“Antiche Civiltà del Mediterraneo” modulo II “Magna Grecia”

“Metodologia della Ricerca Archeologica”
e
“Antiche Civiltà del Mediterraneo”
modulo II “Magna Grecia”
prof. Marxiano Melotti
materiale aggiuntivo di Civiltà greca
testi di
Eva Cantarella, Marxiano Melotti, Novella Vismara
anno accademico 2007-2008
I RITI DI PASSAGGIO
Testo di Marxiano Melotti pubblicato in “Enciclopedia dell’Antichità classica” (Garzanti 2000).
In tutte le società antiche i riti di passaggio rivestono una grande importanza. Attraverso di
essi la comunità riconosce i suoi appartenenti e ne definisce i ruoli sociali. L’esistenza di ogni
individuo è indissolubilmente legata alla comunità, di cui deve mostrare di condividere i valori
sociali e culturali. Alcuni di questi sono assoluti e uguali per tutti i membri del gruppo; altri invece
dipendono dalla classe d’età e dallo status sociale e culturale.
I riti di passaggio consistono in cerimonie pubbliche, che presuppongono a volte altri
adempimenti, come ad esempio l'assoggettamento a un periodo di marginalità sociale. Tali
cerimonie hanno la funzione di mostrare alla comunità che l’individuo, o una classe di individui, ha
acquisito determinate conoscenze e che quindi da quel momento in poi può essere integrato in una
nuova classe d’età o in un nuovo gruppo sociale caratterizzato da altri diritti e altri doveri.
La specializzazione delle funzioni sociali, giuridiche e politiche, che accompagnano lo
sviluppo delle città e la formazione degli Stati, tende progressivamente a limitare in ogni società
l'importanza dei riti di passaggio, che vengono sostituiti da altri meccanismi di controllo e
certificazione sociale. Tali riti persistono soprattutto in ambito religioso, come nel caso del
battesimo cristiano.
I riti di passaggio vengono generalmente distinti in due tipi: quelli di iniziazione a classi
d’età (tra cui nascita, matrimonio e morte) e quelli di iniziazione a gruppi speciali (sacerdoti,
indovini, guaritori, fabbri, membri di sette misteriche). Il passaggio può concernere anche tutta la
comunità, come nei riti con cui si celebra, ad esempio, l'uscita dall'inverno e l'ingresso in nuova
stagione di fertilità.
La struttura di questi riti è tendenzialmente tripartita. Una cerimonia iniziale sancisce una
separazione, che deve simboleggiare il distacco dell'individuo dalla famiglia o dal corpo sociale:
l'individuo, che si allontana ed esce dallo spazio civilizzato, muore agli occhi della comunità e
spesso le cerimonie celebrano questa morte rituale. Segue una fase di marginalità, durante la quale
l'individuo vive in spazi speciali (campagne, boschi, grotte, isole), spesso accompagnato da un
adulto con funzione di educatore. Questa fase di marginalità può anche essere di breve durata, come
nel caso di un tuffo in mare (katapontismós), di un'immersione in un calderone o della scomparsa
sotto un velo o un mantello.
immagine: Eracle nel calderone
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Il mito spesso descrive questa fase come una discesa agli inferi (katabasis) o un periodo di
permanenza in fondo al mare. Nelle celebrazioni civiche annuali i periodi di marginalità si riducono
solitamente a processioni che dalla città conducono i partecipanti ai confini del suo territorio o
presso i santuari extra-urbani. Il ritorno alla famiglia o nella città, rappresentato come una vera
rinascita, viene celebrato con una cerimonia di aggregazione: l'individuo ha un nuovo statuto
sociale e una nuova identità, talvolta sancita anche da un cambio di nome.
Il primo rito di passaggio nella vita di un individuo celebra il suo ingresso da neonato nella
famiglia. Nel mondo antico, come in molte società contadine, si attribuisce al neonato un particolare
statuto demonico, poiché i bambini, così come gli anziani, sono particolarmente vicini alla morte e
al mondo degli spiriti. I neonati in particolare appaiono come appena usciti dall'al di là e, in un
mondo con un'alta mortalità infantile, potrebbero farvi facilmente ritorno. Il padre nel rituale
ateniese dell'Anfidromia attende il quinto o il settimo giorno per la cerimonia di aggregazione e
pubblico riconoscimento del figlio. In questo modo, se il piccolo dovesse morire nei primi giorni di
vita, prima di essere riconosciuto dal padre, la morte non costituirebbe una vera perdita per la
famiglia e il focolare domestico non sarebbe contaminato da una morte. Nel rituale il padre solleva
il bambino e corre tre volte intorno al focolare pronunciandone il nome. Il fuoco ha un valore
preciso: da un lato rappresenta il mondo naturale e pre-civile da cui proviene il bambino, dall'altro
costituisce il fulcro della casa e il cardine della civiltà, con la quale il piccolo prende contatto per la
prima volta. Il rito, attraverso la contiguità col fuoco, permette di esorcizzare la potenzialità
demonica del neonato, che viene aggregato allo spazio civico e familiare, pronto a ricevere un nome
e quindi un'identità.
La mitologia ci tramanda alcune pratiche che in parte possono essere considerate come
elaborazioni fabulistiche di rituali di aggregazione dei neonati e in parte rappresentano rituali di tipo
ordalico. E' il caso dell'immersione di bambini in calderoni pieni di acqua bollente (Achille) o di
miele (Glauco). La scomparsa nell'otre costituisce una forma di morte rituale; l'immersione nel
liquido riproduce in ambiente domestico il tuffo iniziatico o l'immersione nelle acque tipico dell'età
adulta; il miele, usato per la conservazione dei cibi e dei cadaveri, costituisce un liquido speciale,
strettamente connesso nell'immaginario con la morte e la rinascita iniziatica. Il passaggio del
neonato o del bambino sul fuoco (Achille, Demofoonte), la bruciatura dei piedi (Melampo) o la
scarificazione (Pelope), testimoniati dai miti, costituiscono delle prove ordaliche confrontabili con
analoghi rituali presenti nelle società semplici contemporanee. Questi riti sono di solito praticati
dalle madri e dalle zie materne (di qui la loro trasfigurazione in streghe), mentre i parenti maschi
intervengono più avanti per l'iniziazione militare o cinegetica.
Il bambino che non viene riconosciuto dal padre viene "esposto", ossia abbandonato in
campagna o sui monti (Edipo) o affidato alle acque (Romolo). Si tratta di una pratica comune, che
l'immaginario antico rielabora miticamente, spesso fondendola con pratiche iniziatiche tipiche della
giovinezza: l'esposizione del neonato diventa così il meccanismo che garantisce al futuro eroe una
fase di marginalità e di contatto con il mondo della natura (svezzamento ad opera di animali), gli
conferisce poteri speciali (abilità di caccia, divinazione) e ne prepara il ritorno da adulto nella città
paterna.
Ritrovamenti archeologici testimoniano cerimonie di passaggio all'età adulta in cui i bambini
dedicano i propri giochi a demoni o divinità curotrofe. Il valore magico e iniziatico di molti giochi è
ben testimoniato dalla letteratura.
E' interessante il ruolo della Lamia, demone e spauracchio infantile, di cui si servivano le
balie per spaventare i bambini. Si tratta di una creatura mostruosa, dai tratti ferini (come la
Mormoluké, nel cui nome compare il termine "lupo"), che è spesso rappresentata come il fantasma
di una madre che vuole vendicare i figli uccisi mangiando i bambini. La Lamia, per i suoi tratti
animaleschi e la sua natura bisessuata, è di fatto un demone iniziatore e spesso nei miti assolve
questo ruolo, sottoponendo a scontri ordalici i giovani eroi. I terribili racconti delle sue violenze
costituivano probabilmente il primo contatto dei bambini con l'immaginario iniziatico, le prove
pericolose cui sarebbero stati sottoposti e, soprattutto, la figura dell'adulto iniziatore.
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Quest'ultimo, soprattutto in età arcaica, assolve un ruolo fondamentale: a lui la comunità o la
famiglia affidano la preparazione del giovane al rito di passaggio o la sua formazione nella fase di
marginalità. Egli sottopone il giovane a prove che possono essere anche mortali o impone, come
suggeriscono anche i paralleli etnologici, tabù comportamentali (astinenza sessuale o alimentare,
cibi particolari, linguaggi speciali, modalità di comportamento), la cui infrazione comporta il
fallimento dell'iniziazione e la morte sociale del giovane. E' probabile l'esistenza di collegi di adulti
iniziatori (è forse il caso dei Cureti cretesi, ai quali il mito riserva il ruolo di civilizzatori, inventori
di tecniche, armi e danze). I racconti mitici, che avevano una funzione formativa e dovevano
attribuire carisma e autorità all'iniziatore, mostrano la duplicità di questa figura, benefico artefice
del passaggio e terribile arbitro della morte, e ne trasfigurano spesso l'immagine, presentandolo
come un mostro o un tiranno.
immagine: la Gorgone, mostro iniziatico
Consueta è la trasfigurazione in uomo-animale, riconducibile a pratiche di travestimento che
dovevano testimoniare lo statuto speciale dell'iniziatore e il suo contatto privilegiato con il mondo
della natura. La più celebre di queste figure, specializzate nell'educazione dei giovani eroi cui
insegnano le tecniche di caccia e di guerra e altre discipline, è il centauro Chirone, maestro di tutti i
più celebri eroi del mito greco. Si ricordano anche uomini-lupo (Licomede, Licurgo), uomini-capra
o uomini-toro (il Minotauro iniziatore di Teseo).
immagine:
Achille educato dal centauro Chirone
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Anche i giovani in fase di marginalità si travestono con pelli di animali o assumono
un'identità animale. Le giovani ateniesi di famiglia aristocratica venivano condotte a Brauron, al
santuario di Artemide, dove vivevano in comunità per un certo periodo, con la denominazione di
"orsette di Artemide". I giovani spartani invece dovevano passare un periodo di marginalità
(chiamato krypteia) nelle foreste e nelle campagne, vivendo e comportandosi come lupi. Sul monte
Liceo in Arcadia venivano praticati diversi riti iniziatici per Zeus Likaios, Zeus-lupo, miticamente
connessi con forme di cannibalismo, che dovevano testimoniare il rifiuto del cotto e la regressione
al crudo dei giovani in fase di marginalità. I ragazzi appendevano su un albero i propri vestiti e si
tuffavano in un lago dal quale uscivano "trasformati" e dovevano vivere per nove anni alla macchia,
senza prendere mai contatto con la civiltà. Questi rituali sviluppavano le capacità di sopravvivenza
e l'astuzia (apate) dei giovani, come nel caso di Sparta, dove il rituale di riaggregazione prevedeva
che i giovani mostrassero la destrezza e il coraggio acquisito: dovevano rubare delle offerte
dall'altare di Artemide, mentre i compagni li fustigavano a sangue.
Ad Atene gli efebi, giovani in età prematrimoniale, trascorrevano un periodo di marginalità
di un anno nei territori di confine, preparandosi a essere opliti e cittadini.
Nelle famiglie aristocratiche o regali il ruolo dell'iniziatore veniva solitamente affidato a un
membro della famiglia materna, nonno o zio. Ciò permetteva di rafforzare il legame con la famiglia
materna, garantendo alleanze e limitando possibili rivalità, e di inviare il giovane oltre frontiera
nelle terre della famiglia della madre (fosterage). E' il caso di Odisseo, accompagnato dagli zii
materni sul monte Parnaso presso colui che gli aveva dato il nome da neonato, il nonno materno
Autolico (il cui nome rivela una natura di uomo-lupo e il mito vuole dotato di virtù magiche).
Presso di lui Odisseo partecipa a una caccia al cinghiale durante la quale riporta una ferita, la cui
cicatrice funge da marchio iniziatico e permetterà poi alla nutrice di riconoscerlo al suo ritorno ad
Itaca.
immagine: giovani eroi impegnati nell'uccisione del cinghiale che terrorizzava la città di Calidone
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I periodi di schiavitù al servizio di sovrani stranieri e che il mito ricorda per tanti dei ed eroi
rappresentano probabilmente una trasfigurazione mitica del periodo di fosterage. Conosciamo
anche forme di prostituzione sacra femminile (periodi di segregazione in cui le giovani dovevano
avere rapporti sessuali in cambio di offerte a favore del tempio) che potrebbero essere interpretate
come periodi di marginalità obbligatoria con funzione iniziatica.
Nelle iniziazioni maschili all'età adulta, la fase di marginalità, che spesso coincide con il
periodo di educazione alla caccia, è di solito soggetta a tabù sessuali.
immagine: caccia al leone
Al cacciatore viene imposta un'astinenza che ha motivazioni di tipo magico (per ricevere
dalla natura un animale bisogna restituire alla natura una parte della propria energia vitale) e sociale
(i rapporti sessuali fuori del matrimonio possono essere socialmente disgreganti). Il giovane che
infrange questo divieto fallisce la sua prova iniziatica e nel mito trova la morte o si cristallizza nella
fase di marginalità (Meleagro, Atteone, Melanione). Nei contesti di marginalità iniziatica viene
invece consentita l'omosessualità: a Creta il giovane veniva rapito da un adulto, che gli impartiva al
di fuori della città per un certo periodo un'educazione militare e lo iniziava sessualmente; l'adulto
riconduceva poi il giovane in città, facendogli dono pubblicamente di un'armatura da oplita, che ne
testimoniava il nuovo status di soldato e di cittadino.
Il rapporto tra l'erastés (l'adulto "amatore") e l'eromenos (il giovane "amato") è ben
testimoniato dalla letteratura e dai racconti mitologici. Aristofane ne parla come di una pratica
aristocratica tradizionale al suo tempo non ancora del tutto in disuso. Il battaglione sacro di Tebe,
ancora nel IV secolo, era composto da coppie di amanti.
immagine: erastes ed eromenos
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L'omosessualità iniziatica è testimoniata anche in ambito femminile: a Sparta venivano
celebrati matrimoni simbolici tra ragazze; a Lesbo, nel tiaso di Saffo, istituzione che curava
l'educazione delle giovani aristocratiche, l'amore tra ragazze aveva una funzione paideutica,
insegnando i valori della grazia e della seduzione, necessari alla vita coniugale.
Nei riti di passaggio all'età adulta con funzione prematrimoniale ha una grande importanza il
travestimento sessuale, testimoniato nei rituali di moltissime città greche (ad esempio ad Atene in
occasione delle Oschophorie, a Sparta nei riti per Artemide Limnatis e a Creta nella pratica
dell'ekdusia). I giovani, indossando abiti del sesso opposto, praticano una marginalità di tipo
sessuale che li porta a contatto con la sfera dell'altro (così come chi viene iniziato alla caccia si
traveste con pelli di animale) e li predispone al matrimonio. Nel mito è celebre l'episodio
dell'infanzia di Achille, in fase marginale nell'isola di Sciro, travestito da donna. Ad Argo e a Sparta
la prima notte di nozze le ragazze si travestono da uomini. Il taglio dei capelli, che per i ragazzi
coincide di solito con l'ingresso all'età adulta, testimonia la fine dell'adolescenza (in cui un ragazzo
può essere scambiato per una ragazza) e al tempo stesso simboleggia una rinascita (la rasatura lo
rende simile a un neonato).
PER SAPERNE DI PIÙ
Per un’introduzione alla mitologia e alla cultura greca:
Vernant, Jean-Pierre, L’universo, gli dei, gli uomini, M. Melotti (a cura di) , Einaudi scuola,
Milano, 2003.
Sul concetto di rito di passaggio:
van Gennep, Arnold, I riti di passaggio, Boringhieri, Torino 1981 (Parigi 1909).
Sui riti di passaggio nella cultura greca:
Dodd, David e Faraone, Christopher (a cura di), Initiation in Ancient Greek Rituals and
Narratives, Routledge, New York – London 2003.
Jeanmaire, Henri, Couroi et Courètes. Essai sur l’éducation spartiate et les rites
d’adolescence dans l’Antiquité hellénique, Lille-Paris 1939.
Melotti, Marxiano, Cadmo e la fonte magica. Strategie mitiche per la costruzione dello
spazio sociale, in F. Cordano (a cura di), Giornata tebana, Cuem, Milano 2002.
Melotti, Marxiano, Lo sguardo di Orfeo; l’amore, il viaggio, la morte, in M. Melotti e G.
Guidorizzi (a cura di), Orfeo e le sue Metamorfosi. Mito, arte, poesia, Carocci, Roma 2005.
Melotti, Marxiano, Crossing Worlds: Space, Myth and Rites of Passage in Ancient Greek
Culture, in K. Mustakallio (a cura di), Hoping for Continuity. Childhood, education and Death in
Antiquity and the Middle Ages, Acta Instituti Romani Finlandiae, Roma 2005.
Sergent, Bernard, L’homosexualité initiatique dans la mythologie grecque, Payot, Parigi
1984.
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MITO, ATLETICA E RITI DI PASSAGGIO: EUTIMO DI LOCRI E L’EROE DI
TEMESA
(testo di Marxiano Melotti pubblicato in G. Guidorizzi, “Letteratura greca”, Einaudi Scuola 2005)
La “Guida della Grecia” di Pausania costituisce uno straordinario documento di storia del
folclore che ci permette di conoscere, spesso per testimonianza diretta, alcune delle credenze più
insolite e quindi interessanti della cultura greca. La storia di Eutimo e dell’Eroe di Temesa (6, 6, 411) è senza dubbio una di queste. Eutimo era uno dei pugili più celebri dell’antichità: la sua fama e
lo spazio che Pausania gli dedica ci ricordano che l’atletica, concepita come preparazione ed
equivalente simbolico della guerra, costituiva un’attività di grande prestigio nel mondo antico.
immagine: scontro tra pugili
Il giovane aristocratico che partecipava a gare interstatuali, come le Olimpiadi, incarnava il
modello tradizionale dell’eroe pronto a difendere la propria città. Una vittoria sportiva garantiva un
importante ritorno di immagine per la polis che spesso sponsorizzava la partecipazione dei propri
atleti: il successo del campione era motivo di orgoglio per tutta la comunità che indirettamente
vedeva così esaltata la propria ricchezza e la propria forza militare.
immagine: Bronzo di Riace.
Museo Archeologico di Reggio Calabria.
Secondo Sandro Stucchi rappresenterebbe
Eutimo di Locri, pugile eroicizzato dopo la morte
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Pausania spiega che Eutimo, campione di Locri, era considerato “figlio del fiume Cecine,
che segna il confine fra il territorio di Locri e quello di Reggio”. Tale indicazione da un lato mostra
l’importanza politica delle colonie della Magna Grecia che partecipavano da protagoniste ai grandi
giochi panellenici, dall’altro indica un interessante processo di eroicizzazione del campione
sportivo, i cui successi entrano a far parte della tradizione della città e quindi della sua storia mitica:
il pugile viene equiparato a un eroe del mito, creatura significativamente legata al mondo marginale
dei fiumi e dei confini. L’eroe nasce sul confine perché, in una duplice prospettiva simbolica e
politica, è un individuo intermediario tra i mondi e difensore del territorio della comunità.
immagine: il teatro di Locri.
La vicenda di Eutimo, narrata da Pausania, mostra la profonda interrelazione tra mito e
realtà sociale. “Odisseo, nel suo peregrinare dopo la presa di Ilio, fu sbattuto dai venti in diverse
città dell’Italia e della Sicilia, e giunse con le sue navi anche a Temesa”. I racconti omerici
costituivano uno dei miti fondanti dell’identità greca e le diverse città, soprattutto nel mondo
coloniale, rielaboravano di continuo le vicende di Odisseo per legare la storia locale al più celebre
racconto della cultura greca. “Lì, uno dei marinai, ubriaco, fece violenza a una vergine e per questo
misfatto fu lapidato dalla gente del luogo”. Odisseo e i suoi compagni sono eroi culturali e
fondatori, che portano cioè cultura e fondano istituti rituali e politici nei luoghi che visitano. In
questo caso un individuo fortemente connotato in senso marginale, quale marinaio (essere erratico
in continuo movimento tra i mondi) e ubriaco (creatura dell’eccesso psichicamente border line) si
rende colpevole di un atto di violenza che probabilmente nasconde un rito di iniziazione sessuale.
La giovane vergine viene violentata da un adulto iniziatore che la introduce nella classe d’età della
sessualità riproduttiva e del matrimonio.
immagine: scena di rapimento iniziatico
in un rilievo di Locri. Ade rapisce Core.
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Il mito trasfigura spesso queste figure di iniziatori in mostri primitivi e violenti. Non a caso anche
nel nostro racconto l'iniziatore viene rappresentato come un demone: “Senza tenere in alcun conto la
sua fine, Odisseo salpò e proseguì il suo viaggio, ma il demone dell'uomo lapidato non lasciava
passare nessuna occasione per uccidere a sua volta quelli di Temesa, vendicandosi sulla gente di
tutte le età”.
L'individuo insepolto non abbandona il mondo fenomenico, ma resta una figura liminale che, da
fantasma, interviene nelle vicende umane. Tale natura attiva e di passaggio del revenant diventa una
buona metafora per rappresentare le attività di individui speciali, come iniziatori, indovini e
sacerdoti. L'iniziatore incarna una figura mitica che proviene dal mondo altro del passato e, in
questo caso, della cultura omerica. “Gli abitanti del luogo nutrivano l'intenzione di fuggire del tutto
dall'Italia, ma la Pizia non permise che abbandonassero Temesa e ordinò loro di placare l'Eroe,
destinandogli un'area sacra e costruendovi un tempio, e di dargli ogni anno in moglie la più bella fra
le fanciulle di Temesa”. La comunità costruisce un episodio mitico che possa costituire l'atto
fondativo di una cerimonia annuale di carattere iniziatico e prematrimoniale e dell'istituzione di un
santuario che, con la sua “area sacra” (temenos), modifica e culturalizza il territorio civico. Lo
stupro non viene presentato come atto di violenza, ma come pratica rituale accettata dalla città: “Ed
essi compirono le prescrizioni del dio e, quanto al resto, non ebbero più nulla da temere da parte del
demone”.
l racconto di Pausania a questo punto si complica, giacché da un lato intreccia il mitico passato omerico
con una figura come Eutimo, che la tradizione colloca in un preciso quadro temporale misurato dalle sue
vittorie olimpiche, e dall'altro sovrappone un rito di passaggio maschile a uno femminile. “Eutimo,
giunto a Temesa mentre si compiva il tradizionale rito per il demone, s'informò della loro situazione e fu
preso dal desiderio di entrare nel tempio e guardare la ragazza; come la vide, dapprima ne ebbe
compassione e poi se ne innamorò: la fanciulla gli giurò che se l'avesse salvata lo avrebbe sposato ed
Eutimo, vestite le armi, attese a pie' fermo l'assalto del demone”. Eutimo, secondo un tipico modulo
fabulistico, viene presentato come un giovane eroe che decide di affrontare un mostro per salvare la
donna che intende sposare. Il racconto in realtà sta descrivendo un tradizionale percorso iniziatico
diffuso nella Grecia aristocratica dell'età arcaica e in molte culture di interesse etnografico. Il giovane
nella sua fase marginale vive al di fuori della città e viene educato alle attività di caccia e di guerra:
Eutimo infatti è presentato come individuo errante e sottoposto a prove di valore (è di ritorno dalle
Olimpiadi) che deve liberare il territorio civico dalla presenza di una creatura anticulturale per mostrare
alla comunità le capacità acquisite ed essere così accolto nel gruppo dei guerrieri adulti e dei maschi
capofamiglia in grado di assicurare una discendenza legittima all'elite che controlla la città.
L'improvviso desiderio di entrare in uno spazio speciale come quello del tempio segnala lo stato di
trance e di marginalità psichica che caratterizza l'iniziando e serve per indicare il suo ingresso in
un'ulteriore fase di marginalità spaziale e rituale rappresentata dal santuario. L'ingresso nel tempio
indica l'inizio del rito. Allo stesso modo lo sguardo magico, che immediatamente crea un'intesa erotica
trai due giovani, segnala l'ambito sessuale del racconto e ribadisce il necessario contesto di marginalità
psichica. I due giovani si trovano rinchiusi nello spazio speciale del santuario per affrontare una prova
iniziatica che segnalerà alla comunità la loro maturità sessuale e il loro passaggio dalla classe d'età
prematrimoniale a quella degli adulti pronti al matrimonio. Il giuramento della ragazza si configura
come un atto di sottomissione, normale in una cultura maschile e maschilista, e una promessa
matrimoniale. Il giovane prova la propria maturità e al contempo conquista la sposa annientando
simbolicamente l'adulto iniziatore che di fatto è anche un datore di spose.
Eutimo “riuscì vincitore nel duello e l'Eroe, cacciato dalla terra, scomparve immergendosi in mare;
Eutimo celebrò magnifiche nozze e gli uomini di quel paese furono per sempre liberati dal
demone”. La sconfitta e il conseguente allontanamento dell'iniziatore mostrano il distacco psichico
del giovane dalla sua fase di marginalità. Un aspetto di grande rilevanza culturale è costituito dal
ruolo di ponte tra mito e realtà svolto dalle Olimpiadi in questa vicenda. In una prospettiva storicoantropologica infatti i giochi atletici possono essere considerati come il rito che, nella Grecia postarcaica delle polis, gradualmente sostituì gli antichi riti di passaggio alla classe adulta con le loro
prove di valore. Il racconto di Pausania, che lega le vittorie olimpiche di Eutimo al suo successo sul
mostro, restituisce ai giochi atletici il loro originario valore iniziatico.
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Pausania termina la sua narrazione con una singolare testimonianza: “mi è capitato di vedere una
pittura che era una copia di una pittura antica. Raffigurava (…) il demone che Eutimo scacciò,
terribilmente nero di colore e tremendo in tutto il suo aspetto, ed era avvolto in una pelle di lupo”.
L’Eroe di Temesa rivela la sua natura rituale di uomo-lupo, quale individuo che indossa una pelle di
lupo e si comporta da lupo per mostrare il proprio ruolo di intermediario tra il mondo selvaggio
della natura e quello culturale della polis
I travestimenti con pelli animali costituiscono una caratteristica dell’immaginario iniziatico
(si pensi alla pelle di leone di Eracle) che ha fortemente suggestionato l’immaginario collettivo
dando origine a credenze, come la licantropia, ancora presenti nel folclore moderno.
PER SAPERNE DI PIÙ
Per la lettura di Pausania si consiglia:
Pausania, Guida della Grecia libro 6: Elide e Olimpia, G. Maddoli e M. Nafissi (a cura di),
Fondazione Lorenzo Valla, A. Mondadori, Milano 1999.
Su atletica e giochi Olimpici:
Stampolidis, N. e Tassoulas, Y. (a cura di), Magna Graecia. Athletics and the Olympic Spirit
on the Periphery of the Hellenic World, Museum of Cycladic Arte, Athens 2004.
Swaddling, Judith, The Ancient Olympic Games, British Museum Press, London 2004.
Sul mito di Eutimo di Locri:
Cordiano, Claudio, La saga dell'eroe di Temesa, in “Quaderni Urbinati di Cultura Classica”
60, 3, 1998.
Visentin, Monica, La vergine e l’eroe. Temesa e la leggenda di Euthymos di Locri,
Edipuglia, Bari 1992.
Su licantropia e riti di passaggio:
Gernet, Louis, Dolon le loup, in Anthropologie de la Grèce antique, Flammarion, Paris 1982
(1968).
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IFIGENIA: SACRIFICIO E INIZIAZIONE
Testo di Marxiano Melotti pubblicato in “La Macchina del Tempo” (dicembre 2002).
Una ragazza ingenua e innamorata. Un amante sciocco e ambizioso. Un padre cinico e
crudele. Non è la solita storia di amore e morte, ma la trama, semplice ad avvincente, di Ifigenia in
Aulide, un mito antichissimo che per secoli ha affascinato artisti di ogni tipo, dal greco Euripide a
Christoph Willibald Gluck, che alla fine del ‘700 dedicò a questo mito una celebre opera.
Ifigenia non era una ragazza come le altre, ma la figlia del più potente sovrano greco,
Agamennone, capo di un esercito immenso che si preparava ad attaccare la città di Troia. Per il
padre era la grande occasione: gli eserciti di tutta la Grecia al suo comando, pronti a tentare la più
grande impresa mai tentata. Attraversare il mare Egeo con migliaia di navi e, con la scusa di un
rapimento da vendicare, impossessarsi di una città ricca oltre ogni immaginazione. Ma la flotta,
riunita nel porto di Aulide, non riesce a salpare. Non c’è vento. Agamennone è disperato e, da buon
greco, chiede aiuto al suo indovino. La risposta è chiara: Artemide, dea della caccia, è irata col re
che le ha ucciso una cerbiatta sacra; Agamennone deve placare la dea sacrificano la figlia. E qui
comincia l’opera. Che fare? Agamennone cede: è un re e un guerriero, non può rischiare di perdere
il comando. Ma ha paura delle reazioni della moglie (non ha tutti i torti: è la terribile Clitennestra
che un giorno, al suo ritorno dalla guerra, lo assassinerà senza alcuna pietà) e quindi attira la figlia
al campo col miraggio di un matrimonio: Ifigenia diventerà la sposa del più grande degli eroi,
Achille. La ragazza è ancora una bambina e, all’idea del matrimonio, impazzisce di gioia e si
innamora subito perdutamente del promesso sposo. Da parte sua Achille non fa una bella figura: la
ragazza gli piace, ma sa bene che, per ottenere la gloria, deve partire per la guerra… Qui la storia si
complica: Agamennone vorrebbe fermare il sacrificio, ma Ifigenia, convinta di doversi sposare,
insiste… e da qui è meglio non raccontare più nulla per non togliere il piacere dello spettacolo.
La morte delle vergini
Ma che cosa significava per i Greci questo mito? E’ possibile che esaltassero le gesta di un
uomo come Agamennone, capace di uccidere la figlia? La realtà è un po’ più complessa. Ad Aulide
restano tracce di un santuario di Artemide, nel quale si svolgevano riti che sono stati messi in
relazione con altri due importanti centri di culto: i santuari di Artemide a Brauron e a Munichion.
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immagine: sacrificio in onore
di Artemide a Brauron
In tutti e tre i casi si tratta di aree speciali, lontane dai centri abitati e prospicienti il mare.
Luoghi ideali per celebrare dei “riti di separazione”. Le giovani, in età pre-matrimoniale, dovevano
trascorrere un periodo di isolamento in queste località. Il temporaneo distacco dalla famiglia e dalla
città le preparava a quello definitivo, che sarebbe presto giunto col matrimonio. Il padre che uccide
la figlia, in quest’ottica rituale, ha pertanto un valore simbolico: rappresenta l’allontanamento della
figlia dalla casa paterna. Tanto più che lo stesso matrimonio veniva celebrato con rituali non
dissimili da quelli funerari: la ragazza veniva allontanata dalla sua casa proprio come se fosse un
cadavere. Molto spesso nel mito morte e matrimonio si confondono e la ragazza che si prepara alla
cerimonia viene rappresentata come “sposa di Ade”, il dio dei morti. D’altra parte lo stesso periodo
di isolamento costituiva una sorte di morte temporanea e per questo, nell’immaginario, veniva
spesso rappresentato come un’uccisione.
Ma, tranquilli, era solo una morte simbolica. Non a caso, secondo il mito (e qui sveliamo
un’altra parte della storia), quando il sacerdote abbassa il coltello sacrificale su Ifigenia, la ragazza
scompare e, misteriosamente, si materializza una cerbiatta (l’animale ucciso dal padre) o, in altre
versioni, un’orsa. Anche questa immagine ha un valore rituale: la ragazza che trascorre il suo
periodo lontano dalla città, spesso in boschi, assume infatti i tratti simbolici di un animale. In molti
casi si praticavano anche forme di travestimento: le ragazze riunite a Brauron venivano chiamate le
“orsette di Artemide”.
immagine: un'orsetta di Artemide Brauronia
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E, proprio a Brauron, Ifigenia era oggetto di un culto speciale: secondo la tradizione venne
infatti sepolta lì e gli uomini, a cui fosse morta la moglie durante il parto, dedicavano sulla sua
tomba delle preziosissime vesti.
Ifigenia era una dea?
Ecco che l’immagine di Ifigenia comincia a svelarsi. Non solo era una sorta di dea che
proteggeva le ragazze prossime al matrimonio, ma incarnava anche le giovani mogli morte di parto.
Per questo motivo si pensa che la figura di Ifigenia nasconda un’antica dea della natura e della
sessualità, non diversa da Artemide. In alcune città greche è addirittura attestato un culto di
Artemide-Ifigenia. Ed infatti, come Artemide, anche Ifigenia aveva un “lato oscuro della forza”:
sappiamo che veniva venerata anche come Ecate, inquietante dea della notte e della magia. Un mito
racconta addirittura che, dopo la sua morte, Ifigenia si trasformò in una vecchia che cuoceva il
cuore dei morti. Ma, come in tutti i miti, c’è un lieto fine. Secondo alcuni, il sogno d’amore
dell’ingenua bambina venne finalmente esaudito. Al termine di una lunga vita come sacerdotessa di
Artemide, Ifigenia venne accolta nell’Isola dei Beati, il Paradiso greco, dove, eternamente giovane,
si sarebbe finalmente unita col suo cinico amante, morto prematuramente sui campi di Troia.
I sacrifici umani
La vicenda di Ifigenia apre un inquietante spiraglio sui costumi e le credenze del mondo
antico. Nei miti i sacrifici umani sono piuttosto ricorrenti. Nella maggior parte dei casi, come per
Ifigenia, si tratta di morti metaforiche che, in realtà, celano dei riti di passaggio alla classe adulta. Si
pensi all’infanzia di Achille, immerso dalla madre in calderoni d’acqua bollente o, addirittura,
passato nel fuoco. Il genitore non vuole uccidere il bambino, ma accrescerne magicamente la forza
e teatralizzare un processo di morte e rinascita. Oppure, come nel caso biblico di Isacco, si tratta di
una prova di fede: come il re ubbidisce alla richiesta di Dio, così il suddito deve ubbidire al suo re.
A volte però il sacrificio umano sembra avvenire per davvero: un individuo deve sacrificare,
più o meno volontariamente, la propria vita per il bene della comunità. Il risultato sarà tanto più
efficace quanto più importante sarà l’individuo prescelto. E’ chiaro che la morte di un re acquista un
significato particolare. Lungi dal costituire un’idea pericolosamente eversiva (è giusto uccidere il
sovrano quando la comunità attraversa un periodo di crisi), è in realtà uno dei cardini dell’ideologia
politica antica: il re è l’unico vero salvatore del popolo; chi vuole impossessarsi del suo potere deve
essere anche pronto a sacrificare la vita in caso di necessità.
Il sacrificio del re
L’efficacia del sacrificio del re poggia su due princìpi: la forza magica del sacrificio e
l’energia magica del sovrano. Il sacrificio è infatti un patto costrittivo: gli dei ricevono un dono
dagli uomini e sono costretti a ricambiare. Non solo, devono restituire una quantità di energia vitale
equivalente a quella ricevuta. E’ chiaro che, in quest’ottica, il sacrificio umano garantisce la
massima energia vitale possibile. Per far fronte a una pestilenza o a una carestia particolarmente
grave il sacrificio umano si presenta quindi una buona soluzione… A Santorini e in Perù, ad
esempio, sono state ritrovate tracce di sacrifici umani compiuti probabilmente nel tentativo di
salvare la popolazione da un’eruzione vulcanica. Nella storia di Roma si ricorda un episodio forse
solo parzialmente mitico: la morte volontaria di Publio Decio Mure, che, prima di farsi uccidere dai
nemici, promise agli dei infernali la propria vita in cambio della vittoria del proprio esercito.
D’altra parte il re, come essere più vicino agli dei, è dotato di una speciale energia magica, dalla
quale, secondo molti popoli, dipenderebbe anche il corretto susseguirsi delle stagioni. E’ su questo
principio che poggia il “sacrificio stagionale” del sovrano, un rituale relativamente diffuso presso i
popoli dell’antichità e segnalato in numerose culture tribali del mondo moderno. Ogni anno, dopo i
freddi e sterili mesi invernali, bisogna propiziare il ritorno della primavera. Agli occhi della
comunità i poteri del re appaiono ormai indeboliti: bisogna rinnovarli, rinnovando il sovrano.
Il re deve morire o, per lo meno, affrontare un duello simbolico o una prova pericolosa che
ne riconfermi la forza.
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Il re non muore
L’uccisione del re infatti costituisce più un modello mitico che una possibilità concreta. La
comunità di solito sacrifica un sostituto: un individuo viene vestito e onorato come re, ma, dopo un
certo periodo, viene bastonato, scacciato o forse addirittura ucciso. Questo “capro espiatorio”, che i
greci chiamavano pharmakòs, viene scelto tra gli individui più marginali del gruppo, come vecchi o
deformi. E’ uno dei principi fondativi del Carnevale: un breve periodo di ribaltamento degli
equilibri sociali che termina con il ritorno dell’ordine e, insieme, della primavera.
Un caso particolare è l’antico rituale italico del cosiddetto “re del bosco”. Nelle cupe foreste
di Nemi si svolgeva ogni anno un duello o, meglio, una sorta di caccia sacra: il sacerdote del
santuario di Diana, “re del bosco”, affrontava il giovane che aspirava a succedergli. Questi,
uccidendo il vecchio re, si impadroniva del “Ramo d’oro”, emblema di questa regalità sacra e
chiave simbolica del regno degli Inferi. Il re insomma - è questa la morale - non muore mai. “Il re è
morto! Viva il re!”.
PER SAPERNE DI PIÙ
Per la lettura della tragedia greca:
Euripide, Ifigenia in Aulide; traduzione, premessa al testo e note di Franco Ferrari, Rizzoli,
Milano 2000 (5 ed).
Sul mito di Ifigenia e i riti di passaggio femminili:
Dowden, Ken, La vergine e la morte: l'iniziazione femminile nella mitologia greca, ECIG,
Genova, 1991.
Faraone, Christopher, Playing the Bear and Fawn for Artemis. Female initiation or
substitute sacrifice?, in Dodd, D. B. (a cura di), Initiation in ancient Greek rituals and narratives :
new critical , Routledge, London –New York, 2003.
Hughes, Denis D., I sacrifici umani nell'antica Grecia, Salerno editore, Roma 1999.
Lyons, Deborah, Gender and immortality: heroines in ancient Greek myth and cult,
Princeton University Press, Princeton 1997.
Sul mito del ramo d’oro e la morte del re:
Frazer, James George, Il ramo d'oro: studio sulla magia e la religione, Bollati Boringhieri,
Torino 1998 (1890-1915).
Sull’istituto del pharmakos:
Bremmer, Jan, Scapegoat Rituals in Ancient Greece, in Buxton, R. (a cura di), Oxford
Readings in Greek Religion, Oxford University Press 2000.
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LA GUERRA E IL MODELLO EROICO
Testo di Marxiano Melotti pubblicato in “Gli dei, l’universo, gli uomini” di J.- P. Vernant, Einaudi
Scuola 2003.
Nelle antiche società mediterranee la guerra costituiva uno dei momenti centrali della vita
della comunità. La guerra consentiva infatti di difendere il territorio, con abitazioni, campi e
magazzini, o di acquisire nuove risorse economiche, vale a dire campi, città, ricchezze di altre
comunità e anche individui da impiegare come schiavi. La guerra era un’attività di gruppo che
contribuiva a definire l’organizzazione sociale e le sue gerarchie: un capo doveva coordinare le
attività militari, mentre i guerrieri ne dovevano accettare la supremazia. D’altra parte la formazione
di un gruppo di specialisti della guerra presupponeva una divisione del lavoro piuttosto complessa.
Vi dovevano essere gruppi sociali che delegavano a questi specialisti le attività militari,
ricompensandoli con una parte delle risorse della comunità. In molte società erano gli stessi
specialisti della guerra a controllare le ricchezze della comunità e a dirigerne la vita politica.
immagine:
combattimento tra guerrieri
Nel mondo greco arcaico la formazione e il consolidamento delle città si accompagnarono spesso a
una trasformazione dei rapporti sociali e delle tecniche di guerra. Si passò, a grande linee, da una
situazione in cui le città erano controllate da un re o da poche famiglie aristocratiche di guerrieri e
di ricchi proprietari terrieri dotati a volte anche di eserciti privati a una in cui la difesa del territorio
e l’amministrazione della città erano distribuite tra tutti i cittadini. L’Iliade riflette la prima
configurazione e veicola l’ideologia di questa società aristocratica che presupponeva una forte
solidarietà del gruppo dominante. Achille o Agamennone erano re-guerrieri a capo di contingenti di
guerrieri.
immagine: la dea Atena convince Achille,
irato con Agamennone, a non estrarre la spada
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Per poter vincere la guerra i combattenti dovevano superare le loro eventuali divisioni (l’ira
di Achille verso Agamennone mette a repentaglio tutta la comunità), anche se, per poter mantenere
inalterato il proprio prestigio sociale, e quindi la propria forza, dovevano reagire alle offese (Achille
non può subire passivamente l’insulto di Agamennone).
Nella polis democratica, come mostra Aristofane nelle sue commedie, il cittadino era un
piccolo proprietario terriero o un artigiano che prendeva parte attivamente a ogni fase della vita
sociale: interveniva nelle assemblee, poteva essere sorteggiato come giudice e combatteva come
soldato. Anche nella vita civile, soprattutto in epoca arcaica, la solidarietà era un valore fondante. I
soldati-cittadini, gli opliti, dovevano combattere insieme, perché proprio insieme costituivano la
città.
L’importanza sociale della guerra emerge anche dai racconti tradizionali. L’ideologia
guerriera del mondo omerico e quella aristocratica dell’età arcaica convergono nella
rappresentazione mitica del giovane eroe. Il modello è quasi lo stesso. Il giovane, che sia un futuro
re o il rampollo di un’importante famiglia cittadina, deve dimostrare il proprio valore per acquisire
prestigio e definire il suo status sociale. In questo contesto la caccia e lo sport si configuravano
come attività preparatorie alla guerra.
immagine: gara di pugilato
Venivano organizzati anche dei combattimenti tra gruppi di giovani che spesso costituivano
dei veri e propri riti di passaggio. Tra le prove di valore si possono anche ricordare le cacce
collettive, trasfigurate nei racconti mitici come grandiosi scontri con belve pericolose o animali
immaginari e duelli all’ultimo sangue con mostri inquietanti.
Un aspetto importante del sistema di pensiero arcaico, che il mito tende a mettere in
evidenza, è il ricorso alla metis, l’astuzia. Il buon guerriero non doveva essere solo forte, ma anche
astuto. Doveva saper fronteggiare gli eventi e cogliere il momento opportuno per agire e ingannare
il nemico. La metis era una virtù eroica che dimostrava il valore e l’intelligenza dell’individuo, che
peraltro vi doveva ricorrere con misura, evitando di creare inutili conflitti che potessero indebolire
la sua comunità.
Lo sviluppo democratico della città non cancellò i motivi mitici della lotta col mostro o della
caccia collettiva. Questi divennero anzi dei modelli “buoni per pensare” lo stesso ruolo del
cittadino, che doveva riaffermare la sua solidarietà con gli altri membri della polis, affrontare i
nemici della sua comunità ed essere anche pronto a morire per essa. Alcuni miti, come quelli
relativi alla lotta tra dei e giganti o tra eroi e centauri, poterono essere addirittura utilizzati in chiave
politica come metafora dello scontro tra la civiltà della polis e il “barbaro” mondo orientale.
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PER SAPERNE DI PIU
Sulla guerra nel mondo antico:
Ducrey, Pierre - Guerre et guerriers dans la Grece antique, Payot, Paris 1985.
Sordi, Marta (a cura di), Il pensiero sulla guerra nel mondo antico, Vita e pensiero, Milano
2001.
Vernant, Jean-Pierre, La bella morte e il cadavere profanato e La morte greca, morte a due
facce, in L’individuo, la morte l’amore, Cortina, Milano 2000.
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I SANTUARI
Testo di Marxiano Melotti pubblicato in “Le tracce della Storia” di G. Guidorizzi e E. Cantarella
(Einaudi Scuola 2000).
Nel mondo greco i santuari avevano una grandissima importanza. Le numerose attività
rituali che vi si praticavano non si limitavano infatti all’espressione del sentimento religioso, ma
interessavano molteplici aspetti della vita sociale (cerimonie di purificazione, riti di passaggio,
attività sportive).
immagine: il santuario di Delfi con
il tempio di Apollo, il teatro e lo stadio
Del resto, quando si parla dei santuari della Grecia antica, non ci si riferisce soltanto a
templi o ad altri edifici di culto, ma s’intende un’ampia area destinata alle attività rituali. Il
santuario era prima di tutto uno spazio simbolicamente separato dal resto del territorio e
caratterizzato da un’alterità che ne faceva un luogo speciale, adatto a eventi di particolare
significato. Questo terreno, simbolicamente sottratto al territorio civico o all’ambiente naturale, era
chiamato temenos, proprio come le porzioni di terra comune che nel mondo miceneo e omerico
erano riservate al sovrano. Il terreno dedicato alla divinità era delimitato da un recinto, che
segnalava l’alterità del luogo consacrato. Al suo interno si trovavano dei segnali della presenza del
dio: un bosco sacro, l’alsos, si configurava, ad esempio, come lo spazio selvaggio nel quale viveva
il dio o addirittura come il suo doppio simbolico, e una pietra o una statua di legno o di marmo
simboleggiavano la sua presenza. Di solito vi si trovava anche un tempio, che poteva racchiudere la
statua del dio e si configura come la sua casa. A differenza delle chiese cristiane però la parte più
importante dell’attività cultuale non avveniva all’interno del tempio, ma su un altare situato al suo
esterno. L’altare era il luogo ove venivano praticati i sacrificati delle vittime animali, le offerte con
cui i fedeli stabilivano un contatto simbolico con la divinità.
Il temenos aveva anche un forte valore politico. La demarcazione di un confine implicava
infatti un atto di possesso su una porzione di territorio sottratta alla natura, ai campi coltivati o al
nucleo urbano.
Esistevano santuari urbani ed extraurbani. I primi erano quelli situati all’interno dell’abitato, che
generalmente erano sede di culti e di riti più strettamente legati alla vita quotidiana della comunità.
Tra questi i più importanti erano quelli dedicati alla divinità protettrice della città. Ad Atena, ad
esempio, il tempio principale dell’Acropoli era il Partenone, dedicato ad Atena. I santuari
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extraurbani si trovavano spesso in zone di confine e avevano anche la funzione di marcare il
possesso politico di quel territorio da parte di una determinata comunità. Da questo punto di vista
assumevano una grande importanza le processioni annuali che, partendo dalle città, raggiungevano
questi santuari posti ai margini dello spazio da loro controllato, riaffermandone periodicamente la
soggezione. Una simile funzione avevano i combattimenti rituali che si svolgevano in alcuni di
questi santuari. Al valore iniziatico di questi scontri tra giovani, con cui questi ultimi mostravano di
poter accedere alla classe d’età successiva, s’intrecciava infatti un significato politico di controllo
militare sul territorio.
Un caso particolare era costituito da quei santuari che, come Delfi, si trovavano al di fuori
dei centri abitati, senza però dipendere da una particolare città. Delfi, ove si recavano fedeli
provenienti da ogni parte della Grecia, assunse rapidamente un importante ruolo politico e culturale,
con funzioni di mediazione diplomatica e di coordinamento delle attività coloniali delle diverse
città.
Immagine: il tempio di Apollo nel santuario di Delfi
Accanto ai santuari culturali di questo tipo ne esistevano però altri in cui lo spazio
consacrato si configurava come luogo in cui le divinità e le entità naturali si manifestavano
direttamente in uno spazio non culturale. Anche le grotte e le fonti, ad esempio, potevano costituire
dei luoghi speciali, percepiti come sedi di divinità o punti di contatto tra mondi diversi.
Un aspetto interessante di molti santuari era rappresentato dalle attività divinatorie. Folle di
fedeli si accalcavano ogni giorno in attesa dei responsi della divinità, che i sacerdoti distribuivano
previo versamento di offerte e compensi. La ricchezza accumulata da alcuni di questi santuari, come
Delfi, Eleusi e Cos, emerge dalla loro stessa monumentalità, testimoniata da templi, aree porticate,
edifici per la custodia delle offerte, teatri e, al di fuori del temenos, abitazioni per i sacerdoti e gli
inservienti, ricoveri per i pellegrini, bagni e stadi.
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PER SAPERNE DI PIU
Sulla religione greca:
Burkert, Walter, La religione greca di epoca arcaica e classica, Jaka Book, Milano, 2003.
Sui santuari nel mondo greco :
Buxton, Richard (a cura di), Oxford Readings in Greek Religion, Oxford University Press
2000, con i saggi: Guettel Cole, Susan, Demeter in the Ancient Greek City and its Countryside;
Sinn, Ulrich, Greek Sanctuaries as Places of Refuge; van Straten, Folkert, Votives and Votaries in
Greek Sanctuaries.
Delcourt, Marie, Les grands sanctuaires de la Grèce, PUF, Parigi 1992 (1947).
de Polignac, François, La nascita della città greca: culti, spazio e società nei secoli VIII e
VII a.C., Jaka Book, Milano 1991.
Halliday, William Reginald, Greek divination, Argonaut, Chicago, 1913.
Sordi, Marta (a cura di), Santuari e politica nel mondo antico, Vita e Pensiero, Milano
1983.
20
L’ACROPOLI DI ATENE
Testo di Marxiano Melotti pubblicato in “Le tracce della Storia” di G. Guidorizzi e E. Cantarella
(Einaudi Scuola 2000).
Molte città greche erano costituite da due parti con differenti funzioni: la città bassa, l’area
civile, in cui si trovavano le abitazioni e si svolgevano le politiche civili e commerciali, concentrate
attorno alla piazza dell’agorà, e la città alta, o akropolis, l’area sacra riservata al culto degli dei
protettori della città. Quest’ultima era in molti casi, come ad Atene, il nucleo originario della polis,
in cui, in epoca micenea, si trovava il palazzo-fortezza del sovrano, dalla duplice funzione di
controllo e di difesa, attorno al quale prese a svilupparsi un centro abitato, destinato a trasformarsi
gradualmente in città.
immagine: l'Acropoli di Atene
immagine: il tempio di Atena sull'Acropoli
I mutamenti economici che accompagnarono tale processo incisero anche
sull’organizzazione politica: il potere passò dal sovrano unico a un gruppo di famiglie aristocratiche
e, successivamente, all’insieme dei cittadini. Il cambiamento di funzione dell’acropoli riflette in
parte questa evoluzione: la sede del potere monarchico divenne il luogo dei culti che definivano
l’identità culturale della città e lo spazio simbolico della comunità. Ad Atene solo durante la
tirannia di Pisitrato e dei suoi figli (VI secolo a.C.) l’acropoli tornò a essere, per un breve periodo,
la sede del potere politico.
Per il fatto stesso di distaccarsi dal resto della città, l’acropoli acquista un’alterità spaziale
che riflette l’alterità dello spazio sacro rispetto a quello civile.
Ad Atene l’acropoli era dedicata principalmente al culto della dea Atena, la divinità
protettrice della polis. Il tempio a lei dedicato, il Partenone, domina ancor oggi la città, in tutta la
sua maestosità.
La sua costruzione, che avvenne durante il governo di Pericle (V secolo a.C.), nel periodo di
massima fioritura politica, economica e culturale della città, coinvolse i più celebri artisti
dell’epoca, tra cui lo scultore Fidia.
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immagine: processione di giovani cavalieri
(dal fregio del Partenone)
Le decorazioni del fregio scultoreo raffiguravano scene mitologiche, come la lotta dei Greci
contro le Amazzoni e contro i Centauri, che allegoricamente celebravano la superiorità dei Greci sul
barbaro mondo orientale e, in particolare, sui persiani sconfitti da pochi decenni, nonché la
posizione di predominio ormai assunta da Atene su gran parte dello stesso mondo greco. Il
Partenone custodiva infatti il tesoro della Lega di Delo, ossia i tributi che le città alleate erano
costrette a versare ad Atene per usufruire della sua protezione e poter svolgere le attività
commerciali. Una colossale e sontuosa statua di Atena, opera di Fidia, costruita con placche di oro e
di avorio, troneggiava nel tempio, quasi a simboleggiare la forza economica e politica della città.
L’edificio più importante dal punto di vista cultuale era l’Eretteo, nel quale era conservata lo
xoanon di Atena, ossia la primitiva statua di culto della dea sbozzata nel legno. Questa costruzione
racchiudeva l’area più sacra dell’acropoli, nella quale il mito ambientava gli episodi fondativi della
storia della città, fra cui la contesa tra Atena e Poseidone per il possesso dell’Attica. Il dio, come
segno di possesso, avrebbe piantato il suo tridente sull’acropoli, facendone sgorgare una fonte di
acqua salata; la dea invece vi avrebbe fatto crescere un olivo, la sua pianta sacra, simbolo della città
e delle sua attività agricole. Cecrope, primo re dell’Attica, in qualità di arbitro della contesa, decise
in favore della dea. Tanto il luogo in cui Poseidone avrebbe piantato la sua arma quanto quello in
cui Atena avrebbe piantato l’olivo si trovavano all’interno dell’Eretteo. Questo ulivo, bruciato dai
persiani durante la loro breve occupazione dell’acropoli, sarebbe miracolosamente rigermogliato
per testimoniare la protezione della dea e la rinascita della città. Nell’Eretteo si trovava la tomba di
Cecrope, il re metà uomo e metà serpente che sarebbe nato dalla terra stessa ed era il simbolo
dell’autoctonia e quindi dell’indipendenza politica e culturale degli Ateniesi. Vi si trovava anche la
tomba di Erittonio, eroe metà uomo e metà serpente, da cui derivò il nome dell’edificio. Anche il
mito di questo eroe era legato alle origini della città. Si raccontava infatti che Atena avesse affidato
alle figlie di Cecrope un paniere che custodiva Erittonio, nato dallo sperma di Efesto, fecondato
dalla Terra, e che le giovani, impazzite per aver aperto il paniere nonostante il suo divieto, si fossero
gettate dall’Acropoli. Il mito adombrava i riti di iniziazione femminile, praticati ad Atene ancora in
età classica, che prevedevano una fase di morte simbolica.
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PER SAPERNE DI PIÙ
Per la lettura di Pausania si consiglia:
Pausania , Guida della Grecia,libro 1: l’Attica, Musti D.- Beschi L. (a cura di), Fondazione Lorenzo
Valla, A. Mondadori, Milano 1982.
Sull’Acropoli e il Partenone:
Beard, Mary, Il Partenone, Laterza, Roma-Bari 2004.
Beschi, Luigi, Commento, in Pausania, Guida della Grecia, libro 1: l’Attica, Musti D.- Beschi L. (a
cura di), Fondazione Lorenzo Valla, A. Mondadori, Milano 1982, pp. 338-348.
Bianchi Bandinelli, Rainuccio, (a cura di). La Grecia nell’età di Pericle. Le arti figurative, Electa,
Milano, 1979.
Brouskari, Maria, The Monuments of the Acropolis, Ministry of Culture, Athens 1997.
Hurwit, Jeffrey Mark, The Athenian acropolis: History, Mythology, and Archaeology from the
Neolithic era to the Present , Cambridge University Press, Cambridge 1999.
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I GRECI E GLI ORACOLI
Testo di Marxiano Melotti pubblicato in “Gli dei, l’universo, gli uomini” di J.- P. Vernant, Einaudi
Scuola 2003.
Il mito di Edipo rappresenta una grandiosa riflessione sul senso del destino e sui limiti della
conoscenza. Costituisce però anche un interessante espressione dell’importanza che nel mondo
greco rivestivano i santuari, in particolare quelli oracolari, nei quali cioè si svolgevano pratiche di
tipo divinatorio.
Nelle vicende di Edipo la presenza dell’oracolo è costante. I genitori, spaventati da un
oracolo, lo "espongono" neonato sui monti, dove è raccolto da un pastore che lo affida ai regnanti di
Corinto che lo crescono come se fosse loro figlio. Una volta ragazzo, abbandona quella che crede la
sua famiglia, per sfuggire alla sorte che gli era stata profetizzata da un oracolo. Durante il suo errare
la Sfinge gli pone un enigma, che Edipo risolve con la stessa tecnica richiesta dall’interpretazione
degli oracoli.
immagine: Edipo e la sfinge (quadro di In gres)
immagine: la Sfinge
Diventato re di Tebe, per capire le cause della peste che sconvolge la città, fa interrogare
l’oracolo di Delfi e poi si rivolge all’indovino Tiresia.
Come si vede, l’oracolo svolge nel racconto una funzione fondamentale, suggerendo determinate
azioni che costituiscono i presupposti della vicenda eroica o ne integrano parti
importanti. Ciò non stupisce. Nel mondo greco la vita degli uomini e quella delle loro
comunità erano profondamente intrecciate con la divinazione.
L’oracolo costituiva una delle principali forme di comunicazione tra il mondo degli uomini e
quello degli dei. Il fedele, direttamente o attraverso un indovino, interrogava il dio, che rispondeva
appunto con oracoli o con segni la cui interpretazione poteva nuovamente richiedere l’intervento di
uno specialista. A Delfi la Pizia, la sacerdotessa di Apollo, raccoglieva in stato di trance il responso
del dio, che un collegio di sacerdoti traduceva in versi e trasmetteva all’interrogante. A Dodona in
Epiro si praticava una forma di dendromanzia: i responsi erano ottenuti interpretando il movimento
delle foglie di una quercia sacra a Zeus. A Lebadea in Beozia i fedeli scendevano in una grotta
sotterranea, dove si attendevano visioni, forse favorite dall’assunzione di droghe. Molti altri oracoli
erano invece connessi a pratiche terapeutiche. Ad Epidauro, dove si praticava l’incubazione, i fedeli
dormivano nel santuario del dio-guaritore, Asclepio, attendendo che un sogno indicasse loro la cura
da seguire o addirittura facesse loro apparire il dio stesso. A Patre in Acaia la divinazione avveniva
per catottromanzia: i malati interrogavano Demetra sul loro futuro guardando le deformazioni della
loro immagine riflessa in uno specchio calato su una fonte sacra.
In una prospettiva rituale i racconti che fanno riferimenti a oracoli mostrano l’importanza
dei santuari e dei loro sacerdoti nei percorsi iniziatici dei giovani aristocratici che il mito tende a
trasfigurare in avventure di giovani eroi. I riti di passaggio all’età adulta richiedevano l’intervento
di specialisti (sacerdoti dei templi o indovini), che sancissero ritualmente, con prove o altre
cerimonie, l’ingresso del giovane nella nuova classe d’età. Allo stesso modo i miti relativi alla
fondazione di città spesso descrivono, come nel caso di Tebe, le imprese di eroi che vagano per la
Grecia seguendo le enigmatiche indicazioni di un dio. Gli oracoli sono chiamati in causa non solo in
una funzione narrativa (in cui intervengono per consentire all’eroe di compiere un vincente percorso
iniziatico), ma anche in una funzione ideologica, per segnalare agli uditori che le città cui il mito fa
riferimento sarebbero state fondate per volontà di un dio. Lo spazio politico riceve insomma, grazie
all’oracolo, la sua consacrazione.
A questa funzione ideologica corrispondeva l’importante ruolo politico che alcuni santuari
effettivamente svolgevano nella società antica. In un mondo formato da una miriade di piccole cittàstato, essi da un lato assicuravano una fondamentale unità culturale e dall’altro offrivano uno spazio
di comunicazione politica tra le diverse città. I giochi atletici che si svolgevano nelle località in cui
avevano sede i principali santuari (gli olimpici a Olimpia, i pitici a Delfi, etc.) costituivano per i
giovani del mondo greco l’occasione di incontrarsi e di gareggiare per il prestigio della propria città.
Tra i vari santuari greci, quello di Delfi, consacrato ad Apollo, acquisì, a partire dall’VIII
secolo, un ruolo sempre più rilevante, soprattutto per quanto concerne le relazioni tra le diverse città
greche.
Per mezzo degli oracoli i suoi sacerdoti suggerivano guerre, alleanze e soprattutto imprese
coloniali volte a fondare nuove città. Sovrani e delegazioni cittadine cercavano di ottenere dai
sacerdoti di Delfi l’approvazione e la legittimazione delle loro scelte politiche e per questo recavano
ricche offerte, in denaro o in opere d’arte, destinate a incrementare ulteriormente la forza economica
e il prestigio del tempio.
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Immagine: il santuario di Delfi
PER SAPERNE DI PIÙ
Su oracoli e divinazione :
Cordano, Federica e Grottanalli, Cristiano, Sorteggio pubblico e cleromanzia dall’antichità
all’età moderna, Università degli Studi di Milano, Dipartimento di Scienze dell’antichità, Et,
Milano 2000.
Delcourt, Marie, Les grands sanctuaires de la Grèce, PUF, Parigi 1992 (1947). Un grande
classico degli studi.
de Polignac, François, La nascita della città greca: culti, spazio e società nei secoli VIII e
VII a.C., Jaka Book, Milano 1991.
Melotti, Marxiano, Interrogare il futuro: l’arte della divinazione, in Dizionario
dell’Antichità classica, Garzanti, Milano 2000:
Ogden, Daniel, Greek and Roman Necromancy, Princeton University Press, Princeton –
Oxford 2001.
Parker, Robert, Greek States and Greek Oracles, in Buxton, Richard (a cura di), Oxford
Readings in Greek Religion, Oxford University Press 2000.
Sfameni Gasparro, Giulia, Oracoli, profeti, sibille: rivelazione e salvezza nel mondo antico,
Las, Roma 2002.
Vernant, Jean- Paul (a cura di), Divinazione e razionalità, Einaudi, Torino 1981, (1974): una
raccolta di saggi sui diversi aspetti e il significato della divinazione nelle diverse culture. Un
classico.
Sul mito di Edipo:
Bettini, Maurizio e Guidorizzi, Giulio (a cura di), Il mito di Edipo. Immagini e racconti
dalla Grecia a oggi, Einaudi, Torino 2004.
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LA DIVINAZIONE
Testo di Marxiano Melotti pubblicato in “Enciclopedia dell’Antichità classica” (Garzanti 2000).
Nelle comunità tradizionali non esiste una vera distinzione tra indovini, stregoni e guaritori.
Il pensiero magico, la pratiche religiose e quelle terapeutiche tendono infatti a confondersi. Nel
mondo antico queste figure assumono ruoli e funzioni diverse secondo il contesto sociale e culturale
in cui operano. La divinazione, ossia l'arte con cui si pretende di prevedere il futuro e interpretare
gli eventi, ha un ruolo importante, soprattutto nelle culture agricole. Non a caso la civiltà
mesopotamica sviluppò, assieme a tecniche di misurazione e di calcolo, un complesso sistema
divinatorio. Nel mondo greco e latino la divinazione è una pratica ampiamente diffusa in tutti gli
strati delle popolazione. Accanto a forme di divinazione popolare, ispirate a pratiche di magia
simpatica o all'osservazione della natura, si delineano delle vere e proprie tecniche, cui
corrispondono degli specialisti. Il mondo greco conosce numerose dinastie di indovini guaritori. La
frequente appartenenza a dinastie regnanti di queste figure rivela una concezione sacrale della
regalità: il prestigio del sovrano dipende in gran parte dalle sue capacità magiche e dal suo rapporto
con il mondo della natura e degli dei. Anche per questo l'iniziazione mitica del giovane principe
coincide spesso con il percorso iniziatico dell'indovino: entrambi devono acquisire dei saperi che li
configurano come appartenenti a classi speciali. D'altra parte l'ereditarietà di molte cariche
sacerdotali, riservate alle famiglie aristocratiche, che si riscontra anche in epoca classica, mostra la
contiguità tra potere e istituti religiosi. Esistevano anche congregazioni di sacerdoti e indovini che,
come quelle dei rapsodi, si tramandavano il loro sapere e tendevano a configurarsi come delle vere
e proprie famiglie. Conosciamo anche indovini e guaritori itineranti, spesso accolti con diffidenza
dalle comunità cittadine e talvolta tacciati di ciarlataneria. La divinazione costituiva la pratica
principale di molti grandi santuari, che, per il prestigio dei propri vaticini, attiravano migliaia di
devoti e assolvevano un ruolo decisivo, come nel caso di quello di Delfi, nei rapporti politici tra le
diverse città e nella fondazione delle nuove colonie. Quest'uso strumentale della divinazione è ben
presente anche nel mondo romano, dove l'interpretazione degli auspici interveniva per legge sul
corso dell'attività politica, permettendo o impedendo assemblee, votazioni e imprese militari, e la
carica di augure era ambita da chi faceva carriera politica. In epoca imperiale si assiste a una vera e
propria esplosione dell'interesse per i culti di tipo terapeutico-divinatorio, come quelli praticati a
Epidauro, con pellegrinaggi dalle parti più lontane dell'impero. La graduale formazione di un sapere
medico, peraltro non pienamente distinto da forme di magia simpatica e cure di tipo tradizionale,
non eliminò mai le pratiche terapeutiche di indovini e sacerdoti. A partire dall'epoca ellenistica si
assiste alla diffusione di pratiche magiche e religiose di derivazione orientale, egiziana ed ebraica e
alla formazione, soprattutto nei centri urbani, di una cultura sincretica, in cui gli elementi del sapere
terapeutico e divinatorio tradizionale si fondono con concezioni astrologiche e simbolismi
escatologici di altre culture.
Nell'immaginario tradizionale l'indovino ha una serie di caratteristiche precise. E' necessario infatti che la comunità gli
riconosca un carisma particolare, come intermediario con il mondo altro, ossia il mondo della natura, dei demoni, dei
morti e degli dei. Da lui dipendono eventi importanti, come la purificazione e le pratiche espiatorie di colpe individuali
e collettive, la celebrazione di alcuni riti di passaggio, la cura di alcune malattie psichiche, l'evocazione dei morti o
l'allontanamento di demoni e fantasmi. Questo suo ruolo mediatico viene rappresentato negli stessi termini di
marginalità e di passaggio presenti nell'immaginario mitico e iniziatico: l'indovino è pertanto colui che si muove tra i
mondi, tra vita e morte, maschile e femminile, umano e animale, civiltà e natura. Significativi da questo punto di vista
sono i percorsi iniziatici di alcuni indovini mitici. Tiresia, errante tra i monti, immerso nel mondo della natura in una
situazione di marginalità extra-urbana, s'imbatte in due serpenti in amore. Con un bastone li divide, interrompendone
l'accoppiamento. Questo intervento violento sul mondo della natura e della sessualità, porta a una sua trasformazione in
donna. A questo primo incontro con i serpenti ne segue un secondo in cui
Tiresia divide nuovamente i serpenti, ma per sfruttare ormai consapevolmente queste forze e
tornare a essere uomo. L'indovino è predisposto a cogliere il valore degli eventi casuali e naturali ed
è in grado di controllarli, operando al tempo stesso per ispirazione e artificio.
27
In un'altra versione del mito Tiresia è a caccia e, senza volerlo, vede la dea Atena nuda, che
lo acceca, ma lo compensa con la capacità di intendere gli uccelli e col dono di un bastone, che,
come uno strumento magico, gli permette di camminare come coloro che vedono. La cecità
dell'indovino, così come quella del poeta, è un segnale della sua capacità medianica: egli vive in
questo mondo, ma ne è al di fuori, perché non lo vede, e al tempo stesso è immerso nell'oscurità del
mondo altro.
L'uso del bastone iscrive l'indovino nel gruppo ristretto degli anziani, che l'esperienza ha
dotato di particolare saggezza e prestigio, e costituisce uno strumento che, come lo scettro del
sovrano, manifesta l'autorità del detentore. Il bastone presuppone inoltre la zoppia, che nel mondo
antico, come la cecità, ha un valore magico.
Ogni menomazione implica, in una psicologia magica, una compensazione, per lo stesso
principio per cui il cacciatore deve sacrificare temporaneamente la propria sessualità o chi vuole
ottenere un favore dagli dei, si priva di una ricchezza sacrificandola sull'altare. Il principio della
compensazione magica ha una sua logica sociale, giacché può fungere da strumento di integrazione
per molti individui che, essendo ciechi, zoppi o affetti da altre difficoltà fisiche o psichiche, non
potrebbero accedere ad altre funzioni.
Melampo, l'uomo "dal piede nero", capostipite nel mito di una celebre dinastia di indovini,
ha i piedi inavvertitamente bruciati dalla madre, secondo un modulo che rimanda ai riti di
passaggio, così come Edipo, solutore dell'enigma della Sfinge, è zoppo per i lacci con cui gli
vennero legati i piedi alla sua nascita. Melampo riceve i suoi poteri mantici durante il sonno (che
nel mito e in molti rituali equivale alla marginalità iniziatica) da serpenti riconoscenti per essere
stati salvati da lui.
I serpenti sono presenti anche nel mito di Poliido, indovino, solutore di enigmi e
purificatore, che acquista la capacità di resuscitare i morti con le erbe, osservando un serpente che
restituisce la vita a un altro serpente. Sonno, animali magici e cecità sono presenti anche nel mito di
Evenio. Il giovane viene accecato dai concittadini per essersi addormentato mentre curava un
gregge, durante un rituale di passaggio notturno, ma ottiene dagli dei, che avevano inviato i lupi
contro il suo gregge, il dono della divinazione. Il giovane fallisce la sua prova per diventare
guerriero, ma, dormendo accanto ai lupi, diviene indovino.
A livello rituale il carisma dell'indovino e del guaritore sono assicurati dalla
drammatizzazione e dalla spettacolarizzazione delle pratiche: la ripetitività dei gesti e dei
movimenti, l'uso di maschere, linguaggi speciali o poetici, canti, danze, erbe, radici e forse anche
sostanze allucinogene tendono a creare stati di trance o forme di solidarietà estatica tra l'indovino e
i partecipanti alle cerimonie. Nel santuario di Delfi la profetessa della Grande Madre, la Pizia,
divinava probabilmente in stato di trance, sotto l'effetto di fumigazioni. Rituali scitici di tipo
rabdomantico e cleromantico presuppongono forme di drammatizzazione e di trance, così come
molte pratiche sciamaniche di guaritori e indovini, che la tradizione voleva provenienti dal mitico
paese degli Iperborei e ci descrive come dotati del dono del volo magico, dell'ubiquità e della
capacità di dormire per centinaia di anni. I sacerdoti dell'oracolo di Trofonio a Lebadea in Beozia
suggestionavano i fedeli, che si calavano in stretti pozzi per sentire i vaticini del dio, con suoni e
voci abilmente prodotte. Conosciamo anche oracoli, che non prevedevano la presenza di indovini,
come i "colossi di Memnone", statue che si trovavano a Luxor e all'aurora emettevano, per un
fenomeno naturale, suoni che potevano essere interpretati come parole.
Tra la pratiche divinatorie l'ornitomanzia è forse la più diffusa: attraverso l'osservazione del
volo e del comportamento degli uccelli si traggono auspici per il futuro.
Ad ogni specie inoltre corrispondeva una determinata simbologia, che i racconti tradizionali
giustificavano spesso con miti di metamorfosi: l'apparizione, ad esempio, di uccelli, derivanti dalla
metamorfosi di personaggi empi o assassini, costituiva un presagio negativo. Si attribuiva
particolare attenzione al volo dei rapaci, e dell'aquila in particolare, ritenuta messaggera di Zeus. Gli
uccelli notturni, come la civetta, doppio di Atena, avevano uno speciale valore divinatorio, perché
legati al mondo del buio e dei morti. Il corvo, che con il suo gracchiare sembra parlare, ha un ruolo
importante nelle pratiche divinatorie ed è legato ad Apollo, dio della divinazione
28
A Dodona, nel santuario di Zeus, i sacerdoti praticavano ornitomanzia, osservando il volo
delle colombe, e dendromanzia, prendendo auspici dallo stormire delle foglie delle querce. Anche le
api, legate nell'immaginario antico alla morte e alla resurrezione, avevano un ruolo importante nella
divinazione.
La Pizia veniva chiamata "ape delfica". Si suppone l'esistenza di un oracolo di Hermes sul
Parnaso, dove i vaticini, in una forma di melittomanzia, erano espressi dal volo delle api. Così il
luogo in cui si trovava l'oracolo di Trofonio era stato indicato, secondo la tradizione, dal volo di uno
sciame di api. Il miele stesso aveva un valore profetico, tanto che a Lebadea i serpenti sacri
dell'oracolo di Trofonio erano nutriti col miele. Secondo il mito, Zeus e l'indovino Iamo, capostipite
della famiglia sacerdotale degli Iamidi, erano stati nutriti da bambini col miele. In un mito cretese
invece le api conferiscono poteri profetici pungendo i ladri che entrano nell'antro sacro dove era
stato allevato Zeus. La presenza di topi sacri nel tempio di Apollo Sminteo ha fatto pensare a forme
di mantica legate a questo animale.
Il principio base di queste forme di mantica è in ogni caso l'osservazione, l'interpretazione e
la decodificazione di movimenti casuali o estranei alla logica umana e per questo divini o ispirati.
Lo stesso principio sta alla base di una forma semplice di mantica, in cui ci si affida agli animali per
la scelta del luogo in cui fondare una città o compiere un sacrificio: si segue l'animale fin dove
questo si ferma, mangia o compie qualcosa di particolare.
La ieroscopia pretende invece di prevedere il futuro o spiegare gli eventi dall'osservazione
delle viscere degli animali: entrano in gioco in questo caso i principi magici della compensazione
del sacrificio e del valore costrittivo della violenza e del sangue. Questa disciplina in ambito etrusco
raggiunse una notevole elaborazione formale. Di recente è stata riscontrata una relazione tra
l'ingrossamento del fegato e l'avvelenamento da gas terrestri che si possono diffondere prima dei
terremoti. Ciò suffragherebbe in qualche modo il carattere predittivo dell'esame delle viscere.
La mutilazione dei cadaveri ha invece un ruolo nella necromanzia, con cui si evocano i
morti per ottenerne profezie, e nelle pratiche esorcistiche, con cui si cerca di impedire il ritorno dei
defunti come fantasmi sulla terra. Le forme più diffuse di necromanzia prevedono l'offerta ai morti
di sangue e sacrifici rituali. Si discute sulla possibilità di sacrifici umani, testimoniati dal mito e da
alcuni ritrovamenti.
L'apparizione dei defunti in sogno è importante nell'oneiromanzia, ossia l'interpretazione dei
sogni, una pratica diffusissima che ricevette anche una sistematizzazione scientifica con trattati e
manuali. Una forma particolare di oneiromanzia è l'incubazione, praticata, anche con valore
terapeutico, nei santuari dedicati ad Asclepio.
immagine: il dio Asclepio compare in sogno a un fedele e lo cura
29
Il fedele dorme nel tempio e attende nel sonno una manifestazione del dio o un sogno
rivelatore, che viene poi interpretato dai sacerdoti del santuario. Ex-voto e testimonianze
epigrafiche documentano questa pratica e i suoi effetti.
L'idromanzia, come altri rituali connessi alle acque, occupa un posto importante. Fiumi e
laghi erano considerati luoghi magici, ingressi privilegiati al mondo di Ade, mezzi di purificazione
e iniziazione. Conosciamo una miriade di credenze che attribuiscono a ciascun fiume o lago un
potere magico o terapeutico particolare. L'immersione in queste acque o il passaggio attraverso di
esse permette di intervenire sul futuro individuale, modificandolo.
La lecanomazia, ossia la divinazione attraverso l'interpretazione delle figure e della
distorsioni delle immagini nei liquidi, costituisce un tipo particolare di idromanzia, che poteva
essere compiuta lasciando cadere alcune gocce d'olio in una bacinella d'acqua o immergendovi una
spada.
Una pratica interessante è costituita dalla catottromanzia, ossia la divinazione con lo
specchio attraverso l'interpretazione delle distorsioni dell'immagine riflessa. Nell'immaginario lo
specchio, connesso alla sfera della sessualità femminile e strumento capace di creare un doppio
dell'individuo, aveva una connotazione magica. A Patrasso, nel santuario di Artemide, veniva
praticata una forma di catottromanzia, riconducibile all'idromanzia e alla lecanomanzia. Essa era
riservata soltanto agli infermi e godeva di fama di infallibilità. Chi voleva sapere se fosse destinato
a morire o a guarire, dopo preghiere e fumigazioni, doveva guardare la propria immagine riflessa su
uno specchio, calato sulla superficie del lavacro sacro antistante il tempio.
Sono testimoniate anche forme di rabdomanzia, ossia di divinazione attraverso bacchette. Il
sacerdote di Zeus Lykaios in Arcadia compiva una pratica idromantica con un ramo di quercia, con
cui sfiorava la superficie di uno stagno e, secondo la tradizione, determinava la pioggia. Gli
indovini sciti predicevano il futuro interpretando le figure create da verghe che facevano cadere,
una a una, e poi raccoglievano, ripetendo più volte l'operazione. Un rituale di area scitica,
probabilmente di tipo matrimoniale, prevedeva che venissero poste delle verghe attorno al letto
della sposa. Le bacchette fungevano da indicatori magici, svelando, come nelle pratiche divinatorie,
gli eventi nascosti o passati. L'uomo che nella notte si avvicinava al letto le calpestava. Il giorno
successivo le bacchette spezzate attestavano alla comunità che la ragazza non era più vergine o che
il talamo era stato violato da un adultero.
PER SAPERNE DI PIÙ
Bouché-Leclerq, Auguste, Histoire de la divination dans l’antiquité, Millon, Paris 2003
(1879-1882).
Cordano, Federica e Grottanalli, Cristiano, Sorteggio pubblico e cleromanzia dall’antichità
all’età moderna, Università degli Studi di Milano, Dipartimento di Scienze dell’antichità, Et,
Milano 2000.
Halliday, William Reginald, Greek divination, Argonaut, Chicago 1967 (1913).
Ogden, Daniel, Greek and Roman Necromancy, Princeton University Press, Princeton –
Oxford 2001.
Guidorizzi, Giulio e Melotti, Marxiano (a cura di), Orfeo e le sue Metamorfosi. Mito, arte,
poesia, Carocci, Roma 2005.
Melotti, Marxiano, Il mito di Fineo. Immagini di marginalità in Tracia tra regalità e
divinazione, in Schirripa, Paola (a cura di), I Traci. Tra l’Egeo e il Mar Nero, Cuem, Milano 2004.
Vernant, Jean-Paul (a cura di), Divinazione e razionalità, Einaudi, Torino 1981 (1974).
30
LA SCIENZA E I MISTERI DEL SANTUARIO DI DELFI
Testo di Marxiano Melotti pubblicato in “La Macchina del Tempo” (giugno 2002).
Dal mito alla scienza
Una ricerca della Wesleyan University (Connecticut), di recente pubblicazione, prova che la
collaborazione tra scienze diverse e apparentemente lontane, come archeologia, antropologia,
geologia e chimica, può dare risultati interessanti e inattesi. L’inedito gruppo di ricerca ha infatti
dato una soluzione probabilmente definitiva a uno dei più avvincenti misteri del mondo classico.
Che tipo di divinazione veniva utilizzata a Delfi nel più celebre e importante santuario
dell’antichità? La Pizia, la sacerdotessa di Apollo che vaticinava ispirata dal dio, cadeva veramente
in uno stato di alterazione psichica ed eventualmente come? Non sono interrogativi da poco, se si
pensa che i responsi del santuario di Delfi influirono a lungo sui rapporti politici fra le diverse città
del Mediterraneo e che i riti delfici costituivano uno dei cardini del sistema religioso e divinatorio
del mondo antico (a lungo studiato anche per capire il significato di fenomeni come la trance o
l’impiego di droghe e il loro effetto).
“Il sito dell’oracolo è una stretta fenditura che penetra profondamente nel suolo dalla quale
fuoriesce un soffio ispiratore. Sull’apertura è piazzato un alto tripode su cui siede la Pizia, che,
ricevendo il soffio, rende gli oracoli”. Così lo storico greco Strabone descrive la divinazione delfica.
“Il sito venne scoperto da alcuni pastori che, esposti per caso ai vapori, cominciarono a profetizzare
in nome di Apollo”.
Gli studiosi per secoli hanno inutilmente cercato una prova che suffragasse questo racconto:
molti hanno pensato a fumigazioni di erbe o di altre sostanze in grado di alterare la psiche. L’équipe
americana, studiando il terreno di calcare bituminoso su cui poggia il tempio di Delfi, ha
individuato una faglia da cui potevano fuoriuscire sostanze come metano, etano ed etilene.
Quest’ultimo, se inspirato, è in grado di indurre uno stato di esaltazione e di euforia compatibile con
forme di trance.
Delfi e il centro del mondo
Ma chi era la Pizia e come funzionava questo celebre oracolo? Delfi era forse il luogo più
sacro della Grecia ed era considerato il centro del mondo. Una pietra conica, l’omphalòs o
“ombelico”, visualizzava il punto esatto in cui si sarebbero incontrate le due aquile che Zeus
avrebbe librato in volo dagli estremi confini del mondo per individuarne il centro. L’immaginaria
centralità geografica, che i Greci attribuivano al loro oracolo, ne mostra l’importanza politica e
religiosa di fulcro dell’identità culturale greca. Sovrani e città di tutto il mondo ellenico
interrogavano l’oracolo prima di intraprendere guerre o fondare nuove colonie: spettava al centro
del mondo guidare quei cambiamenti politici destinati a estendere simbolicamente i confini della
grecità.
immagine:
Oreste, inseguito della Erinni,
cerca protezione nel santuario di Apollo
a Delfi abbracciando l'omphalòs.
Una donna in un mondo di uomini
Può stupire che, in una società maschile e patriarcale come quella greca, un oracolo così
importante fosse in mano a una donna: era infatti la Pizia a entrare in contatto mistico col dio
Apollo e a trasmetterne la volontà. Si tratta però di un’anomalia solo apparente. La Pizia (che
poteva anche essere una contadina illetterata) divinava, come specificano le fonti, in uno stato di
confusione psichica. Erano però dei sacerdoti uomini a decodificarne poi gli incomprensibili
responsi per redigere in forma scritta degli ambigui, ma non casuali oracoli ufficiali che venivano
consegnati agli interroganti.
Il drago e la Pizia
Questa coesistenza tra elemento maschile e femminile era rispecchiata dalla storia mitica del
santuario. In origine vi sarebbe stata solo una fonte sacra, canale di collegamento simbolico con il
magico mondo sotterraneo. Un terribile drago guardiano, Pitone, difendeva questo accesso all’aldilà
e, quale figlio della dea Terra e creatura animale in stretto contatto con il mondo della terra, della
morte e della rinascita, emetteva oracoli. Il racconto mitico fa probabilmente riferimento a un antico
culto oracolare della dea Terra, di cui la Pizia sarebbe stata sacerdotessa e personificazione del
mostro Pitone. Il dio Apollo, che voleva fondare il proprio oracolo in questo luogo così speciale,
uccise il drago e fondò il santuario. L’omphalòs segnava il punto in cui Apollo avrebbe seppellito il
drago figlio della Terra. Secondo questo mito la Pizia avrebbe sostituito Pitone nella sua funzione
oracolare, ma sotto il controllo di Apollo.
immagini:
statuette di epoca micenea che si riferiscono forse
all'antico culto della dea Terra praticato a Delfi
Il potere della terra
Vediamo come anche in questa versione sia importante il ruolo del terreno. La fonte sacra, il
drago, la tomba, così come i vapori del sottosuolo, sono immagini differenti che hanno però un
significato convergente: la forza oracolare di Delfi proviene dallo stretto contatto con il mondo
sotterraneo. Si tratta di una simbologia ricorrente nei contesti divinatorii, ma, in questo caso, le
ricerche americane, con l’individuazione della spaccatura sotterranea su cui poggia l’oracolo,
offrono una conferma della concretezza di questo sistema simbolico.
Il complesso rituale di divinazione sfruttava tutti questi elementi. Il giorno di consultazione
la Pizia si recava alla fonte sacra del drago per compiere delle abluzioni. L’immersione nell’acqua
visualizzava il contatto della sacerdotessa con il mondo dell’aldilà. Forse la Pizia beveva anche
quest’acqua che, secondo alcuni, poteva avere, probabilmente con l’aggiunta di droghe, effetti
allucinogeni. Rientrata nel santuario, procedeva quindi a fumigazioni di alloro, la pianta sacra di
Apollo, di cui forse, alla ricerca di effetti psicotropi, masticava anche le foglie. Questi rituali
avrebbero dovuto indurre alla trance, così come l’inspirazione del vapore sacro di Apollo, di cui i
ricercatori americani avrebbero individuato una prova nelle esalazioni di gas del sottosuolo.
32
Il vapore di Apollo e il sesso della Pizia
Gli eruditi cristiani non potevano apprezzare l’aspetto irrazionale di questo culto e ci offrono
un’immagine ambigua della Pizia, di cui a un tempo enfatizzano e criticano la sessualità. Il fatto che
i Greci avessero scelto, come interprete della volontà divina, una donna, creatura stolta per
definizione, e per giunta vergine, e non un uomo saggio e anziano, venne ritenuto una prova
dell’inaffidabilità dei culti pagani
immagine: la Pizia in stato di trance
Nella vivida rilettura cristiana dei riti delfici, che forse però non è così lontana dalla realtà,
la Pizia divinava seduta sul tripode di Apollo con la gambe spalancate. Il vapore del dio, scaturito
dalle profondità della terra, si sarebbe insinuato nel sesso verginale della sacerdotessa, che, con la
schiuma alla bocca e i capelli scomposti, avrebbe così cominciato a divinare. E’ un’immagine
significativa: la donna, sposa mistica del dio, ne riceve il soffio profetico in un’estasi di tipo
sessuale. Il seme attraversa la profetessa e viene restituito dalla bocca come voce. Le parole della
Pizia sono la voce del dio e il frutto di questa unione mistica. Trance e sessualità costituiscono in
questa rappresentazione il meccanismo strutturante della divinazione. Il profeta è lo strumento e il
portavoce del dio. La donna-profeta segue questo modello e, conformemente all’ideologia sessuale
della cultura antica, riceve passivamente il seme maschile del dio, cui dà poi espressione con la
voce.
33
L’opinione degli scienziati antichi
“A volte il locale dove siedono i consultanti si riempie di una dolce brezza profumata, che
spira dal sacrario come da una sorgente e diffonde gli effluvi delle più soavi e preziose essenze. E’
probabile che questo spirare di fiori sia provocato dal tepore o dall’attività di qualche altra forza”.
Così lo storico greco Plutarco, che a Delfi ricoprì per molti anni la carica di sacerdote, descrive
l’effetto delle esalazioni sacre. Plutarco cerca anche di dare una spiegazione scientifica del
fenomeno, facendo riferimento all’interazione tra gli opposti princìpi naturali, la Terra e il SoleApollo, su cui si fonda la storia mitica di Delfi: “Era il sole a generare nella terra la disposizione e
la temperatura necessarie per la formazione delle esalazioni profetiche”. A suo avviso le esalazioni
non sarebbero state costanti: “Credo che il vapore non sia sempre uguale, ma che abbia dei periodi
di diminuzione e di maggior vigore: questa mia asserzione è suffragata anche da molti stranieri e da
tutti i ministri del santuario”. Queste annotazioni sono compatibili con i risultati della recente
ricerca degli studiosi statunitensi, che rilevano la dinamicità dei movimenti geologici della faglia di
Delfi.
PER SAPERNE DI PIÙ
La testimonianza del filosofo greco Plutarco, per vent’anni sacerdote a Delfi :
Plutarco, Dialoghi Delfici (Il tramonto degli oracoli, L’E di Delfi, Gli oracoli della Pizia),
Adelphi, Milano 1983.
Bouché-Leclerq, Auguste, Histoire de la divination dans l’antiquité, Millon, Paris 2003
(1879-1882).
Burkert, Walter, La religione greca di epoca arcaica e classica, Jaka Book, Milano, 2003.
34
TRA NATURA E MAGIA
Testo di Marxiano Melotti pubblicato in “Gli dei, l’universo, gli uomini” di J.- P. Vernant, Einaudi
Scuola 2003
L’incontro di Ulisse con Circe e il rituale di evocazione delle anime praticato dall’eroe ci
conducono nell’immaginifico mondo della magia. E’ questo un aspetto significativo della cultura
greca, che va ben oltre il mito e la letteratura.
immagine: rappresentazione comica dell’incontro tra la maga Circe e Ulisse. Circe prepara
la pozione magica per Ulisse.
Oggi siamo abituati a pensare alla magia come a un insieme di pratiche astruse o arcaiche
difficilmente compatibili con la scienza e la filosofia. Questa divisione tra razionale irrazionale è in
gran parte già presente nel pensiero antico. La cultura greca era consapevole della grande
importanza dell’irrazionale. Le Baccanti di Euripide, ad esempio, ne mostrano tutta la possibile
forza distruttiva, ma al tempo stesso indicano come l’individuo debba saper accettare anche questo
aspetto del suo essere. Nel mondo greco l’opposizione tra natura e cultura era infatti assai meno
netta di quanto non sia nel pensiero moderno.
Il sistema simbolico e il pensiero religioso greco erano in gran parte costruiti
sull’opposizione di questi due elementi, peraltro sempre presenti e interrelati. Su questa fluidità dei
confini tra irrazionale e razionale, così come tra natura e cultura, si basava il pensiero magico, quale
modo di interpretare la realtà e tentativo di utilizzare tutte le forze della natura.
Un luogo di culto nella foresta, ad esempio, indicava una presenza della civiltà in mezzo alla
natura. Il mondo della città, con la sua cultura e i suoi riti, colonizzava e controllava lo spazio
selvaggio della natura. Al tempo stesso però questa presenza indicava lo stretto legame esistente tra
il culto e il mondo naturale: il fedele si recava a incontrare il dio in uno spazio speciale, “altro” da
quello consueto della città e apparentemente più vicino a quello degli dei. Specialmente nel caso di
un dio legato in modo particolare al mondo del selvaggio e dell’irrazionale, il culto sembrava più
efficace se praticato fuori della città.
Grotte e paludi si configuravano nell’immaginario come spazi speciali, adatti a riti di passaggio,
consultazioni divinatorie e pratiche magiche. Questi luoghi sembravano infatti permettere una più
immediata comunicazione tra i diversi mondi. L’ingresso nella grotta o il tuffo nella palude
potevano simboleggiare l’uscita dal mondo della civiltà e l’ingresso in un mondo diverso. In questa
prospettiva la grotta, quale rappresentazione materiale dell’al di là, poteva
35
ospitare rituali di evocazione di spiriti o di divinazione, per i quali si faceva ricorso anche
all’uso di strumenti speciali, come erbe o serpenti.
Proprio il ricorso alle erbe, che erano impiegate tanto nelle pratiche magiche, come mostra
l’Odissea, quanto nei procedimenti terapeutici, rivela il ruolo complesso della magia
nell’immaginario greco. Il termine phàrmakon indicava infatti, al tempo stesso, il filtro magico, il
veleno e la medicina.
La natura rivestiva una grande importanza per il suo ruolo fondamentale nella vita di tutti i
giorni. Non dobbiamo dimenticare il carattere essenzialmente agricolo del mondo antico,
profondamente legato alla terra e quindi dipendente dalla fertilità del suolo e dal regolare alternarsi
delle stagioni. Molti riti erano infatti praticati proprio con l’intento di incrementare i raccolti e,
come in altre civiltà contadine, specifiche cerimonie accompagnavano le fasi più delicate della vita
agricola. Questi culti religiosi popolari avevano spesso una forte connotazione magica, dal
momento che con i loro riti si ricercava un contatto con il mondo degli spiriti e della natura per
assicurare il benessere della comunità.
Tra questi riti aveva una grande importanza la cacciata rituale del cosiddetto pharmakòs,
praticata in diverse città. Nei momenti critici della vita della comunità si sceglieva un individuo,
spesso deforme o anziano, che potesse simbolicamente rappresentare un male incombente, una
contaminazione o la sterilità dei campi. Secondo un processo conosciuto come “magia simpatica”,
l’allontanamento di questo individuo, che di solito avveniva a bastonate, avrebbe dovuto scacciare il
flagello che funestava la città. Interessante era anche l’uso, in voga nell’Atene classica, di bambole
per rituali di maleficio che ricordano quelli del voodoo.
Immagine: bomboletta “legata”, racchiusa in una scatoletta-sepolcro e deposta in una
tomba
In occasione dei processi, le parti a volte non si limitavano a ricorrere ad abili estensori di
orazioni giudiziarie per vincere le cause, ma cercavano di neutralizzare l’avversario e i suoi
testimoni lanciando delle maledizioni per “legare” la loro lingua o impedirne l’accesso in tribunale.
PER SAPERNE DI PIÙ
van der Eijk, Philip J., Medicine and philosophy in classical antiquity: doctors and
philosophers on nature, soul, health and disease, Cambridge University Press, Cambridge, 2005.
Graf, Fritz, La Magia nel mondo antico, Laterza, Roma – Bari 1995.
Faraone, Christopher, e Obbink, Dink (a cura di), Magika Hiera: Ancient Greek Magic and
Religion, Oxford University Press, New York – London 1991.
Faraone, Christopher, Ancient Greek Love Magic, Harvard University Press, Cambridge
(Ma) – London, 2001.
Lanata, Giuliana, Medicina magica e religione popolare in Grecia fino all’età di Ippocrate,
Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1967.
36
DEMETRA E LE FESTE ELEUSINE
Testo di Marxiano Melotti pubblicato in “Enciclopedia dell’Antichità classica” (Garzanti 2000).
I misteri eleusini costituiscono uno dei più importanti culti del mondo antico. Eleusi era già
un'area di culto al tempo della civiltà micenea nel XV secolo a.C.; dall'VIII secolo abbiamo
attestazioni archeologiche più significative; mentre a partire dell'epoca di Pisistrato possiamo
seguire le successive trasformazioni della sala riservata alle iniziazioni, il Telesterion. Il successo
dei misteri eleusini restò saldo anche in epoca romana (tanto che anche un imperatore vollero
esservi iniziato). Il santuario di Eleusi sembra sia stato distrutto alla fine del IV secolo d.C. dai Goti,
quando già i culti pagani erano stati vietati dagli imperatori romani. A quel tempo però gran parte
della simbologia eleusina, così come quella di altri culti misterici, era ormai confluita nella nascente
cultura cristiana.
I misteri eleusini, come i grandi giochi panellenici di Olimpia, rappresentavano per i Greci
una delle principali manifestazioni della loro identità culturale. In epoca classica essi erano aperti a
tutti coloro che parlavano greco e "non avessero mani impure", non avendo commesso omicidi o
sacrilegi. Si trattava quindi di un fenomeno che interessava gli abitanti di tutte le poleis greche,
indipendentemente dalla loro condizione sociale e giuridica. Potevano parteciparci anche le donne,
gli schiavi e gli stranieri in rapporto col mondo greco. La partecipazione ai misteri costituiva un rito
di passaggio comunitario, che permetteva di accedere a una classe speciale caratterizzata da
particolare prestigio. Al tempo stesso questi riti, così come poi quelli cristiani, avevano una
funzione di apparente livellamento sociale, che rafforzava i legami interpersonali e conteneva le
tensioni tra i diversi gruppi sociali all'interno della comunità cittadina. Gli autori cristiani, temendo
la possibile concorrenza dei culti misterici, li contrastarono duramente nei loro scritti,
tramandandoci così involontariamente numerose informazioni su tali riti e più in particolare sulle
pratiche eleusine. In epoca classica il controllo da parte di Atene del culto di Eleusi (così come di
quello di altri importanti santuari come Delfi e Delo) costituì un'affermazione della sua egemonia
politica e culturale.
In primavera avevano luogo ad Agrai i "piccoli misteri", istituiti quando Eleusi cadde sotto il
controllo ateniese: si svolgevano alla presenza dell'arconte-re e dei sacerdoti di Eleusi e avevano
una funzione di purificazione preliminare, culminante con un sacrificio solenne a Demetra e Kore e
con abluzioni degli iniziandi nel fiume Ilisso. I "grandi misteri" si svolgevano alla fine dell'autunno,
probabilmente per esorcizzare l'inizio dell'inverno, e duravano almeno una settimana. Secondo la
tradizione i misteri erano stati rivelati da Demetra, in occasione del suo passaggio a Eleusi durante
la ricerca della figlia Kore, rapita dal re degli Inferi Ade
immagine:
Ade, re degli inferi, rapisce Kore
Quest'ultimo concesse alla ragazza di tornare ogni anno sulla terra per un periodo
determinato, durante il quale la terra fioriva e produceva frutti. Nel resto dell'anno, quando Kore si
trovava negli Inferi, la terra, maledetta dalla madre, che era la dea del grano, era improduttiva. Si
può ritenere pertanto che i culti di Eleusi avessero, almeno inizialmente, un carattere agricolo.
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immagine: Kore, Demetra e Trittolemo.
Il re Trittolemo stringe delle spighe di grano,
dono di Demetra
L'iniziazione avveniva in due fasi: la prima rendeva mustai, ("coloro che hanno gli occhi
chiusi" e attendono di vedere con la rivelazione o "hanno la bocca chiusa" e non possono rivelare i
segreti acquisiti); la seconda rendeva epoptai ("coloro che hanno la visione"). Ciò che avveniva nel
Telesterion doveva essere tenuto segreto. Gli iniziati potevano divenire mustagogoi ("guide dei
mustai") e seguire come iniziatori negli anni successivi il cammino dei nuovi iniziandi. Questi si
preparavano ai misteri con sacrifici, abluzioni e alcuni giorni di digiuno rituale. In epoca classica
venne fissata una quota di quindici dracme per l'iniziazione, che veniva probabilmente a sostituire
l'offerta in natura di età arcaica.
I riti erano controllati da alcune famiglie eleusine, discendenti, secondo la tradizione, dai
fondatori del culto (questo controllo famigliare ne testimonia l'origine arcaica). Quando l'area di
Eleusi entrò sotto il controllo di Atene, queste famiglie mantennero le proprie prerogative, ma lo
Stato ateniese introdusse progressivamente delle modifiche orientate al controllo del culto (tra cui la
partecipazione dell'arconte-basileus ad alcuni riti; la competenza della Bulé per le infrazioni
commesse durante i misteri; il trasporto degli oggetti sacri, scortati dagli efebi ateniesi, da Eleusi ad
Atene il giorno precedente l'inizio delle celebrazioni; la cerimonia per l'arrivo di questa processione
alla presenza della sacerdotessa di Atena e dei magistrati cittadini; il controllo dei beni del santuario
e delle entrate dei sacerdoti).
Il genos degli Eumolpidi sceglieva tra i suoi membri il sacerdote principale, lo hierophantes
("colui che mostra gli oggetti sacri"), che curava la parte più importante della celebrazione, ossia la
"visione". Questa consisteva in una sacra rappresentazione del rapimento di Core, figlia di Demetra,
da parte del re degli Inferi e il suo successivo matrimonio, celebrato forse con un matrimonio rituale
tra il sacerdote e la sacerdotessa di Demetra. Quest'ultima, probabilmente la figura più antica del
rituale, apparteneva al genos dei Filleidi e viveva nel santuario. Lo hierophantes annunciava poi la
nascita del "bambino divino", identificato con Iacco-Dioniso. Tra i Cerici venivano invece scelti lo
hierokerux, "l'araldo sacro", che aveva il compito di aprire ufficialmente i misteri, proclamando
pubblicamente (prorrhesis) nell'agorà di Atene l'esclusione degli impuri e di quanti non parlavano
greco, e il dadouchos, il "portatore della torcia", che accompagnava lo hierophantes nei momenti
più solenni.
Il giorno successivo alla proclamazione gli iniziandi marciavano verso la baia del Falero, al
grido di "Halade mustai" ("Iniziandi, al mare!"). Qui si tuffavano nelle acque stringendo tra le mani
un porcellino che poi sacrificavano. Dopo tale purificazione facevano ritorno in città, incoronati di
mirto e con nuovo vestito. Il tuffo (katapontismos) riproduceva il tuffo iniziatico di Eumolpo, eroe
fondatore del culto, gettato in mare dalla madre. Lo stesso rituale era compiuto dallo hierophantes,
per entrare in carica. Il tuffo costituiva una prova iniziatica di tipo ordalico, con cui il futuro
sacerdote mostrava il proprio coraggio e, come un capro espiatorio, assumeva su di sé i mali della
comunità.
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Il giorno successivo aveva luogo la processione, aperta da una statua di Iacco, che riportava
ad Eleusi gli oggetti sacri, riposti in ceste. Oltre agli iniziandi, vi partecipavano i sacerdoti e i
magistrati, con tutta la cittadinanza divisa in tribù e demi. Danze, canti, sacrifici scandivano la
processione. L'attraversamento del fiume Cefiso era accompagnato da un rito di passaggio: una
sorta di sacra rappresentazione dell'arrivo di Demetra ad Eleusi, accolta oscenamente da una
vecchia, con uomini travestiti da donne che rivolgevano gesti osceni agli iniziandi. Seguiva un
bagno rituale nel fiume. Ad Eleusi le cerimonie si aprivano con un sacrificio a Demetra e Kore
riservato agli iniziati e ai nuovi iniziandi, che al termine consumavano le carni sacrificali. Gli
iniziati dovevano osservare alcuni tabù: ad esempio, non potevano bere vino o sedersi vicino al
pozzo accanto al quale si sarebbe seduta Demetra estenuata dalla ricerca della figlia. I riti successivi
acuivano ulteriormente la già forte compartecipazione emotiva, creando uno stato di straniamento
psichico. I partecipanti (alcune migliaia) bevevano il ciceone (bevanda sacra a Demetra preparata
con acqua, farina d'orzo e menta), compivano gesti rituali, manipolando oggetti misteriosi (forse
mortaio e pestello in relazione al ruolo di Demetra nella scoperta della coltivazione del grano o, più
probabilmente, oggetti di carattere sessuale, riconducibili a culti di fecondità e rinascita agricola
collegati alle vicende mitiche di Demetra e Kore).
immagine:
resti del Telesterion
nel santuario di Demetra a Eleusi
Poi entravano nell'oscurità del Telesterion, dove partecipavano, forse attivamente, in una
sacra rappresentazione, al dolore della dea per la perdita della figlia e alla gioia per il ritorno di
quest'ultima sulla terra e per la nascita del bambino divino. La rivelazione finale, che coincideva
con il ritorno della luce, consisteva nell'ostensione da parte dello hierophans degli oggetti sacri,
forse un'antica statua della dea o la spiga di grano, doppio della dea e simbolo dei suoi doni
all'umanità.
PER SAPERNE DI PIÙ:
Sui misteri eleusini:
Foley, Helene P., Background: the Eleusinian Mysteries and Women’s Rites for Demeter, in
Foley, Helene P. (a cura di), The Homeric “Hymn to Demeter”, Princeton University Press,
Pricenton (NJ) 1994.
Hofmann Albert, I misteri di Eleusi, Stampa alternativa [Viterbo] 1993.
Mylonas, G. E., The Hymn to Demeter and Her Sanctuary at Eleusis, Washington
University Studies, St. Louis 1942.
Sabbatucci, Domenico, Religione tradizionale ed esigenze soteriche, 10, I misteri Eleusini,
in R. Bianchi Bandinelli (a cura di), Storia e civiltà dei Greci, 3, 6, La crisi della polis. Arte,
religione, musica, Bompiani, Milano 1987.
Wasson, R.Gordon; Hofmann, Albert; Ruck Carl A.P., Alla scoperta dei misteri eleusini,
Apogeo, Milano, 1996.
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LA CITTA’ GRECA
Testo di Marxiano Melotti pubblicato in “Gli dei, l’universo, gli uomini” di J.- P. Vernant, Einaudi
Scuola 2003.
I miti relativi alla fondazione di Tebe e all’arrivo di Dioniso nella città ci introducono nel
cuore di una delle massime creazioni della cultura greca: la polis. La città-stato, che in Grecia si
formò attorno all’VIII secolo a.C. e caratterizzò tutto l’ulteriore sviluppo della sua civiltà, può
infatti essere considerata la principale espressione della sua identità culturale.
Il termine polis, che compare già in Omero, indicava in origine la cittadella fortificata, di
solito posta su un’altura, dove si trovavano il palazzo del sovrano e il tempio della divinità
protettrice; attorno a questa fortezza vi potevano essere dei piccoli centri abitati, nei quali si
concentravano i contadini e gli artigiani al servizio del sovrano. A partire dall’VIII secolo a.C., lo
sviluppo dell’agricoltura e del commercio finì per modificare i rapporti economici e sociali
all’interno della città, influenzando profondamente anche l’organizzazione dei centri abitati, che
cominciarono a estendersi per adeguarsi alle nuove esigenze. Il controllo del circostante territorio
agricolo, base della ricchezza delle città, continuò però a restare saldamente nelle mani dei loro
abitanti. Questo profondo legame tra città e campagna rappresentò sempre anzi uno dei cardini del
sistema simbolico greco, costruito sull’opposizione/integrazione di natura e cultura.
Il termine polis venne a indicare la città come entità politica autonoma, costituita da un
nucleo urbano allargato e dal territorio circostante. Il palazzo del sovrano infatti cessò di essere il
centro economico e politico e l’acropoli (la parte alta della città) divenne, come nel caso di Atene,
la sede dei culti principali e il centro simbolico dell’identità civica.
immagine: l’acropoli di Atene
In molte città il potere passò in mano a famiglie di ricchi proprietari terrieri che finirono per
diventare una vera e propria aristocrazia. Questa condivisione del potere, che implicò una
limitazione dell’autorità individuale o famigliare e l’accettazione, anche simbolica, di
un’espressione politica comune, fu alla base dell’organizzazione sociale della polis. Il focolare
comune, posto nel pritaneo, il nuovo centro politico della città (ad Atene situato nell’agorà, mercato
e area civica al tempo stesso), integrò e sostituì simbolicamente i focolari domestici e contribuì a
costruire un’idea della polis quale grande casa formata dalle diverse famiglie.
Il rafforzamento economico di altri gruppi sociali, come gli artigiani e i commercianti,
determinò però poi in molte città forti tensioni, che spesso condussero a un rinnovamento in senso
democratico dell’organizzazione politica. La gestione del potere fu allargata a questi gruppi e in
parte anche ai ceti più poveri. La polis si definì così come l’insieme dei polìtai (i cittadini), cioè di
coloro che godevano dei diritti civili e partecipavano alla vita politica. Va ricordato però che solo
una piccola parte degli abitanti erano considerati tali: le donne, i giovani e gli schiavi non godevano
infatti dei diritti politici.
La particolarità del sistema greco consisteva soprattutto nel fatto che le diverse città, pur avendo
un’organizzazione politica a volte anche assai differente, si riconoscevano in una cultura
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comune. In aree vicine potevano convivere città governate da sovrani, da gruppi di
aristocratici o dai cittadini riuniti in assemblea. Atene, ad esempio, in epoca classica aveva
un’organizzazione democratica, mentre Sparta aveva un regime complesso di tipo aristocratico.
Questa frammentazione politica e queste differenze organizzative si riverberarono anche nei miti
elaborati nelle diverse città.
Il mito era infatti un importante strumento di comunicazione, perché permetteva di far
circolare i valori costitutivi e i modelli comportamentali all’interno della comunità e di garantire la
trasmissione di questo patrimonio culturale da una generazione all’altra. Gli spartiati, i membri
dell’élite guerriera che dominava Sparta, si ritenevano discendenti dell’eroe guerriero Eracle e dei
suoi nipoti che avevano conquistato il Peloponneso. Gli Ateniesi e i Tebani, che rivendicavano una
forte autonomia politica, si consideravano autoctoni, cioè discendenti, in forme diverse, di stirpi
nate dalla terra stessa. Nell’epopea dell’eroe ateniese Teseo lo scontro con il re cretese Minosse e la
lotta col Minotauro avevano anche un valore politico, evocando l’affrancamento della città da ogni
sudditanza a stranieri.
La presenza del mito nella vita urbana restò sempre molto viva e raggiunse forse il suo apice
con il teatro, nel momento di massima fioritura della civiltà della polis. Le rappresentazioni teatrali
costituivano dei veri e propri rituali collettivi e uno dei momenti più importanti della partecipazione
popolare alla vita cittadina. Le tragedie rielaboravano e portavano sulla scena miti che invitavano a
riflettere sul passato e sul futuro della città. La Tebe in cui agivano Dioniso, Tiresia ed Edipo
costituiva una sorta di altra Atene, in cui potevano essere più liberamente discusse le grandi
tematiche dell’esistenza umana e, come talvolta accade in Euripide, i problemi politici
contemporanei. A teatro insomma la città riunita vedeva rappresentare sé stessa.
PER SAPERNE DI PIÙ
Un grande classico:
De Coulanges, Fustel, La cité antique, Flammarion, Paris 1984 (1864).
Sulla città greca:
de Polignac, François, La nascita della città greca: culti, spazio e società nei secoli VIII e
VII a.C., Jaka Book, Milano 1991.
Greco, Emilio e, Torelli, Mario, Storia dell’urbanistica. Il mondo greco, Bari –Roma,
Laterza 1983.
Morachiello, Paolo, La città greca, Laterza, Bari – Roma 2003.
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