per miscele di sostanze che sono tutte allo stato liquido, ad esempio
miscele di solventi utilizzati nella pulitura. Dal momento che la densità dei solventi
varia con la temperatura, una misura precisa massa-su-volume dipende dalla
temperatura della soluzione.
Misure numero-su-volume: MOLARITÀ (M) e NORMALITÀ (N)
L’unità più frequentemente utilizzata per esprimere la concentrazione è la molarità (M,
moli per litro).
Come già visto, una mole si definisce come il numero di atomi di 12C contenuti in 12 g
esatti di 12C.
Questo numero di atomi è detto numero di Avogadro ed il valore attualmente
riconosciuto è 6.0221438 · 1023.
Il peso molecolare (P.M.) di una sostanza è il numero di grammi che contengono un
numero di Avogadro di molecole. Il peso molecolare si ottiene sommando i pesi atomici
degli atomi costituenti. I termini massa e peso sono in genere utilizzati
indifferentemente anche se il peso si riferisce alla forza esercitata da una massa in un
campo gravitazionale.
Molarità (M)
Si prepara una soluzione sciogliendo 12,00 g di benzene, C6H6, in una quantità di esano
sufficiente a dare 250,0 ml di soluzione. Trovare la molarità del benzene.
P.M. del benzene = 6 (peso atomico del carbonio) + 6 (peso atomico dell’idrogeno)
= 6 (12,011) + 6 (1,008) = 78,114 g/mol
L’unità relativa al peso molecolare, ovvero grammi per mole, spesso non viene espressa
ma semplicemente sottintesa.
Il numero di moli in 12,00 g è:
12,00 g/ 78,114 g/mol = 0,1536 mol
La molarità (moli per litro) si ottiene dividendo il numero di moli per il numero di litri:
0,1536 mol/0,250 L = 0,6144 M
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Normalità (N)
La normalita viene usata nelle reazioni acido-base e in quelle di ossido-riduzione ed è
una misura di equivalenti. Il numero di equivalenti presenti in una mole di acido o di
base è il numero di moli di protoni che può essere donato o accettato da una mole
dell’acido o della stessa base. La normalità di una soluzione può essere messa in
relazione alla molarità moltiplicando il valore della molarità per il numero di equivalenti
presenti in una mole:
normalità = molarita x numero di equivalenti mole-1
Per le reazioni acido-base:
normalità = molarità x numero di protoni donati o accettati mole-1
Ad esempio l’acido acetico, CH3COOH può donare un protone:
CH3COOH + H2O → H3O+ + CH3COOUna mole di acido acetico presenta un solo equivalente di protoni da donare in acqua
quindi la normalità è uguale alla molarità. Invece l’acido solforico, un acido forte con
formula H2SO4, può donare due protoni ad una base; una soluzione 1M di acido
solforico contiene due equivalenti di protoni ed è perciò una soluzione 2 normale (2N).
Un beneficio dell’utilizzo della normalità come misura di concentrazione è che non è
necessario conoscere esattamente i meccanismi delle reazioni coinvolte, ma solo il loro
effetto. Per esempio, in certe soluzioni molto complesse, è difficile scrivere le equazioni
delle reazioni coinvolte. Invece, usando la normalità è possibile standardizzare il
reagente per trovare gli equivalenti di protoni o elettroni in un dato volume.
1.5 Struttura dell’atomo
Come abbiamo già visto l’atomo è costituito da un nucleo che contiene particelle
elementari quali protoni e neutroni e da un numero variabile di elettroni disposti intorno
al nucleo. Gli elettroni sono collocati in zone dello spazio che in base alla meccanica
quantistica sono denominati orbitali. L’orbitale non è altro che una funzione
matematica (detta funzione d’onda) che esprime la probabilità di trovare l’elettrone in
un particolare punto dell’atomo. L’espressione matematica della funzione d’onda è data
dall’equazione fondamentale della meccanica quantistica, ovvero l’equazione di
Schrödinger, scoperta dal fisico austriaco Erwin Schrödinger nel 1925.
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Questa equazione tiene conto sia della natura ondulatoria delle particelle1 sia del
principio di indeterminazione di Heisenberg2.
Le funzioni d’onda vengono indicate di solito con la lettera greca psi, ψ, e sono in
relazione alla posizione dell’elettrone. Il quadrato della funzione d’onda, ψ2, fornisce la
densità di probabilità di trovare l’elettrone in un certo volume intorno all’atomo,
definito dall’orbitale. Quindi non è possibile localizzare l’elettrone con precisione ma
si può stabilire solo con quale probabilità esso si trovi in una certa regione (fig. 7).
Fig. 7 Nella figura è mostrato il grafico di ψ21s in funzione di r. Anche se è maggiore la probabilità di
trovare l’elettrone vicino al nucleo, la funzione d’onda non si azzera completamente all’aumentare di r.
Esiste quindi una probabilità non nulla di trovare l’elettrone a qualunque distanza dal nucleo. La freccia
indica la distanza oltre cui c’è solo una probabilità su cento di trovare l’elettrone. Nella figura, inoltre,
sono mostrate due diverse possibilità di rappresentare l’orbitale, o funzione d’onda, 1s dell’idrogeno. La
sfera delimita il volume entro cui la probabilità di trovare l’elettrone è del 99%. (da Donald A.
McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
1
La luce sembra avere talvolta natura ondulatoria, talvolta corpuscolare, per questo si parla di dualismo
onda-particella. Nel 1924 Louis de Broglie propose che anche la materia, che presenta certamente
natura corpuscolare, in certe condizioni potrebbe manifestare anche proprietà ondulatorie.
De Broglie propose che sia la luce che la materia seguano l’equazione: λ = h/mv dove m è la massa della
particella e v la sua velocità.
2
Alla metà degli anni ’20, Werner Heisenberg, un fisico tedesco, dimostrò che non era possibile
misurare accuratamente sia la posizione che il momento (mv, massa per velocità) di una particella nello
stesso istante. Heisenberg dimostrò che se Δx è la distanza entro cui è localizzata una particella e Δp è
l’intervallo dei valori del suo momento, queste due grandezze sono correlate dalla relazione: (Δx)(Δp) ≈ h
Il principio di indeterminazione di Heisenberg è importante solo per particelle molto piccole (atomi e
particelle subatomiche).
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Il numero intero n, che specifica l’energia dell’elettrone in un atomo di idrogeno è detto
numero quantico. Per specificare le funzioni d’onda sono necessari tre numeri quantici
indicati con n, l e ml.
Il numero quantico n è detto numero quantico principale ed è sufficiente per
determinare l’energia dell’elettrone in un atomo di idrogeno; ha valori n=1, 2, 3, 4, ...La
funzione d’onda che descrive lo stato fondamentale dell’atomo di idrogeno dipende
dalla distanza dell’elettrone dal protone e può essere descritta come ψ(r), dove r è la
distanza dell’elettrone dal nucleo. La densità di probabilità per l’elettrone dell’atomo di
idrogeno viene indicata come ψ21s(r) e siccome dipende solo dal valore di r e non dalla
direzione di r nello spazio, si dice che ψ21s(r) ha simmetria sferica.
Il numero quantico principale n specifica le dimensioni di un orbitale (fig. 8).
Fig. 8 Le superfici che delimitano i volumi entro cui si ha la probabilità del 99% di trovare l’elettrone per
gli orbitali 1s, 2s e 3s. I raggi delle sfere stanno in un rapporto di circa 1:2:5, quindi è evidente che n
determina le dimensioni, ovvero l’estenzione spaziale, di un orbitale (da Donald A. McQuarrie, Peter A.
Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
Il numero quantico l, invece, specifica la forma di un orbitale e viene chiamato numero
quantico azimutale. La risoluzione dell’equazione di Schrödinger limita i valori di l a
0, 1, 2, 3, ..., n-1. I valori permessi di l dipendono dal valore di n in base al seguente
schema:
n=1 l=0
n = 2 l = 0, 1
n = 3 l = 0, 1, 2
n = 4 l = 0, 1, 2, 3
....
....
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I valori di l vengono indicati mediante lettere:
l
0, 1, 2, 3, ...
denominazione
s, p, d, f, ...
Le lettere s, p. d, f, stanno per sharp (distinto), principal (principale), diffuse (diffuso) e
fondamental (fondamentale). Gli orbitali vengono indicati scrivendo prima il valore
numerico di n e quindi la lettera corrispondente al valore di l.
Esempi:
n=1 l=0
orbitali 1s
n=2 l=1
orbitali 2p
n=3 l=2
orbitali 3d
n=4 l=3
orbitali 4f
Molti orbitali hanno superfici sulle quali la densità di probabilità scende a zero: tali
superfici si chiamano superfici nodali (fig. 9).
Fig. 9 Nella figura è mostrato il grafico di ψ22s in funzione di r e la rappresentazione a densità di punti di
un orbitale 2s. La distanza a cui si annulla la funzione d’onda indica una superficie nodale sferica
dell’orbitale (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
Quando n=2 bisogna considerare anche gli orbitali 2p. La caratteristica più evidente
dell’orbitale p è che esso non ha simmetria sferica. Visto lungo l’asse z, l’orbitale 2p
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mostra una simmetria cilindrica rispetto al suo asse principale (fig. 10). Il piano xy è una
superficie nodale per gli orbitali 2p orientati lungo l’asse z. Un orbitale 3p differisce da
un orbitale 2p in quanto più grande (in quanto n è maggiore) e con più superfici nodali.
Fig. 10 Due illustrazioni di un orbitale 2p: (a) rappresentazione a densità di punti; (b) la superficie che
delimita il volume entro cui esiste la probabilità del 99% di trovare l’elettrone 2p. (da Donald A.
McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
Il terzo numero quantico, ml, detto numero quantico magnetico, determina
l’orientamento spaziale dell’orbitale. Risulta che il numero quantico magnetico può
assumere solo i valori l, l-1, l-2, ......, 1, 0, -1, -2, ..., -l.
I valori permessi di ml dipendono dal valore di l in base al seguente schema:
l=0
ml = 0
l=1
ml = 1, 0, -1
l=2
ml = 2, 1, 0, -1, -2
l=3
ml = 3, 2, 1, 0, -1, -2, -3
....
....
Quindi per l = 0, ovvero per gli orbitali s, ml può assumere un solo valore pertanto è
possibile una sola orientazione spaziale, si ha un solo orbitale.
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Per l = 1, ovvero per gli orbitali p, ml può assumere tre valori pertanto sono possibili tre
orientazioni spaziale, si hanno tre orbitali, indicati con px, py e pz (fig. 11).
Fig. 11 Ciascuno dei tre orbitali p ha la stessa forma, ma i loro orientamenti spaziali sono diversi perché
hanno lo stesso numero quantico azimutale ma diversi numeri quantici magnetici (da Donald A.
McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
Nel 1926 Wolfang Pauli, un giovane fisico tedesco, intuì che lo sdoppiamento
osservato per alcune righe degli spettri atomici poteva essere spiegato se l’elettrone
fosse esistito in due stati diversi. Poco dopo due scienziati olandesi, George Uhlenbeck
e Samuel Goudsmit, identificarono questi due differenti stati dell’elettrone con una sua
proprietà detta spin elettronico intrinseco. Ciò significa che l’elettrone ruota su se
stesso in una delle due direzioni attorno al suo asse. Lo spin intrinseco dell’elettrone
introduce un quarto numero quantico detto numero quantico di spin, che si indica con
ms. Esso determina lo stato di spin dell’elettrone e può assumere valore +1/2 o -1/2.
Nell’idrogeno l’energia dipende solo dal numero quantico principale e quindi orbitali
con lo stesso valore di n hanno la medesima energia. Negli atomi polielettronici,
l’energia degli orbitali dipende sia dal numero quantico n che dal numero quantico
azumutale l: orbitali con lo stesso valore di n ma con valori diversi di l hanno perciò
energia diversa (fig. 12).
Nel 1926 Wolfang Pauli propose che nello stesso atomo non potessero esistere due
elettroni con la stessa serie di numeri quantici, principio noto oggi come principio di
esclusione di Pauli. In pratica, in base a questo principio non è possibile che i numeri
quantici di spin degli elettroni di un dato orbitale assumano lo stesso valore: se così
fosse gli elettroni avrebbero la stessa serie dei quattro numeri quantici. Quindi in
ciascun orbitale possono esistere due soli elettroni con spin opposto.
19
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Il livello n = 1 viene chiamato K ed è completo con 2 elettroni.
Il livello n = 2 viene chiamato L, per esso sono possibili 2 valori di l, 0 e 1. Il valore l =
0 corrisponde all’orbitale 2s che può contenere due elettroni con spin opposto. Il valore
l = 1 corrisponde a tre orbitali 2p ciascuno dei quali può contenere due elettroni con
spin opposto per un totale di sei elettroni.
Il livello n = 3 viene chiamato M e può contenere in totale 18 elettroni.
Il gruppo di orbitali individuati dai valori di l all’interno dei livelli principali si
chiamano sottolivelli.
Fig. 12 Energie relative di orbitali atomici. (a) Nell’idrogeno l’energia dipende solo dal numero quantico
principale e quindi orbitali con lo stesso valore di n hanno la medesima energia. (b) Negli atomi
polielettronici l’energia degli orbitali dipende sia dal numero quantico n che dal numero quantico l
pertanto orbitali con lo stesso valore di n ma valori diversi di l hanno energia diversa (da Donald A.
McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
20
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La disposizione degli elettroni negli orbitali di un atomo si chiama configurazione
elettronica di quell’atomo.
Ad esempio l’elio ha configurazione elettronica 1s2.
Per poter predire le configurazioni elettroniche degli stati fondamentali dei vari elementi
occorre, infine, considerare la regola di Hund: per ogni insieme di orbitali con la stessa
energia, cioè per ogni sottolivello, la configurazione elettronica dello stato fondamentale
si ottiene sistemando gli elettroni in orbitali differenti dello stesso sottolivello con spin
paralleli. Inoltre non vi saranno orbitali con due elettroni fino a che tutti ne conterranno
uno. Questa configurazione corrisponde ad una condizione di energia minore e quindi
più stabile.
Gli orbitali occupati a più alta energia sono gli orbitali d per i metalli di transizione
e gli orbitali f per i lantanidi e gli attinidi. Nella prima serie di transizione si assiste al
riempimento progressivo dei cinque orbitali 3d. Per questo la prima serie dei metalli di
transizione viene anche detta serie dei metalli di transizione 3d (fig.13).
Fig. 13 Tavola periodica con l’indicazione di quali orbitali vengono riempiti dagli elettroni di valenza di
ciascun elemento. I blocchi di elementi con lo stesso colore hanno uguali sottolivelli elettronici di valenza
(da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
21
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scandio
[Ar]4s23d1
titanio
[Ar]4s23d2
vanadio
[Ar]4s23d3
cromo
[Ar]4s13d5
manganese
[Ar]4s23d5
ferro
[Ar]4s23d6
cobalto
[Ar]4s23d7
nichel
[Ar]4s23d8
rame
[Ar]4s13d10
zinco
[Ar]4s23d10
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Il riempimento sistematico degli orbitali di un atomo con elettroni, cominciando con
l’orbitale a minore energia e proseguendo a salire, tenendo in considerazione i principi e
le regole su esposte, viene detto principio dell’”aufbau” (fig. 14).
Fig. 14 Tavola periodica con l’indicazione delle configurazioni elettroniche dello stato fondamentale
degli elettroni di valenza degli elementi. Sopra ciascun gruppo è indicata la configurazione elettronica
esterna generale del gruppo stesso (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale,
Zanichelli, 1991)
22
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Poiché gli elettroni sono distribuiti intorno al nucleo in modo diffuso, un atomo non
presenta contorni netti e precisi. Tuttavia è possibile proporre una definizione operativa
di raggio atomico basata su modelli concreti. Il raggio atomico ottenuto dalla misura
delle distanze interatomiche di elementi in forma cristallina (quindi con strutture
ordinate) vengono chiamati raggi cristallografici. I raggi cristallografici degli elementi
dal litio al fluoro diminuiscono uniformemente da sinistra a destra perché la carica
nucleare aumenta e lungo la riga della tavola periodica ed attrae più fortemente gli
elettroni. I raggi cristallografici dei metalli alcalini aumentano scendendo nella tavola
periodica dal litio al cesio. In questo caso la carica nucleare aumenta ma gli elettroni più
esterni vanno ad occupare nuovi strati e questo effetto ha un peso maggiore
dell’aumento dell’attrazione nucleare.
23
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CAPITOLO 2
2.1 Tipi di legame chimico
I legami chimici possono essere suddivisi in due grandi categorie ovvero i legami di
tipo intramolecolare che si formano tra gli atomi e portano alla formazione delle
molecole, e i legami di tipo intermolecolare che tengono unite le molecole e sono
responsabili delle varie strutture della materia.
LEGAMI INTRAMOLECOLARI
♦ LEGAME IONICO
♦ LEGAME COVALENTE
♦ LEGAME METALLICO
LEGAMI INTERMOLECOLARI
♦ PONTE AD IDROGENO
♦ FORZE DI VAN DER WAALS
♦ INTERAZIONE DIPOLO/DIPOLO
♦ INTERAZIONE IONE/DIPOLO
♦ INTERAZIONE DIPOLO/DIPOLO INDOTTO
♦ FORZE DI LONDON
2.2 Caratteristiche dei legami: elettronegativià degli atomi
Si ha un legame chimico quando due atomi si uniscono tra loro mettendo in
compartecipazione elettroni. La forza motrice è una diminuzione dell’energia globale
del sistema formato dalle due particelle. Un parametro importante nella formazione dei
legami è l’elettronegatività dei due atomi.
L'ELETTRONEGATIVITA' è la misura della tendenza di un atomo ad attrarre la coppia
di elettroni di legame: l'elettronegatività si definisce come proporzionale all'energia di
ionizzazione (I) e all'affinità elettronica (A)
L’energia di ionizzazione di un atomo è la minima energia necessaria per strappare un
elettrone all’atomo neutro in fase gassosa.
L’affinità elettronica di un atomo è l’energia emessa quando esso acquista un
elettrone.
24
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Gli accettori di elettroni (come gli alogeni) hanno energie di ionizzazione e affinità
elettroniche elevate e sono quindi molto elettronegativi. I donatori di elettroni (come i
metalli alcalini) mostrano energie di ionizzazione ed affinità elettroniche basse e sono
detti elettropositivi.
La maggior parte dei legami chimici non sono né puramente ionici né puramente
covalenti ma hanno caratteristiche intermedie tra i due. Il modo in cui sono condivisi gli
elettroni di legame è determinato dalla differenza di elettronegatività tra i due atomi
impegnati nel legame.
Fig. 15 Le elettronegatività degli elementi calcolate da Linus Pauling (da Donald A. McQuarrie, Peter A.
Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
Se l’elettronegatività è la stessa allora gli elettroni di legame sono equamente condivisi
ed il legame viene detto covalente puro o legame apolare. Questa condizione si verifica
in molecole biatomiche omonucleari. Se l’elettronegatività dei due atomi è diversa gli
elettroni di legame non risultano condivisi egualmente ed il legame è detto legame
polare. Il caso estremo di legame polare si ha quando la differenza di
elettronegatività è grande, maggiore di circa 1,7: in tal caso la coppia di elettroni
finisce completamente sull’atomo più elettronegativo e si forma un legame ionico
puro. Il momento dipolare è una grandezza che misura la polarità di una molecola. Da
25
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un punto di vista fisico i momenti dipolari sono grandezze vettoriali ovvero
caratterizzate da una dimensione e da una direzione. Il momento dipolare di una
molecola biatomica si rappresenta di solito con una freccia diretta lungo il legame da δ+
a δ- (con δ si rappresenta una carica parziale). Il momento dipolare è dato
dall’equazione: μ = q ·r, dove q indica il valore della carica parziale espresso in
coulomb e r la distanza tra gli atomi. Il momento dipolare è quindi espresso in
coulomb·metri o in debye (D, un debye corrisponde a 3,338·10-30 C·m)
Il momento dipolare di una molecola è il risultato complessivo delle polarità dei suoi
legami. In una molecola può accadere che i singoli legami siano polari e abbiano perciò
un momento dipolare, tuttavia la somma di tutti i vettori dei momenti dipolari potrebbe
risultare nulla: si dice che la molecola è apolare (fig. 16).
Fig. 16 Esempi di molecole non polari (anidride carbonica)e polari (acqua) (da Donald A. McQuarrie,
Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
2.3 Legame ionico e proprietà dei composti ionici
Il legame ionico si instaura tra atomi di tipo diverso:
1 avente bassa Energia di Ionizzazione (Catione +)
1 avente elevata Affinità Elettronica (Anione -)
Il legame ionico è un legame di tipo elettrostatico: gli ioni sono tenuti insieme da forze
di tipo elettrostatico. Il trasferimento di uno o più elettroni dall’elemento metallico a
quello non metallico porta alla formazione di ioni con configurazioni elettroniche molto
stabili (gas nobili). Infatti, si ha una particolare stabilità quando un atomo, perdendo o
acquistando elettroni, forma uno ione il cui guscio più esterno contiene otto elettroni
26
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(ottetto): la tendenza degli atomi a raggiungere ottetti di valenza spiega gran parte
della reattività chimica.
Fig. 17 Alogeni (immagine a sinistra) e sodio (immagine a destra) si combinano facilmente dando origine
al cloruro di sodio (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
I composti ionici, tranne quelli che hanno come anione il gruppo OH-, sono spesso
indicati con il nome di sali per analogia con NaCl (cloruro di sodio), il comune sale da
cucina (fig. 17). I composti ionici sono solidi a temperatura ambiente e presenteno
generalmente temperature di fusione e di ebollizione molto elevate (fig. 18).
Fig. 18 Due diverse rappresentazioni delle celle elementari del cloruro di sodio e del cloruro di cesio (da
Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
27
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Quando vengono sciolti in acqua i composti ionici si dissociano dando origine a ioni
positivi e negativi (fig. 19).
Fig. 19 Gli ioni in soluzione acquosa sono stabilizzati dall’interazione con le molecole d’acqua e si
dicono solvatati (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
Se si immergono due elettrodi nella soluzione collegati ad una batteria, gli ioni positivi
migreranno verso l’elettrodo negativo mentre quelli negativi andranno al polo positivo:
il moto degli ioni attraverso la soluzione genera una carica elettrica. Sostanze come
NaCl, CaCl2 le cui soluzioni acquose conducono corrente si chiamano elettroliti. A
seconda della capacità di condurre corrente elettrica si parlerà di elettroliti forti ed
elettroliti deboli.
1) Gli acidi HCl, HBr, HI, HNO3, H2SO4, HClO4 sono elettroliti forti. La maggior parte
degli altri acidi sono elettroliti deboli.
2) Gli idrossidi solubili (idrossidi dei metalli del 1° e 2° gruppo tranne il berillio) sono
elettroliti forti.
3) La maggior parte dei sali solubili sono elettroliti forti.
4) Gli alogenuri e i cianuri dei metalli con Z elevato sono spesso elettroliti deboli.
5) La maggior parte dei composti organici sono non – elettroliti. Gli acidi organici sono
di solito elettroliti deboli.
Nel settore dei beni culturali i composti ionici sono molto importanti soprattutto in
riferimento a quelli che vengono indicati come sali solubili. Questi, costituiti
generalmente da solfati, cloruri e nitrati, sono associati ai materiali lapidei (naturali e
28
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artificiali3), sia perché possono esservi naturalmente contenuti sia perché derivanti da
fattori esterni o da alterazione di altri materiali4. Questi sali sono particolarmente
pericolosi perché, essendo solubili in acqua, vengono facilmente trasportati attraverso i
materiali lapidei e possono depositarsi sia al loro interno che in superficie producendo
subflorescenze ed efflorescenze. I sali solubili, inoltre, trattengono acqua, provocando,
durante i cicli invernali di gelo e disgelo, forti variazioni di volume che, nel caso di
presenza all’interno del materiali, causano la formazione di fessurazioni e distacchi.
Inoltre, nel caso delle efflorescenze i sali solubili provocano anche un danno di tipo
estetico sulla superficie del manufatto.
2.4 Nomi e formule dei composti ionici
Il nome dei composti ionici è dato dal nome dell’anione seguito da quello del catione.
Gli ioni possono essere sia monoatomici che poliatomici. Nel caso di cationi
monoatomici come Na+, Ca2+ e gli altri metalli alcalini e alcalino-terrosi, il nome è lo
stesso dell’elemento, quindi: ione sodio, ione calcio, ione bario, ione potassio, ecc.
Quando invece un metallo forma ioni diversi, come nel caso dei metalli di transizione,
essi vengono distinti aggiungendo un numero romano tra parentesi dopo il nome del
metallo: Cu+, ione rame (I); Cu2+, ione rame (II); Fe2+, ione ferro (II); Fe3+, ione ferro
(III); Sn2+, ione stagno (II); Sn4+, ione stagno (IV). Un metodo precedente per
distinguere ioni diversi dello stesso elemento era quello di aggiungere i suffissi –oso
(ione di carica minore) e –ico (ione di carica maggiore) alla radice del nome del metallo.
Quindi Fe2+ era detto ione ferroso e Fe3+ ione ferrico.
Cationi poliatomici importanti in chimica inorganica sono: lo ione ammonio NH4+; lo
ione idronio H3O+ e lo ione Hg22+, ione mercurio (I).
Per quanto riguarda il nome dell’anione si può far riferimento allo schema seguente:
3
I materiali lapidei naturali sono tutti i tipi di rocce e minerali presenti in natura; i materiali lapidei
artificiali sono quelli prodotti dall’uomo per trattamento di quelli naturali, ad esempio le ceramiche, la
calce, le malte, i cementi.
4
Ad esempio i nitrati si formano per decomposizione di materiali organici (che contengono azoto sotto
forma di proteine); i cloruri possono provenire da aerosol marini o dall’uso di acido cloridrico che in
passato veniva impiegato per la pulitura di patine bianche di carbonato di calcio; i solfati possono
provenire da materiali di restauro quali i cementi e il gesso (solfato di calcio biidrato).
29
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F-
fluoruro
CO32-
carbonato
Cl-
cloruro
HCO3-
idrogeno carbonato
-
-
bromuro
NO2
I-
ioduro
NO3-
nitrato
H-
idruro
SiO44-
silicato
O2-
ossido
PO43-
fosfato
S2-
solfuro
HPO42-
Br
O2
2-
O2
-
perossido
nitrito
H2PO4
-
2-
idrogeno fosfato
diidrogeno fosfato
superossido
SO3
OH-
idrossido
SO42-
solfato
CN-
cianuro
HSO4-
idrogeno solfato
CNO-
cianato
ClO-
ipoclorito
SCN-
tiocianato
ClO2 -
MnO4
-
-
manganato
ClO3
CrO42-
cromato
ClO4 -
Cr2O72-
dicromato
solfito
clorito
clorato
perclorato
La formazione di un composto ionico implica la neutralità della carica globale della
molecola, quindi la carica positiva dei cationi deve bilanciare esattamente la carica
negativa degli anioni.
Di seguito sono riportati alcuni esempi di composti ionici:
Bromuro di stagno(II)
un catione 2+, due anioni 1-
SnBr2
Permanganato di potassio
un catione 1+, un anione 1-
KMnO4
Solfato d’ammonio
due cationi 1+, un anione 2-
(NH4)2SO4
Diidrogenofosfato di ferro(II)
un catione 2+, due anioni 1-
Fe(H2PO4)2
2.5 Legame covalente e proprietà dei composti covalenti
Il legame covalente si forma quando atomi che possiedono valori confrontabili di
elettronegatività interagiscono tra di loro condividendo gli elettroni.
Molte sostanze esistono in forma di molecole allo stato gassoso a temperatura ambiente,
quindi è relativamente semplice produrre molecole
isolate e determinarne
sperimentalmente la struttura. Una molecola è un aggregato definito di atomi e risulta
30
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stabile ovvero non si trasforma spontaneamente. La struttura di una molecola stabile è
definita dalla disposizione tridimensionale degli atomi nello spazio che influenza alcune
proprietà molecolari. La distanza di legame misura la distanza fra gli atomi e rende
un’idea qualitativa delle dimesioni molecolari. Gli angoli di legame, invece, danno
informazioni sulla forma delle molecole. Le distanze e gli angoli di legame medi5
possono essere misurati con tecniche spettroscopiche e con la diffrazione a raggi X.
Un’altra caratteristica importante dei legami chimici è l’energia di legame, detta anche
energia di dissociazione, ovvero l’energia necessaria per rompere una mole del legame
chimico in questione. Il fattore energetico è molto importante per determinare la
stabilità delle molecole. La teoria quantistica mostra che un legame chimico si forma
quando gli atomi coinvolti si trovano ad una energia più bassa quando sono vicini tra di
loro rispetti a quando sono distanti e che anche la geometria molecolare è quella che
permette alla molecola di avere la più bassa energia.
2.6 Formule di rappresentazione di Lewis
Gilbert N. Lewis fu uno dei maggiori chimici americani. Più di dieci anni prima della
formulazione della teoria quantistica di Schrödinger egli aveva postulato che un legame
covalente potesse essere descritto come una coppia di elettroni condivisa da due atomi.
In base alla teoria di Lewis un atomo può essere rappresentato con i suoi elettroni di
valenza come punti:
..
: Cl ·
..
Il cloro ha un’elevata affinità elettronica e acquistando un elettrone raggiunge la
condizione di ottetto assumendo la configurazione elettronica dell’argon.
Quando due atomi di cloro si combinano essi mettono in compartecipazione i due
elettroni spaiati assumendo ciascun atomo la configurazione di ottetto.
Scrivendo le formule di Lewis si cerca sempre di soddisfare la regola dell’ottetto.
Se l’elettronegatività è la stessa allora gli elettroni di legame sono equamente condivisi
ed il legame viene detto covalente puro o legame apolare.
5
Le molecole non sono strutture rigide, ma possono vibrare intorno alla loro posizione di equilibrio,
quindi i valori degli angoli di legame e delle distanze di legame ottenuti sperimentalmente risultano valori
medi.
31
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Questa condizione si verifica in molecole biatomiche omonucleari (fig. 20).
Se l’elettronegatività dei due atomi è diversa gli elettroni di legame non risultano
condivisi egualmente ed il legame è detto legame polare (fig. 21).
Il caso estremo di legame polare, come già visto, si ha quando la differenza di
elettronegatività è grande, maggiore di circa 1,7: in tal caso la coppia di elettroni finisce
completamente sull’atomo più elettronegativo e si forma un legame ionico puro.
Fig. 20 Modelli molecolari di molecole di alogeni riportati in scala per mostrare le dimensioni relative
degli atomi (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
Fig. 21 Modelli molecolari di alcune molecole in cui gli atomi sono legati con legami covalenti polari,
riportati in scala per mostrare le dimensioni relative degli atomi (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock,
Chimica generale, Zanichelli, 1991)
Nelle rappresentanzioni di Lewis, una coppia di elettroni condivisi può essere
rappresentata anche mediante una breve linea (-). Le coppie di elettroni non condivise
attorno ad un atomo sono chiamate coppie solitarie e non partecipano alla formazione
del legame. Alcuni esempi di rappresentazione di formule di Lewis sono:
32
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NH3
..
H:N:H
..
H
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H2O
CH4
..
H:O:H
..
H
..
H:C:H
..
H
H
..
H-N-H
..
H-O-H
..
│
H-C-H
│
H
Le formule di Lewis indicano solo i legami che uniscono gli atomi nelle molecole ma
non mostrano le geometrie molecolari.
In alcune molecole più di una coppia di elettoni viene condivisa dai due atomi che si
legano formando doppi e tripli legami e sempre soddisfando la regola dell’ottetto.
Esistono numerose molecole e ioni per i quali è possibile scrivere due o più formule di
Lewis soddisfacenti senza spostare la posizione dei nuclei. La formula reale può essere
considerata come una media tra le possibili formule.
Ciascuna delle singole formule di Lewis si chiama forma risonante e l’uso di formule
di Lewis multiple si chiama risonanza.
Lo ione nitrato, ad esempio, è una molecola planare con ciascun legame N-O diretto
verso un vertice di un triangolo equilatero; esistono tre formule di Lewis soddisfacenti
per rappresentare questo ione:
33
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Un modo per scrivere le tre formule in una, ovvero come sovrapposizione delle tre o
media è data dalla seguente rappresentazione grafica che viene detta ibrido di
risonanza:
La regola dell’ottetto in alcuni casi non può essere soddisfatta. In certi casi il numero
totale degli elettroni è dispari e quindi è impossibile appaiare tutti gli elettroni.
Una specie che ha uno o più elettroni spaiati si chiama radicale libero. A causa della
presenza di elettroni spaiati i radicali liberi sono di solito molto reattivi.
Ad esempio il biossido di cloro ClO2 possiede in totale 19 elettroni di valenza (7 del
cloro e 6 per ciascun atomo di ossigeno), le due formule risonanti sono:
2.7 Jacobus vant’t Hoff e le geometrie molecolari
Jacobus vant’t Hoff fu il chimico olandese che propose per primo la geometria
tetraedrica del metano e di composti analoghi, nello stesso momento ma
indipendentemente dal chimico francese Joseph Le Bel, nel 1874 (fig. 22).
L’ipotesi di van’t Hoff e Le Bel segnò l’inizio della strutturistica chimica, ramo della
chimica che studia forme, disposizioni e dimensioni delle molecole. Tramite l’impiego
di tecniche spettroscopiche è stato possibile misurare distanze e angoli di legame e
stabilire un gran numero di geometrie molecolari. Alcuni esempi sono mostrati in
fig.23.
2.8 Teoria VSEPR
La teoria della repulsione delle coppie elettroniche di valenza (valence shell
electron-pair repulsion, VSEPR), parte dall’idea fondamentale che la forma di una
molecola sia determinata dalla mutua repulsione dei doppietti elettronici nello strato di
34
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valenza dell’atomo centrale. Naturalmente, la disposizione che minimizza la repulsione
dipende dal numero di coppie elettroniche (fig.24).
A)
B)
Fig. 22 Modelli molecolari del metano (CH4). A) modello molecolare a bastoncini e sfere. B) modello
molecolare a sfere solide. Ciascun legame carbonio-idrogeno in una molecola di metano è diretto verso il
vertice di un tetraedro regolare, le posizioni dei quattro atomi di idrogeno sono equivalenti e gli angoli di
legame sono uguali a 109,5° (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli,
1991)
Fig. 23 Geometrie di varie molecole osservate sperimentalmente (da Donald A. McQuarrie, Peter A.
Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
35
Corso di Chimica analitica
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Fig. 24 Serie di coppie di elettroni disposte sulla superficie di una sfera in modo tale da rendere minima la
loro reciproca repulsione. (a) due coppie di elettroni disposte ai poli opposti della sfera; (b) tre coppie di
elettroni disposte su un piano equatoriale ai vertici di un triangolo equilatero; (c) quattro coppie di
elettroni disposte ai vertici di un tetraedro; (d) cinque coppie di elettroni disposte due ai poli della sfera e
tre sul piano equatoriale, ai vertici di un triangolo equatoriale; (e) sei coppie di elettroni disposte ai vertici
di un ottaedro regolare, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
Gli angoli di legame corrispondenti alle geometrie di fig. 24 sono riportati in fig. 25.
Fig. 25 Angoli di legame corrispondenti alle geometrie molecolari mostrate in fig.25, (da Donald A.
McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
La presenza di doppietti elettronici solitari influenza la forma delle molecole.
36
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L’ammoniaca ha formula NH3. In questa molecola esistono quattro coppie di elettroni
nello strato di valenza dell’atomo d’azoto: tre impegnate in legami covalenti e una come
doppietto elettronico solitario. Le quattro coppie si respingono reciprocamente e quindi
sono disposte secondo i vertici di un tetraedro. Tuttavia il doppietto solitario non è
analogo alle coppie di elettroni impegnate nei legami covalenti ma occupa uno spazio
maggiore ovvero è più diffuso del doppietto localizzato di un legame covalente.
Questo determina una distorsione della geometria rispetto a quella tetraedrica regolare,
in particolare provoca una diminuzione dell’angolo di legame H-N-H rispetto al valore
109,5° del tetraedro regolare.
In particolare nel caso dell’ammoniaca l’angolo di legame è pari a 107, 3°.
Fig. 26 Ruolo delle coppie di elettroni di legame e delle coppie solitarie nella determinazione della
geometria molecolare, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
In una bipiramide trigonale i doppietti elettronici solitari occupano i vertici equatoriali
(figg.27-28).
Fig. 27 (a) forma ideale della molecola con angoli di legame equatoriale di 120° e angoli di legame
assiale di 180°; (b) il doppietto elettronico libero in posizione equatoriale respinge i quattro legami
covalenti zolfo-fluoro distorcendo la molecola rispetto alla geometria ideale (da Donald A. McQuarrie,
Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
37
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Fig. 28 (a) forma ideale della molecola con angoli di legame equatoriale e assiale di 90°; (b) i doppietti
elettronici liberi in posizione equatoriale respingono i legami covalenti cloro-fluoro distorcendo la
molecola rispetto alla geometria ideale (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale,
Zanichelli, 1991)
In una molecola ottaedrica due doppietti elettronici liberi occupano vertici opposti
(fig.29).
Fig. 29 (a) il doppietto elettronico libero nella molecola del pentafluoruro di bromo respinge i legami
bromo-fluoro causando lo spostamento dell’atomo di bromo sotto al piano individuato dai quattro atomi
di fluoro, gli angoli di legame F-Br-F sono leggermente inferiori alla misura di 90°; (b) i due doppietti
elettronici liberi del tetrafluoruro di xenon sono posizionati ai vertici opposti dell’ottaedro perciò la
molecola assume una geometria planare, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale,
Zanichelli, 1991)
2.9 Principio della massima sovrapposizione e orbitali ibridi
Le molecole poliatomiche possono essere descritte come gruppi di atomi tenuti insieme
da legami covalenti.
Un orbitale molecolare è una combinazione di orbitali atomici di atomi diversi. Quindi i
legami delle molecole poliatomiche possono essere descritti in termini di orbitali di
38
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legame. Gli orbitali che descrivono gli elettroni dei legami covalenti localizzati sono
detti orbitali di legame localizzati e sono concentrati soprattutto nella regione
compresa tra i due atomi uniti dal legame.
Fig. 30 Gli orbitali di legame della molecola del metano possono essere descritti come quattro orbitali di
legame carbonio-idrogeno diretti verso i vertici di un tetraedro, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock,
Chimica generale, Zanichelli, 1991)
L’idea della sovrapposzione degli orbitali di valenza degli atomi nella formazione dei
legami fu avanzata da Linus Pauling nel 1931. Pauling fu il primo ad usare il principio
della massima sovrapposizione per spiegare i legami nelle molecole.
Nel caso della molecola poliatomica neutra più semplice, BeH2, si prendono in
considerazione gli orbitali 2s e uno degli orbitali 2p. La loro combinazione da origine a
due orbitali equivalenti sull’atomo di berillio con due caratteristiche importanti:
1 – ciascuno di essi presenta un’ampia regione di sovrapposizione con l’orbitale 1s
dell’atomo di idrogeno;
2 – essi sono orientati a 180° l’uno rispetto all’altro
Questi due orbitali equivalenti vengono chiamati orbitali sp (fig.31).
Gli orbitali composti da tipi differenti di orbitali atomici sono detti orbitali atomici
ibridi.
Gli orbitali di legame che si formano dalla sovrapposizione tra gli orbitali 1s degli atomi
di idrogeno e gli orbitali ibridi sp del berillio hanno simmetria cilindrica lungo l’asse
che unisce i nuclei del berillio e dell’idrogeno.
39
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Fig. 31 Formazione di orbitali ibridi sp per sovrapposizione di un orbitale 2s e un orbitale 2p del berillio. I
due orbitali sp sono equivalenti e sono diretti reciprocamente a 180°, nell’ultima immagine a destra sono
indicati anche i due orbitali 2p del berillio che non partecipano all’ibridazione: questi sono perpendicolari
tra di loro e rispetto all’asse degli orbitali sp, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale,
Zanichelli, 1991)
Questi orbitali di legame si chiamano orbitali σ e il legame corrispondente viene
chiamato legame σ (fig.32).
Fig. 32 Formazione di due orbitali di legame σ localizzati equivalenti della molecola BeH2. I quattro
elettroni di valenza della molecola (due dell’atomo di berillio e uno per ciascuno dei due atomi di
idrogeno) occupano i due orbitali di legame localizzati σ1 e σ2 e formano i due legami localizzati berillioidrogeno, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
Un esempio di molecola con tre legami covalenti localizzati è il trifluoruro di boro, BF3,
una molecola con geometria triangolare planare. I tre legami B-F sono equivalenti
quindi si devono formare tre orbitali di legame equivalenti a simmetria triangolare
planare.
40
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Per combinazione dell’orbitale 2s con due degli orbitali 2p del boro, si ottengono tre
orbitali ibridi equivalenti orientati sul piano a 120° l’uno dagli altri (fig.33).
Questi orbitali, formati dall’orbitale 2s e da due orbitali 2p, sono detti orbitali ibridi sp2.
Fig. 33 Formazione di tre orbitali ibridi sp2, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale,
Zanichelli, 1991)
I tre orbitali sp2 del boro vanno poi a formare i tre orbitali di legame localizzati
equivalenti con i tre atomi di fluoro, per sovrapposizione di ciascun orbitale sp2 con un
orbitale 2p del fluoro.
Fig. 34 Formazione di tre orbitali di legame σ localizzati equivalenti della molecola BeF3. I sei elettroni di
valenza della molecola (tre dell’atomo di boro e uno per ciascuno dei tre atomi di fluoro) occupano i tre
orbitali di legame localizzati σ1, σ2 e σ3 e formano i tre legami localizzati boro-fluoro, (da Donald A.
McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
41
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I tre orbitali di legame localizzati hanno simmetria cilindrica quindi sono orbitali σ,
ciascuno occupato da due elettroni con spin opposto (fig.34).
La molecola del metano presenta una struttura tetraedrica con i quattro legami C-H
equivalenti, pertanto per descrivere correttamente questa molecola è necessario che si
formino quattro orbitali di legame equivalenti. Combinando l’orbitale 2s con i tre
orbitali 2p dell’atomo di carbonio si ottengono quattro orbitali ibridi detti sp3
equivalenti e diretti secondo i vertici di un tetraedro (fig. 35). I quattro orbitali sp3 del
carbonio vanno poi a formare i quattro orbitali di legame localizzati equivalenti con i
quattro atomi di idrogeno, per sovrapposizione di ciascun orbitale sp3 con un orbitale 1s
del’idrogeno. I quattro orbitali di legame localizzati hanno simmetria cilindrica quindi
sono orbitali σ, ciascuno occupato da due elettroni con spin opposto (fig.36).
Fig. 35 Formazione di quattro orbitali ibridi equivalenti sp3. L’angolo tra gli orbitali è di 109,5°, quindi
tipico della struttura tetraedrica (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli,
1991)
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Fig. 36 Formazione di quattro orbitali di legame σ localizzati equivalenti della molecola CH4. Gli otto
elettroni di valenza della molecola (quattro dell’atomo di carbonio e uno per ciascuno dei quattro atomi di
idrogeno) occupano i quattro orbitali di legame localizzati σ1, σ2, σ3 e σ4 e formano i quattro legami
localizzati carbonio-idrogeno, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli,
1991)
Gli orbitali atomici ibridi possono interessare anche gli orbitali d. Per esempio dalla
combinazione di un orbitale 3s, tre orbitali 3p e un orbitale 3d si originano cinque
orbitali atomici ibridi con simmetria bipiramidale trigonale.
Questi cinque orbitali si chiamano dsp3 ed hanno la caratteristica di non essere
equivalenti tra di loro. Infatti essi formano due gruppi di orbitali equivalenti: una serie
di tre orbitali equatoriali equivalenti ed una serie di due orbitali assiali equivalenti (es.
PCl5, i legami tra cloro e fosforo si formano per sovrapposizione di ciascun orbitale
ibrido dsp3 del fosforo con un orbitale 3p del cloro).
Dalla combinazione di un orbitale 3s, tre orbitali 3p e due orbitali 3d si originano sei
orbitali atomici ibridi con simmetria ottaedrica.
Questi otto orbitali si chiamano d2sp3, sono disposti secondo i vertici di un ottaedro e
sono equivalenti tra loro (es.SF6, i legami tra zolfo e fluoro si formano per
sovrapposizione di ciascun orbitale ibrido d2sp3 dello zolfo con un orbitale 2p del
fluoro).
Un principio importante da tenere in considerazione nella combinazione degli orbitali
atomici per formare orbitali ibridi è il principio di conservazione degli orbitali
ovvero: il numero totale degli orbitali ibridi che risultano dalla combinazione degli
orbitali atomici impiegati deve essere uguale al numero di questi ultimi.
43
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I composti organici, indicati spesso come composti del carbonio, sono tutti descritti con
l’ibridazione degli orbitali atomici del carbonio che non presenta sempre un’ibridazione
di tipo sp3 ma può legarsi anche con ibridazione sp2 e sp, in questi casi non si hanno più
soltanto legami semplici di tipo σ ma entrano in gioco anche legami doppi e tripli di tipo
π. L’etilene (C2H4), ad esempio, è un gas a temperatura ambiente. Presenta un doppio
legame tra i due atomi di carbonio:
La sovrapposizione tra due orbitali ibridi sp2 costituisce il legame σ. La geometria della
molecola è planare. Gli altri orbitali ibridi sp2 sono impegnati con legami σ con gli
atomi di idrogeno.
I restanti orbitali 2p degli atomi di carbonio sono perpendicolari al piano della
molecola. La sovrapposizione di questi orbitali porta alla formazione di legami π.
L’orbitale π ha simmetria analoga a quella degli orbitali p da cui si origina (fig. 37).
(a)
(b)
Fig. 37 (a) Due atomi di carbonio uniti dalla combinazione dei loro orbitali ibridi sp2. L’orbitale di
legame presenta simmetria cilindrica rispetto all’asse C-C e quindi è un orbitale di tipo σ. (b) I quattro
orbitali di legame C-H derivano dalla sovrapposizione degli orbitali ibridi sp2 del carbonio con gli orbitali
1s dell’idrogeno, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
Gli orbitali 2p su ciascun atomo di carbonio, perpendicolari al piano del legame H-C-H,
si sovrappongono formando un legame definito di tipo π. L’orbitale π è così definito
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poiché presenta una sezione analoga a quella dell’orbitale p, esso blocca la molecola
nella forma planare non permettendo la rotazione intorno al doppio legame (fig. 38).
Fig. 38 Struttura della molecola dell’etilene con l’indicazione dei legami di tipo σ e di tipo π, (da Donald
A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
Nel caso di una molecola con atomi diversi dal carbonio, ad esempio l’1,2dicloroetilene, CHCl=CHCl, poiché non è possibile alcuna rotazione intorno al legame
C=C, questo composto esiste in due forme distinte dette isomeri:
L’isomero trans è quello dove gli atomi di cloro si trovano in posizioni opporte rispetto
al doppio legame; l’isomero cis è invece quello dove gli atomi di cloro si trovano dallo
lato del doppio legame. Le molecole che presentano la stessa struttura di legame ma
diversa disposizione spaziale vengono dette stereoisomeri.
In molte molecole i legami di tipo π si estendono si estendono su più di due atomi
adiacenti. Uno degli esempi più importanti in chimica organica è quello del benzene,
C6H6 e di tutti i composti definiti aromatici, caratterizzati da anelli con orbitali
delocalizzati. I legami nella molecola del benzene sono di tipo σ e π. Il carbonio, infatti,
presenta un’ibridazione sp2 formando in totale dodici orbitali di legame di tipo σ: sei
utilizzati per i legami C-C e sei per i legami C-H: si tratta quindi di una molecola
planare con angoli di 120° (fig. 39).
45
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Fig. 39 Scheletro dei legami σ della molecola del benzene, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock,
Chimica generale, Zanichelli, 1991)
I sei orbitali 2p degli atomi di carbonio, perpendicolari al piano dell’anello, si
combinano formando sei orbitali di legame di tipo π che però non risultano “bloccati”
sugli atomi di carbonio ma delocalizzati su tutta la molecola. La delocalizzazione degli
elettroni π sull’anello benzenico è un esempio di delocalizzazione di carica
corrispondente, nella teoria quantistica, alla risonanza descritta dalle formule di Lewis e
conferisce alla molecola una ulteriore stabilizzazione rispetto a quella ipotetica con
doppi legami localizzati (fig. 40).
Fig. 40 Ciascun atomo di carbonio ha un orbitale 2p perpendicolare al piano dell’anello. Questi sei
orbitali si combinano tra loro per formare sei orbitali π diffusi uniformemente sull’intero anello, (da
Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
Il benzene appartiene alla classe degli idrocarburi aromatici che presentano anelli
relativamente stabilizzati dalla delocalizzazione degli elettroni π. Il benzene e molti altri
idrocarburi aromatici vengono ottenuti per distillazione del petrolio e del catrame (vedi
46
Corso di Chimica analitica
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par. 7.3). Nel settore dei beni culturali rivestono molta importanza alcune molecole,
estratte da animali e piante, con anelli aromatici che risultano colorate e che nella storia
delle tecniche artistiche sono state variamente impiegate per la tintura e la pittura.
Esempi molto importanti sono la cocciniglia e il kermes, l’indaco, l’alizarina, la
porpora, il legno del Brasile, ecc. La cocciniglia ed il kermes, ad esempio, sono
coloranti rossi utilizzati fin dall’antichità sia per tingere tessuti che come lacche per
dipingere. Si ottengono da due specie di insetti: l’insetto femmina della Dactylopus
coccus, nel caso della cocciniglia, e l’insetto femmina della Kermes vermilio nel caso
del Kermes.
L’insetto del kermes vive su una specie di quercia comune in Spagna, nel sud della
Francia e dell’Italia, in molte isole greche, chiamata scientificamente Quercus
coccifera. I principi chimici che conferiscono il colore sono l’acido carminico
(cocciniglia) e l’acido chermesico (kermes) (fig. 41).
Fig. 41 Acido carminico I e acido chermesico II, (da Artists’ Pigments A Handbook of Their History and
Characteristics, Volume 1, Robert L. Feller Editor, National Gallery of Art, Washington, 1986)
Il principio colorante deve essere estratto dall’insetto, prelevato dalla pianta e seccato
(fig. 42). L’acido carminico e l’acido chermesico venivano estratti con acqua e liscivia
ottenuta dalle ceneri di quercia. Per preparare la lacca corrispondente, al liquido filtrato
dalla liscivia veniva aggiunto dell’allume di rocca: si otteneva così una massa colorata
che, una volta seccata e macinata, costituiva la lacca da impiegare per dipingere (fig.
43).
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(a)
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(b)
Fig. 42 Dactylopius Coccus, insetto seccato (a) e Kermes vermilio, insetto seccato (b), (da Artists’
Pigments A Handbook of Their History and Characteristics, Volume 1, Robert L. Feller Editor, National
Gallery of Art, Washington, 1986)
Fig. 43 A, B, C, differenti preparazioni di cocciniglia; D, lacca di cocciniglia chiara con allumina; E,
lacca di cocciniglia scura con allumina; F, lacca di cocciniglia con composti dello stagno, (da Artists’
Pigments A Handbook of Their History and Characteristics, Volume 1, Robert L. Feller Editor, National
Gallery of Art, Washington, 1986)
L’indaco e il guado sono due coloranti blu utilizzati fin dall’antichità sia per tingere
tessuti che come lacche per dipingere. Si ottengono da due specie di piante: l’Indigofera
tinctoria, nel caso dell’indaco, e l’Isatis tinctoria, nel caso del guado (fig. 44).
Fig. 44 Pianta dell’indaco e del guado, da Elisabeth Blackwell Sammlung der Gewächse (Nuremburg,
1754), (da Artists’ Pigments A Handbook of Their History and Characteristics, Volume 3, E. W. Fitzhugh
Editor, National Gallery of Art, Washington, 1997)
48
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La molecola dell’indaco presenta due metà legate insieme in posizione 2, secondo la
struttura B (fig. 45). Oltre alle molecole dell’indaco, il materiale colorante contiene
l’isomero indirubina, noto anche come indaco rosso, secondo la struttura C
Fig. 45 Molecole dell’indaco (B) e dell’indirubina (C), (da Artists’ Pigments A Handbook of Their
History and Characteristics, Volume 3, E. W. Fitzhugh Editor, National Gallery of Art, Washington,
1997)
L’analisi di campioni estratti dalle piante produttrici di indaco ha messo in risalto la
presenza di isatina (2,3-dichetoindolina o 2,3-indolindione, formula A), indicando il
fatto che l’indirubina si forma durante la sintesi dell’indaco dall’isatina e l’indossile
(formula E, fig. 46).
Fig. 46 Molecole dell’isatina (A) e dell’indossile (E) che combinate portano alla formazione
dell’indirubina, (da Artists’ Pigments A Handbook of Their History and Characteristics, Volume 3, E. W.
Fitzhugh Editor, National Gallery of Art, Washington, 1997)
L’indaco si forma dall’idrolisi enzimatica o acida dell’indicano (formula D), un
glucoside dell’indossile. L’idrolisi porta alla formazione dell’indossile che viene poi
49
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ossidato dall’ossigeno dell’atmosfera a leucoindaco incolore (formula F) e poi ad
indaco (fig. 47).
Fig. 47 Molecole dell’indicano (D) e del leucoindaco (F), (da Artists’ Pigments A Handbook of Their
History and Characteristics, Volume 3, E. W. Fitzhugh Editor, National Gallery of Art, Washington,
1997)
Le fonti principali dell’indaco sono le piante del genere Indigofera coltivate fra 20° e
30° di latitudine nord in India, a Java, Sumatra, Madagascar, Filippine, Cina, Giappone,
Sud Africa, America centrale, Venezuela e Brasile. In passato le piante del guado (Isatis
tinctoria) erano coltivate anche in Normandia, Provenza, Linguadoca, Inghilterra e
Germania. Il colorante veniva estratto in acqua, lasciando macerare per circa nove ore
(in acqua fredda) o per circa 3 ore (in acqua calda) le foglie della pianta. Il liquido
ottenuto dopo l’estrazione veniva agitato in contatto con l’aria per favorire l’ossidazione
e quindi la formazione dell’indaco. La miscela veniva poi filtrata e l’indaco, una volta
essiccato, modellato a forma di piccoli mattoni (fig. 48).
Fig. 48 Campione di indaco commerciale dall’India e varie stesure del cororante: A) indaco puro; B)
indaco mescolato con bianco di titanio (TiO2) 1:2; C) indaco mescolato con bianco di titanio 1:4; D)
indaco mescolato con bianco di titanio 1:9. In tutti i casi il legante è nitrocellulosa, (da Artists’ Pigments
A Handbook of Their History and Characteristics, Volume 3, E. W. Fitzhugh Editor, National Gallery of
Art, Washington, 1997)
50
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2.10 Teoria degli orbitali molecolari
La teoria dell’orbitale molecolare (MO, Molecular Orbital theory) si applica a tutte le
molecole e è in grado di fornire spiegazioni circa la possibile formazione o meno di una
molecola. Un orbitale molecolare che è concentrato nella regione compresa tra i due
nuclei atomici è detto orbitale di legame perchè gli elettroni di tale orbitale servono a
legare insieme i due nuclei. Esistono anche orbitali che si annullanno nella regione tra i
due nuclei e si concentrano invece sui lati esterni, questi orbitali sono detti orbitali di
antilegame. Gli orbitali di antilegame si indicano con le stesse lettere greche degli
orbitali di legame aggiungendo un asterisco: orbitali σ* e orbitali π*.
Nel caso della molecola H2 i due elettroni occupano l’orbitale di legame 1σ, quindi la
molecola è stabile. Nel caso della molecola He2 sono presenti quattro elettroni di
legame: due occupano l’orbitale molecolare 1σ mentre gli altri due vanno nell’orbitale
1σ*. Gli elettroni dell’orbitale di legame tendono ad attrarre i due nuclei mentre gli
elettroni di antilegame tendono a separarli: il risultato complessivo è che l’azione degli
elettroni di antilegame annulla quella degli elettroni di legame e quindi non si produce
alcun legame. Questo è in accordo con il fatto che non è stata mai osservata
sperimentalmente la molecola He2.
2.11 Legame metallico e proprietà dei metalli
Il legame metallico tiene uniti tra loro gli atomi nei metalli (ad esempio gli atomi di
ferro in una sbarra di ferro). Un metallo può essere considerato come un reticolato di
ioni positivi immersi in una specie di nube di elettroni. Il legame metallico è quindi
dovuto alla forza di attrazione che si esercita tra gli ioni positivi e la nube di elettroni.
Dato che ogni atomo è circondato da un numero troppo grande di altri atomi per poter
scambiare elettroni, si ha la sovrapposizione degli orbitali atomici di ciascun atomo con
la formazione di una nube di elettroni, liberi di spostarsi da un atomo all’altro. Si parla
anche di banda dei livelli energetici o “mare”. Al di sopra di questi livelli energetici
occupati si trova un livello totalmente o parzialmente occupato chiamato livello di
Fermi in cui gli elettroni hanno la più alta energia cinetica6 di tutti gli elettroni di
valenza del cristallo e possono essere accelerati da un campo elettrico e quindi occupare
livelli vuoti appena superiori. La migrazione degli elettroni causata dal campo elettrico
6
L’energia cinetica viene definita come parte dell’energia di un corpo che è associata al suo moto,
espressa come mv2/2, dove m è la massa del corpo e v la velocità con cui si muove.
51
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costituisce la corrente elettrica. Questi elettroni del livello di Fermi sono quindi
responsabili dell’elevata conducibilità elettrica e termica dei metalli e sono anche gli
elettroni liberati dall’effetto fotoelettrico che si produce quando un fotone trasmette loro
energia sufficiente per espellerli dalla superficie del metallo. Molti metalli presentano
strutture cristalline altamente simmetriche e solo pochi mostrano strutture cristalline più
complesse (Ga, In, Sn, Sb, Bi e Hg). La nuvola degli elettroni delocalizzata su tutto il
cristallo costituisce un legame molto forte per gli atomi del metallo determinando degli
elevati punti di ebollizione. I punti di fusione sono molto variabili: il gallio ad esempio
fonde a 29,78 °C mentre il tungsteno, che è il metallo più alto-fondente, fonde a 3410
°C.
Le celle elementari che costituiscono la maggior parte dei metalli sono di tipi molto
limitati, precisamente tre: cubica a facce centrate, cubica a corpo centrato, esagonale
(fig. 49). Le celle elementari sono gli elementi di base del reticolo cristallino: cubico a
facce centrate, cubico a corpo centrato, esagonale. Il ferro ad esempio presenta un
reticolo cubico a corpo centrato; il rame, come la maggior parte dei metalli, ha un
reticolo cubico a facce centrate.
Fig. 49 Modelli di celle elementari dei metalli: a) cella cubica facce-centrata; b) cella cubica corpocentrata; c) cella esagonale, (da M. Leoni, Elementi di metallurgia applicata al restauro delle opere d’arte.
Corrosione e conservazione dei manufatti metallici, OpusLibri, Firenze, 1984)
Litio, sodio, potassio, rubidio, cesio e francio sono i cosiddetti metalli alcalini (gruppo
IA della tavola periodica degli elementi) hanno proprietà chimiche analoghe e sono
considerati come un gruppo. Il nome metalli alcalini deriva dal fatto che i loro idrossidi
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sono alcalini. I metalli alcalini sono abbastanza teneri da poter essere tagliati con un
coltello, hanno punti di fusione abbastanza bassi e sono molto reattivi.
Berillio, magnesio, calcio, stronzio, bario, radio sono invece i cosiddetti metalli
alcalino-terrosi, hanno proprietà chimiche analoghe e sono considerati il gruppo IIA. I
metalli alcalino terrosi quando vengono scaldati in presenza di ossigeno bruciano con
fiamma brillante formando ossidi bianchi secondo la reazione:
2Mg(s) + O2(g) → 2MgO(s)
Il minerale berillo, Be3 Al2Si6 O18, è la principale fonte di berillio ed è usato anche come
pietra dura. Il calcio è un elemento molto reattivo e reagisce con l’ossigeno e con il
vapor d’acqua. Tagliato di fresco, si corrode rapidamente se esposto all’aria (fig. 50).
Come ione Ca2+, è un costituente essenziale delle ossa, dei denti, delle rocce calcaree
(marmi, travertino, ecc), delle piante e delle conchiglie di organismi marini. Lo ione
Ca2+ gioca un ruolo fondamentale nella contrazione muscolare, nella visione e
nell’eccitazione nervosa.
I sali di stronzio sono utilizzati nelle torce segnaletiche e nei fuochi d’artificio. Il colore
rosso è dovuto dalla luce emessa dagli atomi di stronzio eccitati elettronicamente.
Fig. 50 Calcio allo stato elementare. Come si vede nell’immagine di destra, il calcio si corrode
rapidamente se esposto all’aria, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli,
1991)
I metalli del gruppo IIIA sono: alluminio, gallio, indio e tallio. L’alluminio è l’elemento
metallico più abbondante nella crosta terrestre dove si trova sotto forma di vari silicati
53
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(ad esempio i vari tipi di argille) ed in estesi giacimenti di bauxite, AlO(OH) da cui si
ottiene per elettrolisi. L’alluminio reagisce con l’ossigeno per formare l’ossido, ma
resiste alla corrosione proprio perché esso forma un sottile strato di ossido che lo
protegge. È un metallo tenero, leggero e viene impiegato per la produzione di leghe
leggere con silicio, rame e magnsio. Gallio, indio e tallio sono anch’essi metalli teneri,
di colore bianco argenteo.
I metalli del gruppo IVA sono piombo e stagno. Nei loro composti si presentano sia
sotto forma di M(II) che M(IV), ad esempio PbO2, biossido di piombo o tenorite, di
colore nero è un importante prodotto di alterazione della biacca (un carbonato basico di
piombo utilizzato fin dall’antichità come pigmento bianco in pittura). Il piombo si
ottiene principalmente dal minerale galena (PbS). Altri minerali di piombo sono
l’anglesite (PbSO4) e la cerrusite (PbCO3, la forma naturale della biacca che invece
veniva preparata artificialmente per reazione di ossidazione del piombo metallico con
aceto di vino in recipenti chiusi; questo contiene acido acetico che reagendo con il Pb
metallico forma acetato di Pb che esposto all’aria assume la formula del carbonato di
Pb). Il piombo è resistente alla corrosione ma essendo un metallo molto tenero, viene
quasi sempre utilizzato in lega. Il piombo è presente in molti dei pigmenti più utilizzati
nella storia delle tecniche artistiche seppur i sali di piombo sono tossici e possono
portare ad avvelenamento cronico. Ad esempio, oltre la biacca, molti pigmenti gialli,
utilizzati come tali o nelle tecniche vetrarie e di produzione di smalti e invetriature:
giallo di piombo e stagno in varie forme (stannati di piombo); litargirio e massicot (due
pigmenti rispettivamente gialli e rosso-arancione a base di ossido di piombo); giallo di
Napoli (antimoniato di piombo), minio (tetrossido di piombo, Pb3O4). Dell’era
industriale sono poi i cromati di piombo, prodotti con molteplici sfumature di colore
(PbCrO4).
Lo stagno si trova principalmente nel minerale cassiterite SnO2. Il suo uso nella storia è
certamente legato alla produzione del bronzo (una lega rame/stagno) e nelle tecniche
vetrarie dove trovava uso come opacizzante per i vetri colorati oltre che colorante nei
pigmenti gialli a base di piombo e stagno.
L’unico metallo del gruppo VA è il bismuto, un metallo bianco rosato presente in natura
sotto forma di bismutinite, Bi3S3. Viene utilizzato nella produzione di leghe che,
contraendosi per riscaldamento, trovano impiego nella produzione di oggetti che
54
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altrimenti potrebbero rompersi a causa della dilatazione termica (impianti antincendio,
fusibili, valvole di sicurezza).
Nella zona centrale della tavola periodica sono collocati i metalli di transizione le cui
caratteristiche variano da gruppo a gruppo: tutti quanti però presentano un’elevata
densità e punto di fusione elevato (fig. 51). Molti dei composti dei metalli di
transizione, inoltre, sono colorati. I metalli di transizione, nel settore dei materiali dei
beni culturali, sono molto importanti perché si ritrovano sia come tali (rame, ferro, oro,
argento, ecc) o come leghe (bronzo, rame-stagno; ottone, rame-zinco, ecc.) in vari
oggetti e sculture, ma anche nei composti più utilizzati come materiali coloranti
(pigmenti).
Fig. 51 I metalli della serie di transizione 3d. Da sinistra a destra: titanio (Ti), zinco (Zn), rame (Cu),
nichel (Ni), cobalto (Co) sopra e scandio (Sc), vanadio (V), cromo (Cr), manganese (Mn) e ferro (Fe)
sotto, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
Praticamente tutti i pigmenti inorganici sia di origine naturale che di sintesi contengono
un metallo di transizione: azzurrite e malachite sono carbonati basici di rame (fig. 52);
cinabro e vermiglione sono solfuri di mercurio; ocre rosse e gialle, terre di varia natura
sono pigmenti contenti ossidi di ferro e manganese; smaltino contiene cobalto; blu
egiziano è un silicato di calcio e rame; gialli, arancioni e rossi di cadmio sono solfuri di
cadmio; cromati di piombo; blu di cobalto è un ossido di cobalto; e così via.
I metalli di transizione interna sono costituiti da due serie dette dei lantanidi e degli
attinidi all’interno delle quali si verifica il riempimento degli orbitali 4f e 5f.
La serie dei lantanidi inizia con il lantanio (La, numero atomico 57).
La serie degli attinidi inizia con l’attinio (Ac, numero atomico 89)
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I lantanidi sono anche chiamati terre rare perchè si riteneva che fossero presenti solo in
quantità molto piccole. Gli attinidi sono elementi radioattivi, la maggior parte di essi
non si trova in natura ma è prodotta solo nel corso di reazioni nucleari.
(a)
(b)
(c)
(d)
Fig. 52 Azzurrite [2CuCO3·Cu(OH)2]: (a) campione di minerale da miniere dell’Arizona; (b) sezione
stratigrafica di un dipinto in una zona realizzata con azzurrite; (c) particelle di azzurrite al microscopio
ottico-mineralogico, 270x polarizzatori paralleli; (d) stessa immagine di (c) ma con polarizzatori
incrociati (da Artists’ Pigments A Handbook of Their History and Characteristics, Volume 2, Ashok Roy
Editor, National Gallery of Art, Washington, 1993)
2.12 Leghe e diagrammi di stato
Le leghe sono composti formati da elementi diversi ed aventi proprietà metalliche. Si
ottengono mediante fusione di un metallo con almeno un altro elemento, metallo (ad
esempio bronzo ottenuto da rame e stagno) o metalloide (ad esempio l’acciaio ottenuto
da ferro e carbonio). Vi sono due tipi di leghe. Le leghe sostituzionali sono quelle in
cui alcuni degli atomi metallici del reticolo cristallino sono costituiti da altri atomi,
generalmente di dimensioni simili. Ad esempio l’ottone in cui circa un terzo degli atomi
di rame che formano il reticolo cristallino sono sostituiti da atomi di zinco. Le leghe
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interstiziali sono quelle dove gli atomi di uno o più elementi addizionali si collocano si
collocano nei siti interstiziali del reticolo metallico ospitante. Un esempio è l’acciaio nel
quale gli atomi di carbonio vanno ad occupare i siti interstiziali di un cristallo di ferro
rendendo così il materiale più forte e duro del ferro puro. Leghe molto importanti sono
quelle del rame: oltre all’ottone già visto, occorre ricordare il bronzo, a base di rame e
stagno, impiegato fin dall’antichità per la statuaria e molti oggetti di vario tipo.
Generalmente si ha completa miscibilità fra gli elementi fusi ma possono esserci anche
casi di immiscibilità totale o parziale.
Il comportamento delle leghe può essere descritto dai diagrammi di fase o diagrammi
di stato a due componenti nel caso di leghe binarie, o da rappresentazioni a più
dimensioni nel caso di leghe ternarie o superiori. I diagrammi di stato per un solo
componente, come si vedrà meglio in seguito, sono dei grafici che rappresentano
l’andamento della pressione in funzione della temperatura per un determinato materiale
e quindi le fasi in cui esso può esistere e gli equilibri tra le varie fasi. Nel caso di
diagrammi di stato a due componenti, oltre a pressione e temperatura, bisogna prendere
in considerazione anche la concentrazione (frazione molare) di uno dei due componenti.
Pertanto si considera costante la pressione totale e si ottiene un diagramma
bidimensionale dove le variabili sono temperatura e composizione. I diagrammi di stato
per le leghe si ottengono sperimentalmente facendo fondere le miscele, raffreddando il
liquido ottenuto e riportando in grafico la temperatura in funzione della frazione molare
di uno dei due componenti. In fig. 53 è riportato un ipotetico diagramma di stato binario
nel quale fra i due elementi si ha una completa miscibilità allo stato liquido e, allo stato
solido completa immiscibilità di B in A e solubilità parziale di A in B. La linea a-e-b è
detta linea del liquidus e separa il campo di esistenza della fase liquida dai campi
sottostanti di coesistenza delle fasi solide con la fase liquida.
La linea c-e-d-b, detta linea del solidus, separa le sottostanti fasi solide dai campi di
esistenza delle fasi liquide e solide. La linea d-f indica il limite di solubilità allo stato
solido di A in B. Nel campo 1 è presente la fase liquida; nel campo 2 è presente A
solido e fase liquida; nel campo 3 si ha la presenza di soluzione solida β (cioè di A in B)
e di fase liquida; nel campo 4 è presente la soluzione solida β; infine, nel campo 5 si
trova A solido e la soluzione solida β. Nel caso di completa miscibilità fra i due
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elementi sia allo stato solido che allo stato liquido i diagrammi risultano estremamente
semplici e sono costituiti soltanto dalla linea del liquidus e da quella del solidus.
Fig. 53 Campi di esistenza delle varie fasi in un ipotetico diagramma di stato binario, (da M. Leoni,
Elementi di metallurgia applicata al restauro delle opere d’arte. Corrosione e conservazione dei manufatti
metallici, OpusLibri, Firenze, 1984)
Un punto importante nei diagrammi di stato delle leghe è il punto E, punto di incontro
dei due tratti delle linee del liquidus che indica la concentrazione e la temperatura
eutettica del sistema. L’eutettico è il punto di contemporanea separazione dalla fase
liquida di due fasi solide. Il sistema è invariante e pertanto la solidificazione avviene a
temperatura costante (arresto eutettico). La parola eutettico deriva dal greco: εύτηκτος
che significa facile a fondersi. Infatti, la lega con composizione eutettica fonde ad una
temperatura più bassa di tutte le altre leghe dello stesso sistema. Per convenzione tutte
le leghe a sinistra della composizione eutettica si dicono ipoeutettiche mentre quelle a
destra si dicono ipereutettiche. Altri punti caratteristici che possono essere presenti in un
diagramma di stato sono: punto peritettico, punto in cui avviene la reazione fra la fase
liquida e una fase solida con separazione di una nuova fase solida. Il sistema è
invariante e pertanto la solidificazione avviene a temperatura costante. Il punto
sintettico è un punto caratteristico di sistemi con intervallo di miscibilità allo stato
liquido in cui si ha la separazione di una fase solida per reazione fra due liquidi. Il
sistema è invariante e pertanto la solidificazione avviene a temperatura costante. Il
punto eutettoide è un punto in cui avviene la decomposizione di una fase solida in due
nuove fasi solide. Il sistema è invariante e pertanto la trasformazione avviene a
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temperatura costante. Solo poche coppie di metalli formano leghe descrivibili con
diagrammi di stato relativamente semplici, tuttavia i diagrammi complessi si possono
costruire dall’unione di più diagrammi di stato di forma semplice. Il più importante dei
diagrammi binari complessi è quello formato da ferro e carbonio; il ferro è un metallo
che è presente in diverse forme allotropiche cioè esiste con diversi reticoli cristallini a
seconda della temperatura.
2.13 Legame dativo o di coordinazione
Strettamente collegato con i metalli di transizione è il legame dativo o legame di
coordinazione. Quando due atomi si uniscono tra loro con un legame covalente, ma la
coppia di elettroni che forma il legame è fornita da uno solo dei due (donatore ) all'altro
(accettore), il legame che si forma è detto dativo. L'atomo accettore partecipa al legame
mettendo in comune uno o più orbitali vuoti. Un esempio è dato dalla molecola
dell’ammoniaca (NH3). L’ammoniaca possiede sull’atomo d’azoto un doppietto di
elettroni esterni non impegnati in legami ma contenuti all’interno di un orbitale p.
L’ammoniaca può quindi formare legami dativi con atomi o cationi capaci di ricevere
coppie di elettroni. In genere si tratta di metalli della serie di transizione che possiedono
orbitali d vuoti. I complessi dei metalli di transizione sono specie chimiche in cui
alcuni anioni o molecole neutre, dette leganti, sono coordinati ad un atomo o ad uno
ione di un metallo di transizione dando origine ad una grande varietà di geometrie e di
stati di ossidazione. Gran parte della chimica dei complessi dei metalli di transizione
può essere compresa in termini di riempimento degli orbitali d del metallo (fig. 54).
Viene definito numero di coordinazione il numero di atomi direttamente legati al
metallo centrale. Il ferro, ad esempio, nello stato di ossidazione +2 reagisce con gli ioni
cianuro, CN-, in soluzione acquosa formando lo ione complesso [Fe(CN)6]4- in cui gli
ioni cianuro sono direttamente legati al ferro con una geometria ottaedrica (fig. 55).
Se in una soluzione acquosa di questo complesso si aggiunge una sale solubile di ferro
(ad esempio un cloruro ferrico, FeCl3) si forma un solido di colore blu scuro: si tratta di
un importante pigmento ovvero del blu di Prussia, scoperto agli inizi del 1700. In
particolare il blu di Prussia è un ferrocianuro ferrico Fe4[Fe(CN)6]3 e contiene il ferro in
entrambi i suoi stati di ossidazione (2 e 3). E’ stato ampiamente usato in pittura dalla
sua scoperta ai giorni nostri (fig. 56).
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Fig. 54 Forma e orientazione relativa dee cinque orbitali d, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock,
Chimica generale, Zanichelli, 1991)
Fig. 55 Lo ione complesso [Fe(CN)6]4-, di colore giallo, è ottaedrico con numero di coordinazione 6, (da
Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
Gli ioni dei metalli di transizione in soluzione acquosa formano ioni complessi
legandosi con le molecole dell’acqua. Ad esempio il nichel (II) in soluzione acquosa
forma lo ione complesso ottaedrico [Ni(H2O)6]2+ di colore verde. Se alla soluzione si
aggiunge ammoniaca NH3, il colore cambia da verde a blu violetto in seguito alla
reazione:
[Ni(H2O)6]2+(aq) + 6NH3(aq) = [Ni(NH3)]2+(aq) + 6H2O(l)
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La reazione di cambiamento dei leganti è detta reazione di sostituzione dei leganti.
(a)
(b)
Fig. 56 Blu di Prussia: (a) particelle di pigmento viste al microscopio ottico-mineralogico, 320x; (b)
reticolo cristallino cubico all’interno del quale sono state individuate, attraverso studi di diffrattometria
dei raggi X, molecole d’acqua di tre tipologie: acqua interstiziale, acqua di cristallizzazione, acqua
adsorbita, (da Artists’ Pigments A Handbook of Their History and Characteristics, Volume 3, E.W.
Fitzhugh Editor, National Gallery of Art, Washington, 1997)
I complessi del rame con l’ammoniaca sono detti complessi cuproammoniacali e sono
interessanti perché presentano un intenso colore azzurro che in antichità è stato anche
sfruttato per ottenere dei pigmenti azzurri di sintesi (azzurriti artificiali) a costi inferiori
rispetto all’azzurrite naturale.
I complessi di coordinazione presentano diversi tipi di geometrie a seconda del metallo
e dei leganti. Il grande numero e l’estrema varietà dei possibili complessi di
coordinazione rendono indispensabile una loro nomenclatura sistematica. Una serie
semplificata di regole per la denominazione dei complessi è la seguente:
1 – L’anione viene nominato prima del catione. Per esempio tetracianonichelato (II) di
potassio, K2[Ni(CN)4].
2 – In qualsiasi ione complesso o molecola neutra vengono indicati prima i leganti e
poi il metallo. Se nel complesso vi è più di un legante, allora questi vengono indicati in
ordine alfabetico. Per esempio, diamminodicloropalladio (II), [Pd(NH3)2Cl2].
3 – I nomi dei leganti negativi terminano in –o, mentre quelli neutri conservano il nome
della molecola neutra. Alcuni leganti comuni hanno nomi particolari, come aquo per
l’acqua, ammino per l’ammoniaca, carbonile per il monossido di carbonio CO.
61
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4 – Il numero dei leganti viene indicato mediante il relativo prefisso greco, come di-,
tri-, tetra-, penta-, esa-.
5 – Se lo ione complesso è un catione si usa il nome del metallo. Se lo ione complesso è
un anione si usa il nome del metallo con la desinenza –ato. Esempio
tetraclorocobaltato(II) [CoCl4]2-.
6 – Lo stato di ossidazione del metallo viene indicato con il numero romano tra
parentesi dopo il nome del metallo.
Alcuni leganti si possono legare ad un catione metallico centrale in più di una posizione
di coordinazione. I leganti che si uniscono ad uno ione metallico in più di una posizione
di coordinazione sono detti leganti polidentati o leganti chelanti. Il complesso
risultante viene detto chelato. Alcuni esempi di leganti che si legano in due posizioni di
coordinazione sono lo ione ossalato (abbreviato in ox) e l’etilendiammina (abbreviato in
en) (fig. 57). Il legame di un legante chelante può essere immaginato come una pinza
con leve molecolari che attanaglia lo ione metallico. Un legante chelante che si lega in
due posizioni di coordinazione del metallo viene detto bidentato; uno che si lega in tre
posizioni viene detto tridentato, e così via. Lo ione etilendiamminotetracetato,
EDTA4-, è l’esempio meglio conosciuto di legante esadentato.
L’EDTA lega fortemente un gran numero di ioni metallici ed ha una gran varietà di
impieghi. Viene usato come antidoto contro l’avvelenamento da metalli pesanti, come
piombo o mercurio; come conservante alimentare grazie all’azione complessante e
disattivante sugli ioni metallici che catalizzano le reazioni di deterioramento del cibo;
come reagente in chimica analitica nella determinazione della durezza delle acque; nel
restauro come complessante del calcio per la rimozione di incrostazioni calcaree, in
questo caso viene utilizzato il sale bisodico dell’acido per garantire un grado di acidità
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non troppo invasivo per i manufatti su cui si va ad applicare. Per i leganti polidentati
occorre aggiungere una settima regola di nomenclatura:
7 – Se il legante unito allo ione metallico è un legante polidentato il nome del legante
viene posto tra parentesi e viene usato il prefisso bis per due leganti e tris per tre
leganti. Tris(etilendiammina)cobalto(III), [Co(H2NCH2CH2NH2)3]3+.
Fig. 57 Ioni complessi formati tra il cobalto e lo ione ossalato e l’etilen diammina, (da Donald A.
McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
2.14 Legame ponte a idrogeno
Il legame o ponte a idrogeno è un legame intermolecolare molto importante che spiega
le proprietà chimiche fisiche di numerosi solventi e le interazioni tra composti polari
come l’acqua e una varietà di materiali organici ed inorganici.
Quando l’atomo di idrogeno è unito a un atomo molto elettronegativo, la coppia di
elettroni che forma il legame non è ugualmente ripartita fra i due atomi, ma è spostata
verso quello più elettronegativo. Il legame che si viene a formare è di tipo covalente
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polare e mentre l’atomo più elettronegativo presenta una parziale carica negativa
l’atomo di idrogeno presenta una parziale carica positiva. In virtù di tale polarità,
l’atomo di idrogeno potrà unirsi con un legame dipolo-dipolo, detto legame a idrogeno
(indicato con il tratteggio), all’atomo elettronegativo di una molecola vicina (fig. 58).
(a)
(b)
Fig. 58 Nell’acqua allo stato liquido (a) sono presenti moltissimi legami a idrogeno poiché l’ossigeno
possiede due doppietti elettronici liberi e quindi può formare due legami idrogeno. Nella struttura
cristallina del ghiaccio (b) ogni atomo di ossigeno si trova al centro di un tetraedro formato da altri
quattro atomi di ossigeno e l’intera struttura è tenuta insieme da legami a idrogeno, (da Donald A.
McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
L’atomo di idrogeno presenta una carica molto concentrata per le sue ridotte dimensioni
e quindi riesce ad attrarre fortemente atomi elettronegativi presenti in molecole vicine.
In particolare, l’atomo di idrogeno interagisce con la coppia solitaria di elettroni di un
altro atomo (O, N o F).
La presenza dei legami a idrogeno nell’acqua spiega le particolari caratteristiche di
questo composto così importante per la vita sulla terra. In particolare l’alto punto di
ebollizione, l’espansione di volume durante il congelamento e altre proprietà. La
capacità dell’acqua di formare legami a idrogeno è anche molto importante nel settore
dei beni culturali per la conservazione dei materiali in quanto la maggior parte di essi
presenta affinità più o meno marcate per l’acqua che può innescare diversi processi di
degrado. Ad esempio nei materiali lapidei (carbonati, silicati, solfati, ecc.) l’acqua
penetra facilmente proprio grazie alla formazione di legami a idrogeno trasportando
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spesso composti salini solubili o parzialmente solubili. In funzione poi di variazioni di
temperatura, l’acqua può solidificare o evaporare provocando in un caso possibili
fessurazioni per aumento di volume, nell’altro depositi di sali all’interno o all’esterno
dei materiali lapidei. Nel caso di materiali organici, come ad esempio le sostanze di tipo
proteico (colle animali, uovo, caseina) o il legno (cellulosa, lignina, emicellulosa, e altre
sostanze), l’acqua può favorire lo sviluppo di microorganismi, che vanno ad attaccare le
proteine o i costituenti del legno alterandone la struttura, e può causare anche variazioni
dimensionali e deformazioni del materiale stesso per eccessivo assorbimento.
2.15 Interazioni dipolo-dipolo
L’interazione dipolo-dipolo è determinata da una forza di natura elettrostatica che si
manifesta tra le molecole polari. Ogni molecola polare, infatti, presenta un’estremità
positiva e un’estremità negativa. La parte positiva attira a sé la parte negativa di una
molecola vicina; le varie molecole risultano così legate l’una all’altra da una forza
attrattiva di natura elettrostatica, detta appunto interazione dipolo-dipolo (fig. 59).
Le interazioni dipolo-dipolo sono sufficientemente forti da influenzare numerose
proprietà fisiche dei liquidi come punto di ebollizione, punto di fusione e, nei solidi, le
orientazioni molecolari.
Fig. 59 – Le forze dipolo-dipolo si manifestano fra molecole che possiedono dipoli permanenti. (da R.C.
Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991).
2.16 Interazioni ione-dipolo
Le molecole polari hanno la proprietà di orientarsi in un campo elettrico, rivolgendo le
proprie estremità cariche verso le cariche di segno opposto. Se sciogliamo in un
solvente polare (cioè formato da molecole polari, tipo H2O ) una sostanza ionica (tipo
NaCl), questa sostanza si dissocia in ioni positivi e ioni negativi. Ciascuno ione crea
nell’ambito delle soluzioni un campo elettrico e le molecole polari del solvente, attratte
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dagli ioni, si orientano e circondano ogni ione di molecole polari (dipoli). In questo caso
tra le molecole polari e gli ioni si stabilisce un’interazione ione-dipolo (vedi fig. 19).
2.17 Interazioni dipolo-dipolo indotto
L’interazione dipolo-dipolo indotto si forma tra una molecola polare (tipo H2O, HCl,
NH3, ecc.) o uno ione e una non polare (tipo Cl2, Br2, ecc.). Le molecole polari infatti si
comportano da dipoli elettrici e, se si trovano vicine a molecole non polari, esercitano su
di esse un’induzione elettrostatica tale da polarizzarle, rendendole così dei dipoli indotti.
Tra i dipoli (molecole polari) ed i dipoli indotti (molecole inizialmente non polari) si
stabilisce quindi l’interazione dipolo-dipolo indotto (fig. 60).
Fig. 60 – Le forze dipolo-dipolo indotto si manifestano fra ioni o molecole che possiedono dipoli
permanenti e molecole non polari, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di
Chimica Moderna, Le Monnier, 1991).
2.18 Interazioni dipolo indotto-dipolo indotto: forze di dispersione di London
Questo tipo di forze di attrazione vennero introdotte per primo dal fisico tedesco Fritz
London nel 1930 per spiegare l’attrazione tra molecole non polari.
Le forze di London, dette anche forze di dispersione, sono dovute alla formazione di un
dipolo temporaneo in molecole non polari, questo dipolo può indurre la formazione di
altro un dipolo temporaneo nella molecola vicina: l’interazione si dice anche dipolo
temporaneo – dipolo temporaneo (o istantaneo), (fig. 61). Le forze di dispersione
nascono da fluttuazioni nel tempo nella distribuzione degli elettroni su due atomi o
molecole adiacenti, fluttuazioni che inducono un dipolo istantaneo in un’altra molecola.
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Fig. 61 – Le forze di dispersione sono dovute alla formazione di un dipolo temporaneo in molecole non
polari, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier,
1991).
Le interazioni deboli tra atomi e molecole (dipolo-dipolo, dipolo-dipolo indotto e dipolo
indotto-dipolo indotto) vengono anche denominate forze di van der Waals dal nome
del fisico olandese che per primo le descrisse nei suoi calcoli sui gas. Egli individuò
anche le forze di repulsione che entrano in gioco quando atomi o molecole si
avvicinano strettamente tra loro. Le forze di repulsione traggono origine dalla forza di
repulsione tra le nuvole elettroniche interne, quando atomi o molecole vengono forzate
ad avvicinarsi tra loro. Quindi atomi e molecole si comportano come se avessero un
guscio esterno rigido che limita la distanza a cui potrebbero avvicinarsi ad altri atomi o
molecole. Il raggio di questo guscio rigido viene chiamato raggio di van der Waals: la
distanza minima tra molecole in uno stato condensato è individuata dalla somma dei
raggi di van der Waals dei loro atomi.
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CAPITOLO 3
3.1 Lo stato gassoso
Un gas non ha né volume né forma definiti ma si espande fino ad occupare tutto il
recipiente che lo contiene, a differenza di un liquido che possiede un volume definito
ma fluisce per adattarsi alla forma del recipiente che lo contiene e di un solido che
invece presenta un volume e una forma definiti. Queste caratteristiche dipendono dalla
posizione e dal moto delle molecole: in un gas le forze tra le molecole sono trascurabili
e le distanze tra di esse molto grandi; in un liquido e in un solido, invece, le molecole
hanno forze di attrazione tra loro e si trovano in stretto contatto. In un liquido però le
molecole possono muoversi una rispetto all’altra mentre in un solido sono localizzate in
posizioni definite dello spazio. I gas, da un punto di vista macroscopico, di distinguono
dai liquidi e dai solidi per la loro bassa densità; da un punto di vista microscopico il
numero di molecole per unità di volume è minore e quindi le distanze fra le molecole
malto maggiori rispetto a liquidi e solidi.
I gas principali presenti sulla terra sono quelli dell’aria (azoto N2, circa 78%, ossigeno
O2, circa 21%, argon Ar, circa 0,9%, biossido di carbonio CO2 circa 0,03%, neon Ne,
elio He, metano CH4, kripton Kr, idrogeno H2, ossido di diazoto N2O, xenon Xe e altri
costituenti le cui abbondanze variano molto quali: acqua H2O, ozono O3, monossido di
carbonio CO, biossido d’azoto NO2, biossido di zolfo SO2 anche in funzione dell’effetto
antropico). Alcuni gas sono scarsamente o per niente reattivi mentre altri possono avere
un comportamento acido e corrosivo. Ad esempio un gas come SO2, che deriva da
processi biologici e dai vulcani ma soprattutto dalla combustione di petrolio e carbone,
a contatto con l’ossigeno e radicali reattivi presenti nell’atmosfera forma triossido di
zolfo, SO3, che, reagendo con il vapore acqueo, forma acido solforico H2SO4
producendo le piogge acide: queste, oltre ad essere dannose per la salute, provocano
gravi danni ai manufatti lapidei esposti all’aperto, soprattutto quelli contenenti
carbonato di calcio, come i marmi, il travertino, e in generale le pietre calcaree, in base
al seguente processo chimico:
CaCO3(s) + H2SO4(aq) → CaSO4(s) + H2O(l) + CO2(g)
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Il solfato di calcio, presente sui manufatti lapidei come forma idrata e noto come gesso,
oltre ad essere più solubile del carbonato di calcio e quindi meglio trasportabile
dall’acqua provocando così la lenta disgregazione delle strutture lapidee a base di
carbonato di calcio, trattiene spesso particelle carboniose formando le ben note croste
nere.
Le tre proprietà utili a descrivere i gas sono: il volume (V), la pressione (P) e la
temperature (T). La pressione è la forza che un gas esercita su ogni area delle pareti del
recipiente in cui si trova. Può essere espressa in diverse unità di misura: in base al
Sistema Internazionale è kg m-1 s-2 e si chiama pascal (Pa). L’altra unità molto utilizzata
è l’atmosfera definita come 1,01325x105 Pascal, equivalente ad una colonna di 760 mm
di Hg a 0°C. Altre unità abbastanza utilizzate sono: il bar (1bar = 105 Pa) soprattutto
nelle previsioni metereologiche e il torr definito come 1 torr = 1/760 atm, oppure 760
torr = 1 atm. Uno strumento utilizzato in laboratorio per la misura della pressione è il
manometro, un tubo di vetro ad U riempito di mercurio, liquido utilizzato per la sua
alta densità e scarsa reattività. La pressione di un gas si misura rilevando l’altezza della
colonna di mercurio determinata dall spinta esercitata dal gas sul mercurio. Poiché
l’altezza si misura in mm, di solito la pressione è espressa in mm di mercurio. L’unità
torr deriva dal nome dello scienziato Evangelista Torricelli che inventò il barometro,
uno strumento dal funzionamento del tutto analogo a quello del manometro.
Il primo studio sistematico sul comportamento dei gas fu condotto dallo scienziato
irlandese Robert Boyle, intorno al 1660. Boyle dimostrò attraverso esperimenti di
laboratorio, che, a temperatura costante, il volume di un gas è inversamente
proporzionale alla pressione, ovvero il prodotto pressione x volume è una costante:
PV = C (a T costante e quantità di gas costante)
Boyle osservò anche che il prodotto PV dipendeva dalla temperatura, ma fu soltanto più
di un secolo dopo che furono eseguiti esperimenti di laboratorio che permisero di
trovare una relazione tra pressione, temperatura e volume, grazie a Jacques Charles,
uno scienziato francese che dimostrò che esisteva una correlazione lineare tra
temperatura e volume e definì una nuova scala di temperatura che rendesse conto di
questa relazione, aggiungendo 273,15 alla scala Celsius. Quindi, a pressione costante:
69
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V = kT, dove T è la temperatura assoluta, correlata alla temperatura in gradi centigradi t
dalla relazione: T = 273,15 + t. Il valore 273,25 fu chiaramente determinato da prove
sperimentali.
La legge di Charles si esprime in genere con la seguente equazione:
V = V0 (1 + t/273,15°C)
dove V è il volume del gas alla temperatura t e V0 il volume al punto di congelamento
dell’acqua. La temperatura t = -273,15 °C è detta zero assoluto e, in base alla legge di
Charles, a questo valore il volume diventa uguale a zero. Quindi lo zero assoluto è la
temperatura limite al di sotto della quale non si può scendere. Pertanto la temperatura
dello zero assoluto diventa una scelta logica per il punto di zero di una scala di
temperatura. Questa scala, che si ottiene aggiungendo 273,15 alla temperatura Celsius, è
detta scala di temperatura Kelvin, dal nome dello scienziato inglese lord Kelvin che la
propose. La temperatura T nella scala assoluta si misura quindi in kelvin (K).
Nel 1809 Gay-Lussac osservò che i volumi con cui si combinano i gas nelle reazioni
chimiche stanno tra loro in rapporti esprimibili da numeri interi piccoli: questa
osservazione è nota come legge dei volumi di combinazione di Gay-Lussac. Nel 1811
Avogadro, interpretando la legge di Gay-Lussac, concluse che molti comuni elementi
gassosi come idrogeno, ossigeno, azoto, cloro erano presenti in natura come molecole
biatomiche piuttosto che come atomi singoli. Avogadro avanzò l’ipotesi che volumi
uguali di gas, alla stessa pressione e temperatura, contenessero lo stesso numero di
molecole: questa ipotesi è oggi accettata come legge di Avogadro e implica che volumi
uguali di gas alla stessa temperatura e pressione contengono lo stesso numero di moli n.
A questo punto, combinando la legge di Boyle, quella di Charles e quella di Avogadro,
si ottiene la seguente espressione che lega temperatura, pressione, volume e moli di gas,
detta legge dei gas ideali:
PV = nRT
Questa legge è valida per gas che si trovano a pressioni inferiori a quella atmosferica ed
è tanto più corretta quanto più si diminuisce la pressione. R è una costante definita
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costante dei gas. Sperimentalmente è stato determinato che 1 mole di gas ideale, a 0°C
e 1,00 atm occupa un volume di 22,4 l (detto volume molare). Ricavando R dalla legge
dei gas ideali e sostituendo i valori su indicati per T, P, V e n si ottiene:
R = PV/nT = (1,00 atm) (22,4l) / (1,00 mol) (273,15K) = 0,0821 l · atm · mol-1 · K-1
Nello studio dei gas rivestono una grande importanze le miscele (come si è visto l’aria
stessa è costituita da molti gas diversi). Viene definita pressione parziale di ciascuno
dei gas la pressione che tale gas eserciterebbe sulle pareti se fosse presente da solo nel
recipiente. La legge di Dalton (dal nome del suo scopritore) dice che la pressione totale
è uguale alla somma delle pressioni parziali dei singoli gas. Anche questa legge è valida
per i gas ideali. Se si considera una miscela di gas A, B, C, ecc., la pressione parziale di
un singolo gas è data da: PA = nART/V, pertanto la pressione totale sarà:
Ptot = PA + PB + PC + … = (nA + nB + nC + …) RT/V = ntot RT/V
Dividendo la prima equazione per la seconda, si ottiene:
PA/Ptot = nA/ntot
oppure
PA = (nA/ntot) Ptot
Il rapporto XA = nA/ntot viene definito frazione molare di A nella miscela. Si ottiene così
l’espressione della pressione parziale del componente A in funzione della sua frazione
molare e della pressione totale:
PA = XA Ptot
La legge dei gas ideali è una legge empirica, derivata da osservazioni sperimentali, la
cui semplicità e generalità portano a supporre che debbano esserci spiegazioni a livello
microscopico che coinvolgano le proprietà di atomi e molecole di un gas. Nel XIX
secolo, grazie soprattutto ai fisici Rudolf Clausius, James Clerk Maxwell e Ludwig
Boltzmann, fu sviluppata la teoria cinetica dei gas basata sul moto degli atomi e delle
molecole. La teoria cinetica non parte da prove sperimentali ma da ipotesi e modelli che
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possono però spiegare le proprietà dei gas che si misurano. Le ipotesi di partenza della
teoria cinetica dei gas sono:
1 – un gas puro consiste di un gran numero di molecole identiche separate da grandi
distanze, paragonate alle dimensioni molecolari, che si possono quindi considerare
trascurabili;
2 – le molecole del gas sono in continuo movimento in direzioni casuali e con una certa
distribuzione di velocità;
3 – tra una collisione e l’altra le molecole non esercitano alcuna forza tra di loro e
quindi si spostano secondo linee rette con velocità costante;
4 – le collisioni delle molecole di gas con le pareti del recipiente sono elastiche e quindi
avvegnono senza perdita di energia.
Attraverso una serie di calcoli è possibile trovare una relazione che lega la velocità delle
molecole del gas con la temperatura:
ū2 = 3RT/ M
dove ū2 è la velocità quadratica media e M è la massa molare. La velocità quadratica
media è data dalla somma delle medie dei quadrati, lungo le varie direzioni, delle
velocità per un certo numero N di molecole.
In conclusione, a prescindere dai calcoli, la teoria cinetica dice che la velocità
quadratica media delle molecole di un gas è direttamente proporzionale alla temperatura
e inversamente proporzionale alla loro massa. Un altro importante risultato della teoria
cinetica, dovuto agli studi di Maxwell e Boltzmann, è l’equazione che esprime la
distribuzione delle velocità f(u) chiamata distribuzione di Maxwell- Boltzmann. Per un
gas con molecole di massa m alla temperatura T si ha:
f(u) = 4π (m/2πkBT)3/2 u2 exp (-mu2/2kBT)
dove kB è la costante di Boltzmann data da R/N0, dove N0 è il numero di molecole
contenute in una mole di gas. In base a questa equazione, aumentando la temperatura si
ottiene che tutta la distribuzione delle velocità si sposta verso valori più grandi. Ad ogni
temperatura corrisponde una sola curva di distribuzione.
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Si è detto che la legge dei gas espressa dall’equazione PV = nRT è valida per sistemi
ideali ovvero a densità e pressione basse. Per sistemi reali fu proposta da Johannes van
der Waals nel 1873 un’altra equazione, detta equazione di stato di van der Waals:
(P + a n2/V2) (V – n b) = nRT
P = nRT/(V – n b) - a n2/V2
Questa equazione tiene conto anche delle forze che agiscono tra le molecole e che sono
repulsive a corte distanze ed attrattive a grandi distanze. Per effetto delle forze
repulsive, le molecole non possono sovrapporsi escludendo le altre molecole dal volume
che occupano, quindi il volume effettivamente disponibile per una molecola non è V,
ma (V – n b) dove b è una costante che esprime il volume escluso per ogni mole. Per
effetto delle forze attrattive, invece, il numero di molecole indipendenti nel gas è
inferiore e quindi si riduce il numero di collisioni che avvengono con le pareti del
recipiente con conseguente diminuzione della pressione. Van der Waals ipotizzò che
questo effetto, poiché dipende dalle coppie di molecole, fosse proporzionale al quadrato
del numero di molecole per unità di volume, ovvero n2/V2, a rappresenta la costante di
proporzionalità che dipende dall’intensità delle forze attrattive. Le costanti a e b, dette
costanti di van der Waals, dipendono dal tipo di gas e hanno valori calcolati
sperimentalmente.
3.2 Liquidi e solidi
Un confronto tra gas, liquidi e solidi può essere fatto sulla base di quelle che vengono
definite proprietà di massa ovvero proprietà associate all’arrangiamento complessivo
delle molecole e che misurano la risposta dell’arrangiamento all’applicazione di una
perturbazione esterna. L’interpretazione molecolare qualitativa delle proprietà di massa
richiede solo l’analisi delle forze di attrazione a lungo raggio e delle forze di repulsione
a corto raggio tra le molecole.
Il volume molare rappresenta il volume di una mole di sostanza; nel caso dei solidi il
valore è circa 10 cm3, per i liquidi è circa 100 cm3 mentre per i gas si arriva a circa
24.000 cm3: questa grande differenza spiega perché i liquidi e i solidi sono detti fasi
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condensate. Nei solidi e nei liquidi le molecole si trovano a distanze molto ravvicinate,
nell’ordine di 3-5 x 10-10 m, mentre nei gas le distanza sono dell’ordine di 30 x 10-10 m.
La compressibilità si definisce come la diminuzione relativa di volume quando viene
aumentata la pressione applicata. Anche in questo caso i gas differiscono
significativamente dai solidi e dai liquidi: i primi, infatti, sono molto compressibili a
causa delle grandi distanze che esistono tra le molecole e quindi di notevoli spazi; solidi
e liquidi, invece, sono praticamente incompressibili in quanto le molecole si trovano già
a stretto contatto le une con le altre.
Il coefficiente di espansione termica è definito come l’aumento di volume di una
sostanza per aumento di un grado di temperatura. I gas presentano valori di coefficiente
di espansione termica molto maggiori rispetto ai liquidi e ai solidi: anche in questo caso
la spiegazione è legata alla vicinanza tra le molecole che nel caso delle fasi condensate è
elevata e quindi sono presenti alte forze di attrazione intermolecolari che richiedono
molta energia per allontanare le molecole. Nel caso dei gas, invece, queste attrazioni
sono assenti e quindi risulta facile allontanare le molecole ulteriormente.
La proprietà più caratteristica dei gas e dei liquidi è la fluidità che contrasta con la
rigidità dei solidi. I liquidi anche se possiedono volumi definiti, non hanno però forme
proprie come i solidi, pertanto possono scorrere facilmente sotto sforzo. Si definisce
viscosità la resistenza allo scorrimento di uno strato sottile di molecole rispetto ad un
altro strato sottile. Altre proprietà importanti sono la durezza (resistenza all’incisione) e
l’elasticità (capacità di recupero della forma quando viene rimosso lo sforzo di
deformazione): i solidi presentano generalmente queste proprietà, i liquidi e i gas no.
Un’altra proprietà interessante è la diffusione: quando due sostanze vengono poste a
contatto, cominciano a mescolarsi ovvero le molecole dell’una diffondono nell’altra. Le
molecole dei gas diffondono molto velocemente mentre nei liquidi e nei solidi le
volocità sono di gran lunga inferiori. Il coefficiente di diffusione di una sostanza
misura la velocità di mescolamento per diffusione di tale sostanza. Nei solidi la
diffusione è molto lenta e decisamente inferiore rispetto a quella di liquidi e gas. Nei
liquidi e nei gas il mescolamento avviene anche per convezione nella quale il flusso
netto di un’intera zona del fluido rispetto ad un’altra provoca un mescolamento a
velocità nettamente superiori rispetto a quelle che si hanno per semplice diffusione. La
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convezione è il meccanismo fondamentale di mescolamento dei fluidi negli oceani e
nell’atmosfera.
Le superfici di separazione tra fasi diverse rivestono una grande importanza in chimica
e biologia. La superficie dell’acqua o di qualsiasi altro liquido a contatto con l’aria o
con qualsiasi altro gas, si oppone ai tentativi di aumento della sua area. Questo perché le
molecole presenti sulla superficie del liquido sono attirate verso il basso dalle forze
intermolecolari. La tensione superficiale fa si che la superficie si comporti come una
debole pellicola elastica, essa è il risultato delle attrazioni intermolecolari tra le
molecole di un liquido. L’acqua presenta una tensione superficiale superiore a quella
della maggior parte dei liquidi, ma il liquido con il valore in assoluto più elevato di
tensione superficiale è il mercurio che infatti tende sempre a raggrupparsi in goccioline
proprio a causa delle forti attrazioni intermolecolari che determinano un’elevata
tensione superficiale.
3.3 Concetto di tensione di vapore
Come già detto all’inizio di questo testo i gas, i liquidi e i solidi sono fasi che possono
coesistere. Si supponga, ad esempio, di introdurre dell’acqua in un recipiente chiuso in
cui è stato fatto il vuoto. Il sistema viene, inoltre, mantenuto a 25 °C tramite un
termostato. La pressione viene misurata tramite un manometro. Appena dopo
l’introduzione dell’acqua nel recipiente, la pressione del vapore acqueo comincia ad
aumentare fino ad assumere un valore stabile pari a 0,03126 atm che rappresenta la
tensione di vapore dell’acqua a 25 °C. Il sistema raggiunge quindi uno stato di
equilibrio nel quale non si osservano più cambiamenti macroscopici fino a quando esso
resta isolato. Da un punto di vista molecolare, all’interno del contenitore avvengono dei
processi che portano il sistema verso lo stato di equilibrio. Inizialmente la pressione al
di sopra del liquido è molto piccola e le molecole lasciano la superficie del liquido per
passare allo stato gassoso: questo processo di evaporazione determina un aumento della
pressione del vapore acqueo. Man mano che le molecole nella fase vapore aumentano,
comincia a verificarsi anche il processo inverso, ovvero ci saranno molecole che
urtando la superficie del liquido vi restano legate per effetto delle forze intermolecolari
di attrazione: si verifica quindi il processo di condensazione. La velocità di
condensazione aumenterà fino a diventare uguale a quella del processo di evaporazione:
75
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il sistema ha raggiunto l’equilibrio di fase, caratterizzato da un ben preciso valore della
pressione del vapore acqueo (fig. 62).
Fig. 62 Raggiungimento dell’equilibrio nei processi di evaporazione e condensazione, (da David W.
Oxtoby, H.P. Gillis, Norman H. Nachtrieb, Chimica moderna, EdiSES, Napoli, 2001)
Quindi la tensione di vapore di un liquido può essere definita come la pressione di
vapore all’equilibrio ovvero quando la velocità di evaporazione del liquido diviene
uguale a quella di condensazione del vapore. All’equilibrio la tensione di vapore del
liquido è costante e si chiama tensione di vapore all’equilibrio. La tensione di vapore
di un liquido dipende dalla temperatura. In particolare maggiore è la temperatura,
maggiore è la tensione di vapore. Questo perché maggiore è la temperatura tanto più è
veloce il movimento delle molecole in fase liquida e quindi maggiore è la velocità di
evaporazione.
3.4 Transizioni di fase e diagrammi di fase
I tre stati della materia possono dar luogo a sei transizioni di fase.
Solido → liquido
FUSIONE
Liquido → solido
CONGELAMENTO
Liquido → gas
EVAPORAZIONE
Gas → liquido
CONDENSAZIONE
Solido → gas
SUBLIMAZIONE
Gas → solido
DEPOSIZIONE
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La temperatura di ebollizione di un liquido è la temperatura alla quale la tensione di
vapore del liquido diventa uguale alla pressione atmosferica. Quindi la temperatura di
ebollizione di un liquido varia in funzione della pressione esterna.
Il comportamento di un sistema con un solo componente può essere descritto dai
diagrammi di fase che sono dei grafici in cui viene riportato l’andamento della
pressione in funzione della temperatura per un determinato materiale e quindi le fasi in
cui esso può esistere e gli equilibri tra le varie fasi. Il diagramma di fase dell’acqua
(fig. 63), ad esempio, mostra contemporaneamente la curva di tensione di sublimazione
(in grigio), quella di tensione di vapore (in rosso) e quella del punto di fusione (in blu).
Le linee di equilibrio di fase sono i confini tra le regioni di stabilità delle fasi solida,
liquida e gassosa. Il punto in cui le tre curve si intersecano (4,58 torr e 273,16 K) è detto
punto triplo: in questo punto coesistono tutte e tre le fasi.
Fig. 63 Diagramma di fase dell’acqua, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale,
Zanichelli, 1991)
La quantità di vapore acqueo presente nell’atmosfera si esprime in termini di umidità
relativa. L’umidità relativa è il rapporto tra la pressione parziale del vapore acqueo
nell’atmosfera e la tensione di vapore dell’acqua alla stessa temperatura x 100. La
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temperatura dell’aria a cui l’umidità relativa raggiunge il 100% e detta punto di
rugiada.
3.5 Proprietà delle soluzioni
Una soluzione è una miscela di due o più sostanze, uniforme a livello molecolare. Una
soluzione deve essere omogenea, cioè deve avere le medesime proprietà in ogni sua
parte. Esistono diversi tipi di soluzioni, a seconda dello stato fisico in cui si trovano i
componenti; nella tabella che segue sono riportati vari tipi di soluzioni con indicato lo
stato fisico dei componenti iniziali e della soluzione finale.
Componente 1
Componente 2
Soluzione
Esempi
gas
gas
gas
aria, miscela aria/benzina nel motore a scoppio
gas
liquido
liquido
O2 in acqua, CO2 nelle bevande gassate
gas
solido
solido
H2 su Pt e Pd
liquido
liquido
liquido
acqua ed alcol, miscele varie di solventi
liquido
solido
solido
amalgama di mercurio con oro o argento
solido
liquido
liquido
cloruro di sodio in acqua
solido
solido
solido
leghe metalliche
Nel caso di una soluzione solido – liquido il componente predominate è detto solvente
mentre quelli presenti in quantità minori sono detti soluti. La concentrazione di un
soluto in una soluzione indica la quantità di soluto sciolto in una certa quantità di
solvente generalmente espressa come molarità (vedi par. 1.4). La solubilità implica un
equilibrio chimico, ad esempio l’equilibrio che coinvolge il passaggio degli ioni di un
sale (es. NaCl) in soluzione acquosa e la loro cristallizzazione a formare nuovamente il
sale è un equilibrio dinamico. La solubilità è la quantità massima di una sostanza che
può essere disciolta in una certa quantità di solvente ad una determinata temperatura. In
queste condizioni si dice che la soluzione è satura: un’ulteriore piccola aggiunta di
sostanza provoca la formazione di un precipitato che viene spesso detto corpo di fondo.
Sebbene il soluto e il solvente possano essere qualsiasi combinazione di fasi solide,
liquide e gassose, l’acqua allo stato liquido rappresenta senza dubbio il solvente più
conosciuto e importante e quindi viene dato maggiore risalto alle soluzioni acquose,
tenendo però in considerazione il fatto che la dissoluzione può avvenire in molti altri
solventi. Esistono diverse specie che possono disciogliersi in acqua. Le sostanze
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molecolari polari vengono facilmente portate in soluzione acquosa. Un esempio è
rappresentato dagli zuccheri come il saccarosio, il fruttosio, il ribosio, ecc. che grazie
alla presenza di numerosi gruppi –OH (idrossili) possono formare legami a idrogeno e
interazioni dipolo-dipolo con le molecole d’acqua. Quando un solido ionico si scioglie
in acqua gli ioni si allontanano dai loro siti nel solido in cui essi erano attratti
fortemente da ioni di carica elettrica opposta. Nuove forti attrazioni rimpiazzano quelle
perdute perché ciascuno ione viene circondato da un gruppo di molecole d’acqua (fig.
64, esempio del solfato di potassio). In questo caso le interazioni in gioco sono di tipo
ione-dipolo.
Fig. 64 Processo di solubilizzazione del solfato di potassio, (da David W. Oxtoby, H.P. Gillis, Norman H.
Nachtrieb, Chimica moderna, EdiSES, Napoli, 2001)
La solubilità di un gas in un liquido viene descritta dalla legge di Henry in base alla
quale la pressione parziale Pgas di un gas in contatto con il liquido è direttamente
proporzionale alla molarità del gas Mgas. Ovvero la solubilità del gas è direttamente
proporzionale alla sua pressione parziale.
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Pgas = khMgas
kh è la costante della legge di Henry e dipende dal tipo di gas, dal solvente e dalla
temperatura.
Per alcune soluzioni è stato dimostrato dal chimico francese François-Marie Raoult che
la tensione di vapore del solvente è direttamente proporzionale alla frazione molare del
solvente stesso, ovvero che l’andamento della tensione di vapore del solvente in
funzione della sua frazione molare è descritto da una retta:
P1 = X1P10
Questa relazione è nota come legge di Raoult e vale nel caso di soluti non volatili,
ovvero per i quali la tensione di vapore sopra la soluzione sia trascurabile. P10 è la
tensione di vapore del solvente puro e X1 è la sua frazione molare. Le soluzioni che
soddisfano la legge di Raoult si dicono soluzioni ideali.
La legge di Raoult costituisce la base per interpretare quattro proprietà delle soluzioni
diluite note come proprietà colligative poiché esse dipendono soltanto da numero delle
particelle in soluzione e non dalla loro natura. Queste proprietà sono:
-
abbassamento della tensione di vapore della soluzione rispetto a quella del
solvente puro;
-
innalzamento ebullioscopico;
-
abbassamento crioscopico;
-
pressione osmotica.
Per una miscela a due componenti X1 + X2 = 1, ovvero X1 = 1 - X2 e quindi la legge di
Raoult può essere scritta come:
ΔP = P1 - P10 = X1 P10 - P10 = - X2 P10
Da questa equazione risulta che la variazione di tensione di vapore del solvente è
proporzionale alla frazione molare del soluto. Il segno negativo indica che si ha un
abbassamento della tensione di vapore della soluzione rispetto al solvente puro.
80
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L’altra importante proprietà colligativa è l’innalzamento ebullioscopico ovvero
l’aumento della temperatura di ebollizione di una soluzione rispetto al solvente puro. Si
esprime con la seguente relazione:
ΔTb = Kb m
Dove ΔTb è l’innalzamento del punto di ebollizione della soluzione rispetto al solvente
puro, m è la molalità della soluzione, ovvero le moli di soluto in 1000 g di solvente e Kb
la costante ebullioscopica che dipende dal tipo di solvente. Il fenomeno
dell’innalzamento ebullioscopico può essere sfruttato per misurare le masse molari di
una sostanza poiché, nota la costante Kb, dalla misura della variazione di temperatura si
può ricavare m.
L’abbassamento crioscopico rappresenta l’abbassamento del punto di congelamento di
una soluzione rispetto al solvente puro. Si esprime con la seguente relazione:
ΔTf = - Kf m
Dove ΔTf è l’abbassamento del punto di congelamento della soluzione rispetto al
solvente puro, m è la molalità della soluzione e Kf la costante crioscopica che dipende
solo dalle proprietà del solvente. Come l’innalzamento ebullioscopico, anche
l’abbassamento crioscopico può essere sfruttato per misurare le masse molari di una
sostanza poiché, nota la costante Kf, dalla misura della variazione di temperatura si può
ricavare m.
La quarta proprietà colligativa è particolarmente importante in biologia cellulare perché
svolge un ruolo fondamentale nel trasporto di molecole attraverso le membrane
cellulari. Queste membrane sono semipermeabili perché consentono il passaggio
selettivo delle molecole (ad esempio permettono il passaggio di molecole piccole come
l’acqua ma non di grosse macromolecole come le proteine e i carboidrati). Prendiamo
ad esempio una soluzione contenuta in un tubo capovolto che all’estremità inferiore è
ricoperto da una membrana semipermeabile e sia c la concentrazione del soluto in moli
per litro di soluzione. Quando l’estremità inferiore del tubo viene immersa in un
recipiente contenente il solvente puro, il solvente passa dal recipiente al tubo attraverso
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la membrana. Il volume della soluzione aumenta e questa risale lungo il tubo fino a
raggiungere, all’equilibrio, un altezza h sopra il livello del solvente puro. La pressione
nella soluzione è maggiore di quella presente nel solvente puro, ovvero la pressione
atmosferica, e la differenza tra le due pressioni è detta pressione osmotica indicata
dalla lettera greca π ed espressa dalla seguente relazione:
π = cRT
relazione scoperta dal chimico Jacobus van’t Hoff nel 1887. R è la costante dei gas e T
la temperatura assoluta. Considerando che la concentrazione c può essere espressa come
moli su volume n/V, si ottiene:
πV = nRT
che ricorda molto la legge dei gas ideali. Da misurazioni della pressione osmotica, come
per le altre proprietà colligative, è possibile ottenere la massa molare di una sostanza
disciolta in soluzione.
Un colloide è una miscela di due o più sostanze in cui una fase è sospesa in una seconda
fase. Le particelle colloidali sono molto più grandi delle molecole in una soluzione ma
comunque piccole per poter essere rivelate ad occhio nudo. Le loro dimensioni sono
dell’ordine di 10-9 – 10-6 m. Possono essere rivelate tramite l’effetto di diffusione che
provocano su un fascio luminoso. In molti colloidi le particelle possiedono una carica
netta positiva o negativa sulla loro superficie, bilanciata da una carica opposta di ioni in
soluzione. La sedimentazione di questi colloidi può essere favorita sciogliendo dei sali
nel mezzo disperdente: tale processo è detto flocculazione. Le particelle in sospensione
si trovano in continuo stato di moto detto moto browniano dal nome del botanico
scozzese Robert Brown che attraverso il microscopio osservò e descrisse per primo il
moto di particelle di polline in acqua.
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3.6 Conducibilità delle soluzioni
Una soluzione ionica conduce corrente elettrica per mezzo del moto degli ioni nella
soluzione e la misurazione di quanto conduce la soluzione si può effettuare immergendo
due elettrodi nella stessa e misurando la sua resistenza.
La resistenza misurata dipende dai seguenti fattori:
A – l’area supeficiale degli elettrodi;
B – la forma degli elettrodi;
C – la posizione relativa degli elettrodi in soluzione;
D – l’identità delle specie in soluzione;
E – la concentrazione delle specie in soluzione;
F – la temperatura.
Nella pratica la resistenza è convertita come se la misurazione fosse stata condotta in
una cella di volume 1 cm3 tra due elettrodi piani ciascuno di 1 cm2 affacciati
parallelamente ad una distanza di 1 cm. Questa misurazione di resistenza in una
geometria specifica è detta resistività. Il reciproco della resistività è detta conducibilità
o conduttanza specifica oppure conduttività. Quella branca dell’elettrochimica che si
occupa di misurare la conducibilità delle soluzioni è detta conduttimetria.
Una soluzione acquosa di solfato di potassio, ad esempio, conduce l’elettricità. Quando
lamine metalliche (elettrodi) elettricamente caricate da una batteria vengono messe nella
soluzione, gli ioni positivi (K+) migrano verso la lamina negativa, e gli ioni negativi
(SO42-) verso la lamina positiva (fig. 65).
Fig. 65 Soluzione acquosa di solfato di potassio con elettrodi, (da David W. Oxtoby, H.P. Gillis, Norman
H. Nachtrieb, Chimica moderna, EdiSES, Napoli, 2001)
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Nella tabella che segue sono riportate le grandezze importanti in conduttimetria.
Grandezza
Unità di misura
Simbolo
Resistenza (R)
ohm
Ω
Conduttanza
ohm-1 = mho = siemens
Ω-1 = Ω-1 = S
Resistività (ρ)
ohm centimetro, ohm metro
Ω cm, Ω m
Conduttività (κ)
mho cm-1, siemens cm-1
Ω-1 cm-1 = S cm-1 = S m-1
Le misure di conducibilità sono importanti in molti campi, in particolare:
- contaminazione delle acque
- contenuto di sali in caldaie e impianti in genere
- concentrazione degli ioni nell’effluente di una colonna per cromatografia ionica
- concentrazione di acidi in soluzioni utilizzati in processi industriali
- concentrazione di fertilizzanti liquidi appena il fertilizzante è applicato
- controllo della presenza di sali solubili in strutture lapidee, murature, dipinti murali,
ecc.
- controllo dei processi di rimozione dei sali solubili da dipinti murali e materiali lapidei
in genere.
3.7 Proprietà dei cristalli
I cristalli possono essere classificati in base ai legami chimici tra gli atomi, gli ioni o le
molecole che li costituiscono ma anche in base ai tipo e al numero degli elementi di
simmetria che possiedono nella loro struttura. Gli elementi di simmetria principali
sono: il centro di simmetria, l’asse di rotazione e il piano di simmetria o di riflessione.
Un’operazione di simmetria produce il ricoprimento dell’oggetto a cui è applicata
ovvero tutti i punti originali vengono ricoperti dagli analoghi od equivalenti punti dello
stesso oggetto. Le strutture cristalline sono formate da un reticolo tridimensionale
ordinato, il reticolo cristallino, nel quale l’unità ripetitiva più piccola che può essere
usata per generare l’intero cristallo è detta cella elementare. Gli elementi geometrici
che descrivono la cella elementare, lati e angoli, sono detti costanti di cella. E’
convenzione generale in cristallografia scegliere, tra tutte le possibili celle, quelle che
hanno volume minore e che sono dette celle semplici o primitive (cubico, tetragonale,
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ortorombico, trigonale, esagonale, monoclino, triclino). Celle elementari non primitive
necessarie in cristallografia sono: a corpo centrato, a facce centrate e a basi centrate.
La scoperta dei raggi X nel 1895 da parte di Wilhelm Roengten, permise ai cristallografi
di avere uno strumento molto potente per studiare le strutture cristalline che fino a quel
momento erano state osservate solo attraverso il microscopio. Max von Laue ebbe,
infatti, l’originale idea che i cristalli potevano comportarsi come dei reticoli per la
diffrazione dei raggi X, radiazioni elettromagnetiche con lunghezza d’onda dello stesso
ordine di grandezza delle distanze interplanari. Max von Laue ricevette il premio Nobel
nel 1914 per la sua teoria sulla diffrazione dei raggi X. Nello stesso periodo W.H. Bragg
e il figlio W.L. Bragg proposero un metodo più semplice per interpretare la diffrazione
dei raggi X da parte dei cristalli. L’applicazione della legge di Bragg permise per la
prima volta la determinazione della struttura cristallina del cloruro di sodio e del cloruro
di potassio e valse agli studiosi il premio Nobel nel 1915. Quando i raggi X attraversano
un cristallo essi interagiscono con gli atomi e vengono deviati; le radiazioni uscenti si
combinano o meglio interferiscono costruttivamente, rafforzandosi, o distruttivamente,
annullandosi. L’interferenza costruttiva si ha quando il cammino percorso dalle onde
che interferiscono differisce di un multiplo intero di lunghezze d’onda. La legge di
Bragg lega le lunghezze d’onda λ con la distanza d tra i piani reticolari e con l’angolo θ
di incidenza dei raggi X mediante la seguente relazione:
nλ = 2 d sen θ
n = 1, 2, 3, …
Per avere interferenza costruttiva delle onde diffratte la distanza percorsa dalle onde
deve essere un multiplo intero di lughezze d’onda. Gli angoli θ sono detti angoli di
Bragg e vengono utilizzati per determinare le costanti di cella. Facendo ruotare il
cristallo attorno ad opportune orientazioni è possibile determinare i valori di d per
diversi piani cristallini. Infine, le intensità dei raggi diffratti permettono di determinare
la posizione degli atomi all’interno della cella del cristallo.
La struttura cristallina più semplice è sicuramente il reticolo cubico primitivo
riscontrato soltanto nel polonio (elemento chimico con Z = 84, gruppo VIA della tavola
periodica). I metalli alcalini cristallizzano nel reticolo cubico a corpo centrato (b.c.c.,
body centered cell) mentre altri metalli come alluminio, nichel, rame e argento
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cirstallizzano nel reticolo cubico a facce-centrate (f.c.c., face centered cell). Nei
cristalli gli atomi, gli ioni o le molecole sono disposte in siti relativamente rigidi e gli
spazi tra di loro sono ridotti. Tuttavia esistono degli spazi vuoti che presentano
geometrie ben definite, determinate dalla struttura del cristallo e sono detti siti
interstiziali. Questi siti sono molto importanti soprattutto per cristalli che contengono
atomi di tipo diverso quindi con raggi notevolmente differenti.
I cristalli possono essere classificati in relazione ai legami chimici presenti come:
cristalli molecolari, ionici, metallici e covalenti. I cristalli molecolari sono quelli
formati dai gas nobili, da O2, N2, alogeni, CO2, alcuni alogenuri metallici, Al2 Cl6, FeCl3,
BiCl3 e la grande maggioranza dei composti organici (fig. 66). Le forze che tengono
unite le molecole in questo tipo di cristalli sono le tipiche forze intermolecolari già
discusse in precedenza (forze di van der Waals); trattandosi di forze deboli, i cristalli
molecolari hanno bassi punti di fusione, sono teneri e si deformano facilmente.
(a)
(b)
Fig. 66 (a) Cella elementare della CO2, (b) mappa di densità elettronica dell’acido benzoico ottanuta da
misure di diffrazione dei raggi X, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli,
1991)
I cristalli ionici sono formati dagli ioni degli elementi che li costituiscono. Composti
ionici sono gli alogenuri dei metalli alcalini (tranne del cesio) che cristallizzano nel
sistema cubico a facce centrate. Altri composti che presentano questo tipo di reticolo
sono gli alogenuri d’ammonio, gli ossidi e i solfuri dei metalli alcalino-terrosi.
Quando il rapporto tra il raggio del catione e quello dell’anione, come negli alogenuri di
cesio, supera 0,732, la struttura cristallina più stabile è quella nota appunto come
struttura del cloruro di cesio. Si tratta di una struttura che può essere descritta da due
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celle cubiche primitve compenetrate tra di loro. Quando invece il rapporto tra il raggio
del catione e quello dell’anione diventa minore di 0,414, la struttura stabile è quella
della blenda cubica o sfalerite (dal nome del solfuro di zinco, primo rappresentante di
questa classe, ZnS), nella quale gli ioni solfuro, S2-, formano un reticolo cubico f.c.c
mentre gli ioni zinco, Zn2+, occupano metà dei siti interstiziali tetraedrici disponibili. La
fluorite (CaF2) presenta una struttura ancora diversa: i cationi formano un reticolo f.c.c.
mentre gli anioni occupano tutti gli otto siti interstiziali tetraedrici disponibili in modo
che la cella unitaria contiene quattro ioni Ca2+ e otto ioni F-. I valori dei rapporti tra i
raggi degli ioni (0,732 e 0,414) non sono numeri casuali ma sono calcolati sulla base
delle dimensioni delle celle elementari e dei possibili siti interstiziali, considerando gli
ioni come sfere rigide ed incomprimibili. I cristalli ionici, grazie alle notevoli forze di
attrazione elettrostatica tra gli ioni, sono solidi duri, con alte temperature di fusione ed
assai fragili.
I cristalli metallici sono già stati discussi al par. 2.11, a proposito del legame metallico.
Infine, i cristalli covalenti sono quelli dove gli atomi si legano con legami di tipo
covalente. L’esempio principale è il diamante che appartiene al sistema cubico a facce
centrate. Ciascun atomo di carbonio del diamante presenta quattro orbitali ibridi di tipo
sp3 orientati verso i vertici di un tetraedro. Ciascuno di questi orbitali ibridi si lega
all’orbitale sp3 di un altro atomo di carbonio con un legame covalente di tipo σ. Quindi,
ciascun atomo di carbonio si lega con altri quattro atomi di carbonio, attraverso legami
covalenti, disposti ai vertici di un tetraedro. Questo tipo di cristalli fonde a temperature
molto alte, proprio per la forza notevole del legame covalente, sono molto duri e fragili.
La forma del carbonio stabile termodinamicamente a temperatura ambiente non è però il
diamante ma la grafite, formata da strati di atomi di carbonio organizzati, all’interno di
ciascuno strato, in anelli esagonali. Gli atomi di carbonio si legano tra di loro con
orbitali ibridi sp2, formando quindi legami σ; l’orbitale p che resta a ciascun atomo di
carbonio va a formare dei legami π tra gli strati, estesi su tutto il piano. Gli elettroni π
delocalizzati su tutto lo strato rendono la grafite un ottimo conduttore, quasi quanto un
metallo.
I cristalli possono presentare dei difetti: vacanze, poiché manca un atomo dal sito del
reticolo; difetti interstiziali perché un atomo si trova in un sito diverso da quello che
normalmente occupa. Queste due tipologie di difetti possono anche coesistere in uno
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stesso cristallo: in questo caso si parla di difetto di Frenkel. Nei cristalli reali solo una
piccola parte dei normali siti reticolari risulta non occupata: tali vacanza sono dette
difetti di Schottky e la loro quantità dipende dalla temperatura. In alcuni casi i difetti
dei cristalli ionici portano alla formazione di strutture colorate: per assorbimento di
radiazione ad energia elevata è possibile che uno ione negativo perda un elettrone
diventando così un atomo neutro che non viene più trattenuto nel cristallo dalle forze
elettrostatiche poiché privo di carica e può quindi sfuggire. L’elettrone rimasto migra
fino ad incontrare una vacanza anionica dove resta intrappolato per attrazione dei
cationi circostanti. Questo difetto cristallino è detto centro-F (ovvero centro di colore)
poiché fa si che il cristallo risulti colorato.
3.8 I solidi amorfi
I solidi amorfi seppur spesso presentino proprietà chimiche, meccaniche, elettriche e
magnetiche simili a quelle dei cristalli, non hanno però a livello atomico la struttura
regolare tipica dei solidi cristallini. I solidi amorfi possono contenere atomi uniti da
legami molecolari, ionici, covalenti o metallici. Un esempio di solido amorfo è il vetro
che, nelle comuni finestre, presenta una composizione approssimativa del tipo: Na2O ·
CaO · (SiO2)6. I legami presentano sia caratteristiche ioniche che covalenti, infatti gli
ioni Na+ e Ca2+ si trovano all’interno di una maglia formata da legami Si-O che hanno
caratteristiche di covalenza. Per ottenere strutture amorfe come quella del vetro occorre
raffreddare velocemente una sostanza liquefatta in modo che questa non abbia il tempo
di cristallizzare. La temperatura alla quale si verifica la trasformazione del liquido
sottoraffreddato allo stato di solido vetroso è detta temperatura di transizione vetrosa
ed è solitamente indicata con la sigla Tg. Infatti, l’aumentata viscosità del liquido
comporta ad un certo punto la difficoltà delle molecole e degli ioni di organizzarsi. La
trasformazione non si verifica nettamente come per un passaggio liquido-cristallo, ma
avviene in un certo intervallo di temperatura.
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CAPITOLO 4
4.1 Cenni di termodinamica
In questo capitolo verrà trattato l’equilibrio chimico ovvero lo stato in cui si portano
molte reazioni nel quale prodotti e reagenti sono presenti in rapporti definiti. La
condizione di equilibrio, come si vedrà, è descritta quantitativamente dalla costante di
equilibrio che dipende dalla temperatura a cui la reazione è effettuata. Prima di
descrivere gli equilibri chimici è però opportuno fare alcuni cenni di termodinamica,
scienza che misura calore e temperatura e permette di predire la costante di equilibrio
dalle proprietà fisiche di reagenti e prodotti. In termodinamica esistono poche leggi che
permettono però di riassumere una grande varietà di comportamenti sperimentali.
La termodinamica prende in considerazione le proprietà macroscopiche di un sistema le
quali possono essere misurate. Lo scopo è quello di prevedere quali processi chimici e
fisici sono possibili e in quali condizioni e di calcolare quantitativamente le proprietà
dello stato di equilibrio. In termodinamica è importante la terminologia impiegata
poiché, facendo uso di modelli, ciascun termine ha un preciso significato. In
termodinamica un sistema è una porzione dell’universo su cui si esegue un determinato
esperimento. Un sistema contiene sempre una certa quantità di materia ed è descritto da
parametri che sono definiti durante l’esperimento. Un sistema chiuso è quello che non
permette lo scambio di materia con l’esterno. Un sistema si dice invece aperto quando i
suoi confini permettono lo scambio di materia con l’esterno. Tutto ciò che esiste al di
fuori del sistema e con il quale esso può scambiare materia ed energia è detto ambiente.
Il sistema e il suo ambiente costituiscono l’universo termodinamico per un
determinato processo in esame. In un sistema termodinamico si possono definire due
tipologie di proprietà: estensive ed intensive. Le proprietà estensive sono quelle
ottenute come somma delle proprietà dei vari sottosistemi in cui il sistema principale è
suddiviso. Volume, massa ed energia sono proprietà estensive. Le proprietà intensive
presentano invece lo stesso valore della corrispondente proprietà in ciascuno dei
sottosistemi. La temperatura e la pressione sono tipiche proprietà intensive: se un
sistema ad esempio ha una temperatura di 298 K ed è suddiviso in tre parti, la
temperatura in ciascuna parte è sempre 298 K. Uno stato termodinamico è una
condizione macroscopica in cui le proprietà sono misurate, mantenute fisse su
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determinati valori ed indipendenti dal tempo (proprietà vincolate). Quando un sistema
viene liberato dai vincoli di laboratorio che sono serviti a prepararlo e le sue proprietà
non cambiano più nel tempo si dice che il sistema ha raggiunto uno stato di equilibrio.
Un processo termodinamico cambia lo stato di un sistema e può essere di tipo fisico
(variazione di pressione) oppure di tipo chimico (cambiamento nella distribuzione della
materia). Un processo termodinamico può, inoltre, essere reversibile o irreversibile.
Un processo reversibile si realizza attraverso una serie continua di stati termodinamici e
l’equilibrio viene raggiunto dopo un tempo infinitamente lungo. Si tratta quindi di una
situazione ideale a cui però il sistema reale può essere approssimato portando avanti il
processo abbastanza lentamente e con spostamenti piccoli. Un processo irreversibile
non può invece essere rappresentato con un cammino termodinamico poiché gli stati
intermedi non sono stati termodinamici ovvero proprietà come densità e temperatura
cambiano rapidamente sia nello spazio che nel tempo.
4.2 Il primo principio della termodinamica
Il primo principio della termodinamica mette in relazione la variazione di energia di un
processo termodinamico con la quantità di lavoro eseguito sul sistema e con la quantità
di calore trasferito al sistema. Il lavoro viene definito il prodotto della forza che agisce
su un corpo per la distanza attraverso la quale la forza agisce. Un tipo di lavoro
importante in chimica è quello di tipo pressione-volume associato ad un gas che viene
compresso o espanso sotto l’azione di una pressione esterna. In questo caso si può
dimostrare che il lavoro è dato dalla relazione:
w = -PestΔV
Quando ΔV > 0, ovvero nel caso di un’espansione, w < 0 e quindi il sistema compie
lavoro ovvero agisce sull’ambiente. Quando invece ΔV < 0 ovvero nel caso di una
compressione del gas, allora w > 0 e quindi il lavoro è eseguito sul sistema.
L’energia può essere di vari tipi: energia cinetica, associata ad un oggetto in
movimento; l’energia potenziale, associata ad un oggetto in un campo gravitazionale;
l’energia interna ovvero l’energia totale di un sistema. L’energia interna è dovuta ai
movimenti, alle posizioni e all’energia conservata nei legami chimici. La quantità di
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energia trasferita tra due oggetti inizialmente a diversa temperatura è detta energia
termica o calore. Il calore specifico di una sostanza viene definito come la quantità di
calore necessaria per aumentare di un grado centigrado la temperatura di un grammo
massa di quella sostanza. In definitiva, calore e lavoro sono due modi per trasferire
energia e in entrambi i casi l’unità di misura è il joule. Prima che fosse stato compreso
il rapporto tra calore, energia e lavoro, alla metà del XIX secolo, fu definita la caloria
come: quantità di calore necessaria per aumentare la temperatura di un grammo d’acqua
da 14,5 a 15,5 °C. Successivi esperimenti dimostrarono che la caloria non è un’unità
indipendente ma è legata al joule dalla relazione: 1 cal = 4,184 joule.
Il primo principio della termodinamica afferma che la variazione di energia interna di
un sistema è data dalla somma del calore (q) e del lavoro (w) che attraversano il sistema:
ΔE = q + w
L’energia interna è una funzione di stato poiché, benchè sia q che w dipendono
singolarmente dal percorso seguito per passare tra due stati del sistema (e quindi non
sono funzioni di stato), la loro somma non ne dipende.
In qualunque processo, il calore aggiunto al sistema è perso necessariamente
dall’ambiente, quindi: qsis = -qamb. Allo stesso modo, il lavoro eseguito sul sistema è
fornito dall’ambiente, quindi: wsis = -wamb. Utilizzando il primo principio della
termodinamica e sommando le due relazioni si ottiene: ΔEsis = -ΔEamb. Pertanto
l’energia dell’universo sarà:
ΔEuniv = ΔEsis + ΔEamb = 0
Quindi, in qualunque processo l’energia totale dell’universo non cambia ovvero
l’energia si conserva.
Il calore specifico, così come è stato definito in precedenza, non è del tutto preciso
perché non tiene conto della pressione e del volume. Una grandezza più precisa è la
capacità termica C, ovvero la quantità di calore necessaria per innalzare di 1 K la
temperatura di un sistema.
q = CΔT
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La capacità termica si misura in J K-1. E’ necessario definire due capacità termiche:
quella a pressione costante CP e quella a volume costante CV, poiché sperimentalmente
si osserva che il calore trasferito non è lo stesso se si lavora a pressione costante o a
volume costante. In termodinamica risultano particolarmente utili le capacità termiche
molari cV e cP ottenute dividendo le capacità termiche per le moli di sostanza presente
nel sistema. A volume costante si ha pertanto:
qV = n cV ΔT
dove n è il numero di moli. A pressione costante si ottiene invece la relazione:
qP = n cP ΔT
A questo punto si può definire il calore specifico a volume costante o a pressione
costante come la capacità termica riferita ad un grammo di sostanza.
Nella maggior parte degli esperimenti si opera a pressione costante (quella atmosferica)
e quindi sarebbe utile trovare una relazione tra qP ad una proprietà di stato simile
all’energia interna. Considerando che il lavoro sia soltanto di tipo pressione-volume e la
pressione esterna sia costante: ΔE = qP – PestΔV. Assumendo che la pressione esterna sia
uguale a quella interna del sistema P e che, poiché P è costante, si può scrivere PΔV =
Δ(PV), si ottiene: qP = Δ(E + PV). La somma E + PV è chiamata entalpia e viene
indicata con la lettera H. A pressione costante si ottiene quindi la relazione:
ΔH = qP = ΔE + PΔV
L’entalpia è una funzione di stato e quindi è indipendente dal cammino seguito nel
processo. Nel caso la pressione non sia costante si deve usare la relazione più generale:
ΔH = ΔE + Δ(PV)
4.3 Termochimica
Lo studio degli effetti termici nelle reazioni chimiche è chiamato termochimica e poiché
le reazioni chimiche sono studiate normalmente a pressione costante, i calori di reazione
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misurati e tabulati sono entalpie di reazione. Quando una reazione avviene con
assorbimento di calore si dice endotermica (ΔH positivo), quando invece avviene
liberazione di calore (ΔH negativo). Ad esempio la reazione di dissociazione del
carbonato di calcio, utilizzata fin dall’antichità per la preparazione della calce viva
(ossido di calcio) è una reazione fortemente endotermica:
CaCO3(s) → CaO(s) + CO2(g)
ΔH = + 158 kJ
Quindi per preparare la calce viva che poi, dopo spegnimento in acqua, veniva utilizzata
per la preparazione di malte e intonaci di vario genere, era necessario cuocere il calcare
in appositi forni alla temperatura di circa 850 °C.
Poiché l’entalpia è una funzione di stato, gode della proprietà additiva, ovvero se si
sommano due o più equazioni chimiche per darne un’altra, le entalpie delle reazioni
corrispondenti si sommano. Questo concetto è noto come legge di Hess.
Le entalpie possono essere associate anche a passaggi di stato ovvero a processi fisici
dove non si ha un cambiamento chimico della sostanza. Si avrà quindi l’entalpia molare
di fusione, ΔHfus, che rappresenta il calore trasferito a pressione costante per fondere
una mole di sostanza; l’entalpia molare di evaporazione, ΔHev, che rappresenta il calore
trasferito ad una sostanza, a pressione costante, per farne evaporare una mole. Come per
molte altre grandezze chimico-fisiche, anche l’entalpia non può essere misurata in
assoluto, ma si possono ottenere solo differenze di entalpia. A questo scopo occorre
però definire uno stato di riferimento rispetto al quale considerare le differenze, in
particolare per le sostanze chimiche si definisce uno stato standard con le seguenti
caratteristiche: per i liquidi e i solidi lo stato standard è lo stato stabile da un punto di
vista termodinamico alla pressione di 1 atm e ad una temperatura di riferimento; per i
gas, lo stato standard è una fase gassosa con comportamento ideale alla pressione di 1
atm e ad una temperatura di riferimento; per le soluzioni, lo stato standard è una
soluzione 1 M ideale alla pressione di 1 atm e ad una temperatura di riferimento.
I valori delle entalpie per lo stato standard sono individuate da un apice ° dopo il
simbolo e come temperatura di riferimento generalmente si utilizza quella di 25 °C =
298,15 K. Per convenzione le entalpie dello stato standard hanno valore zero.
Quando un elemento o un composto chimico esiste in più forme, si considera quella più
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stabile termodinamicamente per lo stato standard. Ad esempio l’ossigeno è presente
nell’atmosfera come O2 e come O3 (ozono), tuttavia la forma più stabile è O2 ed a
questa si assegna entalpia zero nello stato standard, mentre O3 avrà un’entalpia diversa
da zero. La variazione di entalpia per una reazione chimica nella quale reagenti e
prodotti si trovano nel loro stato standard si dice entalpia standard (ΔH°) per quella
reazione. Si definisce invece entalpia standard di formazione di un composto (ΔH°f)
la variazione di entalpia relativa alla rezione che porta alla formazione di una mole del
composto a partire dagli elementi nei loro stati stabili, a T = 298,15 K e P = 1 atm.
Per una generica reazione chimica: aA + bB → cC + dD, la variazione di entalpia
standard è data dalla somma delle entalpie standard di formazione dei vari composti che
partecipano alla reazione moltiplicate per i rispettivi coefficienti stechiometrici, ovvero:
ΔH° = cΔH°f(C) + dΔH°f(D) – aΔH°f(A) – bΔH°f(B).
Un’altra grandezza importante è l’entalpia di legame, ovvero la variazione di entalpia
che si ha quando un legame viene rotto in fase gassosa. L’entalpia di legame è sempre
positiva perché occorre sempre fornire energia la sistema per rompere dei legami stabili.
4.4 Processi spontanei in termodinamica
Una trasformazione si definisce spontanea quando si realizza senza alcun intervento
esterno che possa influenzarla ovvero spontaneamente. In termodinamica viene
introdotta una nuova funzione di stato che definisce la direzione di un processo
spontaneo nota come entropia. L’entropia aumenta nel verso della spontaneità del
processo. Per comprendere i cambiamenti spontanei in natura occorre utilizzare un
approccio
di
tipo
statistico
(termodinamica
statistica)
valutando
quindi
il
comportamento di insiemi numerosi di atomi e molecole. Il legame tra l’entropia (S) ed
i movimenti molecolari è dato dal numero degli stati microscopici o microstati che le
molecole hanno a disposizione. Questo numero è indicato dal simbolo Ω e tiene conto di
tutte le possibili posizioni e quantità di moto per le N molecole di un sistema.
L’equazione che mette in relazione il numero dei microstati con l’entropia fu scoperta
dal fisico austriaco Boltzmann verso la fine del 1800 e si esprime nella forma:
S = kB lnΩ
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kB è la costante di Boltzmann data dal rapporto tra la costante universale dei gas R e il
numero di Avogadro N0. Questa costante è molto importante perché esprime un legame
tra il mondo microscopico (atomi e molecole) e quello macroscopico della materia e
della termodinamica. Quindi, in base a questa relazione, è possibile affermare che
l’entropia di un sistema isolato aumenta all’aumentare del numero di microstati
disponibili per le molecole o gli atomi del sistema. Un modo comune di trattare
l’entropia è quello di correlarla con il disordine: un sistema ordinato presenta bassa
entropia perché gli atomi e le molecole si trovano in posizioni fisse nello spazio.
Appena si tolgono i vincoli dal sistema, le molecole sono libere di muoversi ed
occupare più posizioni, il disordine aumenta e così anche l’entropia.
4.5 Il secondo principio della termodinamica
Il secondo principio della termodinamica ebbe origine da considerazioni pratiche legate
al rendimento delle macchine a vapore agli inizi della Rivoluzione Industriale (tardo
XVIII secolo). Sadi Carnot, un ufficiale dell’esercito napoleonico, appartenente agli
assistenti tecnici, nel tentativo di migliorare il rendimento dei motori a vapore, propose
un processo ciclico noto come ciclo di Carnot. Le conclusione degli esperimenti di
Carnot furono che le perdite di energia dell’ambiente non possono essere
completamente eliminate e che il rendimento del motore non potrà mai essere maggiore
di un limite noto come rendimento termodinamico. Gli studi e i risultati di Carnot sono
stati poi ripresi da altri scienziati ed esposti in termini più generali. In particolare
Rudolf Clausius: non c’è dispositivo che può trasferire calore da un serbatoio più
freddo ad uno più caldo senza dispendio di lavoro; e da Kelvin: non c’è dispositivo che
possa trasformare calore in lavoro assorbendolo interamente da un serbatoio senza
provocare altri effetti. Queste affermazioni possono essere considerate equivalenti
all’enunciato del secondo principio della termodinamica che si vedrà oltre ed in pratica
esprimono i concetti che il calore fluisce spontaneamente sempre da un corpo più caldo
ad uno più freddo e che per raffreddare un corpo occorre sempre svolgere un lavoro.
Clausius definì la variazione di entropia di un sistema dallo stato iniziale (i) allo stato
finale (f) con la seguente relazione:
f
ΔS = ∫i dqrev/T
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Il calcolo della variazione di entropia si ottiene risolvendo l’integrale lungo un qualsiasi
percorso reversibile tra gli stati i e f per i quali dqrev e T siano noti.
Nel caso di un processo reversibile isotermico, ovvero che avviene a temperatura
costante, l’integrale si semplifica e si ottiene:
f
f
ΔS = ∫i dqrev/T = 1/T ∫i dqrev = qrev/T
Nel caso di espansione e compressione di un gas ideale a temperatura costante si può
correlare il calore trasferito isotermicamente e reversibilmente con i volumi V1 e V2 tra i
quali il gas si espande o si comprime, sfruttando l’equazione di stato dei gas ideali:
qrev = nRT ln (V2/V1)
Quindi la variazione di entropia sarà:
ΔS = nR ln (V2/V1)
a temperatura costante. L’entropia di un gas aumenta quando il gas si espande (V2>V1)
mentre diminuisce quando il gas si comprime (V2<V1).
Anche per i processi di transizione di fase possono essere definite delle espressioni per
la variazione di entropia. Ad esempio nel caso di un processo di fusione, a temperatura
costante Tf, uguale alla temperatura di fusione del solido, e a pressione costante (il
processo è reversibile), si ottiene:
ΔSfus = qrev/Tf = ΔHfus/Tf
L’entropia aumenta quando un solido passa allo stato fuso e quando un liquido passa
allo stato vapore; per i processi inversi l’entropia diminuisce.
Per la maggior parte dei liquidi, l’entropia molare di evaporazione è circa la stessa e, in
base alla regola di Trouton, il suo valore risulta:
ΔSev = 88 ± 5 J K-1 mol-1
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Esistono delle eccezioni alla regola di Trouton e una di queste è l’acqua che presenta
un’entropia molare di evaporazione pari a 109 J K-1 mol-1. La particolarità dell’acqua è
ancora una volta legata alla presenza del legame idrogeno che determina un ordine
maggiore rispetto ad altri liquidi e quindi un’entropia più bassa nello stato liquido.
Si consideri a questo punto l’ambiente all’interno del quale il sistema termodinamico è
collocato. Durante uno scambio di calore tra il sistema e l’ambiente, a pressione
costante, si può considerare che il calore preso dall’ambiente sia uguale a quello perso
dal sistema ovvero qamb = -ΔHsis. La variazione di entropia dell’ambiente sarà: ΔSamb = ΔHsis/Tamb. Per una reazione esotermica l’ambiente acquista calore e la sua variazione di
entropia sarà positiva; per un processo endotermico, invece, l’ambiente perde calore e la
sua variazione di entropia risulterà negativa. A questo punto è possibile arrivare ad
enunciare il secondo principio della termodinamica. La variazione di entropia in un
sistema reversibile è data da: ΔS = qrev/T; inoltre, per un processo irreversibile e
reversibile che coinvolgano gli stessi stati iniziali e finali è sempre vero che qrev>qirrev e
quindi ΔS > qirrev/T. Combinando le equazioni si ottiene l’espressione seguente, nota
come disugualianza di Clausius:
ΔS ≥ q/T
Questa equazione dice che il calore assorbito dal sistema in un processo spontaneo è
sempre minore di TΔS. In un processo reversibile, invece, il calore assorbito dal sistema
è uguale a TΔS. Nel caso di un sistema isolato non si ha alcun trasferimento di calore
per cui q = 0 e ΔS > 0. L’universo, nel suo insieme, può essere considerato un sistema
isolato, ne conseguono a questo punto gli enunciati del secondo principio della
termodinamica:
-
in un processo reversibile la somma dell’entropia di un sistema e del suo
ambiente non cambia
-
in un processo irreversibile la somma dell’entropia di un sistema e del sua
ambiente aumenta
-
un processo per il quale ΔStot < 0 è impossibile.
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4.6 Il terzo principio della termodinamica
Come per le entalpie, anche per le entropie è necessario scegliere dei valori assoluti
considerando uno stato di riferimento. A questo proposito è importante considerare la
seguente
osservazione
sperimentale
ovvero
che
in
qualunque
processo
termodinamico che coinvolge fasi pure nei loro stati di equilibrio, la variazione di
entropia si avvicina a zero man mano che il sistema si avvicina allo zero assoluto (0
K). Ne consegue quindi il terzo principio della termodinamica in base al quale:
-
l’entropia di qualunque sostanza nel suo stato di equilibrio raggiunge il valore
zero alla temperatura dello zero assoluto.
Questo principio può essere compreso anche sulla base della relazione di Boltzmann,
infatti man mano che il sistema tende allo zero assoluto il numero di microstati
diminuisce fino ad arrivare ad un solo microstato allo zero assoluto. Per un solo
microstato l’espressione kB lnΩ diventa uguale a zero (poiché ln 1 = 0) e quindi S = 0.
4.7 L’energia libera di Gibbs
Si è visto che la variazione di entropia totale (sistema più ambiente) costituisce un
criterio per stabilire se un processo è spontaneo, reversibile o impossibile. Sarebbe però
più utile avere una funzione di stato che fornisca la realizzabilità di un processo senza
considerare l’ambiente. A tale proposito, per un sistema a temperatura e pressione
costante, viene definita una funzione di stato denominata energia libera di Gibbs,
indicata con la lettera G. Poiché ΔSamb = -ΔHsis/T per processi a T e P costanti, la
variazione di entropia totale sarà : ΔStot = ΔSsis + ΔSamb = ΔSsis – ΔHsis/T, ovvero, ΔStot =
- (ΔHsis- T ΔSsis)/T, poiché T è costante si può scrivere l’equazione come: ΔStot = Δ(Hsis- TSsis)/T. L’energia libera di Gibbs è definita come:
G = H - TS
E quindi ΔStot = - (ΔGsis)/T. Dato che la temperatura assoluta è sempre positiva, ΔStot e
ΔGsis hanno sempre segno opposto, per processi a temperatura e pressione costante,
pertanto:
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ΔGsis < 0
processo spontaneo
ΔGsis = 0
processo reversibile
ΔGsis > 0
processo non spontaneo
La variazione di energia libera di Gibbs per una reazione chimica a temperatura costante
è data dalla relazione:
ΔG = ΔH – TΔS
Come per l’entalpia e l’entropia non è possibile conoscere il valore assoluto dell’energia
libera per una sostanza e quindi si definisce un’energia libera standard di formazione
di Gibbs, ΔG°f, ovvero la variazione di energia libera per la reazione che porta alla
formazione di un composto nel suo stato standard, a partire dagli elementi nel loro stato
standard. Per un elemento che si trovi nel suo stato standard, ΔG°f = 0
4.8 L’equilibrio chimico
L’equilibrio chimico è un equilibrio dinamico. L’equilibrio si raggiunge quando la
velocità della reazione diretta diventa uguale alla velocità della reazione inversa.
All’equilibrio le concentrazioni dei reagenti e dei prodotti non variano ulteriormente nel
tempo. Lo stesso stato di equilibrio può essere raggiunto partendo sia dal lato dei
reagenti che quello dei prodotti dell’equazione chimica.
Lo stato di equilibrio è caratterizzato dalla costante di equilibrio della reazione che
lega le concentrazioni dei reagenti e dei prodotti che partecipano al processo chimico.
L’espressione della costante di equilibrio di una reazione chimica è uguale al rapporto
tra il prodotto delle concentrazioni dei prodotti ed il prodotto delle concentrazioni dei
reagenti, con ciascuna concentrazione elevata ad una potenza pari al coefficiente
stechiometrico di quella specie nell’equazione bilanciata.
La legge di azione di massa definisce definisce l’espressione della costante di
equilibrio di una reazione chimica. Per una generica reazione:
aA + bB
cC + dD
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la costante di equilibrio, in base alla legge di azione di massa risulta:
KC =
[C]ceq [D]deq
[A]aeq [B]beq
Il pedice C indica che la reazione si svolge in soluzione. Nel caso di reazioni in fase
gassosa si utilizza la costane KP e al posto delle concentrazioni si utilizzano le pressioni.
Da un punto di vista termodinamico, una reazione chimica può essere descritta
prendendo in considerazione la sua variazione di energia libera di Gibbs. In una
reazione spontanea ΔG < 0 mentre in condizione di equilibrio ΔG = 0. La costante di
equilibrio e l’energia libera standard sono grandezze correlate e si può dimostrare che è
valida la seguente realzione:
ΔG° = - RT lnK
Quando una reazione si trova in una condizione diversa da quella presente all’equilibrio
il rapporto delle concentrazioni dei reagenti e dei prodotti non sarà più uguale alla
costante di equilibrio ma verrà denominato quoziente di reazione Q ovvero una
grandezza che ha la stessa espressione della costante di equilibrio ma a valori di
concentrazione delle specie chimiche arbitrari, non necessariamente all’equilibrio. K è
la costante di equilibrio. L’espressione dell’energia libera sarà:
ΔG = ΔG° + RT lnQ
Ovvero: ΔG = - RT lnK + RT lnQ
ΔG = RT ln(Q/K)
All’equilibrio Q/K = 1, ovvero Q = K e ΔG = 0. Quando Q/K < 1, ovvero Q < K, ΔG < 0
e la reazione procede spontaneamente da sinistra a destra; Q/K > 1, ovvero Q > K, ΔG >
0 e la reazione procede spontaneamente da destra a sinistra, ovvero in senso opposto a
come è scritta.
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4.9 Il principio di Le Châtelier
Henri Le Châtelier (1850-1936) formulò, nel 1884, il principio che porta il suo nome:
Se una reazione chimica viene sottoposta ad un cambiamento delle condizioni di
reazione che la spostano dal suo stato di equilibrio allora la reazione procede verso
una nuova condizione di equilibrio nella direzione in cui il cambiamento delle
condizioni viene, almeno in parte, annullato. Le condizioni che possono influenzare
una reazione all’equilibrio chimico sono: 1 – concentrazione di un reagente o di un
prodotto; 2 – volume di reazione o pressione applicata 3 – temperatura.
In generale, una diminuzione del volume di reazione provoca uno spostamento
dell’equilibrio di reazione verso il lato con il minor numero di moli di specie gassose.
In una reazione endotermica un aumento della temperatura provoca uno spostamento
della reazione all’equilibrio verso destra, ovvero verso i prodotti.
Per una reazione esotermica, ovvero una reazione che avviene con liberazione di
energia, quando la temperatura aumenta l’equilibrio di reazione si sposta verso sinistra.
Da un punto di vista termodinamico è possibile esprimere matematicamente la
dipendenza della costante di equilibrio dalla temperatura, infatti, tenendo conto della
relazione – RTlnK = ΔG° = ΔH° - TΔS, si ottiene:
ln K = - ΔG°/RT = -ΔH°/RT + ΔS°/R
Riportando in grafico lnK in funzione di 1/T si ottiene una retta con pendenza –ΔH°/R e
intercetta ΔS°/R. Oltre al metodo grafico si possono collegare con un’espressione
matematica i valori delle costanti di equilibrio a diverse temperature. Si considerino K1
e K2 le costanti di equilibrio alle temperature T1 e T2. Esprimendo le due costanti di
equilibrio con l’equazione su riportata e sottraendo le due equazioni si ottiene una
relazione nota come nequazione di van’t Hoff:
ln (K2/K1) = -ΔH°/R [1/T2 – 1/T1]
Queste equazioni presuppongono che ΔH e ΔS non varino con la temperatura, almeno in
un limitato intervallo.
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CAPITOLO 5
5.1 Equilibri acido-base
Le reazioni acido-base sono molto importanti nella chimica perché si riscontrano in
tantissimi processi della vita di tutti i giorni. La maggior parte dei processi chimici sono
reagolati dall’acidità presente nel sistema; nel settore dei beni culturali l’acidità e la
basicità sono fattori importanti per le possibili alterazioni dei materiali e quindi per la
loro conservazione (si pensi come esempio alle famose piogge acide che determinano
l’alterazione chimica dei monumenti esposti all’aperto, soprattutto, come già visto,
quelli costituiti da carbonato di calcio). Le reazioni acido-base avvengono sia in fase
gassosa che in fase solida che in soluzione (acquosa e non), tuttavia per semplicità e
importanza verranno trattiti solo gli equilibri in soluzione acquosa.
La prima definizione di acidi e basi fu data da Arrhenius nel XIX secolo. Secondo
Arrhenius un acido è una sostanza che in soluzione acquosa produce ioni H+(aq) e
una base è una sostanza che in soluzione acquosa produce ioni OH-(aq).
Una teoria più moderna, e oggi comunemente accettata e utilizzata, è quella formulata
indipendentemente da Johannes Brønsted e Thomas Lowry nel 1923 e che non
considera gli acidi e le basi come separati, ma introduce il concetto di equilibri acidobase. Secondo la teoria di Brønsted-Lowry: un acido è definito come un donatore di
protoni, una base come un accettore di protoni. Quindi, secondo la teoria di
Brønsted-Lowry, si parla in termini di reazioni acido-base. Si consideri ad esempio la
reazione tra acqua e acido acetico:
CH3COOH(aq) + H2O(l) = H3O+(aq) + CH3COO-(aq)
acido1
base2
acido2
base1
Gli acidi e le basi si presentano come coppie coniugate acido-base.
Gli acidi e le basi forti sono completamente dissociati in soluzione acquosa. Questa
affermazione è stata verificata sperimentalmente mediante misure di conducibilità. Si
dice anche che l’acqua ha un effetto livellante su un certo gruppo di acidi e basi nel
senso che questi si comportano da acidi forti e basi forti quando il solvente è l’acqua.
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Gli acidi e le basi che in soluzione acquosa non sono completamente dissociati sono
detti acidi e basi deboli. Gli acidi organici sono quasi sempre acidi deboli; quelli più
comuni sono gli acidi carbossilici tra i quali il più importante è l’acido acetico
(CH3COOH).
___________________________________________________________________
ACIDI FORTI
BASI FORTI
HClO4
acido perclorico
LiOH
idrossido di litio
HNO3
acido nitrico
NaOH
idrossido di sodio
H2SO4
acido solforico
KOH
idrossido di potassio
HCl
acido cloridrico
RbOH
idrossido di rubidio
HBr
acido bromidrico
CsOH
idrossido di cesio
HI
acido iodidrico
TlOH
idrossido di tallio
Ca(OH)2
idrossido di calcio
Sr(OH)2
idrossido di stronzio
Ba(OH)2
idrossido di bario
___________________________________________________________________
Alcune sostanze si comportano come acidi o come basi a seconda delle condizioni di
reazione e sono dette anfotere. L’esempio più importante è quello dell’acqua poiché a
seconda che essa si trovi a reagire con un acido o con una base si comporterà da base o
da acido rispettivamente.
Oltre le teorie di Arrhenius e Brønsted-Lowry, esiste la teoria acido-base di Lewis in
base alla quale gli acidi vengono definiti come accettori di doppietti elettronici
mentre le basi vengono definite come donatori di doppietti elettronici.
La definizione di Lewis permette di spiegare e descrivere il comportamento di molti
ossidi binari che possono essere considerati come anidridi di acidi o basi. Ad esempio la
103
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maggior parte degli ossidi dei non metalli si comportano come anidridi acide ovvero
reagiscono con l’acqua formando soluzioni acide:
N2O5(s) + H2O(l) → 2H+(aq) + 2NO3-(aq)
SO3(g) + H2O(l) → H+(aq) + HSO4-(aq)
Un altro esempio importante di reazione acido-base di Lewis è quella tra un’anidride
acida e una basica:
CaO(s) + CO2(g) → CaCO3 (s)
In questa reazione la base di Lewis CaO cede un doppietto elettronico all’acido CO2 per
formare un legame covalente dativo nello ione CO32-. Questa reazione ricorda il
processo di carbonatazione, ovvero la reazione che avviene in fase acquosa negli
affreschi dove la calce viva, applicata sotto forma di malta in miscela con altri materiali
(sabbia, pozzolana, coccio pesto, fibre vegetali e animali, ecc) reagisce con l’anidride
carbonica presente nell’aria formando il carbonato di calcio che provoca il processo di
presa e indurimento e fissa i pigmenti dello strato pittorico.
5.2 Il concetto di pH
In acqua esiste un equilibrio:
H2O(l) + H2O(l) = H3O+(aq) + OH-(aq)
Ovvero: 2H2O(l) = H3O+(aq) + OH-(aq)
La costante per questo equilibrio è: Kw = [H3O+][OH-]
La concentrazione dell’H2O non compare in quanto in soluzioni acquose [H2O] è
costante. La costante Kw si chiama prodotto ionico dell’acqua. A 25°C il valore della
Kw é: Kw = 1,00x10-14 M2. Dalla stechiometria della reazione si può notare che in acqua
pura gli ioni H3O+ e gli ioni OH- sono prodotti in un rapporto 1:1, quindi la loro
concentrazione è uguale: [H3O+] = [OH-] = 1,00x10-7 M. Una soluzione acquosa
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neutra viene definita una soluzione in cui: [H3O+] = [OH-]. Una soluzione acquosa
acida viene definita una soluzione in cui: [H3O+] > [OH-]. Una soluzione acquosa
basica viene definita una soluzione in cui: [H3O+] < [OH-]
Il pH è semplicemente una misura convenzionale dell’acidità di una soluzione
adottata perché numericamente comoda. Per esprimere l’acidità in termini di pH si
utilizza una scala logaritmica:
pH = -log10[H3O+]
analogamente: pOH = -log10[OH-]
In acqua pura a 25 °C [H3O+] = 1,0x10-7 M, quindi: pH = -log10 (1,0x10-7) = 7,00.
Sfruttando le proprietà dei logaritmi, si può scrivere:
-log10[H3O+][OH-] = -log10[H3O+] - log10[OH-] = 7,00 + 7,00 = 14,00 = -log10 Kw
pertanto: pH + pOH = pKw = 14,00
Ricapitolando, in soluzione acquosa, a 25 °C:
pH < 7
soluzione acida
pH = 7
soluzione neutra
pH > 7
soluzione basica
5.3 Tipi di acidi e basi
Nel caso di acidi e basi deboli la dissociazione in soluzione acquosa non è completa e
viene descritta da un equilibrio chimico. Ad esempio per un acido generico HA si ha:
HA(aq) + H2O(l) = H3O+(aq) + A-(aq)
Questo equilibrio è descritto dalla costante di ionizzazione acida Ka scritta in accordo
con il principio di azione di massa:
Ka = [H3O+] [A-]/[HA]
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Il valore della costante di ionizzazzione acida da una misura quantitativa della forza di
un acido in un dato solvente. Come per il pH spesso è conveniente esprimere la Ka in
forma logaritmica: pKa = -logKa.
Nel caso di basi deboli si parla di costante di ionizzazione basica o costante di
protonazione Kb. Ad esempio nel caso di una base generica B:
B(aq) + H2O(l) = BH+(aq) + OH-(aq)
Kb = [BH+] [OH-]/[B]
In genere la base coniugata di un acido debole è una base debole e quindi la reazione di
dissociazione può essere scritta come un equilibrio. Se HB è un acido debole:
HB(aq) + H2O(l) = H3O+(aq) + B-(aq)
L’acqua si comporta da base accettando un protone. Nella reazione inversa lo ione
idronio trasferisce un protone allo ione B- comportandosi quindi come acido mentre Bsi comporta come base. La base B- è detta base coniugata dell’acido HB e la coppia
HB/B- è detta coppia coniugata acido-base. Per questa reazione si può scrivere:
Ka=[H3O+][B-]/[HB]
Analogamente per la base coniugata:
B-(aq) + H2O(l) = HB(aq) + OH-(aq)
si può scrivere:
Kb=[HB][OH-]/[B-]
Moltiplicando le due costanti si ottiene: Ka Kb = [H3O+][OH-] = Kw, ovvero, passando
ai logaritmi: pKa + pKb = 14,00.
5.4 Indicatori acido-base
Esistono numerosi acidi organici deboli che cambiano colore per perdita di un protone:
composti con queste caratteristiche vengono chiamati indicatori, perché sono in grado
di indicare, mediante il loro colore, il pH di una soluzione. Gli indicatori cambiano
colore in uno stretto intervallo di pH e possiedono colori così intensi che possono essere
utilizzati a concentrazioni bassissime, in modo che, aggiunti ad una soluzione, non ne
influenzino praticamente il pH (fig. 67).
106
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Fig. 67 Variazioni di colore di diversi indicatori a diversi valori di pH, (da Donald A. McQuarrie, Peter A.
Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
Indicando con HIn la forma acida dell’indicatore e con In- la forma della base
coniugata, in soluzione acquosa si ha il seguente equilibrio:
HIn(aq) + H2O(l) = H3O+(aq) + In-(aq)
Questo equilibrio è descritto dalla costante di dissociazione acida dell’indicatore:
Kai = [H3O+][In-]/[HIn]. Questa relazione può essere anche scritta nella forma:
[H3O+]/Kai = [HIn]/ [In-]
107
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Se la concentrazione dello ione idronio è grande rispetto a Kai, allora il rapporto
[H3O+]/Kai è grande e la concentrazione di indicatore nella forma indissociata è molto
maggiore di quelle dell’indicatore nella forma dissociata: la soluzione avrà quindi la
colorazione della forma acida dell’indicatore. Se nella soluzione sono presenti le due
forme dell’indicatore in quantità simile, cioè se [HIn] ≈ [In-] allora la soluzione appare
color arancio. In questo caso [H3O+] ≈ Kai, ovvero pH ≈ pKai.
5.5 Idrolisi
Non sempre gli acidi e le basi sono specie elettricamente neutre, ci sono anche dei sali
che, disciolti in soluzione, liberano cationi o anioni acidi o basici. Ad esempio il cloruro
di ammonio, NH4Cl, disciolto in acqua libera ioni NH4+ che reagisce con l’acqua
secondo una reazione acido-base:
NH4+(aq) + H2O(l) = H3O+(aq) + NH3(aq)
La costante dell’equilibrio è: Ka=[H3O+][NH3]/[NH4+] = 5,6 x 10-10.
Idrolisi è un termine generale che viene utilizzato per indicare la reazione di una
sostanza con l’acqua ed è applicato in particolare ad una reazione nella quale il pH
cambia dal suo valore neutro, 7, quando si scioglie in acqua un sale che si comporta da
acido o da base. Si tratta semplicemente di reazioni acido-base che avvengono però solo
per quei sali contenenti ioni che sono acidi coniugati di basi deboli o basi coniugate di
acidi deboli. In generale si può dire che:
- le basi coniugate di acidi forti monoprotici sono anioni neutri che non reagiscono
quindi con l’acqua per formare ioni OH-. Le basi coniugate di acidi deboli, come lo ione
acetato, sono anioni basici che reagiscono con l’acqua per formare OH-, dando quindi
idrolisi basica. Lo ione idrogenosolfato, HSO4-, è un anione acido a causa della sua
reazione di seconda dissociazione acida, in acqua può quindi dare luogo ad idrolisi
acida: HSO4 -(aq) + H2O(l) = H3O+(aq) + SO42-(aq);
– non vi sono cationi basici, ma solamente cationi acidi e cationi neutri. Gli ioni dei
metalli alcalini ed alcalino terrosi (tranne Be2+) sono tutti neutri. Gli acidi coniugati di
basi deboli, come ad esempio NH4+, sono acidi e danno quindi idrolisi acida;
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– molti ioni metallici sono acidi in soluzione acquosa, dove esistono legati ad un certo
numero di molecole d’acqua. Essi vengono quindi detti ioni solvatati. Un esempio di
catione acido solvatato è Fe(H2O)63+(aq).
5.6 Soluzioni tampone
Si dice soluzione tampone, una soluzione che mantiene il pH pressochè costante anche
quando si aggiungono piccole quantità di un acido o dia una base. Una soluzione
normalmente contiene un acido debole e la sua base coniugata in concentrazione circa
uguali. Le soluzioni tampone sono importantissime nel controllo della solubilità di molti
ioni e nel mantenere costante il pH in processi biochimici e fisiologici. Le proteine e in
particolare gli enzimi sono estremamente sendibili al pH e le loro funzioni come
molecole biologiche sono fortemente legate al valore del pH. Si consideri un acido HA
e la sua base coniugata A-, l’espressione dell’equilibrio può essere scritta nella forma:
[H3O+] = Ka[HA]/[A-]. La concetrazione degli ioni idronio e quindi il pH dipende dal
rapporto tra la concentrazione dell’acido debole e della sua base coniugata. Se queste
concentrazioni sono circa uguali e abbastanza grandi, una loro piccola variazione per
aggiunta di un acido o di una base non varierà in maniera significativa il loro rapporto e
quindi il pH si manterrà pressochè costante. Un tampone viene dunque creato
scegliendo un acido debole disciolto in soluzione acquosa insieme ad una il più
possibile simile concentrazione della sua base coniugata. Poiché si tratta di acidi e basi
deboli, la dissociazione si può considerare minima e quindi si può scrivere con buona
approssimazione che la concentrazione dell’acido all’equilibrio è uguale a quella
dell’acido iniziale, [HA] = [HA]0, e che la concentrazione della base coniugata
all’equilibrio è uguale a quella della base iniziale, [A-] = [A-]0. Quindi la relazione
scritta sopra diventa: [H3O+] = Ka[HA]0/[A-]0. Trasformando tutte le grandezze in
termini logaritmici si ottiene la seguente importante relazione, nota come equazione di
Henderson-Hasselbalch:
pH ≈ pKa – log10 ([HA]0/[A-]0)
Questa equazione, seppur approssimata, può essere utilizzata per progettare dei tamponi
a valori prefissati di pH, come già detto un tampone ottimale è quello nel quale l’acido e
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la sua base coniugata hanno concentrazioni il più possibile simili. Chiaramente un
tampone non possiede una capacità infinita di annullare le variazioni di pH: se si
aggiunge un acido forte o una base forte in quantità tale da consumare tutta la base o
tutto l’acido è chiaro che il tampone perde la sua funzione.
5.7 Titolazioni acido-base
Le reazioni acido – base sono reazioni di neutralizzazione e risultano complete quando
il numero delle moli della base che ha reagito è uguale al numero delle moli di acido
che ha reagito, ovvero quando: MacidoVacido = MbaseVbase.
Si supponga di aggiungere lentamente una soluzione acquosa di una base forte, come
NaOH(aq), ad una soluzione acquosa di un acido forte, come HCl(aq): questa
operazione viene detta titolazione ed il grafico del pH della soluzione risultante in
funzione del volume della soluzione aggiunta, cioè il titolante, è detta curva di
titolazione. La forma della curva di titolazione dipende dal valore della costante Ka (o
Kb, a seconda del tipo di titolazione che si sta eseguendo) e dalle concentrazioni
dell’acido e della base reagenti. Il punto di equivalenza di una titolazione è il punto in
cui sono presenti quantità stechiometricamente equivalenti di acido e base. Nelle
titolazioni gli indicatori vengono utilizzati per evidenziare il completamento della
reazione acido base: il punto in cui l’indicatore cambia il colore è detto punto finale o
punto di viraggio. Nel caso della titolazione di un acido forte (HCl) con una base forte
(NaOH), la curva di titolazione avrà la forma di fig. 68.
Chiaramente in una titolazione la concentrazione del titolante è esattamente nota e viene
utilizzata per determinare la concentrazione incognita di titolato. Quello che occorre
determinare in una titolazione è il punto di fine e quindi il volume esatto di titolante
impiegato per completare la reazione di neutralizzazione. Il punto di fine può essere
valutato o con un indicatore, come già detto, o in modo molto più preciso con una
misura strumentale del pH, come si vedrà in seguito.
Nel caso di una titolazione di un acido debole con una base forte la curva avrà una
forma diversa da quella vista per la titolazione di un acido forte con una base forte (fig.
69). Il punto di mezzo corrisponde alla formazione di una soluzione tampone poiché le
concentrazioni di acido e base coniugata sono uguali. In questo punto, infatti, piccole
110
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aggiunte di base forte non portano ad una significativa variazione del pH, inoltre si
verifica la condizione per cui pH = pKa.
Fig. 68 Illustrazione schematica dell’apparecchitura utilizzata in una titolazione acido-base e curva di
titolazione di HCl con NaOH, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli,
1991)
Fig. 69 Curva di titolazione dell’acido acetico con NaOH, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock,
Chimica generale, Zanichelli, 1991)
111
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Nel caso di una titolazione di una base con un acido, la curva di titolazione avrà un
andamento analogo ma si potrebbe dire “opposto” a quello visto per la titolazione di un
acido con una base forte (fig. 70).
Fig. 70 Curva di titolazione di NH3 con HCl, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale,
Zanichelli, 1991)
5.8 Acidi poliprotici
Gli acidi che hanno più di un protone dissociabile sono detti acidi poliprotici. Alcuni
esempi sono costituiti dall’acido solfidrico H2S e solforico H2SO4 (acidi diprotici),
dall’acido fosforico H3PO4 (acido triprotico). Chiaramente questi acidi danno origine a
diversi equilibri di dissociazione acida anche se la costante dell’equilibrio, dopo la
prima dissociazione, diventa molto piccola. Questo si verifica perché, la carica negativa
che si forma per la perdita di uno ione idrogeno nella prima ionizzazione fa si che il
secondo idrogeno sia più fortemente legato e quindi più difficilmente cedibile. L’acido
solforico è un acido forte relativamente alla prima dissociazione mentre diventa debole
nella seconda ionizzazione. Un esempio importante di acido diprotico debole sia in
prima che seconda ionizzazione è l’acido carbonico formato per solvatazione della CO2
(acqua carbonatata).
H2CO3(aq) + H2O(l) = H3O+(aq) + HCO3-(aq)
Per questo equilibrio Ka1 = 4,3x10-7
112
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HCO3-(aq) + H2O(l) = H3O+(aq) + CO32-(aq)
Per questo equilibrio Ka2 = 4,8x10-11
In realtà gli equilibri di dissociazione dell’acido carbonico sono complicati dal fatto che
la maggior parte della CO2 disciolta rimane come tale, CO2(aq), e solo una piccola
frazione si trasforma in acido carbonico. Approssimativamente 0,034 moli di CO2 si
sciolgono in 1 litro d’acqua a 25 °C e a pressione atmosferica.
113
Corso di Chimica analitica
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CAPITOLO 6
6.1 Equilibri eterogenei, concetto di attività
Nel caso di gas ideali o soluzioni ideali, è possibile descrivere l’equilibrio attraverso la
legge di azione di massa, utilizzando le pressioni parziali o le concentrazioni. Nel caso
però siano presenti solidi o liquidi allo stato puro che partecipano all’equilibrio, la
concentrazione non descrive più bene l’equilibrio e occorre introdurre il concetto di
attività. Questo parametro descrive lo stato termodinamico di una sostanza
confrontandolo con uno stato di riferimento; è legato alla pressione e alla
concentrazione di una specie attraverso il coefficiente di attività. L’attività dello stato
di riferimento ha sempre valore unitario e quindi la variazione di energia libera di Gibbs
per portare un sistema dallo stato di riferimento ad uno stato termodinamico generico è
determinata solo dall’attività dello stato generico. Il coefficiente di attività γi di una
specie gassosa non ideale è legato alla pressione dalla relazione:
ai = γi Pi/Prif
Lo stato di riferimento per un gas ideale è quello ad 1 atm di pressione. Per i gas ideali
γi = 1 e dunque l’attività coincide con la pressione. Nel caso di una soluzione non
ideale, l’attività di un soluto i sarà data dalla relazione:
ai = γi ci/crif
Anche in questo caso γi = 1 per una soluzione ideale nello stato di riferimento, crif = 1M,
e quindi l’attività coincide con la concentrazione. Per le sostanze pure (solidi e liquidi)
gli stati di riferimento sono quelli stabili ad 1 atm e le attività in questi stati sono pari a
1. La costante di equilibrio può a questo punto essere espressa in modo più generale
attraverso le attività, ovvero:
K = aCc aDd/aAa aBb
Questa equazione rappresenta la legge di azione di massa per casi più generali.
114
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6.2 Equilibri di solubilità
Le reazioni di dissoluzione e precipitazione dei solidi nelle soluzioni costituiscono una
classe di reazioni chimiche estremamente importanti in molti settori, non solo della
chimica, ma anche della medicina, dell’ingegneria, dell’ecologia e dei beni culturali (si
ricordi il problema già accennato dei sali solubili).
Una soluzione nella quale è stato disciolto tanto soluto da stabilire un equilibrio tra la
sua forma disciolta e quella solida, presente come corpo di fondo, è detta soluzione
satura. Se si aggiunge tanto solvente da portare in soluzione tutto il solido disciolto (in
accordo con il principio di le Châtelier) si dice che la soluzione è insatura. La
precipitazione controllata, che sfrutta le diverse solubilità dei solidi, viene utilizzata
ampiamente in chimica per la purificazione dei prodotti di reazione. Durante questo
processo però possono separarsi insieme alla sostanza desiderata anche delle impurezze
che debbono in qualche modo essere eliminate per ottenere dei prodotti di reazione
altamente purificati. Si ricorre allora al processo di ricristallizzazione per cui un
prodotto impuro viene sciolto e riprecipitato più volte, controllando opportunamente le
condizioni di reazione, sfruttando le diverse solubilità tra il prodotto desiderato e le
impurezze. Le reazioni di dissoluzione e precipitazione raggiungono spesso molto
lentamente la condizione di equilibrio e possono servire anche settimane o più per
ottenere una soluzione satura. Inoltre, spesso si formano delle soluzioni soprasature
ovvero soluzioni nelle quali la concentrazione del soluto supera il suo valore di
equilibrio e può occorrere anche moltissimo tempo perché si raggiunga la condizione di
soluzione satura.
La solubilità di una sostanza in un certo solvente, come già visto, è definita come la
quantità massima di quella sostanza che si scioglie all’equilibrio in un volume
definito del solvente ad una data temperatura. La maggior parte delle reazioni di
solubilizzazione di composti ionici è endotermica pertanto, in base al principio di Le
Châtelier, la solubilità aumenta all’aumentare della temperatura. Non tutti i composti
ionici presentanto lo stesso grado di solubilità e si possono riassumere dei criteri
empirici per individuare velocemente se un composto ionico è più o meno solubile.
1 – Tutti i sali di sodio, potassio e ammonio sono solubili , solubilità maggiore di 0,1
mol l-1.
2 – Tutti i nitrati, gli acetati e i perclorati sono solubili.
115
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3 – Tutti i sali d’argento, di piombo e di mercurio (I) sono insolubili.
4 – Tutti i cloruri, i bromuri e gli ioduri sono solubili.
5 – Tutti i carbonati, i solfuri, gli ossidi e gli idrossidi sono insolubili.
6 – Tutti i solfati, tranne quelli di calcio e di bario, sono solubili.
I criteri di solubilità devono essere applicati nell’ordine in cui sono elencati: in caso
di discordanza ha la prevalenza il criterio che viene enunciato prima. Ad esempio il
solfuro di sodio Na2S è solubile perché il criterio 1 afferma che tutti i sali di sodio sono
solubili. Il solfato di piombo, PbSO4, è insolubile perché, anche se il criterio 6 afferma
che i solfati sono solubili, il criterio 3 afferma che tutti i sali di piombo sono insolubili.
L’equilibrio tra un solido ionico ed i suoi ioni costituenti in soluzione è regolato dalla
legge di azione di massa.
AgBrO3(s) = Ag+(aq) + BrO3-(aq)
La costante di equilibrio per questa reazione è:
Kps = [Ag+][BrO3-]
Il pedice ps sta per prodotto di solubilità e Kps viene detta prodotto di solubilità.
Il bromato d’argento solido non compare nella costante in quanto è un solido puro e
quindi la sua concentrazione è costante. Il valore sperimentale per questa costante è
5,8x10-5 M2. La solubilità si può ottenere dalla Kps. Infatti, sempre considerando il
bromato d’argento in acqua a 25 °C, all’equilibrio si ottiene: [Ag+][BrO3-] = 5,8x10-5
M2. Dalla stechiometria della reazione si ha che [Ag+] = [BrO3-] = solubilità = s.
Dall’espressione della Kps si ottiene: Kps = 5,8x10-5M2 = [Ag+][BrO3-] = s2 ; perciò s =
(5,8x10-5M2)1/2 = 7,6x10-3 M. Per un sale generico AxBy la solubilità è data da:
s = [A]/x = [B]/y
6.3 Effetto dello ione a comune
La solubilità di un solido ionico diminuisce se nella soluzione è presente uno ione a
comune. Infatti, la presenza di un eccesso di ioni (positivi o negativi), che erano già in
116
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soluzione, riduce la concentrazione consentita dal prodotto di solubilità di quegli ioni e
quindi la solubilità diminuisce. Questo fenomeno è noto come effetto dello ione
comune: se la soluzione ed il sale che in essa deve essere disciolto hanno uno ione in
comune, allora la solubilità del sale diminuisce. Per comprendere meglio questo
concetto consideriamo l’esempio del bromato d’argento a 25 °C in una soluzione
acquosa 0,10 M di bromato di sodio. Il bromato di sodio è un sale solubile e quindi è
completamente dissociato in acqua; lo ione sodio Na+ è uno ione spettatore che non
rientra nei calcoli di solubilità. La solubilità del bromato d’argento è data da: s = [Ag+].
Gli ioni bromato provengono sia dalla dissociazione del bromato d’argento che da
quella del bromato di sodio, pertanto la loro concentrazione sarà: [BrO3-] = s + 0,10 M.
Quindi, sostituendo nell’espressione della Ksp si avrà: s(s+0,10 M) = 5,8x10-5 M2.
Poichè s è molto più piccolo di 0,10 M si può trascurare e quindi l’equazione diviene:
s(0,10 M) ≈ 5,8x10-5 M2 da cui s ≈ 5,8x10-4 M. Questo valore di solubilità è
decisamente inferiore a quello del bromato d’argento puro che si è visto essere uguale a
7,6x10-3 M.
6.4 Effetto del pH sulla solubilità
Molti solidi, poco solubili in acqua, aumentanto moltissimo la loro solubilità in
presenza di acidi. Ad esempio solfuri di rame e nichel, presenti nei minerali, possono
essere portati in soluzione con acidi forti per poter poi isolare i metalli che sono molto
ricercati ed impiegati in vari settori dell’industria. Come già visto, il carbonato di calcio
presenta scarsissima solubilità in acqua, ma in presenza di acidi la solubilità aumenta e
può essere portato facilmente in soluzione: è il caso delle piogge acide che provocano la
dissoluzione e quindi il degrado dei manufatti esposti all’aperto e costituiti da carbonato
di calcio (marmo, travertino e pietre calcaree in generale). Nel caso degli idrossidi
metallici il pH ha un effetto diretto sulla solubilità. Infatti, gli ioni OH- partecipano
direttamente all’equilibrio di solubilità e quindi un aggiunta di ioni H3O+, reagendo con
gli OH-, determina uno spostamento dell’equilibrio di dissoluzione verso destra. È il
caso, ad esempio, dell’idrossido di zinco:
Zn(OH)2(s) = Zn2+(aq) + 2OH-(aq)
117
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6.5 Effetto della formazione di complessi
La formazione di un complesso di coordinazione di uno ione metallico con dei leganti,
porta ad un aumento della solubilità di un solido. Ad esempio gli ioni Ag+(aq)
reagiscono con NH3(aq) formando un complesso di coordinazione secondo la reazione:
Ag+(aq) + 2NH3(aq) = Ag(NH3)2+(aq)
La costante per questo equilibrio è nota come costante di formazione e in questo caso ha
il valore di: Kf = 2,0x107M-2. Un valore così elevato della costante indica che la
formazione del complesso è favorita e quindi in presenza di ammoniaca gli ioni argento
reagiranno con essa formando il complesso di coordinazione. Per il principio di Le
Châtelier, l’equilibrio di dissociazione di un sale d’argento, ad esempio:
AgBr(s) = Ag+(aq) + Br-(aq)
Ksp = 7,7x10-13
si sposterà verso destra poiché gli ioni Ag+ vengono sottratti all’equilibrio: questo
risulterà pertanto in una maggiore dissociazione e quindi in una maggiore solubilità del
sale.
6.6 Reazioni di ossido-riduzione
Le reazioni che avvengono con un trasferimento di elettroni da un reagente ad un altro
sono dette reazioni di ossidoriduzione o reazioni a trasferimento di elettroni (più
comunemente sono indicate come reazioni redox). Per capire le reazioni di
ossidoriduzione occorre definire il numero di ossidazione degli elementi nelle specie
chimiche e definire delle semplice regole per determinarlo. Il numero di ossidazione
esprime la carica (positiva o negativa) che l’atomo possiede nella reazione redox e che
non coincide necessariamente con la carica effettiva. In pratica i numeri di ossidazione
servono
per
bilanciare
stechiometricamente
le
equazioni
delle
reazioni
di
ossidoriduzione. Anche in questo caso esistono delle regole generali per poter assegnare
i numeri di ossidazione ai vari elementi:
1 – ad atomi allo stato elementare è assegnato numero di ossidazione 0;
118
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2 – la somma algebrica dei numeri di ossidazione di tutti gli atomi di una specie chimica
deve essere uguale alla carica della specie;
3 – i metalli alcalini nei loro composti hanno sempre numero di ossidazione +1;
4 – il fluoro nei suoi composti ha sempre numero di ossidazione -1;
5 - i metalli alcalino-terrosi lo zinco e il cadmio nei loro composti hanno sempre
numero di ossidazione +2;
6 – alluminio e gallio nei loro composti hanno sempre numero di ossidazione +3;
7 – l’idrogeno nei suoi composti ha numero di ossidazione +1;
8 – l’ossigeno nei suoi composti ha numero di ossidazione -2;
Nei casi in cui possono sorgere dubbi nell’applicazione di queste regole si deve tenere
conto del fatto che la priorità delle regole è decrescente dalla n. 1 alla n. 8.
Si consideri la semplice reazione di ossido-riduzione:
Zn(s) + Cu2+(aq) = Cu(s) + Zn2+(aq)
Si dice che lo ione rame 2+ è ridotto a rame metallico perché il processo evolve
attraverso un decremento (riduzione) del numero di ossidazione del rame (da +2 a 0):
Cu2+(aq) + 2e- = Cu(s)
riduzione
Si dice che lo zinco metallico è ossidato a zinco 2+ perché la reazione implica un
aumento del numero di ossidazione dello zinco (da 0 a 2+) :
Zn(s) = Zn2+(aq) + 2e-
ossidazione
Il reagente che contiene l’elemento che è ridotto è detto agente ossidante
(elettronaccettore) o più semplicemente ossidante, mentre quello che contiene l’atomo
che si ossida è detto agente riducente (elettrondonatore) o più semplicemente
riducente.
Le reazioni di ossido-riduzione possono essere scomposte in due semireazioni: la
semireazione di ossidazione e la semireazione di riduzione e possono essere più
agevolmente bilanciate procedendo separatamente al bilanciamento delle due
semireazioni.
Si consideri ad esempio la semplice reazione di ossido-riduzione:
Fe(s) + Cl2(aq) = Fe3+(aq) + Cl-(aq)
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L’equazione così come è scritta non è bilanciata. Il metodo più semplice e sistematico
per bilanciare la reazione è il metodo delle semireazioni, che risulta utile soprattutto
per reazioni di ossidoriduzione particolarmente complesse.
Si procede per passaggi successivi seguendo l’ordine riportato di seguito.
1 – Dividere l’equazione in due equazioni distinte per la semireazione di ossidazione e
la semireazione di riduzione:
Fe(s) = Fe3+(aq)
Cl2(aq) =
Cl-(aq)
ossidazione
riduzione
2 – Bilanciare l’equazione di ciascuna semireazione rispetto a tutti gli elementi tranne
ossigeno e idrogeno:
Fe(s) = Fe3+(aq)
Cl2(aq) = Cl-(aq)
3 – Bilanciare l’equazione di ciascuna semireazione rispetto all’ossigeno aggiungendo
l’appropriato numero di molecole d’acqua al membro in difetto di ossigeno:
Fe(s) = Fe3+(aq)
Cl2(aq) = Cl-(aq)
4 – Bilanciare l’equazione di ciascuna semireazione rispetto all’idrogeno aggiungendo
l’appropriato numero di ioni H+ al membro in difetto di idrogeno:
Fe(s) = Fe3+(aq)
Cl2(aq) = Cl-(aq)
5 - Bilanciare l’equazione di ciascuna semireazione rispetto alla carica aggiungendo
l’appropriato numero di elettroni al membro con eccesso di carica positiva:
Fe(s) = Fe3+(aq) + 3eCl2(aq) + 2e- = 2Cl-(aq)
6 – Moltiplicare membro a membro ciascuna equazione delle semireazioni per numeri
interi in modo tale che il numero totale degli elettroni ceduti dalla semireazione di
ossidazione sia uguale al numero di quelli acquistati nella semireazione di riduzione:
2Fe(s) = 2Fe3+(aq) + 6e3Cl2(aq) + 6e- = 6Cl-(aq)
7 – Scrivere l’equazione completa bilanciata sommando membro a membro le due
semireazioni bilanciate e semplificando i termini simili.
120
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2Fe(s) + 3Cl2(aq) = 2Fe3+(aq) + 6Cl-(aq)
Si consideri adesso una reazione di ossido-riduzione un po’ più complessa, nella quale
entrano in gioco anche i bilanciamenti degli ioni H+ e degli atomi di ossigeno, quindi in
soluzione acida:
Fe2+(aq) + Cr2O72-(aq) = Fe3+(aq) + Cr3+(aq)
Seguendo lo stesso procedimento visto in precedenza, si ottiene:
1 – Dividere l’equazione in due equazioni distinte per la semireazione di ossidazione e
la semireazione di riduzione:
Fe2+(aq) → Fe3+(aq)
ossidazione
Cr2O72-(aq) → Cr3+(aq)
riduzione
2 – Bilanciare l’equazione di ciascuna semireazione rispetto a tutti gli elementi tranne
ossigeno e idrogeno:
Fe2+(aq) → Fe3+(aq)
Cr2O72-(aq) → 2Cr3+(aq)
3 – Bilanciare l’equazione di ciascuna semireazione rispetto all’ossigeno aggiungendo
l’appropriato numero di molecole d’acqua al membro in difetto di ossigeno:
Fe2+(aq) → Fe3+(aq)
Cr2O72-(aq) → 2Cr3+(aq) + 7H2O(l)
4 – Bilanciare l’equazione di ciascuna semireazione rispetto all’idrogeno aggiungendo
l’appropriato numero di ioni H+ al membro in difetto di idrogeno:
Fe2+(aq) → Fe3+(aq)
14H+(aq) + Cr2O72-(aq) → 2Cr3+(aq) + 7H2O(l)
5 - Bilanciare l’equazione di ciascuna semireazione rispetto alla carica aggiungendo
l’appropriato numero di elettroni al membro con eccesso di carica positiva:
Fe2+(aq) → Fe3+(aq) + e14H+(aq) + Cr2O72-(aq) + 6e- → 2Cr3+(aq) + 7H2O(l)
6 – Moltiplicare membro a membro ciascuna equazione delle semireazioni per numeri
interi in modo tale che il numero totale degli elettroni ceduti dalla semireazione di
ossidazione sia uguale al numero di quelli acquistati nella semireazione di riduzione:
6Fe2+(aq) → 6Fe3+(aq) + 6e14H+(aq) + Cr2O72-(aq) + 6e- → 2Cr3+(aq) + 7H2O(l)
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7 – Scrivere l’equazione completa bilanciata sommando membro a membro le due
semireazioni bilanciate e semplificando i termini simili.
6Fe2+(aq) + 14H+(aq) + Cr2O7-2(aq) → 6Fe3+(aq) + 2Cr3+(aq) + 7H2O(l)
Le reazioni di ossidoriduzione che avvengono in ambiente basico si bilanciano
aggiungendo ioni OH-, anziché H+, e, di conseguenza, sarà necessario aggiungere
molecole d’acqua nell’altro membro dell’equazione chimica per ottenere il
bilanciamento degli atomi di idrogeno e di quelli di ossigeno.
Si consideri, ad esempio, la reazione di dissoluzione del cloro in soluzione basica:
Cl2(g) → ClO3-(aq) + Cl-(aq)
Questa reazione di ossido riduzione viene detta disproporzione poiché la stessa
sostanza, ovvero il cloro, viene sia ossidata che ridotta nella stessa reazione.
1 – Dividere l’equazione in due equazioni distinte per la semireazione di ossidazione e
la semireazione di riduzione:
Cl2(g) → ClO3 -(aq)
ossidazione
Cl2(g) → Cl-(aq)
riduzione
2 – Bilanciare l’equazione di ciascuna semireazione rispetto a tutti gli elementi tranne
ossigeno e idrogeno:
Cl2(g) → 2ClO3 -(aq)
Cl2(g) → 2Cl-(aq)
3 – Bilanciare l’equazione di ciascuna semireazione rispetto all’ossigeno aggiungendo
l’appropriato numero di ioni OH- al membro in difetto di ossigeno:
Cl2(g) + 6OH-(aq) → 2ClO3 -(aq)
Cl2(g) → 2Cl-(aq)
4 – Bilanciare l’equazione di ciascuna semireazione rispetto all’idrogeno aggiungendo
l’appropriato numero di molecole d’acqua al membro in difetto di idrogeno e
bilanciando la reazione:
Cl2(g) + 12OH-(aq) → 2ClO3 -(aq) + 6H2O(l)
Cl2(g) → 2Cl-(aq)
5 - Bilanciare l’equazione di ciascuna semireazione rispetto alla carica aggiungendo
l’appropriato numero di elettroni al membro con eccesso di carica positiva:
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Cl2(g) + 12OH-(aq) → 2ClO3 -(aq) + 6H2O(l) + 10eCl2(g) + 2e-→ 2Cl-(aq)
6 – Moltiplicare membro a membro ciascuna equazione delle semireazioni per numeri
interi in modo tale che il numero totale degli elettroni ceduti dalla semireazione di
ossidazione sia uguale al numero di quelli acquistati nella semireazione di riduzione:
Cl2(g) + 12OH-(aq) → 2ClO3 -(aq) + 6H2O(l) + 10e5Cl2(g) + 10e-→ 10Cl-(aq)
7 – Scrivere l’equazione completa bilanciata sommando membro a membro le due
semireazioni bilanciate e semplificando i termini simili.
6Cl2(g) + 12OH-(aq) → 2ClO3-(aq) + 10Cl-(aq) + 6H2O(l)
L’equazione ottenuta può anche essere divisa per due, pertanto la reazione finale sarà:
3Cl2(g) + 6OH-(aq) → ClO3-(aq) + 5Cl-(aq) + 3H2O(l)
6.7 Cenni di elettrochimica
L’elettrochimica è lo studio dei processi chimici che si verificano al passaggio di una
corrente elettrica attraverso un materiale. Il passaggio di corrente elettrica attraverso un
elettrolita viene detto elettrolisi. Le modificazioni chimiche durante l’elettrolisi
avvengono in corrispondenza degli elettrodi. Da una reazione di ossidoriduzione si può
ricavare una corrente elettrica mediante un apparecchio chiamato cella elettrochimica.
Una cella elettrochimica è caratterizzata dal suo voltaggio, che è una misura della forza
con cui una corrente elettrica viene spinta attraverso un conduttore. Il voltaggio della
cella dipende dalla concentrazione delle varie specie presenti nella cella di reazione.
Lo studio dell’elettrochimica ebbe inizio nel 1791, quando lo scienziato italiano Luigi
Galvani dimostrò che una corrente elettrica era in grado di provocare la contrazione di
una zampa di rana. Partendo dagli studi di Galvani, Alessandro Volta costruì un
apparecchio, detto pila voltaica, costituito da parecchi dischi di metalli diversi, ad
esempio zinco e rame, alternati e separati tra loro da tamponi di stoffa impregnati di una
soluzione salina. Michael Faraday impiegò le pile voltaiche per studiare l’effetto del
passaggio di una corrente elettrica attraverso soluzioni di vari elettroliti e scoprì che in
123
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certe condizioni il passaggio di corrente provoca reazioni chimiche che non potrebbero
verificarsi altrimenti. Una reazione chimica provocata dal passaggio di corrente è detta
elettrolisi (fig. 71).
Fig. 71 Elettrolisi dell’acqua contenente solfato di sodio. Il gas che si svolge sull’elettrodo di platino
collegato con il disco di zinco superiore della serie di celle è idrogeno mentre il gas che si svolge
sull’elettrodo di platino collegato con il disco di rame sul fondo della pila è ossigeno. La corrente è
trasportata attraverso la soluzione da ioni Na+(aq) e ioni SO42-(aq), (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock,
Chimica generale, Zanichelli, 1991)
Faraday scoprì che al passaggio di una corrente elettrica attraverso le soluzioni di molti
sali si formano depositi dei metalli corrispondenti. Controllando la corrente elettrica che
attraversa la soluzione si può controllare il numero di elettroni forniti alla reazione
elettrochimica. L’intensità di corrente elettrica viene misurata in ampere (A): un ampere
è definito come il flusso di un coulomb di carica al secondo.
corrente = carica/tempo
I = Q/t
carica totale = corrente x tempo
Q=I·t
(coulomb = ampere x secondi)
Le sperimentazioni e le osservazioni di Faraday sono raccolte nelle leggi di Faraday che
dicono:
Prima legge:
L’entità di una reazione elettrochimica dipende esclusivamente dalla quantità di
elettricità che attraversa la soluzione. Ovvero la massa di una sostanza, prodotta o
consumata ad un elettrodo, è proporzionale alla quantità di carica elettrica che è passata
attraverso la cella.
124
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Seconda legge:
La quantità in peso di una sostanza depositata come metallo o liberata come gas dal
passaggio di una determinata quantità di elettricità è direttamente proporzionale al peso
molare della sostanza diviso il numero degli elettroni scambiati per unità formula nel
corso della reazione.
Faraday introdusse una costante, che si ritroverà in tutte le relazioni principali
dell’elettrochimica, e che viene detta costante di Faraday, indicata con il simbolo F.
F = 96485,31 coulomb per mole = 9,648531 x104 Cmol-1.
Le leggi di Faraday furono scoperte nel 1833, quindi mezzo secolo prima che fosse
scoperto l’elettrone e che fosse compresa la base atomica dell’elettricità.
Il valore di F può essere ricavato considerando che la carica dell’elettrone è pari a
1,6021773x10-19 C e che il numero di Avogadro è pari a 6,022137x1023mol-1. Quindi,
una mole di elettroni possiede una carica pari a:
Q = (6,022137x1023mol-1)(1,6021773x10-19 C) = 96.485,31 C mol-1, che rappresenta
appunto la costante di Faraday.
Nell’apparecchio per l’elettrolisi visto prima la corrente viene trasportata da cationi e
anioni che si muovono in direzioni opposte verso due barrette di platino che vengono
dette elettrodi. Un elettrodo è costituito da una fase solida sulla cui superficie
avvengono reazioni ossidoriduzione:
l’elettrodo su cui avviene la semireazione di riduzione è detto catodo;
l’elettrodo su cui avviene la semireazione di ossidazione è detto anodo.
Molti prodotti chimici vengono preparati industrialmente mediante elettrolisi. Ad
esempio i metalli alcalini ed alcuni metalli alcalino-terrosi vengono preparati
industrialmente mediante elettrolisi. Tutto l’idrossido di sodio e gran parte del cloro
prodotto negli Stati Uniti vengono preparati mediante il processo cloro-alcali, basato
sull’elettrolisi di una soluzione acquosa concentrata di NaCl.
La reazione complessiva è:
2NaCl(aq) + 2H2O(l) → 2NaOH(aq) + Cl2(g) + H2(g)
Le due semireazioni sono:
2Na+(aq) + 2H2O(l) + 2e- → 2NaOH(aq) + H2(g)
2Cl-(aq) → Cl2(g) + 2e-
al catodo
all’anodo
125
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6.8 Celle elettrochimiche
Una cella elettrochimica produce elettricità direttamente da una reazione chimica. Si
consideri la reazione spontanea:
Zn(s) + CuSO4(aq) → Cu(s) + ZnSO4(aq)
Una cella elettrochimica che sfrutta questa reazione è formata da due diversi metalli, Zn
e Cu, immersi in soluzioni elettrolitiche contenenti rispettivamente gli ioni metallici
Zn2+ e Cu2+ e mantenute in contatto elettrico mediante un ponte salino. Il ponte salino è
costituito da una soluzione satura di KCl miscelata con agar, una sostanza gelatinosa
aggiunta allo scopo di trattenere nel tubo la soluzione salina e di evitare la miscelazione
delle soluzioni. Il ponte salino costituisce un percorso per la corrente ionica tra la
soluzione di solfato di zinco e quella di solfato di rame impedendone al contempo la
miscelazione (fig. 72).
Fig. 72, Esempio di cella elettrochimica, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale,
Zanichelli, 1991)
Gli elettrodi sono collegati a cavi elettrici che permettono alla cella elettrochimica di
fornire corrente elettrica ad un circuito esterno.
Le semireazioni di cella sono:
Zn(s) → Zn2+(aq) +2e-
ossidazione dello zinco
Cu2+(aq) + 2e- → Cu(s)
riduzione del rame
Gli elettroni prodotti per ossidazione dello zinco all’elettrodo di zinco si spostano
attraverso il circuito esterno verso l’elettrodo di rame, dove vengono consumati nella
riduzione di Cu2+(aq) a Cu(s). Poiché ioni Zn2+(aq) vengono prodotti nella soluzione che
126
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contiene l’elettrodo di zinco, degli ioni negativi, in questo caso Cl-(aq), devono fluire
attraverso il ponte salino verso la soluzione di solfato di zinco per mantenere la
neutralità elettrica della soluzione. D’altra parte, poiché dalla soluzione contenente
l’elettrodo di rame vengono rimossi ioni Cu2+(aq), degli ioni positivi, in questo caso
K+(aq), devono fluire attraverso il ponte salino verso la soluzione di solfato di rame per
mantenere la neutralità elettrica.
Un diagramma di cella è una rappresentazione grafica sintetica di una cella
elettrochimica:
Zn(s) | ZnSO4(aq) || CuSO4(aq) | Cu(s)
Le barre verticali semplici indicano la separazione tra fasi distinte in contatto tra loro, la
doppia barra indica il ponte salino. La convenzione adottata per scrivere le equazioni
che descrivono le reazioni di cella è quella di scrivere la semireazione dell’elettrodo di
sinistra come equazione della semireazione di ossidazione e la semireazione
dell’elettrodo di destra come equazione della semireazione di riduzione.
Le celle elettrochimiche che funzionano spontaneamente vengono dette anche celle
galvaniche o celle voltaiche. Collegando gli elettrodi ad un circuito esterno, in
particolare ad un voltmetro, è possibile misurare la differenza di potenziale che si
produce in seguito alla reazione di ossido-riduzione che avviene spontanemente nelle
soluzioni della celle voltaica.
Un elettrodo che coinvolge specie chimiche gassose è detto elettrodo a gas.
L’elettrodo a gas più importante è l’elettrodo ad idrogeno. Questo elettrodo è costituito
da una spirale di platino inserita nel compartimento della cella elettrochimica che
contiene le specie H+(aq) e H2(g). Il platino è un metallo relativamente non reattivo, che
fornisce semplicemente la superficie su cui avviene la reazione di riduzione senza
parteciparvi. Accoppiando un elettrodo ad idrogeno con un elettrodo di zinco si ottiene
il seguente diagramma di cella (fig. 73):
Zn(s) | Zn2+(aq) || H+(aq) | H2(g) | Pt(s)
127
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Fig. 73 Esempio di cella elettrochimica con elettrodo a gas, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock,
Chimica generale, Zanichelli, 1991)
Facendo riferimento alla termodinamica, occorre introdurre un tipo di lavoro
fondamentale in elettrochimica, ovvero il lavoro elettrico welettr che sarà dato dalla
relazione welettr = -QΔE. Il segno negativo è dovuto al fatto che si tratta di lavoro
eseguito dal sistema (in questo caso la cella elettrochimica), in base alla convenzione
stabilita in termodinamica. ΔE è la differenza di potenziale che si genera per
spostamento attraverso il circuito della carica Q. A temperatura e pressione costante,
dalla termodinamica sia ha che il lavoro massimo che può eseguire il sistema sarà dato
dalla variazione di energia libera: welettr,max = ΔG. Pertanto ΔG = -QΔE = -nFΔE (per un
processo reversibile). Per reazioni che avvengono in una cella elettrochimica, la
variazione di energia libera standard, ΔG°, sarà in relazione al voltaggio standard di
cella, ΔE°: ΔG° = -nFΔE°. Il voltaggio standard della cella elettrochimica è quello
calcolato quando i reagenti e i prodotti sono nei loro stati standard.
È importante sottolineare il fatto che non è possibile misurare potenziali elettrici di un
singolo elettrodo, mentre è possibile misurare solamente differenze di potenziale. Se
però si attribuisce un valore arbitrario al potenziale standard di una semicella di
riferimento, è possibile poi, per differenza, determinare i potenziali standard di tutte le
altre semicelle. Per convenzione si pone uguale a zero il potenziale standard di
riduzione dell’elettrodo a idrogeno, cioè si pone E° = 0 per la semireazione di elettrodo:
2H3O+(aq, 1M) + 2e- → H2(g, 1 atm) + 2H2O(l)
128
E° = 0 per convenzione
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Quando due semicelle vengono combinate per formare una cella galvanica, avviene la
riduzione nella semicella con il potenziale maggiore (catodo) e l’ossidazione nella
semicella con il potenziale minore (anodo). Quindi per la cella elettrochimica completa
si può scrivere:
ΔE°cella = E°(catodo) - E°(anodo)
Queste equazioni possono essere utilizzate per compilare la tabella dei potenziali
standard di riduzione. Infatti, i potenziali standard delle singole semireazioni vengono,
per convenzione, riportati come potenziali di riduzione partendo da quelli più positivi
via via fino a quelle più negativi. Un forte agente ossidante è una specie chimica che si
riduce facilmente e sarà quindi caratterizzata da un potenziale di riduzione molto
positivo. Ossidanti forti sono il fluoro, F2, l’acqua ossigenata, H2O2, l’ozono O3, il
cloro, Cl2, l’ossigeno, O2, ecc. Un forte agente riducente è una specie chimica che si
ossida facilmente e sarà quindi caratterizzata da un potenziale molto negativo. Riducenti
forti sono generalmente i metalli alcalini e alcalino-terrosi, l’idrogeno, H2, ecc.
6.9 L’equazione di Nernst
Walther Nernst fu uno dei pionieri dell’elettrochimica e ricevette il premio Nobel per
la chimica per i suoi studi sulla dipendenza dei potenziali di cella dalla concentrazione
degli elettroliti, dalle dimensioni degli elettrodi e da altri fattori. Il potenziale di cella è
una misura della forza motrice della reazione e quindi l’effetto della variazione di
concentrazione di un reagente o di un prodotto su di esso può essere spiegato in termini
qualitativi applicando il principio di Le Châtelier alla reazione di cella.
Da un punto di vista termodinamico si ha che ΔG = ΔG° + RT lnQ, dove si ricordi che
Q è il quoziente di reazione. Considerando che ΔG = -nFΔE e che ΔG° = -nFΔE°, si
ottiene la seguente relazione che rappresenta appunto l’equazione di Nernst:
ΔE = ΔE° - RT/nF lnQ
Considerando che lnQ = 2,303 log10Q, e sostituendo i valori delle costanti R e F a
temperatura di 298,15 K, si ottiene l’equazione di Nernst nella forma:
129
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ΔE = ΔE° - 0,0592/n log10Q
L’elettrochimica fornisce un modo conveniente ed accurato per determinare le costanti
di equilibrio di molte reazioni chimiche in soluzioni. Infatti, poiché la variazione di
energia libera standard è legata alla costante di equilibrio dalla relazione: ΔG° = -RTlnK
e poiché: ΔG° = -nFΔE°, combinando le due espressioni si ha: RTlnK = nFΔE°, lnK =
nF/RT ΔE° e quindi:
log10 K = n/0,0592 ΔE°
(a 25 °C)
Lo stesso risultato può essere ottenuto a partire dall’equazione di Nernst che a 25° C ha
la seguente espressione:
ΔE = ΔE° - 0,0592/n log10Q
Quando si raggiunge la condizione di equilibrio non si ha più variazione del potenziale
e dunque ΔE = 0 e Q = K, pertanto vale la relazione ΔE° = 0,0592/n log10K.
6.10 Tipi di elettrodi
Una branca molto importante della chimica analitica è costituita dalla potenziometria
che sfrutta la misura del voltaggio delle celle per ottenere informazioni chimiche. La
cella per la misura potenziometrica è costituita da un elettrodo indicatore (ad esempio
platino), che risponde alla concentrazione dell’analita, e da un elettrodo di riferimento
che mantiene un potenziale costante e definito.
Un comune elettrodo di riferimento quello ad argento-cloruro d’argento (fig. 74a),
basato sulla reazione:
AgCl(s) + e- → Ag(s) + Cl-
E (KCl saturo) = + 0,197 V
Un altro elettrodo di riferimento molto utilizzato in elettrochimica è l’elettrodo a
calomelano saturo (E.C.S, fig. 74b), basato sulla reazione:
130
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Hg2Cl2(s) + 2e- → 2Hg(l) + 2Cl-
E (KCl saturo) = + 0,197 V
Il cloruro mercuroso, Hg2Cl2, è detto calomelano.
(a)
(b)
Fig. 74 Elettrodi di riferimento ad argento-cloruro d’argento (a) e a calomelano saturo (b), (da D. C.
Harris, Chimica analitica quantitativa, Zanichelli, 1991)
In potenziometria sono particolarmente importanti gli elettrodi iono-selettivi ovvero
queli elettrodi che rispondono selettivamente ad una sola specie in soluzione. Questi
elettrodi sono costituiti da una membrana che separa il campione incognito dall’interno
dell’elettrodo dove è presente lo ione da determinare a concentrazione nota e costante.
La differenza di concentrazione dello ione da misurare, nella soluzione interna
all’elettrodo e nel campione, genera attraverso la membrana una differenza di potenziale
che, una volta misurata, permetterà di determinare la concentrazione dello ione nel
campione, essendo quella interna all’elettrodo nota e costante. L’elettrodo iono-selettivo
più importante e utilizzato è l’elettrodo a vetro per la misura del pH. Gli elettrodi a
vetro utilizzati oggi sono elettrodi combinati (fig. 75), ovvero elettrodi che
comprendono in un unico corpo sia l’elettrodo a vetro vero e proprio che l’elettrodo di
riferimento. Questo elettrodo può essere schematizzato come:
131
Corso di Chimica analitica
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Ag(s) | AgCl(s) | Cl-(aq) || H+(aq, esterno) ¦ H+(aq, interno), Cl-(aq) | AgCl(s) | Ag(s)
La linea tratteggiata verticale indica la membrana di vetro. È stato dimostrato da studi
sperimentali che nell’elettrodo a vetro, la membrana si porta in equilibrio con gli ioni
H+ su ciascuna superficie e che sono gli ioni Na+ che trasportano la carica attraverso la
membrana coordinandosi con gli atomi di ossigeno carichi negativamente e presenti nel
reticolo del vetro della membrana. Poiché la concentrazione di Cl- è costante in ciascun
compartimento dell’elettrodo e quella di H+ è costante all’interno della membrana di
vetro, l’unico fattore che può produrre una differenza di potenziale è una variazione di
pH nella soluzione al di fuori della membrana di vetro.
Fig. 75 Elettrodo combinato per la misura del pH, avente un elettrodo di riferimento ad argento-cloruro
d’argento, (da D. C. Harris, Chimica analitica quantitativa, Zanichelli, 1991)
L’elettrodo a vetro viene utilizzato normalmente nei pH-metri, strumenti di laboratorio
o portatili, che vengono appunto impiegati per la misura del pH. Gli elettrodi a vetro,
prima di essere utilizzati, devono essere tarati per mezzo di soluzioni tampone a pH
noto e definito. In genere, per la maggior parte dei pH metri, la taratura viene effettuata
immergendo l’elettrodo a vetro in una soluzione a pH = 7 e aspettando che si equilibri.
Poi, l’elettrodo viene immerso nella seconda soluzione tampone il cui pH viene scelto in
funzione dell’intervallo di misura che sperimentalmente si pensa di utilizzare, in genere
132
Corso di Chimica analitica
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pH = 4 o pH = 9. Ogni volta, prima di immergere l’elettrodo in una soluzione, esso deve
essere accuratamente sciacquato e asciugato. Infine, l’elettrodo a vetro deve sempre
essere conservato in una soluzione acquosa di KCl per evitare che lo strato di gel
idratato della membrana si asciughi e quindi occorrano poi tempi molto lunghi per
rigenerarlo.
6.11 La corrosione dei metalli
La corrosione dei metalli è uno dei problemi più gravi per le società industriali con costi
elevatissimi per le nazioni più industrializzate. La corrosione coinvolge chiaramente il
settore dei beni culturali e della conservazione dei manufatti metallici soprattutto quelli
esposti all’aperto (statue e portali) nelle aree urbane ad alta densità abitativa. Gli effetti
della corrosione sono sia visibili (formazione di strati superficiali ad esempio di ruggine
nel caso del ferro) che invisibili (rotture e indebolimenti del metallo sotto la superficie).
La corrosione può essere vista come una cella galvanica “corto-circuitata” nella quale
alcune zone della superficie del metallo funzionano da catodo e altre da anodo e il
circuito elettrico si chiude con il flusso degli elettroni attraverso il metallo stesso.
Queste celle elettrochimiche si formano nelle parti del metallo dove sono presenti
impurezze oppure stress meccanici del materiale. Nel caso del ferro, uno dei metalli
notoriamente più facilmente soggetti a corrosione, la reazione anodica è:
Fe(s) → Fe2+(aq) + 2eSono possibili diverse reazioni catodiche a seconda che sia presente ossigeno oppure
questo sia carente (ad esempio manufatti immersi o seppelliti). Nel secondo caso le
reazioni di corrosione sono:
Fe(s) → Fe2+(aq) + 2e2H2O(l) + 2e- → 2OH- + H2(g)
(anodo)
(catodo)
Fe(s) + 2H2O(l) → Fe2+(aq) + 2OH- + H2(g)
La reazione di corrosione del ferro è molto più rilevante in presenza di ossigeno e
acqua, in questo caso la reazione catodica è:
133
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½ O2(g) + 2H3O+(aq) + 2e- → 3H2O(l)
Gli ioni Fe2+ che si formano nello stesso tempo all’anodo, migrano al catodo dove
vengono ulteriormente ossidati per azione di O2 e passono allo stato di ossidazione +3
formando la ruggine (Fe2O3 · xH2O), un ossido di ferro (III) idrato:
2Fe2+(aq) + ½ O2(g) + (6+x)H2O(l) → Fe2O3 · xH2O + 4H3O+(aq)
Sul catodo si forma la ruggine mentre all’anodo il metallo si consuma per perdita di ioni
che, una volta formatisi per ossidazione, migrano verso il catodo. I sali disciolti
favoriscono la corrosione poiché forniscono un elettrolita che migliora il flusso della
carica attraverso la soluzione. Anche l’acidità aumenta la corrosione, infatti gli ioni
H3O+ partecipano attivamente alla reazione vera e propria di corrosione; la CO2 (che
produce ioni H3O+ e HCO3-) aumenta la corrosione; l’inquinamento da ossidi di zolfo,
che formano acido solforico disciolto nelle piogge acide, favorisce la corrosione. Un
metodo per proteggere i metalli dalla corrosione è quello di verniciarli, tuttavia la
vernice può deteriorarsi o graffiarsi. Una protezione molto più efficace è quella della
passivazione, mediante la quale si forma sulla superficie del metallo un sottile strato di
ossido che previene ulteriori reazioni elettrochimiche. Alcuni metalli si passivano
spontaneamente per esposizione all’aria, ad esempio l’alluminio forma uno strato di
Al2O3. Un altro metodo, infine, è quello di usare un anodo sacrificale, ovvero un altro
metallo che si ossida molto più facilmente di quello che deve essere protetto e quindi si
consuma per primo. Chiaramente, l’anodo sacrificale deve essere periodicamente
sostituito prima che si consumi completamente.
134
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CAPITOLO 7
7.1 Cenni di chimica organica
La chimica organica può essere definita come la chimica dei composti del carbonio.
L’atomo di carbonio possiede la capacità di stabilire legami covalenti con altri atomi di
carbonio formando catene o anelli di atomi di carbonio. Quasi tutti i composti di
importanza biologica sono costituiti da molecole contenenti molti atomi di carbonio.
Nei composti organici, il carbonio può presentare, come già visto al par. 2.9, diversi tipi
di ibridazione dei suoi orbitali formando legami singoli (ibridazione di tipo sp3), doppi
(ibridazione sp2) e tripli (ibridazione sp). Una caratteristica importante dei composti
organici è la presenza di isomeria strutturale ovvero molecole che hanno la stessa
formula chimica ma diversa struttura. Un tipo di isomeria già discussa al par. 2.9 (p.46)
è quella di tipo geometrico (stereoisomeria cis-trans). Un'altra isomeria molto
importante per i composti organici è quella ottica o chiralità. Un atomo di carbonio che
si lega tramite legami singoli con quattro atomi o gruppi diversi può esistere in due
forme che sono una l’immagine speculare dell’altra non interconvertibili una nell’altra
senza rottura dei legami e riarrangiamento molecolare. I due isomeri ottici vengono
chiamati anche enantiomeri e, se separati, essi ruotano il piano della luce polarizzata in
direzioni diverse: si dice che le molecole sono otticamente attive. Gli isomeri ottici
hanno le stesse proprietà fisiche ma diverso comportamento chimico nel caso si trovino
ad interagire con molecole otticamente attive. Le proteine sono un esempio molto
importante dell’isomeria ottica; anche in campo farmacologico questo concetto è di
fondamentale importanza per la progettazione di sostanze che spesso hanno attività
curativa solo in una forma isomerica mentre nell’altra possono risultare addirittura
dannosi.
I composti organici possono essere classificati come segue:
a) alifatici, composti nei quali gli atomi di carbonio sono legati tra di loro per formare:
una catena lineare; una catena ramificata; una catena chiusa.
b) aromatici, composti con gruppi caratteristici disposti su uno o più anelli di benzene.
c) eterociclici, composti che hanno nella loro catena ciclica anche atomi diversi dal
carbonio.
135
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7.2 Idrocarburi alifatici
I composti organici formati soltanto da carbonio ed idrogeno sono detti idrocarburi.
Gli idrocarburi che presentano soltanto legami semplici sono detti alcani. Il metano,
CH4, è il primo membro della serie degli alcani seguito da etano, C2H6, propano, C3H8,
butano, C4H10, ecc (fig. 76).
Fig. 76 Primi tre membri della serie degli alcani, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica
generale, Zanichelli, 1991)
Il quarto membro della serie degli alcani, il butano, può esistere in due forme: il normal
butano e l’isobutano che presentano la stessa formula chimica ma struttura diversa e
quindi proprietà chimiche e fisiche diverse (fig. 77). Composti con la stessa formula
molecolare ma diverse strutture sono detti isomeri strutturali.
Fig. 77 Isomeri strutturali del butano, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale,
Zanichelli, 1991)
136
Corso di Chimica analitica
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Negli alcani ciascuno dei quattro legami del carbonio è impegnato con un altro atomo:
la capacità di ciascun carbonio è satura, perciò gli alcani vengono detti idrocarburi
saturi. I legami semplici carbonio-carbonio negli alcani sono legami σ. Il carbonio,
negli alcani, ha un’ibridazione di tipo sp3 (geometria tetraedrica). I membri successivi
della serie vengono indicati con un prefisso che indica il numero di atomi di carbonio
(pent-, es-, ept-, ott-, ecc.) con la desinenza –ano che indica che si tratta di un alcano. I
primi quattro alcani sono gas a temperatura ambiente mentre alla stessa temperatura gli
alcani dal n-pentano al n-decano sono liquidi. Gli alcani più pesanti sono solidi cerosi. Il
punto di ebollizione degli alcani aumenta in funzione del peso molecolare, in accordo
con il fatto che le forze di van der Waals tra le molecole aumentano proporzionalmente
alle dimensioni delle molecole stesse. Il numero degli isomeri strutturali aumenta in
funzione del numero di atomi di carbonio presenti nell’alcano. Esistono tre isomeri del
pentano (fig. 78).
Fig. 78 Isomeri strutturali del pentano, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale,
Zanichelli, 1991)
La fonte principale di composti organici sulla Terra è costituita da una miscela naturale
detta petrolio. Altre fonti importanti sono il carbone minerale, il gas naturale, e la
fermentazione di sostanze naturali. Il petrolio è una miscela complessa di idrocarburi
contenente composti organosolforati e organoazotati. Il trattamento iniziale del
137
Corso di Chimica analitica
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petrolio nelle raffinerie consiste nella distillazione frazionata un processo che separa il
petrolio in frazioni con intervalli diversi di punti di ebollizione.
Etere di petrolio
20°-60° C
Nafta
60° - 100° C
Benzina
40° - 205° C
Cherosene
175° - 325° C
Gasolio
> 275 °C e oli combustibili.
Il residuo della distillazione è detto asfalto.
Gli alcani e gli alcani sostituiti possono essere denominati sistematicamente secondo le
regole IUPAC (International Union of Pure and Applied Chemistry). Si consideri
come esempio il composto:
Esempio di applicazione della nomenclatura IUPAC, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica
generale, Zanichelli, 1991)
1 – Per gli alcani a catena lineare si usa il nome con la desinenza –ano senza il prefisso
n.
2 – Per ottenere il nome di un alcano ramificato o sostituito occorre anzitutto
riconoscere all’interno della molecola la catena lineare più lunga di atomi di carbonio.
3 – Gli atomi di carbonio della catena principale vengono numerati in successione,
cominciando dall’estremità per la quale il primo atomo di carbonio sostituito ottiene la
numerazione più bassa.
4 – La denominazione dei gruppi legati alla catena principale è quella riportata nella
tabella mostrata di seguito. I gruppi che derivano dagli alcani sono detti gruppi
alchilici. Quindi il composto in esame si chiamerà: 2-cloro-3-metilpentano.
5 – Se alla catena principale sono legati due o più gruppi differenti essi vengono citati in
ordine alfabetico. Ad esempio se nel composto sopra considerato il cloro stesse in
posizione 3 e il gruppo metile in posizione 2, l’alcano si chiamerebbe: 3-cloro-2metilpentano.
138
Corso di Chimica analitica
GRUPPO
NOME
-CH3
Metile
-CH2CH3
Etile
-CH2CH2CH3
Propile
CH3CH2CH3
Isopropile
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|
-CH=CH2
Vinile
-C5H6
fenile
-F
Fluoro
-Cl
Cloro
-Br
Bromo
-I
Iodio
-NH2
Amino
-NO2
Nitro
6 – Se alla catena principale sono legati due o più gruppi identici si usano i prefissi
numerali di-, tri-, tetra-. Ciascun gruppo deve essere denominato e numerato, anche se
due gruppi identici sono legati allo stesso atomo di carbonio.
I cicloalcani sono idrocarburi con una molecola ciclica con formula generale CnH2n. In
genere si preferisce indicare i cicloalcani con figure geometriche semplici (triangolo per
il ciclopropano, quadrato per il ciclobutano, pentagono per il ciclopentano, ecc).
Esempi di derivati dei cicloalcani, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di
Chimica Moderna, Le Monnier, 1991)
139
Corso di Chimica analitica
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La molecola del cicloesano ha una disposizione non planare degli atomi di carbonio con
formazione di due strutture. Nella struttura a sedia del cicloesano si individuano due tipi
di legami carbonio-idrogeno: assiale ed equatoriale.
Strutture del cicloesano, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica
Moderna, Le Monnier, 1991)
Una delle reazioni più importanti degli alcani è quella di combustione che avviene in
presenza di ossigeno portando alla formazione di anidride carbonica e acqua. Queste
reazioni sono fortemente esotermiche e costituiscono il presupposto dello sfruttamento
degli idrocarburi come combustibili.
C3H8(g) + 5O2(g) → 3CO2(g) + 4H2O(l)
ΔH = -2040 kJ
Altre reazioni tipiche degli alcani sono quelle di sostituzione: se una miscela di un
alcano con cloro gassoso viene sottoposta all’azione di radiazioni UV avviene una
reazione in cui uno o più atomi di idrogeno dell’alcano vengono sostituiti da atomi di
cloro. Ad esempio per il metano si ha:
UV
CH4(g) + Cl2(g)
→ CH3Cl(g) + HCl(g)
La funzione della radiazioni UV è quella di scindere i legami nella molecola di cloro e
di produrre radicali liberi altamente reattivi che quindi reagiscono subito con il metano.
Variando le concentrazioni relative di metano e cloro è possibile ottenere diversi
prodotti: clorometano, diclorometano, triclorometano, tetracloruro di carbonio.
140
Corso di Chimica analitica
Dott.ssa Claudia Pelosi
Un alcano in cui alcuni atomi di cloro sono stati sostituiti da atomi di alogeno è detto
alogenuro alchilico o alogenoalcano.
Gli idrocarburi che contengono uno o più doppi legami sono detti alcheni. Questi
idrocarburi sono detti insaturi in quanto non tutti gli atomi di carbonio sono legati a
quattro altri atomi. Il termine più semplice della serie degli alcheni è l’etilene, un
composto molto importante a livello industriale in quanto il 40% circa di tutte le
sostanze organiche prodotte industrialmente deriva da esso. Gli atomi di carbonio
nell’etilene hanno un’ibridazione di tipo sp2; il doppio legame è formato da un legame σ
e un legame π.
etilene
La nomenclatura IUPAC degli alcheni considera come riferimento la catena più lunga di
atomi di carbonio contenente il doppio legame. Il nome del composto si ottiene
sostituendo la desinenza –ano nel nome dell’alcano con la desinenza –ene per indicare
l’alchene specificando anche con un numero l’atomo di carbonio che precede il doppio
legame. Una caratteristica importante dei doppi legami carbonio-carbonio è la
geometria planare imposta alla porzione circostante della molecola.
Nomenclatura IUPAC della molecole del 2-butene, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica
generale, Zanichelli, 1991)
Gli alcheni sono più reattivi degli alcani in quanto il doppio legame carbonio-carbonio
presente nella molecola costituisce un centro reattivo. Gli alcheni, oltre alle reazioni di
141
Corso di Chimica analitica
Dott.ssa Claudia Pelosi
combustione danno origine a reazioni di addizione. La reazione di idrogenazione, ad
esempio, è una reazione di addizione di idrogeno con formazione di un alcano:
Reazione di idrogenazione del propene; come catalizzatori si usano in genere nichel e platino in polvere,
(da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
Le reazioni di idrogenazione si utilizzano, ad esempio, per rendere solidi gli oli vegetali
che normalmente a temperatura ambiente sono liquidi. Altre reazioni di addizione sono
quelle degli alogeni (clorurazione, bromurazione, ecc., degli alcheni) e di acqua in
ambiente acido per formare alogeno derivati (solventi e intermedi di reazione) e alcoli
(si veda più avanti al par. 7.5). I doppi legami possono essere presenti anche nei
composti ciclici che vengono detti cicloalcheni. Un tipico cicloalchene è il cicloesene.
I dieni sono idrocarburi con più di un doppio legame. A seconda della posizione dei due
doppi legami si possono avere:
♦ dieni con legami cumulati chiamati alleni.
♦ dieni con legami coniugati.
♦ dieni con legami isolati.
Per assegnare il nome a questi composti il suffisso -ene deve essere preceduto da un
prefisso indicante il numero di doppi legami nella molecola e da numeri indicanti la
posizione dei doppi legami. Ad esempio l’1,3-butadiene presenta la seguente formula:
CH2=CH-CH=CH2
1,3 butadiene
L’1,3 butadiene viene ottenuto in grandissima quantità dal petrolio e è il prodotto di
partenza per la produzione delle gomme sintetiche.
Gli idrocarburi che contengono un triplo legame vengono detti alchini. L’alchino più
semplice è l’acetilene, C2H2. L’acetilene è un gas incolore con odore penetrante. La
molecola dell’acetilene è lineare con ibridazione sp degli atomi di carbonio.
142
Corso di Chimica analitica
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H-C≡C-H
etino o acetilene
L’acetilene può essere prodotto mediante reazione tra carburo di calcio ed acqua:
CaC2(s) + 2H2O(l) → Ca(OH)2(s) + C2H2(g)
Questa reazione viene sfruttata nelle lampade usate dagli speleologi nelle grotte. Una
volta che l’acetilene si è formato questo brucia in presenza di ossigeno producendo la
fiamma. La nomenclatura IUPAC degli alchini si basa sulla catena più lunga di atomi di
carbonio consecutivi contenenti il triplo legame. Il nome del composto viene ottenuto
sostituendo con –ino la desinenza –ano nel nome dell’alcano corrispondente ed
indicando con un numero l’atomo di carbonio che precede il triplo legame.
Nomenclatura IUPAC di un alchino (3-metil-1-pentino), (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock,
Chimica generale, Zanichelli, 1991)
7.3 Idrocarburi aromatici
Il benzene è il termine più semplice di quella classe di idrocarburi che sono detti
aromatici. Il benzene è un liquido incolore con odore caratteristico, velenoso e
infiammabile (punto di ebollizione 80,1 °C). Nel benzene i sei atomi di carbonio sono
ibridati sp2 e sono disposti ai vertici di un esagono regolare (vedi par. 2.9).
La molecola risulta planare con angoli di legame di 120°; gli elettroni p del carbonio
che non partecipano alla formazione degli ibridi sp2 e quindi dei legami σ, si
sovrappongono per formare i legami π delocalizzati su tutta la molecola. La
delocalizzazione degli elettroni π conferisce una maggiore stabilità alla molecola:
infatti, le reazioni che subisce il benzene sono quasi esclusivamente reazioni di
sostituzione degli atomi di idrogeno con altri atomi o gruppi. Moltissimi sono i derivati
dal benzene e il loro studio costituisce un’intera branca della chimica organica. Alcuni
composti aromatici sono costituiti da diversi anelli fusi insieme con proprietà simili a
quelle del benzene.
143
Corso di Chimica analitica
Dott.ssa Claudia Pelosi
Esempi di composti aromatici policiclici, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di
Chimica Moderna, Le Monnier, 1991)
Il radicale che si ottiene rimuovendo un idrogeno dall’anello del benzene è detto
radicale fenile. Il benzene è un prodotto del petrolio e viene impiegato per produrre
materie plastiche, medicinali, fibre, vernici, lacche e sostanze coloranti, linoleum e
molti altri prodotti. Nei composti aromatici monosostituiti il sostituente può essere
posizionato su uno qualsiasi degli atomi di carbonio dell’anello benzenico essendo
questi tutti equivalenti; nel caso invece dei composti con più sostituti le posizioni del
benzene, rispetto ad un gruppo principale, vengono indicate come:
♦ orto, posizione più vicina al sostituente di riferimento;
♦ para, posizione diametralmente opposta al sostituente di riferimento;
♦ meta, posizione intermedia tra quella orto e quella para rispetto al sostituente di
riferimento.
Sostituzione nel benzene, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
Alcuni importanti derivati del benzene sono mostrati di seguito:
144
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Alcuni importanti derivati del benzene, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale,
Zanichelli, 1991)
È possibile indicare le posizioni sul benzene con dei numeri. I numeri di posizione dei
sostituenti devono essere i più piccoli possibili.
Gli idrocarburi aromatici derivati dal benzene e che possiedono una catena laterale
alifatica sono chiamati areni. Il radicale -R può derivare dagli alcani, dagli alcheni e
dagli alchini. Il nome di questi composti viene generalmente assegnato aggiungendo il
termine benzene al nome del radicale presente. Alcuni areni hanno nomi correnti più
usati dei nomi derivati dalla nomenclatura IUPAC. Ad esempio il metilbenzene,
utilizzato come solvente, viene comunemente chiamato toluene. I benzeni con due
gruppi –CH3 (1,2 dimetilbenzene, 1,3 dimetilbenzene e 1,4 dimetilbenzene) vengono
chiamati comunemente xileni (orto, meta e para xilene, a seconda della posizione
relativa dei due gruppi metilici) e anche questi derivati sono utilizzati come solventi.
7.4 Gruppi funzionali in chimica organica
Come già detto gli idrocarburi sono composti organici costituiti da carbonio e idrogeno.
Tuttavia in moltissimi composti organici uno o più atomi di idrogeno sono sostituiti da
elementi diversi come ossigeno, azoto, alogeni. I gruppi funzionali nelle molecole
organiche consistono di atomi diversi dal carbonio e dalla parte di molecola adiacente a
questi atomi. I gruppi funzionali determinano le proprietà caratteristiche delle molecole
organiche e la loro reattività.
145
Corso di Chimica analitica
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I composti organici della classe degli alcoli sono caratterizzati dalla presenza del gruppo
–OH legato ad una catena idrocarburica. Il nome degli alcoli, secondo la IUPAC, si
ottiene sostituendo la desinenza –olo alla desinenza –o del nome dell’alcano
corrispondente alla catena di atomi di carbonio consecutivi più lunga contenente il
gruppo –OH. I nomi comuni degli alcoli si ottengono invece dalla parola alcol seguita
dal nome del gruppo alchilico al quale è legato il gruppo –OH. Il gruppo –OH può
essere legato a un carbonio primario (alcool primario), a un carbonio secondario (alcool
secondario), a un carbonio terziario (alcool terziario).
Esempi di alcoli, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le
Monnier, 1991)
In una molecola può essere presente più di un gruppo ossidrilico. Il nome viene
assegnato indicando i numeri che individuano la posizione dei gruppi ossidrili nella
molecola e aggiungendo il suffisso diolo o triolo (a seconda che siano presenti due o tre
gruppi –OH rispettivamente) al nome dell’alcano:
CH2 – CH2
|
|
OH OH
1,2 etandiolo
meglio noto come glicole etilenico
CH2 – CH – CH2
|
|
|
OH OH OH
1,2,3 propantriolo
meglio noto come glicerina o glicerolo
L’etanolo e il metanolo sono senza dubbio gli alcoli più importanti, utilizzati soprattutto
come solventi ma anche come intermedi di reazione. La produzione di alcol etilico
viene condotta per fermentazione degli zuccheri, per l’utilizzo nelle bevande alcoliche,
ma soprattutto per idratazione diretta dell’etilene:
CH2 = CH2 + H2O → CH3-CH2OH
Questa reazione viene condotta, a livello industriale, a 300-400 °C e ad una pressione di
60-70 atm, utilizzando come catalizzatore acido fosforico.
146
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Quando i gruppi ossidrilici sono legati all’anello benzenico i composti risultanti
formano una classe a parte denominata classe dei fenoli, dal nome del composto più
semplice, il fenolo (C6H5OH). Il fenolo, a differenza degli alcoli, presenta la
caratteristica di essere debolmente acido. La ragione di questa acidità sta nel fatto che lo
ione fenato, ovvero la base coniugata del fenolo, presenta una carica negativa
delocalizzata sull’anello benzenico e quindi la sua formazione è favorita. Il fenolo trova
impiego soprattutto nella produzione di materie plastiche, farmaci e fibre sintetiche. Il
fenolo viene prodotto dal cumene (isopropilbenzene, a sua volta prodotto dalla reazione
tra benzene e propilene in ambiente acido) per ossidazione industriale con O2. Questa
reazione è importante perché consente di ottenere un altro composto organico molto
utilizzato, l’acetone:
Sintesi del fenolo, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le
Monnier, 1991)
Gli eteri sono composti caratterizzati da un ossigeno a cui sono legati due radicali. Per
denominarli si assegna il nome ai radicali legati all’ossigeno e vi si aggiunge il termine
etere. Gli eteri però si possono considerare anche come alcani sostituiti da un gruppo
alcossi (RO-). Il più importante composto di questa classe è il dietil etere, spesso
chiamato soltanto etere: C2H5-O-C2H5. Il dietil etere è un importante solvente per le
reazioni organiche e in passato è stato utilizzato anche come anestetico. Il dietil etere
viene preparato per reazione di condensazione tra due molecole di etanolo, a 140°C, in
presenza di acido solforico concentrato che agisce da disidratante.
2CH3CH2OH + H2SO4 → CH3CH2OCH2CH3 + H2O
Un altro etere molto importante è il metil t-butil etere (MTBE) che sta sempre più
sostituendo il piombo tetraetile nelle benzien quale additivo per aumentare il numero di
ottano.
147
Corso di Chimica analitica
Dott.ssa Claudia Pelosi
CH3
|
CH3-O-C-CH3
|
CH3
Metil t-butil etere
Gli eteri possono essere anche ciclici, come l’ossido di etilene che viene prodotto a
partire dall’etilene per azione di ossigeno in presenza di argento come catalizzatore.
Oltre ad essere trasformato in glicole etilenico, l’ossido di etilene trova impiego nella
produzione di fibre, pellicole e detersivi. L’ossido di propilene viene impiegato per la
produzione di materie plastiche, cellophane e fluidi idraulici.
Ossido di etilene e di propilene, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica
Moderna, Le Monnier, 1991)
Questi eteri con anelli a tre elementi vengono detti anche epossidi.
Le aldeidi e i chetoni sono composti caratterizzati dal gruppo funzionale C=O detto
carbonile; aldeidi e chetoni sono infatti detti composti carbonilici. Mentre nell’aldeide
al carbonile è legato un idrogeno, nel chetone il carbonio carbonilico è legato a due
radicali. Le formule generali sono:
Formule generali di aldeidi e chetoni, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di
Chimica Moderna, Le Monnier, 1991)
Il carbonio del gruppo carbonilico è ibridato sp2 e le molecole, pertanto, giacciono in un
piano. Il nome delle aldeidi viene assegnato cambiando il suffisso –o dell’alcano in –
ale. Il nome dei chetoni viene assegnato cambiando il suffisso –o dell’alcano in –one.
148
Corso di Chimica analitica
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La numerazione viene assegnata: nel caso delle aldeidi partendo dall’atomo di carbonio
aldeidico; nel caso dei chetoni usando il numero più basso possibile per evidenziare la
posizione del carbonile. Il carbonile è un gruppo polare perché il legame carbonioossigeno risente della maggiore elettronegatività dell’ossigeno rispetto al carbonio.
Alcuni esempi di aldeidi e chetoni, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di
Chimica Moderna, Le Monnier, 1991)
La formaldeide è un gas con un odore penetrante e caratteristico; è uno degli agenti
irritanti che si formano nello smog fotochimico. La maggior parte della formaldeide
prodotta industrialmente viene impiegata nella produzione di materie plastiche. La
formaldeide si scioglie rapidamente in acqua e una soluzione al 40% chiamata
formalina, viene impiegata per conservare reperti biologici poichè, legandosi con
l’azoto dei batteri, ne impedisce l’attacco sui tessuti da conservare. L’acetaldeide è un
liquido incolore ed infiammabile con spiccato odore di frutta; viene usata nella
produzione di profumi ed aromatizzanti, materie plastiche e gomme sintetiche, sostanze
coloranti e un gran numero di altri prodotti chimici. Le aldeidi si ottengono per
ossidazione degli alcoli primari. I chetoni si possono ottenere per ossidazione degli
alcoli secondari.
Gli acidi carbossilici alifatici e aromatici sono caratterizzati dal gruppo funzionale
carbossilico –COOH. Se questo gruppo è legato ad un radicale alifatico R, il composto
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Corso di Chimica analitica
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sarà un acido carbossilico alifatico con formula generale R-COOH. Se invece il gruppo
carbossilico è direttamente legato sul benzene si ha un acido carbossilico aromatico.
Il nome degli acidi carbossilici alifatici viene assegnato trasformando il suffisso –o
degli alcani in –oico e premettendo la parola acido. Gli acidi carbossilici aromatici si
considerano derivati dall’acido benzoico.
Alcuni esempi di acidi carbossilici, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di
Chimica Moderna, Le Monnier, 1991)
Il primo acido della serie degli alifatici è l’acido formico, così chiamato perchè fu
isolato per la prima volta per estrazione dai corpi triturati delle formiche; è un liquido
fumante, incolore, molto solubile in acqua, che costituisce uno degli agenti irritanti
contenuti nel liquido liberato dal morso delle formiche; è il più forte degli acidi
carbossilici e la forza come acidi diminuisce all’aumentare della lunghezza della catena
idrocarburica. L’acido acetico è un liquido limpido incolore con un caratteristico odore
pungente. L’acido puro è chiamato acido acetico glaciale perché solidifica a 18 °C.
Viene ampiamente utilizzato nell’industria per la produzione di materie plastiche ed
acetati, di sostanze farmaceutiche, di coloranti e insetticidi, in fotografia e per la
produzione di molte altre sostanze organiche. Gli acidi carbossilici sono polari.
Formano legami idrogeno tra più molecole di acidi carbossilici e tra molecole di acidi
carbossilici e altre molecole polari come l’acqua. Man mano che si allunga la catena
degli acidi carbossilici alifatici diventa meno importante la funzione carbossilica
rispetto al resto della molecola e la solubilità in acqua diminuisce. Quando la catena
alifatica è piuttosto lunga (C>12), gli acidi carbossilici vengono detti acidi grassi.
Come si vedrà più avanti alcuni di questi acidi grassi sono componenti fondamentali
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Corso di Chimica analitica
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degli oli cosiddetti siccativi, che debbono le loro proprietà proprio alle caratteristiche di
questi acidi grassi.
C15H31COOH
acido palmitico
C17H35COOH
acido stearico
C17H33COOH
acido oleico
C17H31COOH
acido linoleico
L’acido acetico viene preparato industrialmente soprattutto attraverso il processo di
carbonilazione tra metanolo e ossido di carbonio (entrambi derivati da gas naturali), su
un catalizzatore costituito da rodio (Rh) e iodio (I2). La reazione globale è:
Rh, I2
CH3OH(g) + CO(g)
→
CH3COOH(g)
Se la molecola ha due gruppi carbossilici il nome viene assegnato considerando il
composto come un acido alcandioico.
Alcuni esempi di acidi -dioici, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica
Moderna, Le Monnier, 1991)
Gli acidi carbossilici reagiscono con gli alcoli e fenoli in presenza di un catalizzatore
acido per dare origine agli esteri, con formazione di acqua come prodotto secondario. Il
nome dell’estere viene dato specificando il gruppo alchilico dell’alcool seguito dal
nome dell’acido carbossilico con la desinenza –ato. Ad esempio, l’estere che si forma
per reazione tra l’alcol metilico e l’acido acetico si chiama acetato di metile. Uno degli
esteri più importanti nella produzione industriale è l’acetato di vinile ottenuto dalla
reazione dell’acido acetico con etilene e ossigeno, utilizzando come catalizzatore il
cloruro di rame (II) o di palladio:
151
Corso di Chimica analitica
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O
O
||
CuCl2
||
CH3C-OH + CH2=CH2 + ½ O2 → CH3C-O-O-CH=CH2 + H2O
acido acetico
etilene
acetato di vinile
Gli esteri sono liquidi incolori, volatili, spesso con un piacevole odore. Infatti, molti di
essi sono presenti nella frutta e nei fiori e ne danno il caratteristico odore. Ad esempio il
benzil acetato è il principale componente dell’olio di gelsomino e viene impiegato anche
nella preparazione di profumi.
Le anidridi sono composti caratterizzati da un ossigeno posto fra due gruppi acilici. Il
nome di questa classe di composti viene ottenuto da quello dell’acido carbossilico
premettendo il termine anidride.
Alcuni esempi di anidridi, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica
Moderna, Le Monnier, 1991)
Le anidridi sono composti liquidi; quelli volatili sono irritanti e aggrediscono la pelle.
Non sono molto solubili in acqua. Le anidridi si preparano a partire dagli acidi
carbossilici per eliminazione d’acqua da due molecole di acido, in presenza di acido
solforico e calore. L’anidride acetica può essere ottenuta per disidratazione dell’acido
acetico e viene impiegata nell’industria per la produzione di rayon e di materie
plastiche. Alcuni composti, pur avendo il gruppo carbossilico come gruppo prevalente,
presentano anche un altro gruppo funzionale:
♦ se il secondo gruppo è il gruppo ossidrilico, i composti si chiamano idrossiacidi
(ossiacidi) e possono essere α, β, o γ a seconda della posizione del gruppo –OH rispetto
al gruppo carbossilico:
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Alcuni esempi di ossiacidi, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica
Moderna, Le Monnier, 1991)
♦ se il secondo gruppo è il gruppo carbonilico, i composti si chiamano chetoacidi. Il
nome viene dato da quello dell’acido carbossilico indicando con le lettere dell’alfabeto
greco la posizione del carbonile:
Alcuni esempi di chetoacidi, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica
Moderna, Le Monnier, 1991)
L’acido piruvico è un liquido incolore dall’odore pungente. È presente come prodotto
intermedio in processi fermentativi e biologici.
Numerosi composti organici di importanza biologica contengono azoto. Le ammine
sono composti organici derivati dall’ammoniaca per sostituzione parziale o totale degli
idrogeni con radicali alchilici o arilici. Se un solo atomo di idrogeno dell’ammoniaca è
sostituito il composto che ne deriva sarà un’ammina primaria; se vengono sostituiti due
idrogeni, il composto sarà un’ammina secondaria; se vengono sostituiti tutti gli idrogeni
si avrà un’ammina terziaria. Le ammine sono
denominate come derivati
dell’ammoniaca, ossia viene dato il nome ai radicali legati all’azoto aggiungendo il
termine ammina. Le ammine possono formare legami idrogeno con l’acqua perciò la
loro solubilità in acqua è simile a quella degli alcoli di peso molecolare corrispondente;
la solubilità diminuisce rapidamente all’aumentare del numero degli atomi di carbonio.
Le ammine aromatiche si considerano derivate del composto fondamentale (anilina o
amminobenzene) in cui il nome del sostituente legato all’atomo di azoto viene fatto
precedere dalla lettera N. Le ammine sono delle basi poiché la coppia di elettroni
153
Corso di Chimica analitica
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sull’atomo di azoto può accettare uno ione idrogeno, come accade anche per
l’ammoniaca. Le ammine sono utilizzate come solventi e come intermedi di reazioni.
L’anilina, ad esempio, è il precursore di molti coloranti di sintesi detti appunto
all’”anilina”.
Esempi di ammine alifatiche e aromatiche, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso
di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991)
Un’ammina primaria o secondaria, come pure l’ammoniaca, può reagire con un acido
carbossilico con formazione di un’ammide. Le ammidi, quindi, possono essere
considerate derivati degli acidi carbossilici e sono caratterizzate dal gruppo funzionale
CONRR’, dove R e R’ possono essere atomi di idrogeno o gruppi alchilici (o arilici). I
legami di tipo ammidico sono molto importanti in campo biochimico perché
costituiscono i legami principali delle catene delle proteine. Il nome delle ammidi viene
assegnato cambiando il suffisso –oico dell’acido carbossilico in ammide.
Le ammidi hanno punti di ebollizione elevati dovuti alla presenza di forti legami
idrogeno. Le ammidi a basso peso molecolare sono solubili in acqua. Un’ammide di
grande importanza sia nell’industria che negli organismi viventi è l’urea, che
presenta la formula H2N-CO-NH2. Alcuni organismi, compreso l’uomo, eliminano i
loro cataboliti azotati sotto forma di urea. Commercialmente viene prodotta per sintesi
dall’ammoniaca e dal biossido di carbonio; trova impiego come fertilizzante, come
materia prima per la produzione di materie plastiche e come integratore per
l’alimentazione del bestiame.
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Corso di Chimica analitica
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Esempi di ammidi alifatiche e aromatiche, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso
di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991)
Altri composti azotati sono i nitrili, caratterizzati dal gruppo ciano (CN) legato a una
catena alifatica o aromatica. Il nome viene assegnato cambiando il suffisso –oico
dell’acido carbossilico in nitrile:
Esempi di nitrili alifatici e aromatici, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di
Chimica Moderna, Le Monnier, 1991)
I nitrili trovano impiego soprattutto nell’industria per la sintesi di materie plastiche,
fibre e gomma sintetica. Possono essere preparati a partire dalle ammidi eliminando
acqua per azione del pentossido di fosforo, oppure dagli alogenuri alchilici primari per
trattamento con KCN (cianuro di potassio).
I nitroderivati sono composti caratterizzati dal gruppo nitro (NO2) legato ad una catena
alifatica o aromatica. Il nome viene assegnato indicando la posizione del gruppo NO2
sulla catena alifatica con il numero più piccolo possibile:
Esempi di nitroderivati alifatici e aromatici, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso
di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991)
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7.5 Composti eterociclici
I composti eterociclici sono caratterizzati da una struttura ciclica in cui uno o più atomi
sono diversi dal carbonio. Gli atomi diversi sono: azoto, ossigeno, zolfo. Le molecole
dei composti eterociclici hanno carattere aromatico. Sono composti abbondanti in natura
e insieme a quelli di sintesi esplicano funzioni fisiologiche importanti negli organismi
animali e nelle piante. Sono presenti negli acidi nucleici (DNA e RNA), negli alcaloidi,
nelle antocianine, nei flavoni, nei pigmenti ematici, nella clorofilla, nelle vitamine, nelle
proteine (imidazolo e indolo presenti in alcuni amminoacidi).
Esempi di composti eterociclici, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica
Moderna, Le Monnier, 1991)
7.6 I polimeri
Tutti i polimeri sintetici e naturali sono formati da lunghe catene di atomi.
Negli ultimi 50 anni sono stati sintetizzati polimeri artificiali dalle proprietà
incredibilmente differenti. Grazie alle loro eccellenti proprietà chimiche e fisiche, le
fibre sintetiche e le gomme artificiali hanno sostituito per molti scopi gli stessi materiali
naturali. Molte sostanze di importanza biologica, come le proteine, l’amido, la
cellulosa, gli acidi nucleici, sono polimeri. Le proteine sono presenti in tutte le cellule e
la varietà dello loro funzioni è sbalorditiva. Alcune proteine sono i principali
156
Corso di Chimica analitica
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componenti strutturali della pelle, dei tendini, dei muscoli, dei capelli e del tessuto
connettivo, mentre altre controllano la regolazione e la trasmissione degli impulsi
nervosi o, come gli ormoni, gli enzimi ed i regolatori di geni, dirigono e controllano le
varie reazioni chimiche che avvengono nell’organismo. Tutte le reazioni biologiche
necessitano di uno o più catalizzatori proteici detti enzimi. La comprensione della
struttura e delle funzioni delle proteine è una delle grandi conquiste della scienza
moderna e costituisce tuttora un settore di ricerca molto attivo.
Gli acidi nucleici (DNA e RNA) sono le molecole in cui gli organismi viventi
immagazzinano le informazioni genetiche e attraverso le quali essi trasmettono queste
informazioni di generazione in generazione.
L’addizione ripetuta di piccole molecole (dette monomeri) che porta alla formazione di
una lunga catena continua viene detta polimerizzazione e la catena formata viene detta
polimero. Nella polimerizzazione per addizione i monomeri reagiscono tra di loro per
formare la catena polimerica senza perdita di atomi o molecole. Il processo di
polimerizzazione si svolge in tre stadi: inizio, propagazione e terminazione. L’inizio
prevede la formazione di radicali liberi (iniziatori) che si producono per azione di luce o
calore. I radicali liberi sono molto reattivi poiché possiedono un elettrone spaiato e
quindi reagiscono rapidamente con il monomero per ristabilire una configurazione
elettronica completa. A questo punto inizia la reazione di propagazione per reazione del
radicale formato dalla combinazione di un monomero con l’iniziatore con altri
monomeri. A ciascun passaggio, il gruppo terminale della catena rimane con un
elettrone spaiato e quindi è molto reattivo. La reazione di polimerizzazione viene
terminata quando le estremità radicaliche di due diverse catene s’incontrano oppure per
trasferimento di un atomo di idrogeno da un gruppo terminale ad un altro.
Il polimero di sintesi per addizione più semplice è il polietilene, formato dalla unione
consecutiva di più molecole di etilene, CH2=CH2. La polimerizzazione dell’etilene può
essere avviata da un radicale libero come il radicale ossidrile, HO·:
HO· + H2C=CH2 → HOCH2CH2·
HOCH2CH2· + H2C=CH2 → HOCH2CH2CH2CH2·
HOCH2CH2CH2CH2· + H2C=CH2 → HOCH2CH2CH2CH2 CH2CH2·
157
Corso di Chimica analitica
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La catena continua ad allungarsi fino a che non intervengono reazioni di terminazione,
come quelle in cui due radicali liberi si combinano. La reazione di polimerizzazione
dell’etilene può anche essere scritta schematicamente nel modo seguente:
nH2C=CH2 → -(CH2CH2)nIl polietilene è un polimero flessibile e resistente, usato nella fabbricazione di pellicole e
fogli per imballaggio, rivestimenti per cavi elettrici, vaschette portaghiaccio, contenitori
da frigo, bottiglie, sacchetti per alimenti e per confezioni sacchetti per la spesa
(shoppers) e per moltissimi altri articoli. Altri materiali polimerici molto conosciuti
sono fabbricati a partire da altri monomeri. Ad esempio il Teflon viene prodotto dal
tetrafluoroetilene:
(da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
Il Teflon è un polimero eccezionalmente inerte, resistente ed ininfiammabile, usato per
le superfici antiaderenti di pentole e padelle, come isolante elettrico, per la produzione
di tubi in plastica e di articoli in grado di sopportare temperature bassissime.
Un secondo importante meccanismo di polimerizzazione è quello di polimerizzazione
per condensazione nella quale per ogni addizione di una unità monomerica alla catena
polimerica viene eliminata una piccola molecola, come l’acqua.
La formazione del Nylon è un esempio di polimerizzazione per condensazione. Il Nylon
viene formato nella reazione di un composto diaminico, in particolare l’1,6
diamminoesano, e da un acido dicarbossilico, l’acido 1,6 esandioco (acido adipico), in
base al processo di seguito schematizzato che produce anche molecole d’acqua.
La reazione continua sia dall’estremità amminica che da quella carbossilica con
formazione del Nylon.
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Corso di Chimica analitica
Dott.ssa Claudia Pelosi
(da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
(da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
La polimerizzazione, sia per addizione che per condensazione, può essere ottenuta con
monomeri tutti uguali o con monomeri diversi. Nel secondo caso si parla di copolimero
a composizione irregolare. Nei casi visti fono ad ora i monomeri hanno uno o al
massimo due siti reattivi per la reazione di polimerizzazione e quindi si formano solo
polimeri a catena lineare. Quando però i monomeri hanno tre o più siti reattivi allora è
possibile anche la formazione di legami trasversali che portano alla formazione di
strutture reticolate. Un importante esempio di legami incrociati è quello delle resine
fenolo-formaldeide formate dalla reazione tra il fenolo e l’aldeide formica. La reazione
tra questi composti, in ambiente acido, porta alla formazione di catene lineari a partire
dal metilol fenolo (il primo composto che si forma).
Formazione di un polimero lineare fenolo-formaldeide chiamato novolac, (da David W. Oxtoby, H.P.
Gillis, Norman H. Nachtrieb, Chimica moderna, EdiSES, Napoli, 2001)
Se la reazione viene terminata con un eccesso di formaldeide si formeranno dei di- e
trimetilol-fenoli i quali hanno più di due siti reattivi e possono formare legami
trasversali sulla catena polimerica dando origine a polimeri reticolati. I moderni
polimeri fenolo-formaldeide sono ampiamente utilizzati come adesivi.
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I polimeri di sintesi trovano oggi applicazione in moltissimi campi dell’attività umana e
ne vengono prodotti sempre di nuovi con proprietà chimico-fisiche e meccaniche
diverse. Anche il settore del restauro e della conservazione non è rimasto estraneo ai
materiali polimerici di sintesi e ne fa un ampio uso, a partire, ad esempio, dal Paraloid
B72 (sul mercato statunitense noto come Acryloid B-72), un copolimero di metilacrilato
e etilmetacrilato (MA/EMA):
Monomeri del Paraloid B72, (da L. Borgioli, Polimeri di sintesi per la conservazione della pietra, Collana
i Talenti, Editore il Prato, Padova, 2002.
Le resine acriliche hanno pesi molecolari normalmente compresi tra 30.000 e 100.000.
Gli acrilati presentano maggiore flessibilità; i metacrilati presentano maggiore
resistenza a trazione. La scelta del Paraloid B-72, nel vasto panorama commerciale delle
resine acriliche, è dovuta alle sue caratteristiche intrinseche ovvero: buon potere
adesivo, solubilità in solventi organici compatibili con le strutture, reversibilità, buona
resistenza alla luce e alle radiazioni UV in particolare. Il Paraloid B-72 si applica
generalmente in soluzioni che possono variare dal 2-3% al 5%, tramite siringa, sotto
vuoto, goccia a goccia o a pennello ed è utilizzato come consolidante per moltissimi tipi
di materiali, dalla pietra, alle malte, al legno. Nel campo del restauro sono molto
utilizzate anche le resine epossidiche. Questa classe di polimeri, il cui brevetto risale al
1938, si distingue per le sue eccezionali caratteristiche meccaniche e di adesione che ne
hanno permesso l’uso in moltissimi settori industriali sia come adesivi che come
rivestimenti. Le resine epossidiche più utilizzate sono quelle che derivano dalla
polimerizzazione per condensazione di epicloridrina e difenilolpropano (bisfenolo A),
dette anche resine DGEBA (diglicidiletere di bisfenolo A).
160
Corso di Chimica analitica
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Formazione di una resina epossidica, (da L. Borgioli, Polimeri di sintesi per la conservazione della pietra,
Collana i Talenti, Editore il Prato, Padova, 2002.
Dalla condensazione di questi due monomeri di ottengono catene lineari, in forma di
liquidi viscosi, che possono ulteriormente reagire in presenza di agenti di reticolazione,
per dare una struttura tridimensionale, un solido insolubile e resistente ad acidi e basi.
Nel settore del restauro l’utilizzo principale delle resine epossidiche è quello per il
consolidamento strutturale. Inoltre, vengono impiegati anche come adesivi. Infine, la
miscelazione delle resine epossidiche con inerti selezionati, viene utilizzata per la
ricostruzione di pezzi mancanti e stuccature. Esistono moltissimi altri polimeri di sintesi
utilizzati nel settore del restauro e della conservazione, ma va oltre gli scopi di questa
dispensa trattarli più ampiamente e si rimanda a testi dedicati a questo argomento per un
eventuale approfondimento.
7.7 I polimeri naturali: le proteine
Le proteine sono polimeri naturali le cui unità monomeriche sono formate da
aminoacidi. Gli amminoacidi differiscono l’uno dall’altro soltanto nel gruppo laterale G
legato all’atomo di carbonio centrale. Nelle proteine si trovano comunemente 20 diversi
aminoacidi. Tranne la glicina, che è l’aminoacido più semplice, tutti gli aminoacidi
hanno quattro gruppi diversi legati all’atomo di carbonio centrale.
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Formula generica di un amminoacido e due esempi di amminoacidi, (da Donald A. McQuarrie, Peter A.
Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
I legami tratteggiati indicano che l’idrogeno e il gruppo laterale G si trovano sotto al
piano della pagina, mentre i legami a cuneo in grassetto indicano che il gruppo
amminico e carbossilico si trovano sotto il piano della pagina. Gli aminoacidi mostrano
il fenomeno dell’isomeria ottica e quindi le loro molecole si presentano come
enantiomeri ovvero isomeri non sovrapponibili di cui uno è l’immagine speculare
dell’altro. I due isomeri ottici di un aminoacido vengono indicati scrivendo D e L
davanti al nome dell’aminoacido:
Enantiomeri dell’alanina, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
D sta per destro-, L sta per levo- poiché gli isomeri ottici hanno la proprietà di ruotare il
piano della luce polarizzata in senso orario (destrogiro) o in senso antiorario (levogiro)
rispettivamente. Gli isomeri ottici hanno le stesse proprietà chimiche ma, con
pochissime eccezioni, nei sistemi biologici sono presenti soltanto gli isomeri L degli
aminoacidi. Le reazioni chimiche sono pertanto eccezionalmente stereospecifiche cioè
dipendono in modo straordinario dalla forma dei reagenti. Sembra che la vita sulla terra
si sia originata da aminoacidi L e ha continuato ad usare solo isomeri L. Questa
caratteristica delle proteine viene sfruttata in certi casi per la datazione di un reperto di
tipo biologico con un metodo che viene detto racemizzazione degli amminoacidi.
Come già detto, infatti, un organismo mentre è in vita ha solo amminoacidi e quindi
proteine con enantiomeri di tipo L. Quando però l’organismo cessa di vivere e quindi
non vengono più prodotti amminoacidi, quelli presenti iniziano a trasformarsi dalla
162
Corso di Chimica analitica
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forma L alla forma D fino a che verrà raggiunta una uguale concentrazione dei due
enantiomeri: in questa situazione si forma un racemo. Riuscendo a misurare la
concentrazione dei due enantiomeri e conoscendo il tempo di racemizzazione di un
determinato amminoacido, sarà possibile risalire all’età del reperto, dal momento
almeno che è cessata la funzione biologica dell’amminoacido.
Le proteine vengono formate mediante reazioni di condensazione tra amminoacidi con
un processo molto simile a quello visto per la formazione del nylon. Il gruppo
carbossilico di un aminoacido reagisce con il gruppo amminico di un altro aminoacido.
Il legame che si forma viene chiamato legame peptidico.
Formazione di un dipeptide, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli,
1991)
Ulteriori reazioni di condensazione di un dipeptide con altre molecole di aminoacidi
formano un polipeptide. Le proteine sono polipeptidi presenti in natura. Ciascuna
proteina ha un numero specifico di unità monomeriche di aminoacidi disposti lungo lo
scheletro polipeptidico in una sequenza ben precisa. L’ordine degli aminoacidi in un
polipeptide viene detta struttura primaria del polipeptide. La struttura primaria di una
proteina la caratterizza in modo univoco.
Formazione di un polipeptide, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli,
1991)
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Le molecole proteiche non sono strutture lineari ma hanno delle forme spaziali. Negli
anni ’50 due chimici americani, Linus Pauling e R.B. Corey, attraverso studi di
diffrazione dei raggi X dimostrarono che molte delle proteine sono composte da
segmenti in cui la catena polipeptidica è avvolta a spirale che essi chiamarono elica α.
La forma a spirale deriva dallo stabilirsi di legami idrogeno tra gruppi peptidici della
catena. Questa forma ad elica presente in segmenti diversi di una catena proteica viene
detta struttura secondaria (fig. 79). I legami idrogeno possono essere rotti esponendo
la molecola a una opportuna fonte energetica; questo spiega perché le proteine perdano
facilmente l’attività biologica per riscaldamento (denaturazione).
Fig. 79 – Struttura secondaria ad α-elica di una proteina (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D.
Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991).
La denaturazione, che può essere provocata anche dalla luce, da agenti biologici oltre
che dal calore, è spesso associata con una diminuzione di solubilità e spesso conduce ad
una coagulazione della proteina. La perdita di solubilità durante l’invecchiamento
garantisce la tenacia di un film pittorico ottenuto con un legante proteico.
E’ stato dimostrato che le proteine che contengono zolfo (uovo e caseina) sono più
sensibili alla denaturazione. Le colle animali sono molto stabili. L’umidità è certamente
uno dei fattori principali della denaturazione delle proteine poiché provoca lo sviluppo
di muffe e batteri che attaccano facilmente il legame peptidico.
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La forma complessiva di una proteina in acqua deriva da un’interazione complessa tra i
gruppi laterali degli aminoacidi della catena proteica ed il solvente; questa interazione
provoca avvolgimenti e ripiegature della catena proteica per formare una struttura
tridimensionale che viene detta struttura terziaria. La struttura terziaria è
fondamentale perché ogni proteina possa svolgere la sua funzione biologica (fig. 80).
Fig. 80 Struttura terziaria della mioglobina, la proteina che immagazzina e trasporta l’ossigeno nei
muscoli, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale, Zanichelli, 1991)
La mioglobina ha 153 unità di aminoacidi. I punti neri indicano gli atomi di carbonio
legati da legami peptidici. Il sito di legame dell’O2 è evidenziato in rosso. I segmenti
cilindrici dritti sono tratti ad elica α che sono poi disposti secondo una particolare
struttura tridimensionale, che rappresenta appunto la struttura terziaria.
Infine, la struttura quaternaria di una proteina è costituita dall’unione di più catene
proteiche (fig. 81). Le proteine possono anche essere distinte in proteine fibrose, se la
loro forma si presenta complessivamente come molto allungata (esempio il collagene);
in proteine globulari, che si presentano con una forma grossolanamente sferica
(proteine dell’uovo).
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Fig. 81 – Confronto tra le varie strutture di una proteina: a) struttura secondaria ad α-elica; b) struttura
terziari con ripiegamento delle α-eliche; c) struttura quaternaria con associazione di pià catene proteiche
in fibre, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier,
1991).
Tra le proteine importanti nel campo del restauro e dei beni culturali si ricorda la
caseina, una proteina ottenuta dal latte per precipitazione con acidi (solforico,
cloridrico, lattico). La caseina è costituita da una miscela di proteine (α, β e γ caseine),
caratterizzate dalla presenza del fosforo (0,8 %). Il loro peso molecolare varia da 75.000
a 375.000. La caseina è praticamente insolubile in acqua al suo punto isoelettrico, pari a
pH = 4,67. Per poterla sciogliere in acqua il pH deve essere portato a circa 9-13
aggiungendo una base: in questo modo si formano i caseinati. Ciò è dovuto alla
reazione tra la base e i gruppi carbossilici acidi liberi che nella caseina sono prevalenti
rispetto ai gruppi amminici. Se vengono utilizzati ammoniaca o idrossido di sodio,
come basi, la soluzione che si ottiene resta stabile per parecchie ore, ma il prodotto, una
volta seccato, è molto sensibile all’umidità. Se, invece, si utilizza la calce spenta il
prodotto finale ha maggiore stabilità all’acqua, tuttavia deve essere utilizzato entro una
o due ore. L’aggiunta di aldeide formica o di cloruro di rame rende il film meno
sensibile all’acqua. La caseina viene spesso utilizzata come colloide protettivo nelle
emulsioni. Viene utilizzata anche come colla e per ritocchi a secco nelle pitture murali.
Dopo l’Ottocento la caseina è stata utilizzata per la preparazione delle tele e molto
spesso nella rintelatura dei dipinti. In generale le tempere a caseina sono caratterizzate
dalla rapidità di essiccamento. Lo scarso uso che si è fatto storicamente della caseina
7
Il punto isoelettrico di una proteina è il valore di pH al quale le cariche positive bilanciano esattamente
quelle negative della proteina e questa nel complesso risulta neutra.
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come medium è dovuto principalmente alla rapidità dei processi degenerativi che il film
subisce nel tempo soprattutto a carico delle proprietà meccaniche.
Il collagene è la principale proteina che costituisce la pelle, le ossa e i tendini dei
mammiferi ed è l’unica fonte per ottenere le sostanze note come gelatine e colle
animali. A seconda di come viene condotto il processo di idrolisi possono essere
ottenute gelatine con alto peso molecolare, ad esempio quelle usate in fotografia (peso
molecolare 150.000-50.000) o nell’alimentazione (peso molecolare 100.000-20.000),
oppure prodotti a più basso peso molecolare come le colle animali (40.000-10.000).
Quindi la distinzione tra gelatine e colle animali è basata unicamente sul peso
molecolare del polimero e dalla sua purezza. Gli amminoacidi principali delle gelatine e
delle colle animali sono: glicina, prolina e idrossiprolina. Le molecole della gelatina e
delle colle animali sono lunghe e flessibili. In soluzione hanno una conformazione
elicoidale alla quale si devono molte delle loro proprietà: l’abilità a passare facilmente e
in modo reversibile da una soluzione viscosa (sol) ad uno stato stabile (gel) per
semplice raffreddamento. Lo stato di gel si ottiene per effetto dell’attrazione di un
numero limitato di siti non ingombri nella molecola e che permettono alle catene
polimeriche di stare unite. La gelatina e le colle animali si rigonfiano in acqua fredda e
al di sopra dei 30 °C passano in soluzione. Per preparare una soluzione è necessario
lasciare la gelatina, o la colla animale, in acqua fredda per circa 15-30 minuti (se in
polvere), 2 ore se in pezzi. Successivamente viene riscaldata a bagnomaria ad una
temperatura di circa 60 °C facendo attenzione a non superare questo valore in quanto si
provocherebbe la denaturazione delle proteine. Una volta che la colla animale è stata
applicata su una superficie essa cambia il suo stato dalla forma sol alla forma gel per
raffreddamento passando attraverso una fase intermedia viscosa. Il processo di
essiccamento va avanti fino a che la gelatina o la colla animale ritorna all’originale stato
solido. La contrazione della colla durante l’asciugatura è proporzionale alla quantità
d’acqua utilizzata per la soluzione. In genere si utilizzano 70 g di colla per litro d’acqua.
Le qualità adesive della gelatina e delle colle animali sono dovute solo in parte
all’ancoraggio meccanico. Le interazioni chimico-fisiche sono molto importanti e
possono essere sfruttate anche per materiali porosi come ad esempio il legno.
Il potere adesivo è l’abilità di uno strato ad aderire ad un substrato. L’adesione è
l’abilità di uno strato a rimanere attaccato al suo substrato. In pittura, il medium lega i
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pigmenti insieme e li fa aderire al supporto. Nel caso di un legame tra due superfici,
l’adesivo crea un ponte tra i due supporti. Nell’adesione meccanica il film liquido può
penetrare nelle irregolarità della superficie di un substrato e restare ancorato dopo
l’essiccamento. All’inizio, il film deve essere abbastanza liquido per poter bagnare la
superficie. Il substrato, da parte sua, dovrebbe essere abbastanza poroso e il film non
dovrebbe contrarsi durante l’asciugatura. Le cause meccaniche non sono in grado di
spiegare da sole il fenomeno dell’adesione, ma occorre considerare anche l’adesione
chimico-fisica che pone pone in gioco un insieme complesso di differenti forze di
attrazione (Van der Waals, legami polari, legami ionici, legami covalenti, legami
idrogeno), che agiscono a differenti livelli a seconda del substrato e dell’adesivo. Le
stesse forze sono responsabili della bagnabilità di un supporto da parte di un film
liquido o della forza del legame dell’adesivo tra un film secco e il substrato stesso. Uno
strato con scarsa bagnabilità non aderirà bene. L’adesione richiede più energia di quella
necessaria per bagnare una superficie: più di 1-2 Kcal. I composti non polari hanno un
basso potere adesivo in quanto possono formare soltanto deboli legami di Van der
Waals. E’ evidente che l’adesione di un film ad un substrato polare aumenta con il
numero di gruppi polari presenti nel materiale che deve formare il film. La viscosità
delle soluzioni di gelatina o colla animale varia notevolmente con il pH ad una data
concentrazione. Questo fenomeno è legato alla repulsione tra ioni che può provocare il
“rotolamento” o meno delle molecole. Il minimo di viscosità si ottiene, infatti, al punto
isoelettrico, pH = 4,5-5.
7.8 Concetti generali di soluzioni, dispersioni, emulsioni
Una soluzione è una miscela omogenea di due o più sostanze all’interno della quale le
particelle (molecole o ioni) hanno un diametro dell’ordine di 0,001 μm (1μm = un
micron, ovvero un milionesimo di metro). In genere il componente principale si chiama
solvente, il componente o i componenti minori si chiamano soluti.
Una dispersione è una sospensione, in un fluido, di particelle relativamente fini di una
certa sostanza, che non possiede propensione a dissolversi o a combinarsi con il fluido.
Il fluido viene indicato come fase esterna o mezzo disperdente.
Quando le particelle sono sostanze colloidali, le dimensioni, in diametro, dei colloidi
varia da 0,0001 a 0,2 μm. Queste dispersioni colloidali hanno la proprietà di diffondere
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la luce visibile dando un effetto “lattiginoso” che è noto come effetto Tyndall. Questo
tipo di sospensioni si formano ad esempio mescolando proteine (bianco dell’uovo, rosso
d’uovo, caseina, gelatina, ecc.) o polisaccaridi (gomma tragacanth, amido, ecc.) in
acqua. Queste stesse sostanze possono così agire da colloidi protettivi per stabilizzare i
pigmenti. Nelle dispersioni non-colloidali il diametro delle particelle varia da 10 a 500
μm (ad esempio pigmenti macinati, polvere, ecc.).
Un’emulsione è una dispersione di due liquidi che sono insolubili uno nell’altro. Un
liquido forma la fase esterna o mezzo disperdente, l’altro è invece ridotto in forma di
minute goccioline che costituiscono la fase interna o fase dispersa. Le emulsioni
presentano lo stesso effetto Tyndall delle dispersioni. La fase esterna determina le
proprietà di un’emulsione: così in un’emulsione “olio in acqua” è l’acqua che determina
la viscosità e il carattere dell’emulsione. L’emulsione “olio in acqua” è un’emulsione
magra: ovvero può essere resa più densa con l’addizione di olio (ad esempio la
maionese) o resa più fluida aggiungendo acqua o un solvente acquoso (ad esempio
l’aceto). L’emulsione “acqua in olio” è un’emulsione grassa: ovvero può essere resa più
densa con l’aggiunta di acqua e resa più fluida con l’aggiunta di olio o di un solvente
oleoso. Queste emulsioni sono instabili. Ad esempio quando l’acqua viene
progressivamente aggiunta all’olio agitando, le goccioline d’acqua si avvicinano sempre
di più tra di loro fino a subire un processo di coalescenza al cosiddetto punto critico.
Questo punto critico viene raggiunto quando l’emulsione contiene il 74,04% d’acqua.
Le emulsioni possono essere stabilizzate con l’aggiunta di un tensioattivo o di colloidi
protettivi. Quando un pigmento viene mescolato con un legante, esso rimane in
sospensione omogenea. La sua massa, tuttavia, tende a portarlo verso il fondo del
recipiente o in superficie a seconda della sua densità. Alcuni leganti (proteine e
polisaccaridi) sono in grado di eliminare questo effetto. Queste molecole hanno
proprietà colloidali ovvero aumentano la viscosità del medium, cosicché diminuisce il
movimento delle particelle di pigmento ed interagisce con esse. E’ stato osservato che
quando viene fatta passare corrente elettrica attraverso una sospensione colloidale
alcune delle particelle si spostano verso il polo positivo mentre altre verso quello
negativo. Questo fenomeno è dovuto al fatto che ogni particella è come se fosse
circondata da uno strato di colloidi di protezione: questi colloidi assorbono in maniera
selettiva certi ioni presenti nel liquidi assumendo una carica elettrica.
169
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7.9 Gli enzimi
Gli enzimi sono particolari proteine dotate di attività catalitica. Grazie alla loro
presenza e alla specificità ed efficienza della loro azione, le reazioni biochimiche
possono avvenire nelle cellule con sufficiente velocità anche alla temperatura
fisiologica. Le cellule contengono migliaia di enzimi diversi. L’assenza o la carenza di
un enzima può condurre a seri disturbi fisiologici. Gli enzimi sono caratterizzati da
un’elevata specificità sia per il tipo di reazione catalizzata che per il tipo di molecola di
cui accelerano la trasformazione. Il meccanismo esatto della catalisi dei vari enzimi è
tuttora oggetto di ricerca, ma una descrizione semplice dell’attività enzimatica è
rappresentata dal modello (o teoria) serratura/chiave. In questa descrizione l’enzima
lega sulla sua superficie la molecola del substrato, la molecola che reagisce, in modo
tale che essa possa subire l’attacco chimico nelle migliori condizioni (ovvero
orientandola in modo che essa subisca l’attacco del reattivo nelle condizioni steriche più
favorevoli da un punto di vista energetico): il sito di legame (sito attivo) dell’enzima è
tale da poter legare un solo tipo di substrato o eventualmente tipi molto simili (fig. 82).
La nomenclatura internazionale assegna ad ogni enzima un nome che si riferisce al
tipo di reazione catalizzata o al substrato su cui agisce e che termina con il suffisso
–asi (lipasi, deidrogenasi, proteasi, ecc.)
Fig. 82 Meccanismo di azione di un enzima, (da Donald A. McQuarrie, Peter A. Rock, Chimica generale,
Zanichelli, 1991)
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Nel settore del restauro le caratteristiche degli enzimi vengono sfruttate per la pulitura
quando si richiede alta selettività nella rimozione di una sostanza senza intaccarne altre.
In questo campo l’applicazione degli enzimi è ancora in via sperimentale ma esistono
già molti formulati che vengono spesso utilizzati nella pulitura.
Gli enzimi proteolitici (ovvero enzimi che provocano l’idrolisi e quindi la scissione di
proteine) possono essere: di origine animale (Pepsina, Tripsina, Pancreatina e Proteasi
gastriche); di origine vegetale (Bromelaina, Papaina, Ficina, ricavati dai frutti di ananas,
papaya e fico); di origine microbica, isolati da varie specie di batteri soprattutto Bacillus
e funghi, in particolare Aspergillus.
Gli enzimi lipolitici (ovvero enzimi che idrolizzano esteri e grassi in generale) possono
essere: di origine animale (Lipasi pancreatiche); di origine vegetale (Lipasi ricavate dai
germi di frumento, avena e simili); di origine microbica isolati da varie specie di batteri,
soprattutto Bacillus, e funghi in articolare Aspergillus e Penicillum.
Le amilasi (enzimi che idrolizzano gli amidi) possono essere: di origine animale
(Ptialina e Amilasi pancreatiche); di origine vegetale (da tuberi); di origine microbica
(da Bacillus e Aspergillus).
7.10 I polimeri naturali: i polisaccaridi
I carboidrati (detti anche glucidi o glicidi o idrati di carbonio) sono molecole
costituite da carbonio, idrogeno e ossigeno. I carboidrati hanno una grandissima
importanza biologica come materiale di sostegno nelle piante (cellulosa) o come
materiale energetico per piante e animali (amido, glicogeno). Chimicamente le
molecole dei carboidrati sono caratterizzate da più gruppi ossidrili e da un gruppo
carbonilico (aldeidico o chetonico: nel primo caso sono indicati come aldosi, nel
secondo come chetosi). A seconda della complessità della molecola, i carboidrati
possono essere classificati come: monosaccaridi, disaccaridi e polisaccaridi. A loro
volta i monosaccaridi possono essere classificati in aldosi e chetosi. Il glucosio, di
formula bruta C6H12O6, è uno dei monosaccaridi più importanti (costituente della
cellulosa), cioè un composto organico naturale polifunzionale costituito da sei atomi di
carbonio, cinque gruppi ossidrilici e un gruppo aldeidico: è quindi un aldoso. Il
galattosio è il monosaccaride presente nel disaccaride lattosio, lo zucchero del latte. Il
171
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glucosio è il monosaccaride biologicamente più importante essendo una delle principali
fonti di energia per la cellula.
Formule di struttura del glucosio e del galattosio, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore,
Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991).
La fotosintesi clorofilliana dà luogo alla formazione di glucosio e ossigeno a partire
dall’anidride carbonica presente nell’aria e dall’energia fornita dalla luce solare. Il
glucosio è presente allo stato libero in alcuni frutti e nel miele, ma per la maggior parte
è presente nelle molecole come saccarosio e soprattutto come cellulosa e amido. Fra gli
aldopentosi (monosaccaridi a 5 atomi di carbonio con funzione aldeidica) hanno
particolare importanza il D-ribosio ed il D-2-desossiribosio che entrano nella
costituzione degli acidi nucleici (DNA e RNA).
Formule di struttura del ribosio e del desossiribosio, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D.
Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991).
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Fra i chetosi ha particolare importanza il fruttosio che, insieme al glucosio, si trova nel
disaccaride saccarosio, il comune zucchero di canna o di barbabietola.
Formula di struttura del fruttosio, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di
Chimica Moderna, Le Monnier, 1991).
L’unione di due monosaccaridi dà luogo a un disaccaride; quella di più
monosaccaridi dà luogo ai polisaccaridi. Il legame si forma tra un gruppo –OH di una
unità di monosaccaride e il gruppo –OH in posizione 1 della unità successiva, con
perdita di una molecola d’acqua. Le due unità sono così unite da un ponte di ossigeno;
questo tipo di legame viene detto glucosidico e viene distinto in α o in β a seconda che
l’ossidrile in posizione 1 appartenga a un α- o a un β- monosaccaride. Il saccarosio, ad
esempio, è un disaccaride ricavato dalla canna da zucchero e dalle barbabietole. È
costituito dall’unione di glucosio e fruttosio. Il lattosio è costituito dall’unione di
glucosio e galattosio ed è contenuto nel latte. Il maltosio è costituito da due molecole di
glucosio e si forma dal processo di fermentazione che porta alla produzione della birra e
durante la digestione dei polisaccaridi alimentari.
I polisaccaridi più importanti sono tutti costituiti da grosse molecole formate da
moltissime unità di D-glucosio; i principali sono la cellulosa, l’amilosio, l’amilopectina,
l’amido e il glicogeno. La cellulosa è il polisaccaride più abbondante nel regno vegetale;
costituisce circa il 50% del legno e si trova soprattutto nelle pareti delle cellule vegetali,
cui conferisce rigidità e resistenza. La cellulosa ha una grande importanza industriale:
legno, carta, cotone sono costituiti da cellulosa quasi pura; derivati della cellulosa sono
utilizzati per la fabbricazione di esplosivi (nitrocellulosa); di fibre tessili artificiali e di
materiali di largo impiego quali la celluloide e il cellophane.
173
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La molecola di glucosio lineare o aperta, in soluzione ciclizza per formazione di un
legame tra l’ossidrile alla posizione C-5 e il carbonio carbonilico, il C-1: per via della
conformazione assunta preferenzialmente dalla molecola, questi atomi si trovano vicini
nello spazio. Nella ciclizzazione, il carbonio carbonilico si trasfoma in carbonio
ossidrilico. La forma ciclica, detta emi-acetalica, è il β–glucosio.
Forma aperta e emi-acetalica del glucosio, (da G. Banik, P. Cremonesi, A. de La Chapelle, L.
Montalbano, Nuove metodologie nel restauro del materiale cartaceo, Collana i Talenti, Editore Il Prato,
Padova, 2003
Il gruppo –OH alla posizione C-1 può trovarsi al di sopra o al di sotto del piano
dell’anello: le due conformazioni sono dette rispettivamente α- e β-glucosio o meglio αe β-glucopiranosio (il termine pirano indica un anello a sei termini contenente
ossigeno). Il β-glucopiranosio è quello che costituisce la cellulosa; l’α-glucopiranosio si
trova ad esempio nell’amido.
α e β glucosio, (da G. Banik, P. Cremonesi, A. de La Chapelle, L. Montalbano, Nuove metodologie nel
restauro del materiale cartaceo, Collana i Talenti, Editore Il Prato, Padova, 2003
Due molecole di β-glucosio possono reagire tra di loro, secondo una reazione di
condensazione, eliminando una molecola d’acqua e legandosi con un legame di tipo
etereo, detto legame β-1,4-glucosidico, a formare il disaccaride cellobiosio. In maniera
del tutto analoga il cellobiosio può reagire con due molecole di β-glucosio, una alla
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posizione C-1 e una alla posizione C-4, formando, dopo un numero n di condensazioni,
il polisaccaride cellulosa.
Formazione e struttura della cellulosa, (da G. Banik, P. Cremonesi, A. de La Chapelle, L. Montalbano,
Nuove metodologie nel restauro del materiale cartaceo, Collana i Talenti, Editore Il Prato, Padova, 2003
Il numero n, detto grado di polimerizzazione (in inglese DP ovvero Degree of
Polymerization), nella cellulosa nativa è di almeno 10.000. La cellulosa ha una struttura
a catena lineare e può essere definita un omo-polimero (poiché contiene un solo tipo di
monomero), formato per policondensazione da unità monomeriche di β-glucosio, unite
tra loro con legame β-1,4-glucosidico. In realtà è più corretto considerare come
monomero la reale unità costitutiva del polimero ovvero il disaccaride cellobiosio.
L’amilosio è anch’esso di origine vegetale ed è presente nell’amido. È costituito da
unità di α-D-glucosio unite l’una all’altra da legami 1-4 α-glucosidici a formare lunghe
catene. La presenza di legami α-glucosidici rende l’amilosio digeribile e utilizzabile dal
nostro organismo. L’amilopectina è un altro costituente dell’amido. Come l’amilosio è
costituita da grosse molecole formate da centinaia di unità di α-D-glucosio; a differenza
dell’amilosio, però, non è una molecola lineare ma ramificata. La struttura ramificata
giustifica l’insolubilità in acqua di questo polisaccaride, al contrario dell’amilosio, che
invece è moderatamente solubile. L’amido è costituito da amilosio e amilopectina;
insieme alla cellulosa è il più importante polisaccaride vegetale; le piante lo accumulano
sotto forma di granuli in numerosi tessuti, soprattutto in quelli embrionali dove serve
come materiale energetico necessario per le prime fasi dello sviluppo della nuova
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pianta. Il glicogeno ha la struttura simile a quella dell’amilopectina, anche se più
ramificata, ma si trova solo nelle cellule animali e per questo viene chiamato amido
animale; si trova soprattutto nel fegato e nel tessuto muscolare in depositi che hanno la
funzione di riserva energetica.
7.11 I lipidi
I lipidi vengono distinti in oli e grassi: i primi sono solidi a temperatura ambiente e
sono prevalentemente di origine animale, i secondi sono liquidi a temperatura ambiente
e sono soprattutto di origine vegetale. I lipidi sono composti biologicamente importanti
perché costituenti delle membrane cellulari, di alcuni ormoni e di alcune vitamine. Le
principali classi di lipidi di rilevante importanza biologica sono i trigliceridi, i
fosfolipidi e gli steroidi. I trigliceridi sono esteri della glicerina con acidi grassi. Sono i
principali costituenti degli oli vegetali e dei grassi animali.
Formula di struttura di un trigliceride, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di
Chimica Moderna, Le Monnier, 1991).
Quando i gruppi R1, R2, R3 sono costituiti da acidi grassi insaturi i trigliceridi che si
formano sono detti oli siccativi. Gli acidi grassi che partecipano alla formazione degli
oli siccativi sono: l’acido oleico (un doppio legame); l’acido linoleico (due doppi
legami); l’acido linolenico (tre doppi legami).
Acido oleico: CH3-(CH2)7-CH=CH-(CH2)7-COOH
Acido linoleico: CH3-(CH2)4-CH=CH-CH2-CH=CH-(CH2)7-COOH
Acido linolenico: CH3-CH2-CH=CH-CH2-CH=CH-CH2-CH=CH-(CH2)7-COOH
Quando esposti all’aria, il doppio legame degli oli siccativi reagisce con l’ossigeno O2
provocando la polimerizzazione con reticolazione degli oli: si forma così un film sottile
e rigido che può inglobare, se usato come legante nella pittura ad olio, i pigmenti o
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servire da strato protettivo e decorativo nel caso delle vernici oleo-resinose. Gli oli
siccativi sono stati per molti secoli i medium più popolari e diffusi. Un olio viene detto
siccativo quando, una volta applicato in uno strato sottile, forma un film continuo
nell’arco di qualche giorno. Il potere siccativo è legato alla concentrazione di acidi
grassi poli-insaturi presenti nell’olio, poiché i loro doppi legami C=C rendono possibile
le reazioni di polimerizzazione e ossidazione che portano alla formazione del film. Un
olio per essere considerato siccativo deve possedere almeno il 65% di acidi grassi poliinsaturi. Inoltre, la presenza di acido linolenico è essenziale per un rapido essiccamento.
Gli oli contengono anche acidi grassi saturi che sono molto stabili nel tempo e non
variano la loro concentrazione con l’invecchiamento del film. La velocità
dell’essiccamento può essere accelerata con l’aggiunta di catalizzatori o con
accorgimenti come ad esempio la cottura dell'olio prima dell'uso che produce una
parziale polimerizzazione. Tra i catalizzatori più comuni ed utilizzati rientrano i sali di
piombo (biacca, minio, litargirio), di cobalto (ossido di cobalto), manganese (terre di
Siena e d’ombra). Tutti gli oli hanno tendenza ad ingiallire con l’invecchiamento. A
parità di altri parametri, l’olio di lino ingiallisce più rapidamente degli altri oli siccativi.
Il film di olio di lino secco, grazie alla propria struttura reticolata con molecole residue
di gliceridi allo stato liquido imbrigliate all’interno dei vuoti che ne flessibilizzano il
film, ha caratteristiche di resistenza, coesione, elasticità che giustificano pienamente
l’impiego così diffuso che ne è stato fatto storicamente nelle tecniche pittoriche. Gli oli
siccativi, come tutte le sostanze organiche, non sono esenti da processi di degrado che
man mano ne modificano le qualità originarie. La solidità del film viene lentamente a
diminuire con il trascorrere del tempo a causa di un insieme di reazioni che lo rendono
progressivamente più sensibile all’umidità. Processi ossidativi portano alla rottura
parziale delle maglie reticolari del polimero con formazione di terminali di minori
dimensioni che possono poi reagire con i pigmenti e formare composti organo-metallici.
Sotto un insieme di tensioni l’olio essicca formando un film strutturalmente non
omogeneo ma differenziato in tanti microscopici nuclei “a forma di cella” all’interno dei
quali continuano a sussistere tensioni che lentamente si amplificano e si manifestano nel
macroscopico fenomeno della craquelure. La formazione della craquelure è comune a
tutti i film pittorici ed è determinata anche da altri fattori, estranei al legante, ad esempio
dai movimenti delle preparazioni e del supporto. E’ opportuno far osservare che le
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proprietà dei film a olio sono spesso alterate dagli interventi di restauro che i dipinti
periodicamente subiscono, in particolare dagli interventi di pulitura durante i quali l’uso
non appropriato di solventi, soprattutto in passato, ha favorito la lisciviazione dei
gliceridi liquidi ancora presenti nel film secco e necessari alla sua flessibilità.
L’olio di lino viene estratto dai semi della pianta del lino (Linum usitatissimum).
Possedendo un’alta percentuale di acido linolenico, l’olio di lino secca più rapidamente
di tutti gli altri oli siccativi. La composizione dipende da un certo numero di fattori
come la qualità dei semi, il clima e il terreno ed anche dai metodi di estrazione e di
raffinazione. Durante l’estrazione devono essere evitate alte temperature che possono
causare alterazioni come alcune relative al colore e modificazioni della composizione
dei trigliceridi.
L’olio di papavero viene estratto dai semi del papavero, Papaver somniferum. L’olio di
papavero non contiene acido linolenico e quindi secca molto più lentamente dell’olio di
lino. Tende ad ingiallire meno rispetto all’olio di lino.
L’olio di noce viene estratto dai frutti dell’albero di noce, Juglans regia. L’olio di noce
contiene il 12% di acido linoleico e quindi presenta capacità siccative maggiori rispetto
all’olio di papavero.
I fosfolipidi hanno soprattutto importanza strutturale in quanto sono i costituenti
principali delle membrane cellulari, sono caratterizzati dalla presenza, all’interno della
molecola, di un gruppo fosforico. Le lecitine, ad esempio, sono costituite da una
molecola di glicerolo in cui due funzioni ossidriliche sono esterificate da due molecole
di acidi grassi , mentre la terza è esterificata da una molecola di acido fosforico a sua
volta legata ad una molecola organica polare (colina).
Formula generale di una lecitina, (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith, D. Cacciatore, Corso di Chimica
Moderna, Le Monnier, 1991).
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Gli steroidi presentano come struttura di base una molecola costituita da un sistema
tetraciclico di atomi di carbonio legati ad atomi di idrogeno, detto ciclopentanoperidrofenantrene. Lo steroide più importante è il colesterolo costituente della
membrana citoplasmatica e della bile e precursore degli ormoni steroidei e di altre
sostanze di grande importanza biologica. Altre sostanze di natura steroidea sono le
vitamine D.
(a)
(b)
Strutture di base di uno steroide generico (a) e del colesterolo (b), (da R.C. Smoot, J.S. Price, R.G. Smith,
D. Cacciatore, Corso di Chimica Moderna, Le Monnier, 1991).
7.12 Le cere
Le cere (qualche volta chiamati ceridi) sono sostanze solide che fondono facilmente (da
40 a 100 °C a seconda del tipo di cera). Sono costituiti principalmente da esteri di acidi
saturi a lunga catena e alcoli. La fonte delle cere naturali può essere: animale, vegetale e
minerale. Le cere possiedono una struttura amorfa o cristallina.
CERE MINERALI: paraffina e cere microcristalline, cera montana,
ozokerite e
ceresina
CERE VEGETALI: cera carnauba, candelilla
CERE ANIMALI: cera d’api, cera cinese, lanolina, spermaceti
La paraffina e le cere microcristalline sono estratte dal petrolio: la paraffina per
distillazione, le cere microcristalline per estrazione con solvente in quanto con il calore
possono decomporsi. La paraffina è costituita soprattutto da idrocarburi saturi a lunga
catena. Le cere microcristalline contengono, rispetto alla paraffina, anche catene
cicliche e ramificate. Nel campo del restauro trovano impiego soltanto le cere
microcristalline, soprattutto come consolidanti e protettivi, utilizzate soprattutto per la
loro inerzia chimica, l’idrorepellenza e la totale reversibilità.
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La cera montana è estratta dalla lignite soprattutto in Germania e nell’ovest degli Stati
Uniti utilizzando una miscela di solventi (in genere benzene:etanolo in proporzione
85:15). La cera montana è composta da una miscela di esteri a lunga catena, acidi grassi
liberi, alcoli e idrocarburi. Presenta un colore variabile dal marrone al nero e questo ne
limita l’uso; è molto dura e fonde a circa 80°C; è solubile in solventi aromatici e
solventi clorurati, in etil-metil-chetone e diossano. Generalmente non viene utilizzata da
sola ma piuttosto come additivo di altre cere per conferire maggiore durezza e
lucentezza a queste e per elevarne il punto di fusione.
L’ozokerite si trova generalmente nei depositi bituminosi del Miocene. Viene estratta
per fusione del bitume in acqua bollente: la cera resta in superficie e può essere
facilmente separata. L’ozokerite contiene una miscela di idrocarburi saturi e insaturi con
elevato peso molecolare, alcuni idrocarburi liquidi e alcuni composti ancora non ben
identificati contenenti ossigeno. L’ozokerite è resistente all’azione di acidi e basi; è
solubile negli idrocarburi aromatici e clorurati ma non è solubile negli alcoli; è più dura
della cera d’api e indurisce con l’invecchiamento.
La ceresina è un’ozokerite purificata; è stata impiegata nel restauro come consolidante;
presenta una struttura cristallina molto fine.
La cera di candelilla si ottiene da una pianta, Euphorbia antisyphilitica che cresce
soprattutto nelle zone meridionali del nord America e in Messico. La cera è separata
dalla pianta in acqua bollente con aggiunta di una piccola quantità di acido solforico. La
candelilla
è
costituita
principalmente
da
un
idrocarburo,
l’entriacontano
CH3(CH2)29CH3; sono presenti anche alcoli. La cera di caldelilla presenta un colore che
va dal giallo al bruno; è molto dura e fragile per questo viene usata soprattutto come
additivo per rendere più dure altre cere. È solubile in acetone, oli, solventi clorurati a
caldo, trementina.
La cera carnauba è un essudato delle foglie di una palma brasiliana, Copernicia
prunifera. La cera si ottiene sbattendo le foglie essiccate. La cera carnauba è costituita
principalmente da esteri (circa l’85%), da acidi grassi liberi (circa il 3%), da alcoli a
lunga catena ed idrocarburi, da componenti resinosi (circa il 5%). La cera carnauba
presenta un colore generalmente verdastro con punto di fusione di circa 82-85 °C; è
dura e fragile e per questo è impiegata soprattutto come additivo di altre cere per
aumentare il punto di fusione, la durezza, la resistenza, la lucentezza, e per diminuirne
180
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la plasticità e la tendenza a cristallizzare. A temperatura ambiente la cera carnauba è
scarsamente solubile in solventi apolari; la solubilità aumenta a circa 45 °C:
La cera d’api, prodotta dall’insetto Apis Mellifica, è la cera di gran lunga più usata nel
campo artistico in tutti i periodi storici. La cera viene raccolta fondendo il favo in acqua
calda. Veniva poi sbiancata esponendola al sole: i prodotti di ossidazione erano poi
rimossi per lavaggio e filtrazione. La cera d’api è composta di esteri di acidi a lunga
catena e alcoli a 21-36 atomi di carbonio. È presente anche una colla, la propoli, come
pure pigmenti e altre sostanze. La cera d’api è solubile in solventi aromatici, idrocarburi
clorurati e alcoli a caldo.
La cera cinese è secreta dall’insetto Coccus ceriferus che vive nell’ovest della Cina. La
cera cinese è composta principalmente da un estere, il ceril cerotato. Presenta colore
biancastro, è dura, lucida e cristallina; è insolubile in acqua ma facilmente solubile in
idrocarburi aromatici e leggermente solubile in alcoli e eteri. Viene utilizzata soprattutto
per la produzione di candele, la preparazione di miscele di cere per il trattamento della
pelle e dei pavimenti, per la finitura dei tessuti in seta e cotone e per il trattamento della
carta.
La cera di spermaceti si ricava da un organo contenuto nella testa dei capodogli e di
cetacei simili. La cera di spermaceti è composta principalmente da cetil palmitato.
Presenta colore biancastro, è traslucente e relativamente fragile; è solubile in alcol
bollente, cloroformio, carbonio disolfuro, oli. Viene utilizzata soprattutto nell’industria
dei cosmetici per preparare emulsioni; trova anche impiego per produrre candele,
saponi, miscele di cere e nel trattamento dei tessuti.
La lanolina è contenuta nella lana grezza di pecora e si estrae lavando la lana con un
detergente. La lanolina si separa per centrifugazione e viene purificata con acqua e
alcali per rimuovere gli acidi liberi e altre impurezze. La lanolina è composta da una
miscela complessa di esteri di acidi grassi e alcoli. Questi ultimi sono alcoli alifatici,
steroidi o triterpeni. La lanolina contiene circa il 30% d’acqua. Ha un aspetto untuoso e
colore che va dal biancastro al giallastro; è solubile in idrocarburi aromatici e clorurati,
e in alcol a caldo. La principale proprietà della lanolina è quella di formare con facilità
emulsioni acquose stabili con proprietà ammorbidenti e vengono impiegate anche nel
trattamento della pelle e del cuoio.
181
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7.13 Le resine naturali
Le resine terpeniche costituiscono una delle più diffuse classi di sostanze nel regno
vegetale. Tutte le resine e i composti terpenici derivano dallo stesso composto di base,
l’isoprene:
CH3
|
CH2=CH-C=CH2
isoprene
A seconda del numero di unità di isoprene nella molecola, i terpeni sono classificati
come segue:
- Monoterpeni: 2 unità di isoprene (olio di trementina, olio di lavanda, olio di rosa, olio
di spigo, ecc.)
- Sesquiterpeni: 3 unità di isoprene (vetiver, bergamotto, patchouli, citronella, ecc.)
- Diterpeni: 4 unità di isoprene (sandracca, copali, colofonia, ecc.)
- Triterpeni: 6 unità di isoprene (mastice, dammar, elemi, ecc.)
- Gomma: n unità di isoprene.
I mono- e sesquiterpeni sono liquidi e spesso servono da solventi per i di- e triterpeni.
Le resine naturali sono state impiegate fin dall’antichità non solo come componenti
delle vernici ma anche come leganti e adesivi.
Tra i monoterpeni e i sesquiterpeni si annoverano: l’olio di trementina, viene estratto
dalle secrezioni di varie specie di pino. Ha un indice di rifrazione tra 1,465 e 1,483;
punto di ebollizione tra 150 e 180 °C. É utilizzato soprattutto come solvente per le
resine terpeniche; l’olio di spigo, viene estratto dai fiori dalla lavanda (Lavandula
latifolia). Come la trementina è utilizzato in qualità di solvente per resine terpeniche e
oli; la trementina di Venezia, viene estratta dalla pianta del larice (Larix decidua) che
cresce nelle montagne dell’Europa centrale. La resina è contenuta all’interno del tronco
della pianta che quindi deve essere forato per estrarla. Il foro deve essere poi chiuso in
modo che la resina possa riformarsi in assenza d’aria. Questa resina è stata ampiamente
utilizzata nel XVIII e XIX secolo; la trementina di Strasburgo, viene estratta da una
specie di abete (Abies excelsa). La resina si trova sulla superficie del tronco e può essere
facilmente prelevata. Questo tipo di oli essenziali e oleoresine contengono, oltre ai
componenti volatili, anche sostanze più o meno viscose che induriscono per ossidazione
182
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e polimerizzazione. Questi processi sono lenti e nel tempo, con l’invecchiamento,
portano alla formazione di sostanza colorate con scurimento del film che hanno
costituito. I diterpeni includono: la colofonia, viene estratta soprattutto dagli alberi di
pino di varie specie. A seconda del metodo di estrazione si hanno tre tipi di colofonia:
“Gemma” di colofonia è una sostanza secreta dagli alberi di pino con la funzione di
legare le fibre del legno; è costituita da una miscela di colofonia (68-72%), trementina
(22-24%), e acqua (5-12%). Tramite filtrazione e decantazione si eliminano le
impurezze minerali e vegetali; successivamente per distillazione si separa la trementina
dalla colofonia. La Colofonia del legno è ottenuta per estrazione del legno con solventi
aromatici; questo processo è impiegato soprattutto nel nord America. L’Olio di
colofonia è un prodotto che si forma nella manifattura della cellulosa dal legno dei pini.
Contiene il 54% circa di acidi resinici ma anche acidi grassi insaturi (50%) che devono
essere separati. La colofonia presenta alcuni difetti che ne limitano l’uso come
componente delle vernici: ha un basso punto di fusione; è suscettibile di fenomeni di
ossidazione con rapido scurimento e invecchiamento; il suo alto contenuto di acidi liberi
ne limita l’uso con pigmenti sensibili agli acidi e con la carta; la sua alta capacità di
ritenzione del solvente porta alla formazione di film a lentissimo indurimento e che
quindi resta molle per tempi lunghi. Nonostante i suoi difetti la colofonia è stata
comunque impiegata per la formulazione di vernici soprattutto nell’Europa occidentale.
La sandracca è un diterpene estratto da alcune piccole conifere della famiglia delle
Cupressaceae presenti nel nord Africa, nel bacino del Mediterraneo e in Australia.
Contiene acidi resinici e acidi grassi insaturi, tranne l’acido abietodienico. La sandracca
presenta le stesse limitazioni della colofonia con una minore tendenza allo scurimento.
E’ stata impiegata per le vernici soprattutto in mescolanza con olio di lino.
Per copali si intendono alcune resine con differenti origini; le più dure sono quelle di
origine fossile talvolta derivate da specie vegetali ora estinte. La fonte principale per le
copali è costituita dalle Araucariaceae (conifere) e le Caesalpinaceae (legumi).
Contengono numerosi acidi resinici (acido sandraccopimarico, acido abietico, acido
agatico, ecc.). La maggior parte delle copali ha elevato punto di fusione. Sono insolubili
nella maggior parte dei solventi e oli. Per solubilizzarle vengono sottoposte a pirolisi: le
resine perdono il 20% in peso e subiscono decarbossilazione rendendole così meno
183
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acide e solubili in oli e trementina, anche se divengono colorate. Sono state ampiamente
utilizzate per vernici con ottime proprietà siccative e ottiche.
Le dammar sono resine triterpeniche che provengono da piante della famiglia delle
Dipterocarpaceae (Angiosperme) che si trovano soprattutto in Nuova Zelanda, Filippine
e Indonesia. Contengono alcuni terpeni caratteristici: dammarano, oleanano e ursano. Le
dammar sono solubili in molti solventi organici (white spirit, solventi aromativi,
trementina) e per questo ampiamente utilizzate per le vernici; sono anche ottime resine
poiché ingialliscono poco rispetto alle resine diterpeniche. La dammar ha anche buone
proprietà adesive e per questo è stata a volte impiegata come additivo per le cere per
aumentare le qualità adesive. Sono solo debolmente acide e possono essere impiegate
con quasi tutti i pigmenti. Un difetto delle dammar è che formano film di bassa
resistenza che con l’invecchiamento ingialliscono e diventano meno solubili.
Le resine mastice provengono da piante della famiglia delle Anacardiaceae
(Angiosperme), principalmente dalla pianta del pistacchio, Pistacia lentiscus, che si
trova in tutto il bacino del Mediterraneo. Contengono alcuni terpeni caratteristici:
eufano, acido oleanico. La mastice è solubile in idrocarburi aromatici e forma dei film
lucenti e flessibili. Anche la mastice ha trovato largo impiego nella formulazione di
vernici.
Le elemi provengono da piante della famiglia delle Burseraceae (Angiosperme), che
producono anche balsami; si trovano in molte regioni dell’Africa, in Messico, in Brasile
nelle Filippine. Contengono alcuni terpeni caratteristici: α e β amirina e ufano; inoltre,
contengono alcuni derivati terpenici volatili che sono responsabili dell’aroma (emelolo
o emelecina). L’elemi è solubile in idrocarburi aromatici e negli alcoli, è usata
soprattutto come plasticizzante e e da buona adesione e lucentezza al film.
184
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INDICE
INTRODUZIONE
p.
2
1.1 Elementi chimici e tabella periodica degli elementi
p.
4
1.2 Concetto di mole
p. 10
1.3 Sistema internazionale di misura
p. 11
1.4 Espressioni della concentrazione
p. 12
1.5 Struttura dell’atomo
p. 14
CAPITOLO 1
CAPITOLO 2
2.1 Tipi di legame chimico
p. 24
2.2 Caratteristiche dei legami: elettronegativià degli atomi
p. 24
2.3 Legame ionico e proprietà dei composti ionici
p. 26
2.4 Nomi e formule dei composti ionici
p. 29
2.5 Legame covalente e proprietà dei composti covalenti
p. 30
2.6 Formule di rappresentazione di Lewis
p. 31
2.7 Jacobus vant’t Hoff e le geometrie molecolari
p. 34
2.8 Teoria VSEPR
p. 34
2.9 Principio della massima sovrapposizione e orbitali ibridi
p. 38
2.10 Teoria degli orbitali molecolari
p. 51
2.11 Legame metallico e proprietà dei metalli
p. 51
2.12 Leghe e diagrammi di stato
p. 56
2.13 Legame dativo o di coordinazione
p. 59
2.14 Legame ponte a idrogeno
p. 63
2.15 Interazioni dipolo-dipolo
p. 65
2.16 Interazioni ione-dipolo
p. 65
2.17 Interazioni dipolo-dipolo indotto
p. 66
2.18 Interazioni dipolo indotto-dipolo indotto: forze di
dispersione di London
p. 66
185
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CAPITOLO 3
3.1 Lo stato gassoso
p. 68
3.2 Liquidi e solidi
p. 73
3.3 Concetto di tensione di vapore
p. 75
3.4 Transizioni di fase e diagrammi di fase
p. 76
3.5 Proprietà delle soluzioni
p. 78
3.6 Conducibilità delle soluzioni
p. 82
3.7 Proprietà dei cristalli
p. 84
3.8 I solidi amorfi
p. 88
CAPITOLO 4
4.1 Cenni di termodinamica
p. 89
4.2 Il primo principio della termodinamica
p. 90
4.3 Termochimica
p. 92
4.4 Processi spontanei in termodinamica
p. 94
4.5 Il secondo principio della termodinamica
p. 95
4.6 Il terzo principio della termodinamica
p. 98
4.7 L’energia libera di Gibbs
p. 98
4.8 L’equilibrio chimico
p. 99
4.9 Il principio di Le Châtelier
p. 101
CAPITOLO 5
5.1 Equilibri acido-base
p. 102
5.2 Il concetto di pH
p. 104
5.3 Tipi di acidi e basi
p. 105
5.4 Indicatori acido-base
p. 106
5.5 Idrolisi
p. 108
5.6 Soluzioni tampone
p. 109
5.7 Titolazioni acido-base
p. 110
5.8 Acidi poliprotici
p. 112
186
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CAPITOLO 6
6.1 Equilibri eterogenei, concetto di attività
p. 114
6.2 Equilibri di solubilità
p. 115
6.3 Effetto dello ione a comune
p. 116
6.4 Effetto del pH sulla solubilità
p. 117
6.5 Effetto della formazione di complessi
p. 118
6.6 Reazioni di ossido-riduzione
p. 118
6.7 Cenni di elettrochimica
p. 123
6.8 Celle elettrochimiche
p. 126
6.9 L’equazione di Nernst
p. 129
6.10 Alcuni esempi di elettrodi
p. 130
6.11 La corrosione dei metalli
p. 133
CAPITOLO 7
7.1 Cenni di chimica organica
p. 135
7.2 Idrocarburi alifatici
p. 136
7.3 Idrocarburi aromatici
p. 143
7.4 Gruppi funzionali in chimica organica
p. 145
7.5 Composti eterociclici
p. 156
7.6 I polimeri
p. 157
7.7 I polimeri naturali: le proteine
p. 161
7.8 Concetti generali di soluzioni, dispersioni, emulsioni
p. 169
7.9 Gli enzimi
p. 170
7.10 I polimeri naturali: i polisaccaridi
p. 172
7.11 I lipidi
p. 173
7.12 Le cere
p. 179
7.13 Le resine naturali
p. 182
INDICE
p. 185
187