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La pace non è un argomento
I. Phusis: una sacra riservatezza
La natura ama nascondersi.
Eraclito
1. Il fondo armonico e “la struttura che connette”1
Frugo uno strato percettivo, emozionale, cognitivo, che è stato còlto per lo più come un’area
di frontiera, pericolosa dal punto di vista dell’affermazione di un io personale,
ben individualizzato. Uno strato che forse proprio per questo è stato messo da parte
nel corso dell’evoluzione dell’uomo detto civile.[…] Si tratta di superare, in definitiva,
il nostro generale disconoscimento dell’estatico, cogliendo in esso un momento
originario […] delle esperienze più creative nella vita umana. […] Abbiamo dunque
davanti un’esigenza antropologica, che sta a noi non perdere né sciupare.
Elvio Fachinelli
Dove comincia l’umano e, a partire da questo inizio, cosa interferisce
il suo sogno di pace?
Credo che ogni riflessione sul destino della comunità implichi sempre, e imprescindibilmente, una meditazione sul mistero dell’origine che
principia e tesse la vita e sugli incidenti ineffabili che la minacciano e la
funestano. L’unde malum della tradizione filosofica e teologica, del resto,
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Mutuo nel titolo di questo paragrafo la connessione tra il concetto greco di harmonia
e il concetto batesoniano di “pattern that connects” (“la struttura che connette”)
sviluppata da C. Baracchi in “The Syntax of Life: Gregory Bateson and the Platonic
View” (2013) in Research in Phenomenology, 43, 2013, pp. 204–219. La “struttura che
connette” è, per Gregory Bateson, “una struttura di relazioni, gerarchicamente ordinate e fluidamente collegate, che, in maniera dinamica, evolve nel tempo. ‘Il modo
giusto per cominciare a pensare alla struttura che connette è di pensarla in primo luogo
(qualunque cosa ciò voglia dire) come una danza di parti interagenti’”, in G. Madonna,
F. Nasti, Della separazione e della riconnessione, Franco Angeli, Milano, 2015, p. 45.
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Benedetta Silj
è una investigazione che, al suo cuore, sogna la pace e per sognarla cerca di rendere intellegibile la sua violazione, la tragedia.
Come scrisse Whitehead “La pace non ha nulla a che fare col concetto di anestesia […]. La pace è l’intelligenza della tragedia”2 e, dunque, a partire da questa vertigine, ci si interroga su quale fondamento
innesti il nostro ciclo vitale e ci si chiede quali incidenti dell’essere
rendano questo ciclo così spaventosamente drammatico lungo la storia.
Come avvicinarsi al mistero di questa origine e alla sua traversia?
Come pensarla? A partire da quali premesse della conoscenza e della sensibilità?
Per il filosofo antico l’intelligenza umana non è proprietaria del
mistero dei princìpi: questi emergono dal dispiegarsi della vita stessa
e ogni apprendimento discorsivo che possiamo articolare si appoggia
costitutivamente su di essa.3 Se un extraterrestre mi chiedesse, in effetti,
quale è il metodo con cui noi umani proviamo a sondare e ad apprendere il fondo oscuro e principiante della nostra provenienza, gli direi
che si tratta, in prima battuta, di un lavoro di percezione minuta e
paziente del processo fisico di “essere vivi” e gli indicherei, forse, con
Rilke, “i penduli amenti dei nocciòli spogli, oppure la pioggia che
cade su terra scura a primavera”;4 e, dopo aver evocato il lavoro percettivo del processo fisico di “essere vivi”, gli descriverei, balbettando,
il nostro modo di venire, in qualche modo, “a saperlo”. Per rispondergli, insomma, non salterei a piè pari nel campo delle enunciazioni
sull’essere, dominio della coscienza, ma sosterei pazientemente nel
campo di phusis, dove una timidezza radicale e una nebbia sovrana
precedono ogni definizione. Evocherei, dunque, il “silenzioso dipanarsi
della vita stessa”, come il fondo non trascurabile da cui emerge il nostro apprendimento dei princìpi:
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C. Sini, Il sapere dei segni, Jaca Book, Milano, 2012, p. 140.
Cfr. C. Baracchi, L’architettura dell’umano. Aristotele e l’etica come filosofia prima, cit., p.
43: “L’apprendimento dei princìpi emerge dal silenzioso dipanarsi della vita stessa: è
iscritto nella mia stessa costituzione, o, piuttosto, circoscrive la mia costituzione mostrandola come mai semplicemente mia”.
4 R. M. Rilke, Elegie duinesi (1929), tr. it. Einaudi, Torino, 1978, pp. 67-68.
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La pace non è un argomento
La grammatica profonda della vita, che muove dai ricettacoli bui e
silenziosi dei tessuti e degli scambi cellulari; quel sapere (quell’ordinare
e recepire l’ordine) che organizza la struttura degli organismi individuali e delle specie e che infine esprime l’ordine degli ordini, l’organismo
totale, ecco, la sintassi […] il logos della phusis, il logos del tutto: tessuto
connettivo, sistema nervoso, rete di trasmissione e contatto. Il logos silenzioso, a monte del logos umano, ascoltando il quale il logos umano
si determina nella concordia: che non significa dire che la saggezza comporta un logos uniforme, ma che è saggio dire a partire da un ascolto e
in risposta a esso, dire nel riconoscimento di una comunione, e riconoscere il nostro dire come eco di un logos più primordiale, non umano.5
L’origine, pertanto, sfugge alla presa conclusiva dell’intelligenza umana. E nel suo sfuggire oppone una resistenza e staglia una obiezione
vertiginosa alla autofondazione della mia costituzione e del mio pensiero su di essa: “mai semplicemente mia”.
Ed è proprio in questa resa della supponenza cognitiva al mistero
della provenienza, e nelle conseguenze etiche di un apprendimento
connotato sensorialmente e originariamente da un’apprensione percettiva,6
che collocherei una pratica di “primo soccorso” del sogno – così sovente
trafitto sulla Terra – della pace. Un soccorso che si dia come spazio
di incubazione e come umile premessa all’avvento della parola e del
pensiero. Un gesto conoscitivo molto più simile alla poesia e alla preghiera che alla parata delle nominazioni del pensiero discorsivo, un
inchino alla natura e alla sua riservata armonia, un gesto di ricezione
avveduta della meraviglia di vivere e del suo lutto, una meditazione
raccolta nel suo silenzio, una sosta poetica come quella in cui ci cullano, per esempio, i versi di Montale:
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
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5 C.Baracchi, The Syntax of Life: Gregory Bateson and the “Platonic View”, cit., pp. 204–219.
Traduzione dell’autrice in “Platone, Bateson: pensiero visibile e invisibile”, dispensa
Scuola Philo, Milano, 2012, p. 3.
6 Cfr. C. Baracchi, L’architettura dell’umano. Aristotele e l’etica come filosofia prima, cit. p. 25.
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Benedetta Silj
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.7
Sosta poetica, dunque, ovvero
poesia che è innocente giustizia, come lo è l’alba, poiché la coscienza
che non si percepisce di essere tale è quella che maggiormente rivela;
priva dell’intenzione di giudicare, mostra e canta la realtà, quella da
proporre e non da definire. 8
E con la poesia anche meditazione e sospensione filosofica. Di una
certa filosofia. Quella filosofia del sapere di non sapere (e del non sapere di sapere) che esordisce a un certo momento preciso della nostra
avventura occidentale e poi si inabissa, per varie congiunture, nel silenzio storico, pur continuando a scorrere in falde sommerse, lungo i secoli, intersecando rivoli di ricerche inedite e timidamente orfane di
riconoscimenti ufficiali. Una corrente trasmessa con premura, da qualcuno che forse ha dato la vita per custodirla, una falda talvolta ricondotta faticosamente alla superficie fino ai nostri giorni: filosofie che
non smettono di rivendicare la loro vocazione più intima, ovvero la
cura del modo di vivere e il sogno della pace; come è il caso, tra venerabili altri testimoni, dell’opera e della vita di Maria Zambrano,
che dell’anima come frammento di cosmo dice che
non è conoscenza intellettuale […] eppure la precede e la sostiene e senza la quale rimarrebbe fluttuante per quanto grande possa essere la sua
precisione e chiarezza”.9
La “ragione poetica” di Maria Zambrano ha intrapreso una discesa
verticale, tanto rigorosa quanto disarmata, nel fondo oscuro dell’origine
come scenario di ingresso della vita, della coscienza e del suo dramma:
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
E. Montale, L’opera in versi, Einaudi, Torino 1980, p. 49.
M. Zambrano, Delirio e destino (1989), Raffaello Cortina, Milano, 2000, p. 62.
9 M. Zambrano, La confessione come genere letterario (1941), Bruno Mondadori, 1997, p. 105.
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La pace non è un argomento
L’origine come la nascita non è un fatto compiuto e compiutamente
proprio; non è un passato che ci lasciamo alle spalle e che possiamo
cancellare (‘disnascendo’) per crearci una nascita tutta nostra, ex nihilo,
in una immacolata concezione, ma nemmeno un atto notorio a garanzia della nostra identità, e a cui possiamo far ritorno per ribadirne la
forza, ma un’intimità sempre presente in noi stessi, “una debolezza di
cui aver cura dentro se stessi, dentro la propria vita”.10
Zambrano non ha alcuna presunzione di tornare all’origine e penetrarne l’inconoscibilità. Ma ci avverte della dolcezza con cui un
certo ‘sentimento originario’, non indifferente alla vita, può accompagnare proficuamente il pensiero e il discorso. Laddove, invece, dòmini
la pretesa violenta della filosofia vittoriosa di “crearci una nascita tutta
nostra”, di pensare che si possa svelare la luce una volta per tutte, di
essere gli autori di questo svelamento e di poterlo infine firmare, con
nome e cognome, si configura un dramma, un “colpo di stato” della
coscienza superba sul fondo oscuro. “Se l’intelligenza potesse firmare
la vita, forse la risparmierebbe”11 scriveva Anna Maria Ortese. Già,
ma l’intelligenza discorsiva non può firmare la vita perché nella vastità
della vita essa annega e forse è proprio a causa di questo risentimento
della coscienza verso la signoria della vita che l’intelletto dell’uomo,
infine, non la risparmia. Sicché osserviamo che, lungo la storia, questi
ardori miti e avveduti che raccomandano la “debolezza di cui aver cura
dentro se stessi” restano gesti solitari e singolari, quasi deliri rispetto al
programma collettivo, educativo, culturale e politico, che continua a
ordinare e promettere una certa emancipazione dall’obbligo nei confronti dei fenomeni di phusis. E ciò si evidenzia non solo negli ambiti
della scienza, delle università e delle cerchie intellettuali ma anche,
aggiungerei, nell’imperativo economico oggi pervasivo a ogni livello
della nostra vita quotidiana: proprio qui, nell’ethos domestico,12 si esige
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
R. Prezzo, “Solo un’autobiografia?”, Introduzione in M. Zambrano, Delirio e destino,
cit., pp. XII-XIII.
11 A. M. Ortese, Corpo celeste, Adelphi, Milano, 1997, p. 33.
12 Cfr. A. Potente, Il bene fragile. Per una autobiografia dell’etica, Mondadori, Milano, 2011.
In questo testo la teologa propone una riflessione autobiografica sull’etica a partire dalla
visitazione simbolica delle diverse “stanze” della sua abitazione in Bolivia.
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Benedetta Silj
una performance consumistica dell’umano tutta in superba e demenziale ascesa rispetto al fondo misterioso della natura e al non saperne
che cenni. Producendo quella rimozione di phusis e della sua sacralità
che incontriamo – oltre che nella produzione intellettuale – anche nei
giardini delle nostre città e delle nostre scuole dell’infanzia dove le
madri e le insegnanti dei bambini più disinfettati e igienizzati della
storia recitano spaesate un timore panico e sprezzante del fango, della
tramontana e dell’erba.
Così anche il culto fanatico della disinfestazione degli acari dai nostri
materassi, l’allarme catastrofico per l’avvistamento di un pidocchio sulla testa di un figlio, la persuasione epidemica sull’urgenza di testare le
cosiddette “intolleranze alimentari” anche in assenza di qualsiasi sintomo e disagio, la medicalizzazione desoggettivante della gravidanza,
del parto e della menopausa, il forsennato etichettamento diagnostico
e patologizzante di umanissime inquietudini infantili e adolescenziali,
il consumo cieco e devoto di costosi prodotti-bio che di biologico hanno,
spesso, solo il prefisso, sono soltanto alcuni esempi clamorosi di una
regia del vivere comunitario che ci sta asfaltando. E che ha asfaltato,
oltre a immense superfici di territorio e non sempre per utili servizi,
anche il diritto umano di fondare sulla propria sensorialità e sensibilità
estetica, oltre che sulla propria ragione critica, la valutazione di reali
necessità e di eventuali emergenze relative alla salute, alla alimentazione e all’igiene. Tutte questioni che sono di una prossimità intima e
inequivocabile – benché svista, dimenticata o artatamente deviata –
al tema che stiamo approfondendo. Qualcosa su cui Tich Nhat Han
ci invita a riflettere quando dice che il modo in cui noi usiamo la carta
igienica ha a che fare con la pace nel mondo.13
L’evidenza di questa distorsione delle premesse epistemologiche –
ed etiche – con cui tendiamo a concepire e amministrare il rapporto con
la natura, con la vita organica, con la materia, con la fisiologia e con la
sensorialità era stata anche segnalata e sviluppata da Gregory Bateson:
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Cfr. Thich Nhat Hanh, Essere pace (1987), tr. it. Astroabio Ubaldini, Roma, 1989
e La pace è ogni passo. La via della presenza mentale nella vita quotidiana (1990), tr. it.
Astrolabio Ubaldini, Roma, 1993.
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La pace non è un argomento
Tipicamente una relazione astratta […] viene prima concepita in termini razionali; poi viene tradotta in metafora e agghindata per farla
apparire il prodotto di un processo primario. Le astrazioni sono personificate e vengono fatte partecipare a uno pseudo-mito e così via.
Gran parte dell’arte pubblicitaria è allegorica, nel senso, appunto, che
il processo creativo è invertito.14
Direi dunque che quando “il processo creativo è invertito” siamo
in presenza di una drammatica e pretesa interruzione del tessuto che
connette logos e phusis:
Il pensiero dovrebbe restare una parte del tutto, ma invece si diffonde
e interferisce col resto [….]. Affetta tutto e ne fa tanti pezzi.15
È quella che Bateson definisce “la coscienza priva di aiuto” ovvero
la coscienza che vede solo “archi di circuito” ma non le strutture circuitali del mondo in cui viviamo. E quando la coscienza è senza aiuto
è senza pace ovvero “deve sempre tendere all’odio”.16
Più avanti, nello stesso testo, Bateson smaschera la logica e prefigura
gli effetti esistenziali e globali di una mente che si pensi e si viva staccata dall’unità con la natura. Vale la pena riportare questo passaggio.
Se mettete Dio all’esterno e lo ponete di fronte alla sua creazione, e
avete l’idea di essere stati creati a sua immagine, voi vi vedrete logicamente e naturalmente come fuori e contro le cose che vi circondano.
E nel momento in cui vi arrogherete tutta la mente, tutto il mondo
circostante vi apparirà senza mente e quindi senza diritto a considerazione
morale o etica. L’ambiente vi sembrerà da sfruttare a vostro vantaggio.
La vostra unità di sopravvivenza sarete voi e la vostra gente o gli individui della vostra specie, in antitesi con l’ambiente formato da altre
unità sociali, da altre razze e dagli animali e dalle piante. Se questa è
l’opinione che avete sul vostro rapporto con la natura e se possedete una
tecnica progredita, la probabilità che avete di sopravvivere sarà quella di
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
G. Bateson, Verso una ecologia della mente (1972), tr. it. Adelphi, Milano, 2002, p. 175
(solo il primo corsivo è mio).
15 Ivi, pp. 82-83.
16 Ivi, p. 186.
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Benedetta Silj
una palla di neve all’inferno […]. Se io sono nel giusto, allora il nostro
atteggiamento mentale rispetto a ciò che siamo e a ciò che sono gli
altri dev’essere ristrutturato.17
Certo non è semplice, come ammette di seguito lo stesso Bateson,
inverare un tale cambio di atteggiamento mentale. Restare in contatto
con phusis, con il suo fondo pudico e originario e con la sua sacralità,
ovvero con la struttura circuitale del mondo, significa, nientedimeno,
promuovere una incarnazione della responsabilità umana verso l’altro
e verso il cosmo che preservi il discorso dalla retorica finalistica e dalla
propaganda. Né possiamo ignorare, o saltare a piè pari, il lutto storico
che, almeno in Occidente, ha lasciato la natura orfana della sacralità e
del tremore devoto che questa aura misteriosa suscitava negli umani:
Lo scenario è mutato: la natura è stata, per gran parte delle teorie
culturali, abbandonata da Dio, e peraltro era già stata abbandonata
dagli dèi, con l’avvento del cristianesimo. E tuttavia oggi, se dalla natura
è scomparso ogni segno della mano provvidenziale del creatore, proprio
alla natura ritorna l’evidentemente insopprimibile bisogno antropologico di sacro. Così sulla natura si gioca la partita del senso: oggetto
naturale di studio scientifico, materia prima della trasformazione tecnica, rifugio e sogno di chi si sente abitatore di un mistero.18
In ogni caso, osserva Màdera, essendo la natura rappresentativa
del sacro, ovvero dell’“insieme delle funzioni di stabilizzazione del
senso”,19 debbono oggi inchinarsi a essa, in modi nuovi e forse non
immediatamente coscienti, non solo i suoi avveduti custodi ma anche
i suoi apparenti avversari, necessariamente indotti, a rischio della sostenibilità dell’impresa, a “obbedirle, studiandone ‘religiosamente, cioè
scientificamente, le leggi”.20
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Ivi, pp. 502-503.
R. Màdera, La carta del senso. Psicologia del profondo e vita filosofica, Raffaello Cortina,
Milano, 2012, p. 269.
19 Ivi, p. 270.
20 Ibidem.
17
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La pace non è un argomento
Aggiornate alle esigenze e ai linguaggi contemporanei le saggezze
antiche possono altresì orientare una formazione sensata dell’insopprimibile bisogno antropologico di sacro e di natura: gli esercizi delle
pratiche filosofiche si costituiscono così come “una sorta di metafilosofia della natura”.21 Era anche questo, del resto, il senso della fisica
come etica negli esercizi spirituali della filosofia antica:
Come per gli epicurei, anche per gli stoici la fisica non viene sviluppata
per se stessa, ma è funzionale a un fine etico ovvero per insegnare “la
distinzione che è necessario operare riguardo ai beni e ai mali”. E in
particolare “insegna all’uomo a riconoscere che ci sono cose che non
sono in suo potere ma dipendono da cause esterne a lui, che si concatenano in modo necessario e razionale […] L’azione umana si fonda
sulla razionalità della natura. […] La volontà di coerenza con se stessi,
che sta alla base della realtà stoica, apparirà nell’ambito della realtà
materiale come una legge fondamentale, propria a ogni essere e all’insieme degli esseri […]. Il mondo non è che un solo essere vivente,
anch’esso in accordo con se stesso, dentro al quale, come in un’unità
sistematica e organica, tutto si rapporta con tutto, tutto è dentro tutto,
tutto ha bisogno di tutto.22
Da Marco Aurelio a San Francesco agli indiani d’America possiamo rintracciare indizi, in ogni epoca e latitudine, del fatto che quando
l’intuizione estetica dell’interrelazione del tutto con il tutto resta la
nutrice onorata del pensiero, si palesa e si testimonia, nei gesti, un
desiderio di vita comunitaria affrancato dall’ideologia e dalla violenza
del risentimento. Un desiderio di umanizzazione che è sogno di equanimità e di pace. La consapevolezza premurosa del cosmo viene così
a proporsi come una pratica di liberazione dalle aberrazioni dell’antropocentrismo, dell’etnocentrismo e del
narcisismo soggettivistico che pervade la mentalità collettiva postmoderna […] una educazione allo studio e alla contemplazione della
natura che ci indirizza verso il confronto intersoggettivo, che ci libera
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
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Ivi, p. 271.
P. Hadot, Cosa è la filosofia antica (1995), tr. it. Einaudi, Torino, 2010, p. 125.
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Benedetta Silj
dalla illusione solipsistica e ci avvia all’osservazione imparziale che,
per essere tale, deve tenere conto di ogni osservabile parzialità.23
Va precisato del resto, ancora con Romano Màdera, e per non intendere questa visione come uno scivolamento nel naturalismo sentimentale e New Age, che stiamo qui parlando di una osservazionecontemplazione della natura che ci consente di apprendere i nostri
limiti e che ci educa al dialogo e alla trascendenza verso il mondo:
Il mondo naturale costituisce il nostro limite, ontologico e conoscitivo,
le costruzioni soggettive sperimentano anzitutto in esso che l’oggetto
possiede una resistenza sua propria al nostro progetto, che la modificabilità della natura non è infinita, che solo certe condizioni consentono
la realizzazione di determinate possibilità. E poiché non esiste oggetto
naturale che si dia al soggetto fuori dal rapporto con altri oggetti naturali
che sono soggetti in egual misura – detto semplicemente, fuori dalle
esperienze, dai saperi, dal lavoro di numerosi altri – ecco che ogni educazione scientifica può diventare palestra etica di perfezionamento
di sé.24
Si tratta insomma di incarnare una filosofia capace di contemplare
la “natura come esercizio”25 e come dimensione del sacro:
Quando il logos si distribuisce nelle viscere, rinuncia alla parola come
mezzo totale di espressione, si trasforma in azione, in gesto, in atteggiamento, in… ispirazione che trova in ogni momento la soluzione
imprevedibile, il miracolo umano.26
Lungi, dunque, dal rappresentare un vitalismo sganciato dal discorso, l’ispirazione che a partire dalla sensibilità fisica e corporea si
fa gesto e pensiero punta a declinarsi nell’esercizio e nella sperimentazione quotidiana della cura del sé e dell’altro: pacificazione. Nelle
parole di Michela Pereira che commenta l’opera di Zambrano:
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
R. Màdera, La carta del senso. Psicologia del profondo e vita filosofica, cit., p. 272.
Ibidem.
25 Ivi, pp. 268-273.
26 M. Zambrano, Delirio e destino, cit., p. 208.
23
24
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La pace non è un argomento
È dunque a una pratica dell’attenzione (se vogliamo richiamare una
nozione centrale per Simone Weil), o della meditazione, che il pensiero
ha bisogno di ricorrere, per produrre una filosofia che non rinneghi il
proprio radicamento nel sentire […] una pratica dell’attenzione,
rivolta al patire del soggetto nelle proprie viscere e nella storia, per
fondare una filosofia “medicinale” che non separi o annienti, ma
produca trasformazione e speranza.27
2. Infanzia, l’alfabeto organico della spiritualità
Se non diverrete come bambini
non entrerete nel regno dei cieli.
Matteo XVIII,1-5
Di questo fondo originario, viscerale e armonico, di questo “pattern
che connette” e che ospita, a parità di diritto, il respiro, la materia e il
pensiero, l’infanzia sembra testimoniare – anche se, via via che trascorre, sempre più fievolmente – una luminescenza particolare e fedele.
Una luminescenza assai diversa dal sole accecante del mezzogiorno,
ovvero da quella coscienza maestosa con cui, divenuti adulti, illuminiamo i nomi delle cose fino a utilmente separarle ma perdendone di
vista, spietatamente, la “sacra unità”.28 Una luminescenza, potremmo
dire, che è ancora informata della struttura circuitale del mondo e che
il bambino sembra sia venuto qui, su questo piano di esistenza umana,
proprio per renderla trasparente nella gratuità di un nuovo inizio.
Passavo molto tempo a nutrire e cambiare i pannolini del mio bambolotto preferito e riuscivo a portare a spasso in carrozzina, con cuffietta
pannolino e copertina, persino Ciac, lo splendido certosino che ancora
oggi stento a credere fosse proprio un gatto. Potrei arrischiarmi a dire
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
M. Pereira, Il pensiero di María Zambrano. Un’introduzione e un invito alla lettura (2004)
in docenti.lett.unisi.it/files/15/8/3/1/Zambrano_Pistoia_Testo.doc.
28 Cfr. G. Bateson, Una sacra unità. Altri passi verso un’ecologia della mente (1942-1979),
tr. it. Adelphi, Milano, 1997.
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