Pubblicazione inserita nel catalogo della raccolta delle Riviste

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Pubblicazione inserita nel catalogo
della raccolta delle Riviste
presso la Biblioteca Alexandrina
in Alessandria d’Egitto
Patrimonio Umanitario dell’UNESCO
e presso il Polo Bibliotecario
della Camera dei Deputati
e del Senato della Repubblica
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PROPRIETARIO ED EDITORE
Giuseppe GUERRIERO
DIRETTORE RESPONSABILE
Daniela TERSIGNI
VICE DIRETTORE VICARIO
Giorgio GUERRIERO
TESORIERE
Giorgio GUERRIERO
COMUNICAZIONE & MARKETING
Tiziana NOCCO
SEGRETERIA DI REDAZIONE
Valentina ROCCHI
COMITATO EDITORIALE
Daniela TERSIGNI - Avvocato, amministratrice dell’emittente televisiva Rete Oro - Direttore responsabile della Rivista;
Giorgio GUERRIERO - Segretario parlamentare presso la Commissione Difesa della Camera dei deputati,
docente universitario di Teoria generale del processo - Vice Direttore e Coordinatore del Comitato scientifico della Rivista;
Giulio ANATRELLA - Avvocato, funzionario presso il Ministero della salute;
Francesca BOSCHIERO - Avvocato, esperta in materia di proprietà intellettuale;
Andrea CARBONI - Consigliere parlamentare presso il Senato della Repubblica - Capo dell’ Ufficio del Regolamento;
Monica CIRINNà - Senatrice della Repubblica, già docente universitario di procedura penale;
Alessandro DELLA RAGIONE - Avvocato, esperto in materia di diritto d’autore e proprietà industriale;
Giulio D’IMPERIO - Giuslavorista e docente universitario di diritto del lavoro;
Gino FALLERI - Vice presidente dell’Ordine dei giornalisti del Lazio;
Andrea FUSCO - Direttore Dipartimento Servizi per la Formazione, e Lavoro e la qualità della vita - Provincia di Roma;
Paolo GENTILI - Avvocato e docente universitario;
Maurizio NENNA - Avvocato cassazionista e docente universitario in Teoria e Analisi dello Stato;
Tiziana NOCCO - Funzionario bancario, senior credit analist;
Gabriele PEPE - Ricercatore di Diritto amministrativo presso l’Università Telematica degli studi Guglielmo Marconi di Roma;
Antonio PISANELLI - Giurista d’impresa e financial advisor;
Antonio PUNZI - Docente di Metodologia della Scienza Giuridica
presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università LUISS-Guido Carli;
Valentina ROCCHI - Avvocato, esperta in diritto dei beni culturali;
Stefano ROVITO - Docente universitario di diritto amministrativo.
Hanno collaborato alla stesura del presente numero:
Ilaria BOMPREZZI, Carlo BORROMEO,
Federico CAPOLUONGO, Edoardo LA ROSA
COMITATO SCIENTIFICO
Maurizio NENNA - Responsabile della ricerca
Giorgio GUERRIERO - Coordinatore del Comitato
Monica CIRINNà
Alessandro DELLA RAGIONE
Giulio D’IMPERIO
Gino FALLERI
Antonio PUNZI
Periodico semestrale a carattere giuridico
Anno IV - Giugno 2015
Registrazione al Tribunale di Roma
n. 49/2012 del 29 febbraio 2012
Codice MIUR/CINECA E220806
Realizzato nelle officine tipografiche:
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Sede legale: Via Latina, n. 95 - 00179 Roma
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fotocopiata o comunque riprodotta senza le dovute autorizzazioni.
In copertina: “Il pensatore” di Auguste Rodin
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IL PENSIERO E L’AZIONE GIURIDICA
MANIFESTO DI PRESENTAZIONE
“Il pensiero e l’azione giuridica”, questo il titolo dei nuovi quaderni giuridici
e della relativa collana di libri che, proprio in occasione dei 150 anni dall’unità
d’Italia - richiamando, in parte, il noto motto di matrice mazziniana - vuole rifarsi
a quel fecondo periodo culturale che sbocciò nella Mitteleuropa nel periodo
intercorrente tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900, e che vide il sorgere di nuove
forme di arte, scienze ed una tipologia innovativa di ricerca. Dal punto di vista
storico, questa corrente di pensiero si contrapponeva alla radicale chiusura
mentale dell’epoca, nonché alla soffocante presenza di quei poteri forti e oscuri
che in quel tempo offuscavano la conoscenza nel senso più ampio del termine.
Da qui il bisogno di reazione e rinnovamento, attraverso il campo delle arti,
della ricerca e della scienza. Così come auspicato dai giovani pensatori di quel
tempo lontano, anche oggi si ravvisa il bisogno di non rimanere inerti innanzi alle
contaminazioni della cultura da parte di meri interessi particolari e generali che
non lasciano scampo e che distruggono e annientano l’Homo Novus.
Come Federico Cesi e Galileo Galilei fondarono l’Accademia dei Lincei per
“ghermire (lince) alla Natura i suoi più reconditi segreti, per studiarli e portare
l’Uomo sempre più avanti” così i ricercatori di nuova generazione, con la mente
limpida e il cuore puro si dovrebbero rivolgere, senza alcuna distinzione, alla
Natura nella sua più ampia accezione, mediante la ricerca in ogni campo di
scienza ed arte.
Così come allora, chi si professa libero pensatore, si dovrebbe idealmente
ispirare a quei principi immanenti di giustizia e di equità, proiettandosi oltre ogni
confine, oltre ogni trincea e oltre ogni muro. Niente è come sembra, niente è come
appare, perché niente è reale; questo sarà, quindi, il motto di riferimento al
quale ci ispireremo nello svolgere la nostra ricerca e il nostro lavoro nel
commentare, analizzare e valutare i principali istituti giuridici, le innovazioni
normative e la giurisprudenza in generale, nonché il relativo impatto ed influenza
che esse avranno all’interno della società civile e nella comunità giuridica.
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Numero 8 - 2016
Diritto dell’informazione e dei mezzi di comunicazione di massa
Teoria generale del processo
Diritto costituzionale
Diritto ed ordinamento militare
Diritto amministrativo
Diritto amministrativo europeo
Diritto internazionale
Diritto del lavoro
Diritto d’autore
Pianificazione urbanistica
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LIBERTÀ DI STAMPA E DIRITTO DI INFORMARE:
DUE DIRITTI IN SOFFERENZA?
di Gino Falleri
Vice Presidente Ordine dei giornalisti - Presidente nazionale del GUS
1. La cinematografia molte volte è la trasposizione
della realtà. Avvenimenti recenti o passati portati sullo schermo affinché non siano dimenticati. Cronaca e storia i più gettonati, ma non mancano pellicole sul giornalismo. Una di queste è L’ultima minaccia del 1952 di
Richard Brooks, un ex giornalista. Il regista americano
ha rievocato un fatto realmente accaduto che riguarda
sia la libertà di stampa che la lotta alla criminalità. La
pellicola ha come protagonista il cronista Ed Hutcheson,
interpretato da Humphrey Bogart, che nei fotogrammi
finali pronuncia una battuta nei confronti di chi voleva
impedirgli di informare l’opinione pubblica in merito alla
vendita di un quotidiano: “E’ la stampa, bellezza! La stampa! E tu con puoi farci niente!”, che ha fatto il giro del
mondo e sovente viene rievocata per sottolineare l’importanza della stampa libera nella società democratica,
multietnica e pluralista.
2. Il mondo dell’informazione, inteso come mezzi di comunicazione ed addetti, sta attraversando da
alcuni anni una profonda crisi, legata in parte a quella economica, e al momento non si hanno appropriati elementi per pronosticare quando potrà terminare.
E’ generale e ha investito pure i paesi anglosassoni. Negli Stati Uniti sono stati persi in un anno 3800 posti
di lavoro mentre gli attivi nel 2014 erano meno di
33mila reporter. La BBC, la televisione britannica, ha
in programma il taglio di 1000 posti di lavoro e una
drastica riduzione delle spese correnti, mentre in Germania i giornali editi e diffusi a Berlino perdono copie
ed abbonamenti. Nel nostro Paese la situazione non è
migliore. Si assiste impotenti alla chiusura di antiche
testate come Il Corriere Mercantile.
Le cause sono molteplici. La prima, come accennato, è costituita dal rallentamento dell’economia occidentale, soprattutto quella europea, per poi passare alla fine del triangolo editore-pubblico-inserzionista, su cui ha posto l’attenzione Clay Shirky con un saggio sulla Columbia Journalism Review, e non ultima dall’introduzione delle tecnologie sempre più avanzate e
sofisticate, che riducono o sostituiscono l’apporto dell’uomo. Con il loro inserimento nei processi lavorati-
Diritto dell’informazione
vi la professione di giornalista da alcuni anni, come ha
di recente segnalato Gianni Rossi di Articolo 21, sta “subendo una trasformazione epocale. La nascita del citizen journalist ha decretato la fine del giornalismo tradizionale”.
Il citizen journalist ha senz’altro dato una svolta
alla professione, ma a decretare la fine del giornalismo
tradizionale è il digitale. Inizialmente sottovalutato poiché era considerato un segmento di quello cartaceo.
Con il passare del tempo la realtà si è dimostrata ben
diversa. E’ l’altra faccia della medaglia. E che il digitale sia l’avvenire lo attesta anche il bando lanciato dalla Digital News Initiation per sviluppare progetti nel
giornalismo digitale. Ci sono 150 milioni di euro a disposizione.
Francesca Sannazzaro sul numero1/2 del 2015 di
Icsmagazine ha riportato una intervista rilasciata da
Steve Duenes, l’attuale grafic director del New York Times e vincitore del premio Pulitzer per “Snow Fall”. Secondo il suo parere, oltre a sottolineare che il futuro
è proprio nel digitale, è necessaria una qualificazione
professionale adeguata allorché si raccontano le “storie” tramite i media digitali: occorre che ci sia un rapporto tra forma e sostanza. Una maniera diversa nello scrivere e nel presentare il “pezzo” al lettore. Cosa
vuole significare? Essere dotati di una professionalità di alta qualificazione per essere in linea con l’evoluzione tecnologica al fine di fornire prodotti che possono essere apprezzati dall’opinione pubblica.
La crisi ha finora prodotto la caduta delle vendite (i dati forniti dall’ADS indicano che sono stati persi 3 milioni di lettori paganti), la riduzione delle inserzioni pubblicitarie, la contrazione dell’offerta rispetto alla domanda, che aumenta per la costante crescita degli iscritti all’albo, e il calo degli interventi pubblici di sostegno. Ce ne sono pure delle altre non adeguatamente soppesate dalle istituzioni della professione. Sono come i grani di un rosario.
Il sistema dell’emittenza locale non naviga in buone acque. Più di una televisione chiude per mancanza di risorse. Le agenzie d’informazione temono una
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loro riduzione, le riorganizzazioni redazionali stanno
incrementando il numero dei freelance ed irrisolto è
il problema dell’equo compenso; la giustizia intramoenia quasi sempre evolutiva ed innovativa - come
peraltro taluni provvedimenti adottati dal CNOG non
sottoposti all’autorità superiore - e non soggetta ad interventi da parte dell’Esecutivo, o della magistratura
inquirente, volti a richiamare al rispetto dell’ordinamento e della giurisprudenza della Cassazione.
Non ultima i rischi cui quotidianamente vanno incontro
i giornalisti per informare. Questi aumentano giorno
dopo giorno e sono costituiti da aggressioni, danneggiamento di beni, intimidazioni, minacce, citazioni in
giudizio con richieste milionarie per danni all’immagine e alla reputazione, nonché omicidi. Tutto mirato
a limitare la libertà di stampa e a scardinare quel diritto “insopprimibile” di informare e di critica, che i giornalisti hanno per volontà dell’articolo 2 della legge sull’Ordinamento della professione, la legge n. 69/63. Diritto non adeguatamente tutelato, che ha indotto il Consiglio dell’Unione Europea all’inizio di quest’anno a richiamare l’Italia a meglio “garantire la libertà di
stampa e di informazione”.
Sono le cronache quotidiane a riferire in quali condizioni, e a quale prezzo, i giornalisti esercitano il diritto di informare. Sembra leggere un bollettino di guerra. Portare alla luce la verità sugli affari pubblici, sulla gestione della res publica, sui traffici illegali e sugli
intrighi di Palazzo, nonché sulla corruzione, sulle collusioni o sul narcotraffico è oltremodo scomodo. Può
riservare non piacevoli sorprese e lo stesso può accadere se si esprimono, nonostante la vigenza dell’articolo 21 della Costituzione, opinioni non omogenee con
i convincimenti della maggioranza.
E’ sufficiente collegarsi con il giornale online
Giornalisti Italia, diretto da Carlo Parisi, o con la Newsletter della FNSI o con Ossigeno per l’informazione per
avere una copiosa documentazione a 360 gradi della
situazione. Non solo nazionale. I giornalisti in quasi tutte le latitudini del Pianeta non godono di molta simpatia. Vengono persino sgozzati dagli adepti dell’Isis,
che distruggono impunemente le antiche vestigia
della civiltà, come il tempio di Bell nel sito archeologico di Palmira, o assassinati per le inchieste sul narcotraffico o per la tutela dei diritti umani.
Al riguardo si ricordano l’irlandese Veronica Guerin, assassinata nel 1996 a un incrocio della periferia
di Dublino, e la russa Anna Politkovskaja, trovata nel
2006 uccisa nell’androne della sua abitazione. Sul fronte dei rischi non c’è purtroppo solo quanto è stato finora riferito. Si può persino andare in galera con l’accusa di evasione fiscale ed appropriazione indebita. E’
il prezzo che sta pagando la giornalista Khagija Ismayilova per i suoi articoli, con i quali ha denunciato le anomalie della condotta del presidente dell’Azerbaijan.
Una tale situazione ha spinto la Federazione Internazionale dei Giornalisti (IFJ) a lanciare la campagna mondiale 2015 per porre fine all’impunità per i crimini contro i giornalisti. Le zone più calde il Messico,
le Filippine, l’Ucraina e lo Yemen. Non meno bollente
la Turchia di Erdogan.
A preoccupare le istituzioni della categoria non
sono solo i livelli occupazionali e le trasformazioni in
atto. C’è dell’altro. E questo potrebbe incidere in maniera negativa sul diritto di informare. Negli anni Ottanta del secolo passato, molti lo ricorderanno, è andata in onda una miniserie televisiva intitolata “Venti di guerra”, interpretata da Robert Mitchum e diretta da Dan Curtis. Una anteprima sul secondo conflitto mondiale, iniziato il 1° settembre 1939 con l’invasione della Polonia da parte della Germania e terminato
nell’agosto 1945 con la resa del Giappone. Il titolo della miniserie può essere preso a prestito per segnalare che da qualche tempo stanno soffiando forti venti
contro la libertà di stampa, termine usato per la prima volta nel 1735 dall’avvocato Andrew Hamilton davanti a una Corte di giustizia di New York nell’arringa difensiva a favore di John Peter Zenger, direttore del
settimanale The New York Weekly Journal, nel processo
intentatogli dal governatore inglese della colonia William Cosby. Questi voleva conoscere il nome dell’autore degli articoli irridenti e critici che lo avevano come
oggetto. Zenger aveva frapposto quello che oggi si chiama segreto professionale con la conseguenza della detenzione e del processo. Diritto inserito dalla Svezia
nel 1766 nella sua Costituzione e successivamente dallo Stato della Virginia (1777), dal Massachusetts
(1780), dalla Francia (1789) e nel primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti (1791). Più tardi dalla Norvegia (1814), dai Paesi Bassi (1815), dal Portogallo (1820) e dal Belgio (1831).
Informare, portare a conoscenza della collettività
fatti ed eventi, od esprimere opinioni, incomincia purtroppo ad alimentare movimenti non favorevoli. Nel
Continente europeo, come è stato sottolineato ad Albacete durante il recente convegno su “Rights & Jobs
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in journalism: labour, rights for journalists” organizzato dalla European federation of journalists, cresce la
voglia di limitare la libertà di espressione e il diritto di
cronaca. Due pilastri della società democratica. Anche
da noi, non da ora, serpeggia il desiderio di imbrigliare
la stampa e di conseguenza la libera informazione.
Gli esempi più calzanti sono costituiti dalla ley mordaza spagnola e dalle nuove regole sulle intercettazioni
telefoniche, nonché per le deleghe in bianco da conferire al governo. Norme illiberali che hanno fornito lo
spunto a Stefano Rodotà, già al vertice dell’Autority per
la privacy, per lanciare un Appello al quale hanno aderito giornalisti e rappresentanti della società civile, affinché siano introdotti correttivi nella legge proposta
dal Pd e dal Ncd, e forse caldeggiata dall’attuale governo
(Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la
durata ragionevole dei processi).
Come andrà a finire è oltremodo difficile anticiparlo. L’unica cosa certa è che i giornalisti sono sotto
scacco. Tanto è vero che Il Comitato per la protezione
dei giornalisti, con sede a New York, ha di recente sottolineato che l’Unione europea “non fa abbastanza per
difendere la libertà di stampa, laddove essa è attaccata, nei 28 Paesi dell’Unione, in particolare nell’Ungheria di Viktor Orban”. Pur essendo in vigore la Risoluzione adottata dal Parlamento europeo nel 2013 sulla libertà di stampa e dei media nel mondo.
Il testo di modifica al processo penale e le deleghe
sulle intercettazioni hanno provocato, e non poteva essere altrimenti, l’intervento dei giuristi. Ha iniziato Vladimiro Zagrebelsky con un articolo pubblicato il 24 settembre 2015 su La Stampa intitolato “Intercettazioni,
quando è giusta la pubblicazione” e successivamente
è intervenuta Caterina Malavenda, che sul Il Corriere
della Sera del 30 settembre 2015 ha espresso le sue
valutazioni con un articolo su “Intercettazioni, nessun
segreto se c’è il diritto di cronaca”. Ai giuristi si è aggiunto pure qualche docente come Nadia Urbinati con
un “pezzo” pubblicato su la Repubblica del 26 settembre.
Ci debbono essere dei limiti al diritto di cronaca,
nonostante le regole fissate dal già richiamato articolo 2? E’ un interrogativo che dovrebbe avere una risposta. Se non altro perché, oltre al diritto di informare
e di essere informati, esiste pure un interesse generale
nazionale da tutelare. Risposta che tenga conto della
consolidata giurisprudenza della Corte europea dei di-
ritti dell’uomo di Strasburgo, che più volte è intervenuta sull’articolo 10 della “Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”. La Corte anche di recente si è espressa con
due decisioni a favore dei giornalisti: caso Morar contro la Romania e l’Affaire Koutsoliontos et Pantazis con
la soccombenza della Grecia.
La nostra Costituzione tramite l’articolo 21 afferma che “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Gli unici limiti sono costituiti
dai reati d’opinione, da depennare dall’attuale codice
penale firmato da Mussolini e Vittorio Emanuele III, e
da quelli contro la morale. Nella delicata materia delle
intercettazioni telefoniche, da anni terreno di scontro
tra Destra e Sinistra, dovrebbe esistere un equilibrio tra
privacy e diritto di informare. Soprattutto una corretta applicazione dell’articolo 6 (essenzialità dell’informazione) del Codice deontologico relativo al trattamento
dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica.
3. Senza alcuna intenzione di voler scomodare a
supporto Thomas Jefferson, uno dei primi presidenti
degli Stati Uniti, e la sua opinione sullo Stato ed i giornali, espressa in una lettera inviata all’amico Cunningham, è indubbio che l’informazione, il pluralismo, siano una componente essenziale, fondamentale e irrinunciabile della società democratica. Per questo motivo la difesa del diritto di informare, nonché quello di
essere informati, costituisce una priorità assoluta. Joseph Pulitzer, uno dei grandi del giornalismo anglosassone, ha asserito che i giornalisti sono delle scolte.
Vigilano affinché non ci siano attentati alle istituzioni
democratiche. Tuttavia, non può essere omesso di riferire che la strada per conferire diritto di cittadinanza prima alla libertà di stampa e più tardi al diritto di
informare, come quella per arrivare a Tipperary, sia stata lunga, tortuosa e disseminata di ostacoli, Punto di partenza Gutenberg, il tipografo di Magonza, con i suoi caratteri mobili e soprattutto con l’inchiostro. Senza la sua
invenzione l’umanità sarebbe ancora nel buio culturale. Nell’impossibilità di sapere, di scambiarsi le esperienze, di conoscere i modelli di governo, i diritti reclamati e accordati, l’evoluzione delle scienze e di far
circolare le idee. L’uomo è uscito dalle tenebre dell’ignoranza e dalle superstizioni del Medioevo, come ha
riferito Francis Bacon, un filosofo inglese vissuto a cavallo del Cinquecento e Seicento, capostipite dell’empirismo e precursore dell’industria del raffreddamen-
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to per l’esperimento del pollo, grazie a tre scoperte: la
bussola, la polvere da sparo e i caratteri mobili.
L’impiego dei caratteri mobili hanno così consentito di stampare e diffondere le Gazzette, l’embrione
del quotidiano, talvolta in livrea per compiacere le autorità (limitato diritto di cronaca), e i primi giornali di
informazione o a tiratura popolare come il Sun di Benjamin Davis, messo in vendita a New York nel 1833 ad
un penny. La “Popular press”, fondata sulle tre “S”
(scandali, sesso e soldi), e la “Quality press” consentono
di aprire una parentesi storica sull’evoluzione delle figure professionali, che hanno contribuito e contribuiscono alla formazione del prodotto giornale, la preghiera mattutina dell’uomo moderno secondo l’aforisma di Hegel.
4. La redazione di un giornale non si avvale solo
della professionalità dei redattori, cronisti, corrispondenti, informatori e la ripresa dei lanci delle agenzie. Richiede pure quella degli inviati poiché il giornalismo si realizza, come è noto, attraverso tre verbi:
andare, vedere e raccontare ed è inoltre il giornalista
ad essere il giudice dell’utilità sociale della notizia. Per
la storia il capostipite, un tempo chiamati redattori viaggianti, è stato l’irlandese William Howard Russell del
Times di Londra. Con i suoi pezzi dalla Crimea ha riferito, siamo al giro di boa dell’Ottocento, non solo sulle operazioni militari, ma soprattutto sulle condizioni in cui vivevano i soldati inglesi, sull’incapacità degli ufficiali e descritto la carica della Brigata Leggera
a Balaclava.
Lo spunto per un film del 1936 diretto da Michael Curtiz ed interpretato da Errol Flynn. E sempre sull’azione della Brigata Leggera qualche anno addietro
è stato pubblicato un libro di Cecil Woodham Smith,
intitolato “La Carica dei 600” edito da Rizzoli, che offre un quadro quanto mai esauriente dell’accaduto.
Servizi dal fronte più volte censurati, la censura è una
specie di spada di Damocle che ha sempre accompagnato l’informazione, perché mettevano in risalto i lati
negativi dell’organizzazione militare britannica. E tra
questi c’era pure la sanità, nonostante l’abnegazione
di Florence Nightingale, considerata la fondatrice
dell’assistenza infermieristica moderna.
I giornali strada facendo, con l’introduzione di nuove tecnologie, per stimolare l’interesse e la domanda,
si sono arricchiti di immagini. Non solo quelle fornite dai disegnatori, bensì delle istantanee dei fotoreporter. Il primo fotografo di guerra è stato l’inglese Ro-
ger Fenton, non neutrale. Ha inviato dalla Crimea immagini edulcorate. Sempre sullo stesso fronte era pure
presente un fotografo italiano, Felice Beato, unitamente
al suo socio James Robertson.
In tempi più recenti grandi fotografi nelle zone di
guerra sono stati Joe Rosenthal e la bandiera a stelle
e strisce issata sulla vetta del Suribachi, nonché Robert
Capa per le crudi e sfocate immagini della spiaggia normanna chiamata in codice di Omaha. Su cui si è infranta e quasi annientata, all’alba del 6 giugno 1944,
la prima ondata dei soldati del 5° Corpo d’Armata americano. Durante la guerra in Vietnam erano presenti gli
italiani Gianfranco Moroldo e Romano Cagnoni ed è
inoltre da ricordare Mick Ut, pseudonimo di Huynh
Cong Ut, per la fotografia di Kim Phuc, una bambina
vietnamita spaventata e nuda per via del napalm lanciato dagli americani sul villaggio dove viveva, che ha
fatto il giro del mondo, come peraltro quella del fotogiornalista americano James Nachtwey con un bambino in braccio per attestare le atrocità della guerra civile in Ruanda,
La storia del giornalismo ha pure registrato la sequenza degli scoop e quale è da considerare il primo.
Nel 1776 i redattori del Pennsylvania Evening Post hanno anticipato la “Dichiarazione di indipendenza delle colonie inglesi in America”. Non tutti concordano nell’attribuzione. Ritengono che la palma dovrebbe invece
essere assegnata ad alcuni giornalisti del Belfast News
Letter. E sempre in materia di scoop non si può non
segnalare quello realizzato da Edward Kennedy dell’Associated Press. Ha informato, anticipando gli altri
corrispondenti di guerra, dandogli un buco come si dice
nel gergo giornalistico, che la Germania si era arresa
agli Alleati e in Europa la guerra era finita. Firma apposta a Reims il 7 maggio 1945.
5. La libertà di informare inesistente nelle società “ademocratiche” ha avuto nel nostro Paese dalla promulgazione dello Statuto e dell’Editto Albertino (1848),
non considerando i 21 anni del fascismo ed il pensiero
unico, luci ed ombre, alti e bassi. Le annuali relazioni
di Freedom House e di Reporter sans frontiéres non hanno finora visto l’Italia collocata, per una molteplicità
di ragioni, nei primi posti delle classifiche. L’ultima,
quella del 2014, la inserisce al 73° posto per “le intimidazioni da criminalità e politica”. Giudizio severo,
che non tiene conto che i giornalisti non hanno alcuna soggezione della “politica”, anche se l’intero sistema abbia beneficiato e beneficia delle risorse pubbli-
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che. Unico esempio contrario Il Fatto Quotidiano.
Sulle risorse pubbliche è opportuno ricordare che i governi dall’Unità d’Italia fino alla Grande Guerra hanno
aiutato solo i giornali amici mentre hanno relegato all’angolo gli altri ed imposto persino la censura, nonostante le proteste e le rimostranze della Federazione
nazionale della stampa. Giovanni Giolitti, dato che è
stato accennato alle intercettazioni telefoniche, aveva
l’abitudine di far registrare le conversazioni di Luigi Albertini, direttore del Corriere della Sera, con la redazione romana. Crispi e Pelloux, anch’essi primi ministri, a loro volta non hanno omesso di controllare la
libera informazione. Silvio Spaventa, segretario generale del ministero dell’Interno aveva il vezzo di schedare giornalisti e proprietari. Istruttivi i libri di Mauro Forno e Giancarlo Tartaglia (Informazione e potere,
Un secolo di giornalismo italiano).
Nella società democratica, multietnica e pluralista
il diritto di informare e di essere informati, nonché quello di informarsi, non possono essere limitati e tanto
meno cancellati. Cicerone nel De Oratore ha asserito
che occorre ricordare la storia per meglio capire il presente. La storia del Novecento non è stata avara di situazioni non rispettose della democrazia (comunismo,
fascismo, nazionalsocialismo e franchismo). E il primo
provvedimento che viene adottato è quello di sottoporre la stampa al ferreo controllo della censura.
Il diritto di informare non è esplicitamente espresso nella nostra Costituzione. L’articolo 21 lo contiene
in nuce ed è un diritto di libertà. E’ in primis una costruzione dottrinaria, il cui capostipite è il costituzionalista Aldo Loiodice (Contributo allo studio sulla libertà di informazione, anno 1967) e a seguire Vezio Crisafulli e Costantino Mortati, nonché giurisprudenziale. Dottrina e giurisprudenza hanno consentito, come
ha affermato Ruben Razzante, docente all’Università
Cattolica di Milano, “che la libertà di manifestazione del
pensiero si declinasse, inizialmente come libertà di opinione, poi come diritto di cronaca, quindi come diritto
di informare e diritto di informarsi”.
E’ stata la Corte Costituzionale sulla base della dottrina prevalente a riconoscere, con una serie di sentenze, che esiste il “diritto di informare” di competenza
dei giornalisti, unitamente ai diritti di essere informati
e di informarsi, che sono invece propri del cittadino.
Un diritto, il primo, che fonda le sue radici in quelli
umani (Human right) di prima generazione, spesso
chiamati “diritti blu”, e tra questi c’è appunto la liber-
tà di parola, la quale a sua volta presuppone libertà di
scrivere. Una libertà reclamata nel 1644 da John Milton con una petizione al Parlamento inglese. Avere il
diritto di stampare libri senza il bollino e far circolare i propri pensieri senza l’incubo della censura. I cittadini inglesi dovevano attendere il 1689 e il Bill of
Rights per avere libertà di parola e di conseguenza la
possibilità di stampare.
6. Nei primi quaranta anni del Novecento è propedeutico ricordare che non tutti i paesi dell’Europa
continentale erano liberali sia per la libertà di stampa
che per la libera manifestazione del pensiero. L’informazione era ridotta a strumento di propaganda a
favore dei vari regimi per creare consenso. La genesi
è da ricondurre per una serie di motivi alla Grande
Guerra, un mattatoio, ed al trattato di Versailles. Durante il loro corso hanno visto la nascita del comunismo e successivamente sono stati spettatori dell’entrata in scena del fascismo e a seguire del nazionalsocialismo e del franchismo, nonché l’inizio di quell’altro mattatoio che è stata la seconda guerra mondiale.
Una situazione che non poteva essere tollerata dalle nazioni democratiche. Così prima ancora della sua
conclusione gli Alleati, le istituzioni internazionali, una
è stata L’ONU, nonché quelle europee a guerra conclusa,
hanno iniziato a porre la loro attenzione sull’importanza dell’informazione nella società democratica, ad
indicare regole per la libertà di stampa e a gettare le
fondamenta del diritto di essere informati, che avevano
come modello i diritti costituzionali garantiti dalla Francia e dagli Stati Uniti.
Il primo contributo potrebbe essere considerato la
Carta Atlantica, sebbene sia solo un atto diplomatico,
sottoscritta nel novembre 1941 a bordo della Prince
of Wales ancorata nella baia di Argentia, a Terranova,
da Churchill e Roosevelt, sulla autodeterminazione dei
popoli. Per poi passare alla Risoluzione 59 dell’ONU
approvata nel dicembre 1946, con la quale è stato fissato il principio che la libertà di informazione è un “diritto umano fondamentale”. Alcuni punti della Carta
Atlantica sono stati più tardi presi a riferimento nel corso della Conferenza panamericana di Città del Messico per raccomandare che venisse stabilito il principio
della libera emissione e ricevimento delle notizie, senza la necessità di una censura preliminare.
Sempre sulla libertà di stampa, ed implicitamente
sul diritto di informare e di ricevere informazioni, nell’ottobre 1948 è stata organizzata la Conferenza di Gi-
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nevra mentre a New York nel dicembre dello stesso anno
è stata approvata dalle Nazioni Unite La dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo - hanno sostituito la Società delle Nazioni, la cui istituzione era stata caldeggiata negli anni Venti del 900 da Thomas Woodrow Wilson, presidente degli Stati Uniti. Successivamente, è intervenuta La convenzione europea dei diritti dell’uomo
firmata a Roma nel 1950 e infine la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici di New York del
1966, che tutela la libertà di pensiero, di parola e di stampa, nonché la Carta di Nizza del 2000.
La libertà di informazione – il diritto di cercare, ricevere e trasmettere informazioni – costituisce un diritto inalienabile tutelato da tutte le democrazie occidentali ed inserito nelle loro Costituzioni, con eccezione
dei paesi anglosassoni che seguono la “common law”.
Attraverso il tempo sono state coniate diverse definizioni. Una è già stata riferita. Se ne può aggiungere
un’altra: è “un diritto funzionale a esigenze sociali”.
Nelle pagine che precedono è stato più volte accennato all’articolo 21 ed alla sua interpretazione evolutiva da parte della dottrina e della giurisprudenza.
Il risultato è stato quello di affermare che esistono tre
profili della libertà d’informazione, acquisiti dal nostro
ordinamento costituzionale e già indicati. Per arrivare a tanto ha contribuito non solo la dottrina, ma soprattutto le valutazioni che la Corte costituzionale ha
voluto dare alla libertà di stampa. E al riguardo si può
citare il saggio di Enzo Cheli già vice presidente della
Corte dal titolo “La giurisprudenza della Corte costituzionale italiana in tema di media”.
I giudici delle leggi hanno inizialmente affermato
con la sentenza numero 96 del 1969 che la libertà di
stampa costituisce “una pietra angolare dell’ordinamento democratico” mentre con la 172 del 1972 hanno asserito che è il “fondamento della democrazia” ed
infine con la 138 del 1985 hanno sancito che “è il più
alto, forse dei diritti fondamentali”.
Tre sentenze che costituiscono la base del diritto
di informare e che la Corte costituzionale con le sue
successive pronunce ha sempre più rafforzato e ora
il Parlamento con un provvedimento illiberale vorrebbe
imbrigliare. I giudici hanno affermato che nell’articolo 21 sono insiti riferimenti all’interesse generale all’informazione, tanto da configurare il “diritto di essere
informati”, come risvolto passivo della libertà di informazione. Dopo la summenzionate pronunce hanno accentuato la loro attenzione sul tema informazione.
Sintomatica è la sentenza 155/1990 con la quale è stato sancito il “fondamentale valore costituzionale del pluralismo dell’informazione” per poi dichiarare che
“l’informazione, nei suoi risvolti attivi e passivi (libertà di informare e diritto di essere informati) esprime…
una condizione preliminare per l’attuazione ad ogni livello, centrale o locale, della forma propria dello Stato democratico”.
Per quanto riguarda la cronologia, oltre ai giudicati già indicati, si ricorda la sentenza 105/1972 (accanto alla libertà di manifestazione del pensiero, inteso come libertà di dare e divulgare notizie, opinioni e commenti, esiste pure un interesse generale all’informazione indirettamente protetto, e questo interesse implica, in un regime di libera democrazia, pluralità di fonti di informazione, libero accesso alle medesime, assenza di ingiustificati ostacoli legali, anche
temporanei, alla circolazione delle notizie e delle idee);
la 94/1977 (la manifestazione del pensiero implica anche l’esclusione di interventi dei pubblici poteri suscettibili di tradursi anche indirettamente e contro le
intenzioni, in forme di pressione per indirizzare la stampa verso obiettivi predeterminati a preferenza di altri)
ed infine la 112 del 24 marzo 1993.
La Corte costituzionale con i suoi giudicati ha voluto affermare e ribadire che il diritto all’informazione è garantito dall’articolo 21. Un tale diritto deve essere qualificato e caratterizzato da alcuni elementi. Essi
sono il pluralismo delle fonti, l’obiettività e l’imparzialità dei dati forniti, la completezza, la correttezza,
la continuità dell’attività di informazione erogata, il rispetto della dignità umana, l’ordine pubblico, il buon
costume e il libero sviluppo psichico e morale dei minori. Elementi e regole che si ritrovano, oltre che nella “Carta dei doveri del giornalista” del 1993, nella Carta di Treviso e nel Codice sulla privacy relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività parlamentare.
Sulla libertà di stampa e sul diritto di informare, nonché quello di essere informati di passi in avanti ne sono
stati fatti diversi, se si considera che nel 1953 il diritto
di cronaca doveva ancora essere riconosciuto. Come peraltro la privacy, il diritto alla riservatezza ovvero a non
entrare nei sacri recinti personali. La sua difesa la debbono assumere i giornalisti con la loro professionalità
ed il coraggio che mostrano quotidianamente nel raccontare il malaffare nelle sue articolazioni. Senza libertà di informare si ritornerebbe al buio.
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LE RIFORME NECESSARIE ALLA GIUSTIZIA
di Maurizio Nenna
Parlare in Italia di riforme necessarie alla Giustizia è impresa ardua, per affrontare con sistematicità tale argomento
occorre compiere alcune considerazioni preliminari: in primis occorre chiedersi quale Stato noi cives (cittadini) desideriamo perché questo Stato attuale non consente una prosecuzione democratica delle Istituzioni perché ha mali endemici esteriori quali la corruzione, e mali endemici interiori quali il nepotismo, l’arroganza, l’impreparazione di funzionari e operatori del diritto, uno Stato composto da satrapie giuridiche non è uno Stato che può funzionare democraticamente che svolge le sue funzioni in totale anarchia, vi sono poteri che non rispondono al potere centrale ma che si arrogano un potere distinto autonomo e molte volte in contrapposizione a quello centrale.
Pertanto non possedere idee chiare (intendendosi
quali: schemi giuridici) su come e dove proporre le riforme opportune e necessarie, è un pensiero confuso che genera solo azioni confuse che portano questa Nazione al caos
che a memoria già questa penisola dovette subire nel periodo delle invasioni barbariche, tra il 490 ed il 560 d.C., dove
il diritto venne sopperito dalla legge del più forte.
Scrivere la norma nella sua essenza di precetto e sanzione non è compito certamente facile, compito del Legislatore è dar vita ad una norma chiara, precisa, facilmente applicabile e che non deve essere soprattutto oggetto di
interpretazione da parte degli operatori del diritto.
La norma per sua essenza è un principio matematico
che deve essere applicato, consta di elementi di logica, di
sistematicità, di applicazione e di dimostrazione che devono
ridurre i margini di interpretazione e di discrezionalità degli operatori che la applicheranno.
Iniziamo dall’analisi della Carta Costituzionale quale
concetto di Grundnorm di memoria Kelseniana.
La Costituzione stabilisce all’art. 102 che: non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali, possono
soltanto istituirsi presso gli organi giudiziari ordinari sezioni
specializzate per determinate materie anche con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura. Pertanto ad oggi questa norma è stata del tutto inapplicata o
meglio applicata solo in parte.
Una prima considerazione: vi è il divieto assoluto di giu-
Teoria generale del processo
dici speciali o straordinari e su questo assioma non vi sono
molte considerazioni da compiere se non la sola che questa norma non è stata applicata ma è stata violata. La seconda parte dell’art. 102 si riferisce invece ad un postulato: la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura. Questa massima non oggetto di una esperienza
con il sistema giuridico precedente ovvero con il sistema
precedente all’entrata in vigore della Costituzione del 1 gennaio 1948 perché non era presente, si è rivelata molto deleteria.
Questi due sistemi sono stati creati il primo in via originale, il secondo in via derivata dal primo, con l’emanazione
della Carta Costituzionale, con la conseguente eliminazione delle antinomie normative e con gli innesti delle riforme o presunte tali dal 1950 in poi (dalla c.d. Novella della
legge 14 luglio 1950, n. 581).
Questi cittadini idonei estranei alla magistratura non sono
preparati non sono terzi né imparziali nel svolgere quelle delicate funzioni che sono state attribuite alla Magistratura.
Pertanto, i giudici speciali o straordinari esistenti, e purtroppo ve ne sono, devono essere immediatamente abrogati, mentre la parte della norma dell’art. 102 riguardante
l’amministrazione della Giustizia da parte di cittadini idonei deve essere rivista perché non conforme ai principi generatori del sistema giuridico.
In questo attuale kaos si deve essere chiari su un assioma
assoluto: il Magistrato svolge le funzioni giudicanti e le funzioni inquisitorie e accusatorie, l’avvocato svolge la difesa,
gli ausiliari del giudice svolgono i compiti a loro assegnati
dalla Legge, non è ammissibile che nel principio della divisione dei poteri (leggasi Montesquieu Le Esprit des Lois) i Magistrati siano presenti nel potere legislativo o nel potere esecutivo o militino in partiti politici perché la Magistratura è
un ordine autonomo ed indipendente e non deve tradursi
in un Consiglio Notturno di concezione platoniana.
Nel nostro ordinamento ci sono tre grandi gruppi di
procedimenti: il processo civile, il processo penale, il processo amministrativo.
Il pocesso penale ha avuto origine con il D.P.R. 22 settembre 1988 n. 447 e da quando è stato istituito è stato oggetto di numerose riforme e pronunce della Corte Costi-
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tuzionale, ed è oggetto dell’art. 111 della Costituzione ma
tra i principi enunciati e l’applicazione pratica vi è molta differenza ad esempio non vi è alcuna parità tra la parte che
accusa e la parte che difende, vi è un unico potere estremamente forte e perverso del Pubblico Ministero e quindi
al potere totalmente discrezionale del Pubblico Ministero
di chiedere il rinvio a giudizio dell’indagato non corrisponde
alcun diritto del cittadino e quindi del proprio difensore per
opporsi, a ciò si deve aggiungere che le indagini non sono
svolte dal pubblico ministero ma delegate a persone che non
hanno né la capacità né la competenza per svolgere un tale
ruolo molto delicato quale è la ricerca delle fonti di prova
che non devono essere solo contro l’indagato ma anche a
favore dell’indagato (vedi art. 37 della Legge Delega del 16
febbraio 1987 n. 81). L’unico rimedio per il cittadino-indagato è l’udienza preliminare davanti al GUP ma anche in questo caso il GUP – il Giudice dell’Udienza Preliminare – creato dal Legislatore come filtro per ridurre i processi, non ha
mai funzionato e nella pratica il Giudice mentre l’avvocato sta compiendo verbalmente i propri offici difensivi già
fissa l’udienza dibattimentale emettendo il decreto che dispone il giudizio (art. 429 c.p.p.). Il Giudice non ha quindi
sentito né letto nulla da quanto prodotto dalla difesa dell’indagato.
Pertanto, occorrerebbe in una ipotesi di riforma: rinforzare l’organico dei magistrati; e che avverso la richiesta
di rinvio a giudizio emessa dal Pubblico Ministero ci sia effettivamente il diritto dell’indagato di opporsi e che il Giudice dell’Udienza Preliminare emetta un provvedimento che
dispone il giudizio congruamente motivato con principi logico-sistematici e logico-deduttivi e che in assenza di questi principi, avverso questo provvedimento, si possa ricorrere
entro quindici giorni presso la Corte di Cassazione. Inoltre,
ab initio con la riforma del codice di procedura penale che
si sostanzia sul principio accusatorio doveva porsi una riforma del codice penale che si basa invece su un altro principio quello inquisitorio. A ciò si deve aggiungere una riforma sull’esecuzione della sentenza penale al fine di utilizzare nei limiti del possibile, e più favorevolmente al reo,
una applicazione delle pene alternative al carcere per il reinserimento sociale del condannato in via definitiva in linea
con quanto indicato ed auspicato dall’Unione Europea e dalla relativa Corte di Giustizia.
Una menzione a parte è il codice di procedura penale
militare in quanto si ritiene che il Giudice Penale Militare
sia un giudice speciale e come tale non può essere presente
nel nostro ordinamento e pertanto tale funzione dovrà essere rivista.
Altra figura che dovrà essere abrogata è la figura del
Giudice di Pace penale ed il ripristino del Pretore con un ampliamento di competenze per i motivi che qui di seguito verranno evidenziati.
Il processo amministrativo è stato oggetto di una recente riforma con il decreto legislativo n. 104 del 22 luglio
2010 che appena è entrato in vigore è stato oggetto di modifiche con il D.lgs. 15 novembre 2011 n. 195, con il D.lgs.
14 settembre 2012 n. 160, dal D.lgs. 14 marzo 2013 n. 33,
dalla legge 11 agosto 2014 n. 114, dalla legge 10 novembre 2014 n. 162 e con diverse pronunce della Corte Costituzionale in merito. Giova evidenziare che ad appena sei anni
circa dal suo varo il processo amministrativo abbia avuto
così tanti interventi legislativi e pronunce giurisprudenziali
e questo dimostra uno stato di confusione giuridica del legislatore ed in alcuni del giudice costituzionale. La questione
di interesse a livello riformativo è che il processo amministrativo rinvia nel caso di mancanze normative al processo contenuto nel codice di procedura civile vigente, quindi tende ad uniformarsi pur in alcune differenze dovute alle
materie trattate, al processo civile vigente. Inoltre nel processo innanzi alla Corte dei Conti quale Giudice Unico delle Pensioni in base alla legge del 21 luglio 2000 n. 205 modificata dalla legge 18 giugno 2009 n. 69, all’art. 5, al suddetto procedimento si applicano gli articoli 420, 421, 429,
430 e 431 del c.p.c. e quindi del rito del lavoro.
Nell’alveo del processo amministrativo deve essere indicato il processo tributario istituito con il D.lgs. 31 dicembre
1992 n. 545 e D.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546 anche questo processo rinvia alle norme del codice di procedura civile in caso di mancanze procedurali, ma la questione molto grave è che il giudice tributario è un giudice speciale che
oltre ad essere già motivo di abrogazione immediata ha
un’altra grave lacuna genetica non possiede né l’autonomia
né l’imparzialità né la terzietà del Giudice Ordinario in quanto i componenti giudicanti sono in maggioranza ex funzionari di apparati statali e quindi per loro genesi non può
essergli riconosciuta la buona fede nella terzietà del giudizio.
Il Giudice Tributario attuale è una gravissima anomalia ed
aberrazione del sistema attuale e come tale deve essere immediatamente abrogato, le competenze gestite da questi organi devono rientrare nell’alveo da dove sono pervenute ovvero dal Giudice Civile in base all’art. 9 del codice di procedura civile creando caso mai delle Sezioni Specializzate
presso il Tribunale Civile. La questione deve essere immediatamente affrontata e risolta perché in una situazione economica attuale grave che inficia il nostro Paese il rapporto giuridico tra Ente Impositore, Ente di Riscossione e Cit-
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tadino non può essere lasciato in questa situazione perché
avremo una crescente sfiducia verso le istituzioni da parte del cittadino comune che gli viene negata sempre più
spesso la giustizia.
Il processo civile è entrato in vigore con il Regio Decreto
del 28 ottobre 1940 n. 1443, rispetto alla sua emanazione
del piano originario rimane ben poco. Innanzi tutto occorre
ristabilire gli articoli 2,3,4 abrogati dalla legge del 31 maggio 1995 n. 218 la c.d. riforma del diritto internazionale privato, in quanto questa legge seppur emanata in basi ad accordi internazionali non certo positivi per l’Italia deve essere abrogata in quanto ha annichilito la giurisdizione italiana limitando la sovranità del nostro Stato. La figura del
Giudice di Pace deve essere abrogata in quanto giudice speciale anche per non essere in posizione di terzietà e di imparzialità e per la poca preparazione in materie giuridiche
sia civili che penali, e ripristinata nelle dovute competenze la figura del Pretore pur con una modifica della competenza per materie allo stesso riservate, ovviamente con
fondamentale aumento di organico dei Magistrati.
Il ripristino del Giudice Collegiale e l’eliminazione del
Giudice Monocratico, perché questa scelta è stata deleteria
su tutta la linea ed ha prodotto pessimi provvedimenti sia
in alcuni casi per la mancanza di preparazione del singolo magistrato sia per la poca attenzione dimostrata nel leggere i documenti di causa. L’emanazione dell’istituzione del
Giudice Monocratico con il D.lgs. 19 febbraio 1998 n. 51 modificando l’intero assetto del processo, lo ha stravolto.
Il ripristino dell’art. 282 c.p.c. prima delle riforma dell’art. 33 delle legge 26 novembre 1990 n. 353 in quanto le
sentenze di primo grado non devono essere provvisoriamente esecutive tra le parti ma la provvisoria esecutorietà della sentenza deve essere concessa preliminarmente dal
Giudice Collegiale di secondo grado, in quanto l’attuale norma dell’art. 282 c.p.c. non ha funzionato adeguatamente,
troppi provvedimenti emessi senza una dovuta cautela e
controllo dei documenti di causa, hanno prodotto solo danni sostanziali.
Elemento fondamentale di questa ipotesi di riforma è
la modifica radicale del rito: un rito unico principale con appena qualche innesto, in alcuni casi ben determinati, riguardante il rito camerale. Il riferimento è al rito del lavoro a nostro insindacabile giudizio è l’unico rito ad avere una
applicazione veloce, diretta, funzionale, orale, scevro dai dettami dell’art. 183 c.p.c. e che risponde alle esigenze della
attuale società che non è più quella del 1940, o del 1970.
Questo rito applicabile unicamente, dovrà essere calibrato sia verso i procedimenti ante causam sia verso il pro-
cedimento di esecuzione che verso i procedimenti di opposizione all’esecuzione per una corretta ed agile applicazione in ottemperanza sia al diritto delle parti (artt. 99 e 100
c.p.c.) e sia al principio del contraddittorio (art. 101 c.p.c.),
delle prove (artt. 115 e 116 c.p.c.) e della libertà delle forme (art. 121 c.p.c.). E’ ovviamente da ristabilire in questa ottica il c.d. procedimento di delibazione dell’efficacia delle
sentenze straniere e della esecuzione di altri atti di autorità straniere (artt. 796-805 c.p.c.), troppo frettolosamente abrogato con la legge n. 218 del 1995 in quanto incide
su punti nevralgici quali la competenza del giudice italiano, l’ordine pubblico e il principio di reciprocità.
A ciò si deve aggiungere la nuova competenza del Giudice Civile in merito alle figure dei reati depenalizzati e trasformati in illeciti civili con i decreti legislativi nn. 7 e 8 del
15 gennaio 2016, pertanto questa nuova competenza si innesterà sull’aggravio lavorativo dei procedimenti civili pendenti e quindi occorre una riforma molto equilibrata e sicura per rispondere con certezza ed equità a queste nuove esigenze.
Devono pertanto essere dimenticati orientamenti giurisprudenziali che sono catalogabili come c.d. giurisprudenza
creativa o di riforme del diritto processuale che sono state soppresse dopo brevissimo tempo come la legge delega 366/2001 che ha portato al decreto legislativo 17 gennaio 2003 n. 5 recante Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, che si poneva l’obiettivo di emanare nuove norme dirette ad assicurare una più
rapida ed efficace definizione dei procedimenti nelle materie oggetto di delega (materia societaria, di intermediazione finanziaria, bancaria e creditizia) tale obiettivo non
è stato minimamente raggiunto (sul tema vedasi Giorgio
Guerriero, I principali aspetti dell'evoluzione nel processo societario e in ambito fallimentare: nuovi scenari e problemi
irrisolti,. Gangemi Editore, 2009, Roma).
Come si è potuto quindi verificare nel corso degli anni dal
dopoguerra sino ad oggi il Legislatore ha compiuto molti
errori alcuni per rispondere ad ideologie politiche errate e
prive di fondamento, altri per soddisfare gli interessi di gruppi di pressione molto presenti ed attivi nel panorama politico, ma il compito del vero Legislatore è nell’adempiere
con diligenza e avvedutezza al proprio mandato concessogli
dal Popolo Italiano a cui dovrà comunque e sempre rispondere (si veda sui temi citati: Maurizio Nenna, Teoria e
Analisi dello Stato, Gangemi Editore; Maurizio Nenna, Diritto Processuale Pubblico, Gangemi Editore; Maurizio
Nenna, Principi di diritto processuale, Gangemi Editore).
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Le maggiori novelle che hanno interessato il Codice di procedura civile possono essere così elencate:
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R.D. 20 aprile 1942, n. 504, norme per il coordinamento del codice di procedura civile
D.Lgs. 10 dicembre 1947, n. 1548, Modificazione dell'art. 545 del Codice di procedura civile circa il pignoramento di stipendi, salari e altre indennità dovuti per rapporti di lavoro
•
D.Lgs. 9 aprile 1948, n. 438, modificazioni e aggiunte al Codice di procedura civile (entrato in vigore a seguito di reiterate sospensioni stabilite con Legge 29 dicembre 1948, n. 1470, Legge 31 marzo 1949, n. 92 e
•
Legge 30 luglio 1950, n. 534, modificazione dell'articolo 72 del Codice di procedura civile
•
D.P.R. 17 ottobre 1950, n. 857, Disposizioni di coordinamento e di attuazione della legge 14 luglio 1950, n. 581, che ratifica il decreto legislativo 5 maggio 1948, n. 483
•
Legge 25 luglio 1966, n. 571, Aumento dei limiti di valore della competenza dei pretori e dei conciliatori e del limite di inappellabilità delle sentenze dei conciliatori
Legge 5 luglio 1949, n. 341)
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D.L. 5 maggio 1948, n. 483, convertito con Legge 14 luglio 1950, n. 581, Modificazioni ed aggiunte al Codice di procedura civile (cosiddetta novella del 1950)
Legge 23 maggio 1951, n. 400, Modificazione del secondo comma dell'articolo 677 del Codice di procedura civile
Legge 8 maggio 1971, n. 302, Modifica dell'articolo 514 del codice di procedura civile in tema di cose mobili assolutamente impignorabili
Legge 11 agosto 1973, n. 533, Disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle controversie in materia di previdenza
•
Legge 22 dicembre 1973, n. 841, Proroga dei contratti di locazione e di sublocazione degli immobili urbani e degli immobili destinati ad uso di albergo, pensione e locanda
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Legge 8 agosto 1977, n. 532, Provvedimenti urgenti in materia processuale e di ordinamento giudiziario
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Legge 10 maggio 1976, n. 358, Modifiche agli articoli 495, 641 e 653 del codice di procedura civile relative alla conversione del pignoramento ed al decreto di ingiunzione
Legge 18 ottobre 1977, n. 793, Abolizione del deposito per soccombenza nel processo civile
Legge 7 febbraio 1979, n. 59, Modificazioni ai servizi di cancelleria in materia di spese processuali civili
Legge 6 febbraio 1981, n. 42, Ratifica ed esecuzione della convenzione relativa alla notifica all'estero di atti giudiziari ed extragiudiziari in materia civile o commerciale, adottata a L'Aja il 15 novembre 1965
•
Legge 9 febbraio 1983, n. 28, Modificazioni alla disciplina dell'arbitrato
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Legge 4 giugno 1985, n. 281, Disposizioni sull'ordinamento della Commissione nazionale per le società e la borsa
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Legge 30 luglio 1984, n. 399, Aumento dei limiti di competenza del conciliatore e del pretore
D.P.R. 9 dicembre 1987, n. 497, Abrogazione, a seguito di referendum popolare, degli articoli 55, 56 e 74 del codice di procedura civile
Legge 13 aprile 1988, n. 117, Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati
Legge 29 luglio 1988, n. 331, Modifica dell'articolo 710 del codice di procedura civile in materia di modificabilità dei provvedimenti del tribunale nei casi di separazione personale dei coniugi
•
Legge 26 novembre 1990, n. 353 (cosiddetta novella del 1990), Provvedimenti urgenti per il processo civile
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Legge 21 novembre 1991, n. 374, Istituzione del Giudice di Pace, (Governo Andreotti VII)
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D.L. 13 maggio 1991, n. 152, Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata
Legge 4 dicembre 1992, n. 477, Disposizioni sull'efficacia di norme della legge 21 novembre 1991, n. 374
Legge 5 gennaio 1994, n. 25, Nuove disposizioni in materia di arbitrato e disciplina dell'arbitrato internazionale
D.L. 7 ottobre 1994, n. 571, convertito con Legge 6 dicembre 1994, n. 673, Modificazioni delle leggi 21 novembre 1991, n. 374, istitutiva del giudice di pace, e 26 novembre 1990, n. 353, concernente provvedimenti
urgenti per il processo civile
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Legge 31 maggio 1995, n. 218, Riforma del diritto internazionale privato
D.L. 18 ottobre 1995, n. 432, convertito con Legge 20 dicembre 1995, n. 534, Interventi urgenti sul processo civile e sulla disciplina transitoria della legge 26 novembre 1990, n. 353, relativa al medesimo processo
D.L. 23 ottobre 1996, n. 542, convertito con Legge 23 dicembre 1996, n. 649, Differimento di termini previsti da disposizioni legislative in materia di interventi in campo economico e sociale
•
Legge 27 maggio 1997, n. 141, Modifica del terzo comma dell'articolo 83 del codice di procedura civile
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D.Lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, Istituzione del giudice unico di primo grado
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Legge 22 luglio 1997, n. 276, Disposizioni per la definizione del contenzioso civile pendente: nomina di giudici onorari aggregati e istituzione delle sezioni stralcio nei tribunali ordinari
D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa
•
Legge 16 giugno 1998, n. 188, Proroga del termine di efficacia del decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51, recante norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado
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D.L. 21 settembre 1998, n. 328, convertito con Legge 19 novembre 1998, n. 399, Modifiche dei requisiti per la nomina dei giudici onorari aggregati da destinare alle sezioni stralcio
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Legge 28 dicembre 2005, n. 263, Interventi correttivi alle modifiche in materia processuale civile
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Legge 3 agosto 1998, n. 302, Norme in tema di espropriazione forzata e di atti affidabili ai notai
D.L. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con Legge 14 maggio 2005, n. 80, disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale,
D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato (in attuazione della Legge 14 maggio 2005, n. 80)
Legge 24 febbraio 2006, n. 52, Riforma delle esecuzioni mobiliari
•
D.L. 25 giugno 2008, n. 112, convertito con Legge 6 agosto 2008, n. 133, disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequa-
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Legge 18 giugno 2009, n. 69, Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile
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D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito Legge 17 dicembre 2012, n. 221, Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese
zione tributaria
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D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con Legge 7 agosto 2012, n. 134, Misure urgenti per la crescita del Paese
D.L. 21 giugno 2013, n. 69, convertito con Legge 9 agosto 2013, n. 98, Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia
D.L. 24 giugno 2014, n. 90, convertito Legge 11 agosto 2014, n. 114, Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari
D.L. 12 settembre 2014, n. 132, convertito Legge 10 novembre 2014, n. 162, Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell'arretrato in materia di processo civile
D.L. 27 giugno 2015, n. 83, Misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell'amministrazione giudiziaria
Pur senza costituire vere e proprie "novelle" al Codice di procedura civile, alcuni interventi di minore portata sono stati inoltre apportati dalle seguenti disposizioni:
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Legge 7 aprile 2003, n. 63 (conversione del D.L. 8 febbraio 2003, n. 18), giudizio necessario secondo equità
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D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali
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Legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Legge Finanziaria 2008)
Inoltre, hanno inciso sul testo del Codice di procedura civile disposizioni contenute in provvedimenti di riforma in altre materie:
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Depenalizzazione (Legge 24 novembre 1981, n. 689)
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Diritto internazionale privato (Legge 31 maggio 1995, n. 218)
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Responsabilità civile dei magistrati (Legge 13 aprile 1988, n. 117) (in precedenza, a seguito del referendum del 1987, il D.P.R. 9 dicembre 1987, n. 497 aveva abrogato taluni articoli)
Disposizioni per i procedimenti riguardanti i magistrati (Legge 2 dicembre 1998, n. 420)
Spese di giustizia (D.P.R. 30 maggio 2002, N. 115)
Tutela dei dati personali (D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196)
Istituzione dell'amministrazione di sostegno (Legge 9 gennaio 2004, n. 6)
Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari (Legge 28 Legge 28 dicembre 2005, n. 262)
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NECESSITÀ DI UN’ADEGUATA MOTIVAZIONE DELLA LEGGE
RESTRITTIVAMENTE INCIDENTE
NELLA SFERA GIURIDICA DEI CITTADINI?
(Commento alla sentenza della Corte costituzionaole n. 70/2015)
di Gabriele Pepe
La pronuncia in commento si segnala per l’accoglimento di una delle censure presentate dai ricorrenti
con conseguente declaratoria di incostituzionalità di
una disposizione della c.d. legge Fornero e, segnatamente, dell’art. 24, co. 25, decreto-legge 6 dicembre
2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
co. 1, legge 22 dicembre 2011, n. 214. Si tratta della disposizione che, in una prospettiva di risanamento dei
conti pubblici, ha imposto risparmi di spesa attraverso il blocco della indicizzazione di taluni trattamenti
pensionistici per gli anni 2012 e 2013.
Il presente articolo non mira ad una ricostruzione analitica dell’intera pronuncia della Corte bensì intende soffermarsi su due passaggi della sentenza, che
sia pur incidentalmente, sembrano presentare nei termini in cui sono stati espressi, elementi di novità per
l’ordinamento italiano. Inoltre l’articolo riserva talune
considerazioni finali al sindacato di ragionevolezza operato dalla Consulta la quale, nella valutazione comparativa degli interessi costituzionalmente rilevanti, ha
pretermesso di considerare l’interesse prioritario al pareggio di bilancio (art. 81, I co. Cost.).
In due passaggi della sentenza, anche se non tra
i profili apparentemente fondamentali, la Corte sembra introdurre un principio rivoluzionario per il sistema
giuridico italiano: il principio secondo cui ogni legge
che incida negativamente nella sfera giuridica dei destinatari necessiti di una congrua ed adeguata motivazione in ordine alle specifiche ragioni della scelta normativa compiuta. Tale proposizione è chiarita dalla Corte nella parte della sentenza in cui statuisce che “la disposizione concernente l’azzeramento del meccanismo
Diritto costituzionale
perequativo, contenuta nel comma 24 dell’art. 25 del
d. l. 201 del 2011, come convertito, si limita a richiamare
genericamente la “contingente situazione finanziaria”, senza che emerga dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti
oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi”1 . Inoltre, sottolinea la Consulta, come l’interesse dei pensionati ed in
particolare di quelli titolari di trattamenti previdenziali
modesti, sia finalizzato alla conservazione del potere
di acquisto delle somme percepite, da cui coerentemente discende il diritto ad una prestazione previdenziale adeguata. Aggiunge, infine, che “tale diritto,
costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente
sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate
in dettaglio”.
Tali brevi ma significative statuizioni, pur rappresentando quasi un obiter nel contesto della pronuncia, hanno un fortissimo impatto sull’ordinamento italiano, sancendo, per la prima volta in modo così
esplicito, la necessità di una congrua e pertinente motivazione dell’atto legislativo2 , ineludibile ai fini della
valutazione comparativa degli interessi su cui è costruito il sindacato di legittimità costituzionale3 .
Tale profilo innovativo si coglie agevolmente richiamando
la distinzione, autorevolmente sostenuta in dottrina, tra
ratio legis e motivazione. La prima si identifica negli interessi che l’atto intende regolare ed è ricavabile in ogni
caso dal contesto normativo; la seconda, invece, va intesa quale esternazione (eventuale) dei motivi della legge4
; un elemento considerato tradizionalmente non necessario ai fini della validità dell’atto legislativo.
1 Inoltre, prosegue la sentenza, “anche in sede di conversione (legge 22 dicembre 2011, n. 214), non è dato riscontrare alcuna documentazione tecnica circa le attese maggiori entrate, come previsto dall’art. 17, comma
3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, recante «Legge di contabilità e finanza pubblica» (sentenza n. 26 del 2013, che interpreta il citato art. 17 quale «puntualizzazione tecnica» dell’art. 81 Cost.)”.
2 In dottrina si vedano, a titolo esemplificativo, i contributi di A. DE VALLES, La validità degli atti amministrativi, Roma, 1927, pp. 134 ss.. V. CRISAFULLI, Sulla motivazione degli atti legislativi, in Riv. dir. pubbl., I, 1937,
pp. 415-444, spec. p. 415: “Per motivazione può intendersi, tecnicamente, l'enunciazione, esplicita o implicita, contestuale o non, dei motivi che precedettero e determinarono l'emanazione di un atto giuridico, compiu-
ta dallo stesso soggetto dal quale proviene l'atto motivato”. In tema più di recente S. BOCCALATTE, La motivazione della legge. Profili teorici e giurisprudenziali, Cedam, Padova, 2008, pp. 1 ss.. M. PICCHI, L’obbligo di
motivazione delle leggi, Giuffrè, Milano, 2011, pp. 1 ss..
3 F. MODUGNO, La ragionevolezza nella giustizia costituzionale, Editoriale scientifica, Napoli, 2007, p. 46: “Il giudizio costituzionale è istituzionalmente concepito come rivolto alla composizione della tensione tra legisla-
zione e Costituzione, al fine di rendere la prima conforme o non incompatibile con la seconda, ossia le scelte, le discipline legislative non difformi, non contrastanti, ma conformi alle norme e ai principi costituzionali”,
4 M.S. GIANNINI, voce Motivazione dell’atto amministrativo, in Enc. dir., vol. XXVII, Milano, 1977, p. 258.
17
L’obbligo di motivazione, nei termini formulati dalla pronuncia, appare inedito nella giurisprudenza della Corte, pur inquadrandosi agevolmente nel trend evolutivo che ha caratterizzato la legge, e più in generale
i pubblici poteri, nell’ordinamento italiano ed europeo.
A partire dalla Rivoluzione francese la legge,
espressione della volontà popolare, è stata ritenuta l’atto politico per eccellenza quale atto libero nel fine (atto
cioè cui nessun fine è precluso)5 . In altri termini la legge si è identificata per molto tempo nella fonte posta
al vertice dell’ordinamento, incarnando nel XIX e XX secolo l’egemonia della sovranità statale sulla produzione
normativa6 ; (c.d. onnipotenza legislativa frutto dell’esasperazione del positivismo giuridico). Un’egemonia che nell’esercizio della funzione di indirizzo politico l’atto legislativo ha esplicitato nella capacità di individuare da sé i fini pubblici da perseguire, senza limiti o forme di controllo, salvo vincoli autoimposti; per
lungo tempo, infatti, la migliore dottrina ha ritenuto
che il legislatore non fosse obbligato a motivare le proprie scelte a meno che non lo volesse.7
Nell’ordinamento italiano tale fenomeno ha caratterizzato il proscenio giuridico per tutta la vigenza
dello Statuto albertino del 1848 (definito nel preambolo
Legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile della Monarchia)8 ; una Costituzione che, pur formalmente sovraordinata alla legge, in ragione della sua natura di Carta flessibile, poteva essere da una legge ordinaria modificata e derogata in ogni momento.
L’avvento della Costituzione repubblicana del
1948, quale Costituzione rigida9 , ha progressivamente incrinato il consolidato assetto legicentrico del sistema
giuridico italiano. Infatti la legge, sino a quel momento atto collocato al vertice dell’ordinamento, è stata imbrigliata in un sistema delle fonti avente alla propria
sommità la Carta costituzionale; quest’ultima prescrive principi da osservare e obiettivi da realizzare al legislatore (statale e regionale) nell’esercizio della funzione
di indirizzo politico10. Un duplice vincolo (positivo e negativo) viene, dunque, a gravare, sulla legge, la quale,
da un lato, non deve porsi in contrasto con i principi,
le regole ed i valori della Costituzione11 e, dall’altro, è
tenuta a dare attuazione ai criteri e alle direttive, specie nel caso di norme di scopo (contenute nella Costituzione stessa) impropriamente chiamate in modo tralaticio norme programmatiche12. Per assicurare l’osservanza in concreto di tali precetti è stato istituito un
apposito organo (la Consulta) cui è demandato, in via
esclusiva, il compito di verificare la conformità delle leggi ai dicta e ai valori espressi dalla Costituzione13.
Evidentemente ciò non può che rappresentare il primo elemento tangibile tanto della dequotazione dello
strumento legislativo quanto della progressiva trasformazione dei suoi caratteri tipici14. Ad affievolire ulteriormente la centralità della legge nel sistema delle
fonti hanno contribuito le Comunità europee prima e
l’Unione europea poi15. Del resto, le norme dell’ordinamento sovranazionale primeggiano in un sistema delle fonti policentrico e multilivello, adagiandosi su un piano gerarchicamente sovraordinato tanto alla Costituzione quanto alla legge nazionale (statale e regionale);
in particolare l’atto legislativo è tenuto ad uniformarsi, a pena di illegittimità, a tutte le norme europee, scritte e non16. Tale vincolo che sin dal ’48 rinviene il pro-
5 Sulla tradizionale concezione della legge quale atto libero nel fine, tra i tanti, in dottrina S. ROMANO-V. FEROCI, Principi generali del diritto e diritto costituzionale, Milano, 1928, pp. 1 ss.. G. ZANOBINI, L’attività amministrativa e la legge, in Riv. dir. pubbl. 1924, ora in Id. (a cura di), Scritti vari di diritto pubblico, Giuffrè, Milano, 1955, pp. 205 ss..
6 P. GROSSI, Il costituzionalismo moderno fra mito e storia, in Giorn. st. cost., n. 11/2006, pp. 25 ss..
7 C.M. IACCARINO, Studi sulla motivazione (con speciale riguardo agli atti amministrativi), Roma, 1933, pp. 49 ss. e 129 ss.. G. LOMBARDI, voce Motivazione (Diritto costituzionale), in Noviss. Dig. it., vol. X, Torino, 1964, pp. 954 ss..
8 È convincimento diffuso che la denominazione Statuto, dovuta forse al suggerimento del segretario del re nobile Giovannetti sia stata accolta per evitare il temuto significato rivoluzionario dell’espressione Costitu-
zione. Il termine che si collega alla tradizione legislativa riconducibile agli Statuti sabaudi (in proposito M. RUGGERO L’eredità di Carlo Alberto, Milano, 1995, p. 295) ha avuto in seguito molta fortuna, venendo utilizzato anche in età Repubblicana per definire importanti settori dell’ordinamento italiano (Statuti regionali, Statuto dei lavoratori, Statuto del contribuente etc...).
9 Una Costituzione non più modificabile con semplice legge ordinaria bensì secondo una procedura aggravata descritta dall’art. 138 Cost.. (E. CHELI, Lo Stato costituzionale. Radici e prospettive, Editoriale Scientifica, Napoli, 2006, pp. 24 ss.).
10 Sulla funzione di indirizzo politico si rinvia, senza pretese di completezza, agli studi di E. CHELI, Atto politico e funzione d’indirizzo politico, Giuffrè, Milano, 1961, pp. 1 ss.. T. MARTINES, voce Indirizzo politico, in
Enc. dir., vol. XXI, Milano, 1971, pp. 134 ss.. M. DOGLIANI, voce Indirizzo politico, in Dig. disc. pubbl., vol. VIII, Torino, 1993, pp. 244 ss..
11 F. MODUGNO, L’invalidità della legge. Teoria dell’atto legislativo e oggetto del giudizio costituzionale, vol. II, Giuffrè, Milano, 1970, pp. 335 ss..
12 V. CRISAFULLI, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Giuffrè, Milano, 1952, pp. 36 e 48.
13 Più in generale sul fenomeno dell’interpretazione costituzionalmente orientata della legge M. RUOTOLO, Interpretare: nel segno della Costituzione, Editoriale Scientifica, Napoli, 2014.
14 Per un’analisi più generale della crisi dello strumento legislativo U. VINCENTI (cura di), Inchiesta sulla legge nell’Occidente giuridico, Giappichelli, Torino, 2005, spec. p. 7.
15 Sul depotenziamento della legge statale si rinvia a G. PEPE, Principi generali dell’ordinamento comunitario e attività amministrativa, Roma, 2012, pp. 26-34. Con riferimento alla necessità di un’interpretazione comunitariamente orientata delle leggi nazionali G. PISTORIO, Interpretazione e giudici. Il caso dell’interpretazione conforme al diritto dell’Unione europea, Editoriale Scientifica, Napoli, 2012, spec. pp. 111 ss..
16 C. PAGOTTO, La disapplicazione della legge, Giuffrè, Milano, 2008, p. 342: “Deve parimenti giungersi alla necessaria conclusione che la legge dello Stato è ad oggi sottoposta ad una molteplicità di influssi che tendono ad
orientarne gli effetti sotto forma di apertura ad un maggior numero di parametri di legittimità ed in deroga al modello tradizionale nel quale solo gli autovincoli legislativi possono incidere in modo concreto sulla libertà del
legislatore”. In tema di autovincoli legislativi A. PACE, Potere costituente, rigidità costituzionale, autovincoli legislativi, II ed. riv. e ampl., Cedam, Padova, 2002.
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prio fondamento nell’art. 11 Cost., sulle limitazioni di
sovranità dello Stato in favore delle organizzazioni internazionali ivi previste cui esso partecipa17, è oggi
espressamente positivizzato dall’art. 117, I co. novellato18. Ai sensi di tale disposizione “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”. Conseguentemente nell’attuale sistema delle fonti, la legge viene ad essere progressivamente conformata (e limitata) tanto in ambito
nazionale quanto in sede sovranazionale, dovendo rispettare vincoli e prescrizioni in passato sconosciuti.
Alla luce del quadro ordinamentale vigente la legge, allora, non può più essere qualificata atto libero nel
fine insindacabile e non motivabile19. Del resto, l’atto
legislativo soggiace all’osservanza di fonti gerarchicamente superiori nei cui riguardi è tenuto sia ad evitare azioni di effrazione sia a porre in essere azioni di
implementazione ed attuazione dei fini generali in esse
consacrati. Ne discende come la mancata osservanza
degli obblighi gravanti sulla legge venga esplicitamente
sanzionata, da un lato, con il sindacato della Consulta che può dichiarare l’illegittimità di una disposizione di legge lesiva della Costituzione, espungendola dall’ordinamento; dall’altro con l’obbligo di disapplicazione
gravante sui giudici italiani ma anche sulle Pubbliche
Amministrazioni domestiche avente ad oggetto le leggi nazionali in contrasto con le regole ed i principi europei20. Tali fenomeni hanno rivestito un ruolo decisivo
nella trasformazione, non sempre adeguatamente
percepita, della legge da atto cui nessun fine è precluso
(libero cioè nel fine) in atto i cui fini sono conformati
ed imposti da fonti superiori (la Costituzione e le norme europee); la legge si è, conseguentemente, trasformata in un atto discrezionale, sia pure espressione di un’ampia discrezionalità qual è la discrezionalità politica.
Il discrimen tra libertà e discrezionalità di un atto
o di un’attività ha ricadute applicative rilevantissime,
condizionando fortemente il modus operandi del
soggetto o dell’organo chiamati ad agire. La nozione
giuridica di libertà, applicata all’atto legislativo, implica
il potere di individuazione dei fini da perseguire, con
le modalità ed i mezzi ritenuti più opportuni, senza preclusione alcuna; inoltre essa postula l’assenza di organi
e forme di controllo che verifichino la conformità dell’attività posta in essere a parametri di ordine superiore.
Diversamente la nozione giuridica di discrezionalità21 si esplica in un’attività di implementazione e
di scelta sulla base e nei limiti di quanto statuito da una
fonte normativa attributiva o comunque regolativa del
potere. La discrezionalità politica, pur con i suoi caratteri peculiari, è pur sempre una species del più ampio genus della discrezionalità, mutuando da questa
taluni elementi comuni. Del resto, la discrezionalità è
una categoria di teoria generale22 di cui costituiscono
specificazioni la discrezionalità politico-legislativa, la
discrezionalità amministrativa23 e la discrezionalità giurisdizionale, ciascuna con i propri elementi tipici.
Coerentemente la legge, lungi dall’essere qualificata oggi quale atto libero nel fine, deve viceversa considerarsi un atto discrezionale24, sia pure particolare,
ma comunque attratto nell’orbita del regime giuridico e dei limiti tipici di una funzione connotata da di-
17 Ai sensi dell’art. 11 Cost. “l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Sta-
ti, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. In particolare con l’evoluzione del-
le Comunità europee nell’Unione europea l’Italia ha ceduto ulteriori porzioni della propria sovranità specie in ambito economico, finanziario e monetario. Infatti gravano sul nostro ordinamento vincoli di bilancio assai
stringenti che impongono, tra le altre cose, l’adozione di piani di rientro del debito (M. STIPO, Una lettera “anomala” (la lettera Trichet-Draghi indirizzata al Primo Ministro italiano - Frankfurt/Rome, 5 August 2011), in
Studi in onore di Claudio Rossano, vol. IV, Jovene, Napoli, 2013, pp. 2391 ss.).
18 Articolo modificato dalla l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3 (modifiche al titolo V parte seconda della Costituzione, in Gazz. uff. n. 248 del 24 ottobre 2001). In dottrina sul superamento della tradizionale concezione della
legge quale atto libero nel fine a seguito della novella costituzionale N. LUPO, La motivazione delle leggi alla luce del nuovo titolo V Cost., in www.consiglio.regione.toscana.it, 2002, pp. 9 ss.. B.G. MATTARELLA, voce Motivazione (Dir. com.), in Diz. dir. pubbl., vol. IV, a cura di S. Cassese, Giuffrè, Milano, 2006, p. 3749.
19 Tuttavia una parte della dottrina continua ad escludere un obbligo generale di motivazione delle leggi anche dopo l’avvento della Costituzione e dell’ordinamento europeo in ragione della loro giustificazione demo-
cratica assicurata dalla pubblicità del procedimento legislativo e dal controllo diffuso dei cittadini (G. SCACCIA, Motivi della legge e valori preparatori nel giudizio costituzionale, in It. legis. n. 3/1998, pp. 15 ss.. M. PICCHI, L’obbligo di motivazione delle leggi, op. cit., pp. 3-4.)
20 G. PEPE, Principi generali dell’ordinamento comunitario e attività amministrativa, op. cit., pp. 130 ss..
21 Sulle differenze tra arbitrio e discrezionalità N. TOMMASEO, Dizionario dei sinonimi della lingua italiana, VII ed., Milano, 1884, p. 493: “Nell’arbitrio c’è esercizio assoluto della volontà buona o cattiva ch’ella sia; nella discrezione tale esercizio è regolato da conoscenza e da giudizio”.
22 F. CORDERO, Le situazioni soggettive nel processo penale: studi sulle dottrine generali del processo penale, Giappichelli, Torino, 1956, pp. 161 ss..
23 In dottrina, tra i contributi più significativi, M.S. GIANNINI, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione. Concetto e problemi, Milano, 1939, spec. pp. 78 ss. A. PIRAS, voce Discrezionalità amministrativa, in
Enc. dir., vol. XIII, Milano, 1964, pp. 65 ss.. C. MORTATI, voce Discrezionalità, in Noviss. dig. it., vol. V, Torino, 1964, pp. 1098 ss.. L. BENVENUTI, La discrezionalità amministrativa, Cedam, Padova, 1986, pp. 1 ss.. G. AZZARITI, Dalla discrezionalità al potere, Cedam, Padova, 1989, spec. pp. 317 ss..
24 Contra G. SCACCIA, Gli strumenti della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, Giuffrè, Milano, 2000, pp. 175 ss.. R. DICKMANN, Procedimento legislativo e coordinamento delle fonti, Cedam, Padova, 1997, pp.
19
screzionalità.
La categoria generale della discrezionalità, in particolare, si ricollega indissolubilmente al concetto di potestà, quale situazione giuridica soggettiva mista attraverso cui si svolge una data funzione pubblica (c.d.
munus) teleologicamente orientata alla cura di interessi
pubblici25, ossia di interessi non propri del soggetto
agente ma ad esso alieni. La potestà si articola al proprio interno in un forza attiva (potere) cui necessariamente si affianca un quid di doverosità. Del resto, come
autorevolmente sostenuto “nella potestà si riscontra a
fondamento dell’attribuzione dei poteri il dovere di esercitarli nell’interesse altrui”26.
Ciò significa che nell’esercizio di ciascuna potestà
pubblica è indefettibilmente incluso un elemento di doverosità27, che tuttavia non esaurisce il contenuto della funzione, affiancandosi ad esso una forza attiva intesa quale potere di scelta discrezionale. L’indissolubile collegamento tra potestà e funzione fa sì che la nozione giuridica di funzione si traduca, inoltre, in un
comportamento giuridicamente doveroso, comportamento viceversa non configurabile nelle attività e negli atti liberi nel fine. A ciò si affianca l’esercizio di un
potere discrezionale esplicantesi in una valutazione
comparativa dei vari interessi in rilievo; valutazione all’esito della quale si realizza l’opzione tra più soluzioni
tutte legittime, ragionevoli e plausibili; tale potere assume massima latitudine proprio nella discrezionalità politico-legislativa, rinvenendo, tuttavia, limiti e vincoli conformativi in fonti di rango superiore quali la Costituzione e le norme europee28.
Venendo all’esame della giurisprudenza costitu-
zionale, la prima pronuncia della Corte, volta ad effettuare un controllo sulla discrezionalità politica del
legislatore è la sentenza 22 gennaio 1957, n. 29 che si
fonda sulla ricerca della ratio dell’atto legislativo nella verifica di conformità ai principi costituzionali29.
Come detto, l’applicazione alla discrezionalità
politico-legislativa e all’atto di essa espressivo del regime generale della discrezionalità postula, inevitabilmente, un imprescindibile obbligo di motivazione o
comunque di giustificazione delle scelte compiute; un
obbligo di motivazione che tende progressivamente a
generalizzarsi sino a definirsi in termini di congruità
e adeguatezza nella pronuncia in commento. Tale evoluzione in ordine al contenuto dell’atto legislativo è certamente favorita dagli studi sulla motivazione degli atti
amministrativi30, giurisdizionali31 ed europei.
Con riferimento alla discrezionalità amministrativa
l’obbligo di motivazione è formalmente previsto in via
generale (e salvo talune eccezioni32) dall’art. 3, I co. Legge 241/90 secondo cui “ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l’organizzazione
amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed
il personale, deve essere motivato. (…) La motivazione
deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”. Tuttavia, ancor prima dell’entrata in vigore della legge
241/90, la giurisprudenza amministrativa imponeva
l’obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi negativamente incidenti sulla sfera giuridica degli amministrati33 e, segnatamente, in ciascun atto che
comportasse una valutazione comparativa di interes-
385 ss., il quale nega la possibilità di configurare il vizio di eccesso di potere, sul postulato della natura libera e non già discrezionale della funzione legislativa.
25 F. MODUGNO, voce Funzione, in Enc. dir., vol. VIII, Milano, 1969, pp. 301 ss..
26 M. STIPO, L’interesse legittimo nella prospettiva storica, Atti dei convegni per le celebrazioni dell’opera Giustizia amministrativa (1903) del Prof. Cino Vitta, 21 novembre 2003 e 16 luglio 2004, Consiglio di Stato, in
Studi per il centenario della Giustizia amministrativa (1903) di Cino Vitta, a cura di M. Stipo, Tiellemedia, Roma, 2006, p. 107.
27 S. PUGLIATTI, Esecuzione forzata e diritto sostanziale, Milano, 1935, pp. 24 ss.. Il concetto viene successivamente ripreso e chiarito da A. PIRAS, Interesse legittimo e giudizio amministrativo, Milano, 1962, vol. I, pp.
56 ss., vol. II, p. 53 ss, pp. 69 ss. e pp. 283 ss. F. BENVENUTI, Eccesso di potere per vizio della funzione, in Rass. dir. pubbl. 1950, pp. 1 ss.
28 Sui principi generali europei quali parametri della legittimità dei pubblici poteri nazionali G. PEPE, Principi generali dell’ordinamento comunitario e attività amministrativa, op. cit., spec. pp. 33, 51, 72 e 243.
29 Per maggiori approfondimenti su veda M. PICCHI, L’obbligo di motivazione delle leggi, op. cit., pp. 21 ss..
30 Sulla motivazione degli atti e dei provvedimenti amministrativi, senza pretese di esaustività, si vedano i contributi di A QUARTAPELLE, La motivazione degli atti amministrativi, Roma, 1940, pp. 1 ss.. G. FAZIO, Sindacabilità
e motivazione degli atti amministrativi discrezionali, Giuffrè, Milano, 1965, pp. 1 ss.. L. VANDELLI, Osservazioni sull’obbligo di motivazione degli atti amministrativi, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1972, pp. 1595 ss.. G. BERGONZI-
NI, La motivazione degli atti amministrativi, Vicenza, 1979, pp. 1 ss.. A. ROMANO TASSONE, Motivazione dei provvedimenti amministrativi e sindacato di legittimità, Giuffrè, Milano, 1987, pp. 1 ss.. R. SCARGIGLIA, La motivazione dell’atto amministrativo. Profili ricostruttivi e analisi comparatistica, Giuffrè, Milano, 1999, passim. G. CORSO, voce Motivazione dell’atto amministrativo, in Enc. dir., vol. V, Agg. Milano, 2001, pp. 774 ss..
31 Con riferimento alla motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, a titolo esemplificativo, si vedano i contributi P.S. SAMPERI, Motivazione delle sentenze, Roma, 1937, pp. 1 ss.. M. TARUFFO, La motivazione della
sentenza civile, Cedam, Padova, 1974, pp. 1 ss.. E. AMODIO, voce Motivazione della sentenza penale, in Enc. dir., vol. XXVII, Milano, 1977, pp. 181 ss.. S. EVANGELISTA, voce Motivazione della sentenza civile, in Enc. dir.,
vol. XXVII, Milano, 1977, pp. 154-180. B. PELLINGRA, La motivazione della sentenza penale, Giuffrè, Milano, 1985, pp. 1 ss.. E. FAZZALARI, voce Sentenza civile, in Enc. dir., vol. XLI, Milano, 1989, pp. 1245 ss.. F. SANTANGELI, L’interpretazione della sentenza civile, Milano, 1996, spec. pp. 50 ss..
32 Ai sensi dell’art. 3 II co. l. 241/90 “la motivazione non è richiesta per gli atti normativi e per quelli a contenuto generale”.
33 Per i provvedimenti amministrativi adottati in carenza di motivazione e caducati in sede giurisdizionale è consentito alla Pubblica Amministrazione, in sede di riesercizio del potere, di adottare, ora per allora, un nuo-
vo provvedimento perfettamente motivato. Ciò, risulta, viceversa, inammissibile per gli atti legislativi, in quanto è preclusa al legislatore la possibilità di intervenire ex post, con efficacia retroattiva, su una precedente
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si in conflitto34. Per quanto concerne, poi, gli atti adottati dal potere giudiziario l’art. 111, co. VI Cost., significativamente statuisce che tutti i provvedimenti giurisdizionali debbano essere motivati. La motivazione
si configura anche in questo caso quale strumento di
controllo circa il corretto e legittimo esercizio della funzione discrezionale (specie giudiziaria).
L’obbligo di motivazione è altresì, espressamente
previsto, in relazione agli atti normativi, dai Trattati europei ed in special modo dal Trattato di Lisbona che
all’art. 296 TFUE (già art. 253 TCE) prevede che “gli atti
giuridici sono motivati e fanno riferimento alle proposte, iniziative, raccomandazioni, richieste o pareri previsti dai Trattati”; da tale disposizione di evince come
regolamenti, direttive e decisioni necessitino della motivazione come requisito essenziale ai fini del perfezionamento e della legittimità dell’atto35; dunque per
ogni atto normativo europeo occorre sempre l’indicazione della base giuridica di riferimento in omaggio al
principio delle competenze di attribuzione.
Diversamente nell’ordinamento italiano non si rintraccia alcuna norma di diritto positivo36 né di rango
ordinario né di rango costituzionale che espressamente
prescriva un generale obbligo di motivazione per gli atti
legislativi37. (Un implicito obbligo di motivazione potrebbe riconoscersi eccezionalmente nelle ipotesi di decreti legge e leggi-provvedimento)38.
Ciononostante la problematica de qua deve essere osservata dal prisma di un esame integrato e contestuale delle norme costituzionali ed europee, in ragione, altresì, dell’evoluzione dei pubblici poteri e, segnatamente, del potere legislativo. Dal mutato conte-
sto di riferimento in cui la legge attualmente si colloca quale atto di discrezionalità politica, può implicitamente ricavarsi un obbligo di motivazione, dalla portata ormai sempre più generalizzata. E di tutto ciò sembra rinvenirsi conferma nella sentenza in commento.
A ben vedere la Corte costituzionale ha ritenuto in
passato come la Costituzione non imponesse ma al
tempo stesso nemmeno vietasse la motivazione delle
leggi39, rimettendo quindi la scelta circa l’esplicitazione delle ragioni dell’atto alla volontà del legislatore. A
partire dalla sentenza 24 febbraio 1964, n. 14, tuttavia, la Consulta, pur non imponendo alcun obbligo motivazionale al legislatore40, si è orientata alla ricerca di
una qualche motivazione dell’atto legislativo, tentando di ricostruirne le ragioni attraverso un sindacato
esterno circa la palese arbitrarietà o manifesta irragionevolezza della legge41; ciò denota quindi il primo
tentativo latente di conferire implicita rilevanza alla motivazione nel bilanciamento degli interessi in rilievo ai
fini del giudizio di legittimità costituzionale. Le successive pronunce della Consulta tra cui le sentenze 411 luglio 1989, n. 390 e 6 dicembre 2004, n. 379 sembrano collocarsi nel sentiero tracciato dalla sentenza
del 1964, in quanto la Corte ha accentuato progressivamente il rilievo della motivazione della legge nel quadro del sindacato di costituzionalità. In special modo
la pronuncia n. 379 del 2004, riallacciandosi all’art. 3,
II co. legge 241/90, sulla motivazione degli atti amministrativi, ha evidenziato come nell’ordinamento europeo la motivazione degli atti normativi rappresenti
una regola di ordine generale42.
Tuttavia sino alla sentenza che si annota la Con-
legge, censurata per illegittimità costituzionale, al fine di aggiungere od integrare la motivazione del precedente atto. Il potere legislativo deve, dunque, considerarsi consumato ed in ogni caso non può essere esercitato
in elusione del dictum della Consulta.
34 Prima degli anni 90’ del XX sec. la giurisprudenza aveva imposto la motivazione degli atti amministrativi restrittivi della sfera giuridica del destinatario, nella prospettiva della loro sindacabilità in sede giurisdiziona-
le. Inoltre l ’obbligo di motivazione veniva, tradizionalmente, ricavato dal principio di imparzialità di cui all’art. 97 II co. Cost.. In passato l’assenza di motivazione avrebbe rappresentato una figura sintomatica di ecces-
so di potere. (M.S. GIANNINI, voce Motivazione dell’atto amministrativo, in Enc. dir., vol. XXVII, op. cit., pp. 258 ss.). Viceversa con l’entrata in vigore dell’art. 2 l. 241/90 la carenza di motivazione integra il diverso vizio di
violazione di legge.
35 S. BOCCALATTE, La motivazione della legge. Profili teorici e giurisprudenziali, op. cit., pp. 267 ss.. G. TESAURO, Diritto dell’Unione europea, VII ed., Cedam, Padova, 2012, pp. 152 ss..
36 Tale circostanza viene tradizionalmente evidenziata in dottrina da C.M. IACCARINO, Studi sulla motivazione (con speciale riguardo agli atti amministrativi), op. cit., pp. 129-130. V. CRISAFULLI, Sulla motivazione de-
gli atti legislativi, in Riv. dir. pubbl., op. cit., p. 425. M.S. GIANNINI, voce Motivazione dell’atto amministrativo, in Enc. dir., vol. XXVII, op. cit., pp. 258 ss.. L’Autore sottolinea come, a differenza dell’ordinamento italiano,
nell’ordinamento francese sia invalsa la prassi di motivare gli atti legislativi, pur in assenza di un obbligo positivamente sancito.
37 Sulla configurabilità di un obbligo implicito di motivazione delle leggi, tra i tanti, in dottrina M. CARLI, Motivare le leggi: perché no?, in Poteri, garanzie, diritti a Sessanta anni dalla Costituzione. Scritti per Giovanni
Grottanelli de’ Santi, a cura di A. Pisaneschi, L. Violini, vol. I, Giuffrè, Milano, 2007, pp. 255-266. M. PICCHI, L’obbligo di motivazione delle leggi, op. cit., passim, spec. p. 251: “La motivazione costituisce (…) una compo-
nente sostanziale dell’atto legislativo; diviene, cioè, lo strumento in grado di confermare e valorizzare la prevalenza della legittimazione costituzionale, soddisfacendo ad un tempo anche la necessità di evidenziare la
funzionalità oggettiva della scelta compiuta, agevolandone il recepimento da parte della comunità e, in ultima analisi, la sua effettività”.
38 C. MORTATI, Le leggi provvedimento, Giuffrè, Milano, 1968, pp. 134 ss. e 244 ss.. A. BARBERA, Leggi di piano e sistema delle fonti, Giuffrè, Milano, 1968, pp. 79 ss.. V. ITALIA, La deroga nel diritto pubblico, Giuffrè,
Milano, 1977, pp. 123 ss.. R. BIN, Atti normativi e norme programmatiche, Giuffrè, Milano, 1988, pp. 310 ss.. P. CARETTI, voce Motivazione (diritto costituzionale), in Enc giur. Treccani, vol. XX, Roma, 1990, pp. 1-6. F.
SORRENTINO, Lezioni sul principio di legalità, Giappichelli, Torino, 2007, pp. 33 ss..
39 G. SCACCIA, Gli strumenti della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, op. cit., p. 122, il quale afferma l’insussistenza di un obbligo generale di motivazione della legge in ragione del silenzio serbato in proposito dalla Costituzione.
21
spettiva la motivazione sembrerebbe divenire un requisito necessario dell’atto legislativo, traducendosi in
elemento imprescindibile per il corretto bilanciamento degli interessi in rilievo (Rangordnung der interessen) che la Corte è chiamata ad operare44.
Il quesito cui occorre fornire soluzione concerne le
ricadute applicative di una legge che non motivi adeguatamente la compressione della sfera giuridica dei destinatari incisi dall’intervento normativo. Nella vicenda
de qua dall’accoglimento di uno dei motivi di ricorso, è
possibile evincere l’invalidità costituzionale della legge
Fornero per irragionevolezza dovuta ad un eccesso di potere; in altri termini il cattivo esercizio della funzione discrezionale legislativa, determinato altresì dall’assenza
di un’adeguata motivazione della legge, comporterebbe
la declaratoria di illegittimità di quest’ultima.
Ictu oculi emergono chiari profili di novità. Del resto, mentre in origine il giudice delle leggi era solito limitarsi ad un sindacato di ragionevolezza dell’atto legislativo45, essenzialmente fondato sulla violazione del
principio di uguaglianza, progressivamente la Consulta
si è andata sganciando da questo collegamento necessario, rafforzando con la pronuncia in commento
tale ultima posizione. In ogni caso la Corte costituzionale ha sempre rifiutato (come d’altronde anche nel
caso di specie) l’uso della locuzione tecnica eccesso di
potere legislativo46 per non dare l’impressione di
estendere il proprio sindacato al merito delle scelte politiche riservato al legislatore, circoscrivendo ogni verifica ai profili di esclusiva legittimità. Ciò in ossequio
alla disposizione dell’art. 28, legge 11 marzo 1953, n.
87 ai sensi della quale “il controllo di legittimità della
sulta non si è mai spinta ad affermare in modo così
esplicito e categorico la necessità di una congrua e pertinente motivazione della legge, specie se idonea ad incidere in modo afflittivo nella sfera giuridica dei destinatari. Il principio affermato assume, pertanto, un
ruolo fortemente innovativo poiché rivela nell’ambito
del sindacato di costituzionalità l’esigenza di una motivazione, puntuale e circostanziata, ai fini del bilanciamento degli interessi in conflitto; inoltre l’obbligo
motivazionale, così come affermato dalla Consulta, rappresenta l’ennesima prova dell’irreversibile trasformazione della legge in un atto di discrezionalità politica, da motivarsi necessariamente ove negativamente incidente su talune categorie di cittadini (e non sulla platea di tutti i consociati)43.
Tra le righe della pronuncia della Consulta può
evincersi come l’esercizio della funzione legislativa sia
comunque espressione di una funzione discrezionale (politica), che sia pur ampia, va progressivamente conformandosi con l’imposizione di limiti, vincoli e direttive
programmatiche, alla stregua di quanto accade per ogni
potestà discrezionale. Del resto l’esercizio di qualsivoglia forma di discrezionalità postula necessariamente
l’assolvimento di un obbligo, più o meno intenso, di motivazione che, giustificando la scelta compiuta, assicuri
la legittimità della funzione esercitata.
La Corte, tuttavia, non si limita nel caso di specie
a prescrivere una motivazione purchessia, generica o
meramente apparente, bensì richiede una motivazione particolareggiata che illustri in dettaglio le ragioni
economico-finanziarie tali da giustificare un intervento
restrittivo su alcune categorie di pensionati. In tale pro-
40 Puntualizza la sentenza: “di norma non è necessario che l’atto legislativo sia motivato, recando la legge in sé, nel sistema che costituisce, nel contenuto e nei caratteri dei suoi comandi, la giustificazione e le ragioni
della propria apparizione nel mondo del diritto”. In tale pronuncia la Corte ha fatto attenzione a non sovrapporre la motivazione o giustificazione della legge al movente politico. Per un commento a tale pronuncia M.
PICCHI, L’obbligo di motivazione delle leggi, op. cit., pp. 27-28: “Secondo la Corte costituzionale, perciò, non sarebbe necessario dare una veste specifica alla motivazione, ma deve pur sempre essere possibile ricostrui-
re le ragioni della scelta: devono sussistere gli elementi necessari e sufficienti per poter verificare l’adeguatezza della decisione assunta mettendo in relazione la finalità perseguita col criterio di ragionevolezza e i parametri costituzionali”.
41 F. MODUGNO, La ragionevolezza nella giustizia costituzionale, op. cit., p. 10: “È fin troppo noto che la forma argomentativa della ragionevolezza sorge nell’ambito del giudizio sull’uguaglianza delle leggi. Il controllo
di uguaglianza (fuori dalle ipotesi di vera e propria discriminazione) è comunemente considerato il livello minimale del sindacato di ragionevolezza”.
42 C. PINELLI, Recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di qualificazione di “atti con forza di legge”, in La Corte costituzionale vent'anni dopo la svolta, Atti seminario Stresa, 12 novembre 2010, a cura di R. Balduzzi, M. Cavino, J. Luther, Giappichelli, Torino, 2011, pp. 305-315.
43 La pronuncia della Corte costituzionale in commento sancisce il de profundis della concezione della legge quale atto libero nel fine espressivo della volontà popolare; una tesi pervicacemente viva anche dopo l’avvento della Costituzione e dell’ordinamento europeo tanto in dottrina quanto in giurisprudenza.
44 Più in generale sul bilanciamento tra diritti, interessi, principi e valori nel giudizio di costituzionalità della legge N. BOBBIO, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1990, pp. 9 ss.. A. BALDASSARRE, Fonti normative, legalità
e legittimità: l’unità della ragionevolezza, in Queste istituzioni, 1991, p. 64. R. BIN, Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Giuffrè, Milano, 1992, passim. F. MODUGNO, La
ragionevolezza nella giustizia costituzionale, op. cit., pp. 33 ss.. G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite: legge, diritti, giustizia, Einaudi, Torino, 2013, p. 13 ss..
45 A. MOSCARINI, Ratio legis e valutazioni di ragionevolezza della legge, Giappichelli, Torino, 1996, pp. 1 ss.. G. SCACCIA, Gli strumenti della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, op. cit., passim.
46 In tema C. MORTATI, Sull’eccesso di potere legislativo, in Giur. it., I, 1949, pp. 457 ss.. L. PALADIN, Osservazioni sulla discrezionalità e sull’eccesso di potere del legislatore ordinario, in Riv. trim. dir. pubbl. 1956, pp.
993 ss.. V. CRISAFULLI, Appunti di diritto costituzionale. La Corte costituzionale, Lezioni raccolte da Modugno, Cerri, Baldassarre, Bulzoni, Roma, 1967, pp. 108-109. C. PAGOTTO, La disapplicazione della legge, op. cit.,
pp. 42 ss.. M., PICCHI, L’obbligo di motivazione delle leggi, op. cit., pp. 147 ss..
22
Corte costituzionale su una legge o un atto avente forza di legge esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull'uso del potere discrezionale del
Parlamento”. Tale ultimo inciso che vieterebbe il sindacato della Consulta sull’esercizio della funzione discrezionale legislativa è stato ritenuto infelicissimo da
autorevole dottrina, la quale sottolinea l’uso in senso
atecnico della nozione di discrezionalità in luogo della più appropriata nozione di merito47.
Ciononostante la Corte costituzionale, rompendo
talora gli argini di un controllo di pura e semplice legittimità, (pur senza mai confessarlo), ha frequentemente reso sempre più penetrante il proprio controllo di conformità a Costituzione della legge, senza tuttavia spingersi ad enunciare un obbligo di motivazione puntuale ed adeguato. Viceversa nella sentenza che
si annota il giudice delle leggi sembra voler imporre
l’idea di una nozione di legge giusta, una legge, cioè, conformata e funzionalizzata dai principi, dalle regole e dai
valori della Carta costituzionale. D’altronde nel sistema dei pubblici poteri l’obbligo di motivazione ha sempre più una portata generalizzata che lo rende estensivamente applicabile a qualsivoglia atto espressione di
autorità idoneo a restringere la sfera dei rispettivi destinatari. Come autorevolmente sostenuto in dottrina
“lo Stato di diritto, insomma, si configura come uno Stato che si giustifica” (Rechtsstaat als rechtfertigender Staat) nell’esercizio delle sue funzioni48.
Inoltre l’applicazione dell’obbligo motivazionale agli
atti dell’Unione europea, atti al vertice del sistema delle fonti, rappresenta un argomento ad adiuvandum per
estendere siffatto obbligo anche alle leggi nazionali, sem-
pre più conformate dai vincoli sia costituzionali sia europei. A ciò si aggiunga come l’esigenza di una motivazione esprima la definitiva evoluzione del baricentro
dell’azione pubblica dal polo dell’autorità verso il
polo delle libertà dei privati, i quali in ogni momento
devono essere in grado di conoscere e di apprezzare le
ragioni delle decisioni pubbliche siano essi provvedimenti giurisdizionali, amministrativi o politico-legislativi.
Ciò si riallaccia, del resto, ad esigenze di pienezza ed
effettività della tutela dei destinatari delle scelte pubbliche.
Un altro interrogativo che occorre porsi è ove debba ricavarsi la motivazione della legge. Certamente non
dai lavori preparatori (a differenza di quanto affermava
in passato la scuola dell’esegesi francese), poiché le norme dell’atto legislativo, una volta che questo è promulgato ed entrato in vigore, vivono di vita propria cioè
si oggettivizzano, inserendosi in un sistema che si evolve e, quindi, contrariamente all’atto che si esaurisce nel
porre le norme stesse, si separano dalle loro fonti, prescindendo dalla voluntas dei propri autori49. Anche perché nella volontà degli atti delle pubbliche autorità, secondo l’insegnamento della migliore dottrina, non devono rinvenirsi sfondi meramente psicologici ma tale
volontà va considerata come una ipostasi50. La motivazione deve evincersi chiaramente all’interno della legge medesima o dal complesso dell’articolato normativo
o da singole sue parti come, ad esempio, dalle premesse
al dispositivo51.
In base all’odierna pronuncia della Corte un’implicita o generica motivazione non risulta più idonea
a preservare la legge da censure di legittimità costitu-
47 In dottrina V. CRISAFULLI, Appunti di diritto costituzionale. La Corte costituzionale, Lezioni raccolte da Modugno, Cerri, Baldassarre, op. cit., pp. 108-109. Secondo l’Autore il legislatore parla atecnicamente di discrezionalità
laddove vuole dire merito, come invece sarebbe più proprio.
48 J. BRÜGGEMANN, Die richterliche Begründungspflicht, Berlín, 1971, p. 161.
49 Per descrivere la relazione che intercorre tra la legge ed i lavori preparatori si può ricorrere alla metafora del frutto separato dall’albero. In se stessa la legge deve rinvenire tutti gli elementi utili al suo perfezionamento
ed alla sua validità, indipendentemente dai lavori preparatori. (V. CRISAFULLI, voce Atto normativo, in Enc. dir., vol. IV, Milano, 1959, p. 258. Id., Sulla motivazione degli atti legislativi, in Riv. dir. pubbl., op. cit., pp. 432
ss.).
50 M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, III ed., Giuffrè, Milano, 1993, p. 550.
51 Leggi italiane presentano, frequentemente, una giustificazione, vaga e generica, nel preambolo dell’atto legislativo.
52 V. CRISAFULLI, Appunti di diritto costituzionale. La Corte costituzionale, Lezioni raccolte da Modugno, Cerri, Baldassarre, op. cit., pp. 111-112. L’Autore opera una distinzione tra l’eccesso di potere legislativo in sen-
so lato e l’eccesso di potere legislativo in senso stretto. Nel primo caso “etichettiamo come eccesso di potere tutte quelle ipotesi in cui il parametro alla stregua del quale va condotto il controllo di costituzionalità di una
legge o di norme di legge è di carattere complesso, perché risulta bensì da norme deducibili dal testo della Costituzione o di altre leggi formalmente costituzionali” o da altre norme o criteri comunque “richiamati dalle
norme formalmente costituzionali come condizioni di validità della legge in determinate materie”. Diversamente nel secondo caso “il vizio della legge si può configurare come eccesso di potere in senso stretto (…). Si
pensi all’ipotesi in cui la motivazione di una legge (quando vi sia) appaia in contrasto con le disposizioni della stessa legge; oppure si consideri l’ipotesi in cui i titoli interni, nei quali si ripartisce la legge, o le rubriche sia-
no in contrasto col contenuto normativo e le disposizioni dell’articolato”. In casi del genere ammettendo il sindacato di legittimità della Corte “non si tratta evidentemente di valutare la legge o la norma di legge rispet-
to al parametro costituzionale (…) ma sembra invece che si adombrino figure di eccesso di potere in senso stretto, paragonabili a quelle che nel diritto amministrativo vengono dette contraddittorietà del provvedimen-
to e contrasto fra motivazione e dispositivo adottato”. (…) In questi casi non sussisterebbe violazione di nessun parametro costituzionale, ma vi sarebbe soltanto un vizio logico intrinseco della legge –che si potrebbe
considerare come un vizio della volontà legislativa, in quanto esisterebbe un volere e disvolere nella stessa legge- il quale è molto simile alla figura dell’eccesso di potere nel diritto amministrativo”.
53 Sul giudizio di ragionevolezza delle leggi, tra i tanti, in dottrina, J. LUTHER, voce Ragionevolezza (delle leggi), in Dig. disc. pubbl., vol. XII, Torino, 1997, pp. 341 ss.. L. PALADIN, voce Ragionevolezza (principio di), in
Enc. dir., Agg., I, Milano, 1997, pp. 901 ss.. A. MORRONE, Il custode della ragionevolezza, Giuffrè, Milano, 2001, pp. 275 ss. A. CERRI voce Ragionevolezza delle leggi, in Enc. giur. Treccani, vol. XXV, Roma, 2005, pp. 10
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zionale ove l’atto legislativo incida negativamente, con
restrizioni, nella sfera giuridica dei destinatari; ne discende allora l’obbligo per il legislatore di esplicitare
in maniera razionalmente congrua e pertinente le opzioni politiche compiute, facendole emergere espressamente dal contesto dell’atto compiuto. Diversamente,
nell’ottica di un giudizio fondato sul pervasivo canone della ragionevolezza, l’atto legislativo esprimerà un
qualcosa di analogo ad una tradizionale figura sintomatica di eccesso di potere, alle volte sulla falsariga di
quanto avviene per gli atti amministrativi52. L’irragionevolezza e l’irrazionalità della legge determinano, coerentemente, la declaratoria di illegittimità costituzionale53 e quindi la caducazione, normalmente ex tunc
dell’atto legislativo per un profilo che attinge anche la
motivazione.
Il principio dell’obbligo di congrua motivazione
pare, altresì, porsi quale monito per il legislatore che
in futuro dovrà adeguarsi al dictum della Corte per
scongiurare altrettante declaratorie di invalidità in casi
simili. Dunque con la pronuncia in commento la Consulta ha intrapreso la strada di una tendenziale parificazione sotto il profilo dell’obbligo motivazionale degli atti legislativi nazionali agli atti normativi europei
alla luce di un sistema integrato e multilivello delle fonti54.
Inquadrando l’obiter sull’obbligo di motivazione
della legge nel più ampio contesto della sentenza è importante rilevare come la Corte, pur invocando più volte la violazione del principio di ragionevolezza, perpetrata dal blocco della indicizzazione delle pensione,
trascuri di considerare ed esplicitare nel proprio bi-
lanciamento di interessi il principio del pareggio di bilancio introdotto dall’art. 81, I co. Cost. novellato55. Tuttavia, in senso contrario potrebbe obiettarsi l’inapplicabilità della norma agli interventi previsti dalla c.d. legge Fornero del 2011 per gli anni 2012 e 2013, in ragione
della decorrenza applicativa dell’art. 81 Cost. a partire dall’esercizio finanziario 2014; ad adiuvandum sembrerebbe rafforzare la tesi sopra enunciata l’argomento
della retroattività delle pronunce di accoglimento
della Corte costituzionale.
L’obiezione prospettata, tuttavia, non coglie nel segno in quanto la sentenza della Consulta pur rivolgendosi al passato, ad un periodo cioè antecedente l’anno 2014, ha ricadute finanziarie successive, producendo
una voragine nei conti pubblici dello Stato nell’esercizio finanziario 2015. Dirimente è poi la considerazione secondo cui l’art. 81 I co. Cost. fosse operativo nell’ordinamento giuridico, sin dall’anno di esercizio 2014,
ergo l’anno antecedente la pronuncia di incostituzionalità in commento. Infine, la stessa retroattività della sentenza di accoglimento, secondo il principio del
factum infectum fieri nequit56, rinverrebbe un limite nell’esaurimento degli esercizi finanziari degli anni 2012
e 2013, rivelando viceversa un effetto di ultrattività sull’esercizio presente e sugli esercizi futuri (anni 2015
e seguenti)57. Ne discende, come corollario, l’applicabilità dell’art. 81, I co. Cost. alla fattispecie de qua, che
palesa chiaramente l’omissione della Corte la quale, nel
sindacare l’atto legislativo, ha trascurato di valutare nel
bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti il principio del pareggio di bilanciamento. In base
a tale fondamentale principio “lo Stato assicura l'equi-
ss.. G. SCACCIA, voce Ragionevolezza delle leggi, in Diz. dir. pubbl., vol. V, a cura di S. Cassese, Giuffrè, Milano, 2006, pp. 4805 e ss.. F. MODUGNO, La ragionevolezza nella giustizia costituzionale, op. cit., pp. 1 ss..
54 L’evoluzione prospettica della Corte, in favore del riconoscimento di un obbligo di adeguata motivazione per le leggi afflittive, sembra un fenomeno ormai irreversibile anche alla luce di un inevitabile processo di uniformazione con l’ordinamento europeo.
55 L. cost. 20 aprile 2012, n. 1 rubricata: “Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale”, le cui disposizioni si applicano a decorrere dall'esercizio finanziario relativo all'anno 2014. L’art.
81 I co. Cost. richiama, poi, la disposizione di cui all’art. 97 I co. secondo cui “le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l'ordinamento dell'Unione europea, assicurano l'equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico”. Tra le Pubbliche Amministrazioni rientra, a pieno titolo, anche l’Inps.
56 Come è noto la retroattività degli effetti delle pronunce di annullamento delle leggi della Corte costituzionale non può spingersi sino a far rivivere ciò che è morto e, con peculiare riferimento alla materia contabile,
non può determinare la riapertura di esercizi di bilancio ormai chiusi ed esauriti.
57 In una visione realistica e non meramente formalistica del diritto le spese o uscite dello Stato, relative alla fattispecie de qua, vanno imputate non già secondo il criterio della competenza agli anni 2012 e 2013 bensì
secondo il criterio di cassa all’anno 2015, anno in cui effettivamente verranno erogati i “rimborsi” ai destinatari della mancata indicizzazione dei trattamenti pensionistici.
58 Prosegue poi l’art. 81 Cost.: “Il ricorso all'indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi com-
ponenti, al verificarsi di eventi eccezionali. Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte. Le Camere ogni anno approvano con legge il bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal
Governo. L'esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi. Il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri
volti ad assicurare l'equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di
ciascuna Camera, nel rispetto dei princìpi definiti con legge costituzionale”.
59 Secondo gli economisti la nozione di equilibrio di bilancio divergerebbe dalla nozione di pareggio di bilancio, intendendosi con la prima un discostamento non eccessivo delle uscite dalle entrate, mentre con la se-
conda una loro perfetta coincidenza. Ciononostante, in una prospettiva strettamente giuridica, l’art. 81 I co. Cost. deve essere oggetto di un’interpretazione univocamente orientata nel senso dell’imposizione dell’obbligo del pareggio di bilancio, trattandosi di una disposizione puntualmente attuativa di norme sovranazionali ed europee che vincolano gli Stati, appunto, alla realizzazione di tale.
60 Il Patto di stabilità e crescita è stato consacrato in due regolamenti ed in una risoluzione del Consiglio europeo (regolamento CE, 7 luglio 1997, n. 1466, regolamento CE, 7 luglio 1997, n. 1467 e risoluzione 17 luglio
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librio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli
del ciclo economico”58 59.
Il principio del pareggio di bilancio, discendente in
origine dal Patto di stabilità e crescita60 e, successivamente, dall’Euro Plus Pact61, dal Six pack62 e dal Fiscal
compact63 sottoscritti dagli Stati in ambito europeo e
sovranazionale, rappresenta un principio primario, di
cui la Corte dovrebbe sempre tener conto nel proprio
bilanciamento di interessi. Un principio che, essendo
previsto da fonti europee, risulterebbe già applicabile all’interno dell’ordinamento italiano indipendentemente dalla previsione dell’art. 81 I co. Cost.64; in questo modo la Corte Costituzionale, obliterandone la valutazione, avrebbe violato un duplice parametro, costituzionale ed europeo, giungendo ad una soluzione
giuridica non del tutto scevra di profili di irragionevolezza65. Ciò anche alla luce della considerazione che
la sentenza della Consulta, aprendo una voragine nei
conti pubblici, determina pesanti ricadute politiche sul
Governo ed il Parlamento nazionali66, esponendo altresì
lo Stato italiano ad una procedura di infrazione67 per
violazione del vincolo europeo (oggi costituzionalizzato)
del pareggio di bilancio68.
Occorre poi osservare come secondo gli indirizzi
formulati in sede europea non sia consentito imputare spese, sia pure di rispettiva pertinenza, ad un dato
esercizio qualora tali spese ricadano finanziariamente
su esercizi successivi. Nel caso di specie il rimborso delle somme da mancata indicizzazione delle pensioni, pur
afferendo agli anni di esercizio 2012 e 2013, si ripercuote inevitabilmente sull’esercizio attuale, con con-
seguente obbligo del Governo di rinvenire nelle pieghe
del bilancio, anche mediante manovra correttiva, le relative coperture. L’omissione della Corte si rivela, altresì,
irragionevole in considerazione della circostanza che
pochi mesi fa con la pronuncia 11 febbraio 2015, n. 10
la stessa Corte ha dichiarato l’illegittimità della c.d. Robin Tax69 limitando, tuttavia, la decorrenza degli effetti
retroattivi dal giorno della pubblicazione della sentenza.
Ciò, proprio, in ossequio al principio di cui all’art. 81 I
co. Cost. cui la Consulta ha dato prevalente applicazione
nel bilanciamento degli interessi, al precipuo fine di
scongiurare un grave squilibrio nel bilancio dello Stato. Soluzione analoga, del resto, la Corte avrebbe potuto
(e dovuto) adottare nella vicenda in commento. La Consulta avrebbe, per esempio, potuto limitare gli effetti
retroattivi della pronuncia facendoli decorrere ex nunc
e dunque esclusivamente pro futuro; in alternativa
avrebbe potuto adottare una sentenza additiva di
principio, affermando sì l’obbligo della rivalutazione ma
per gli esercizi futuri, rinviando ogni intervento alle scelte politiche di Parlamento e Governo70.
Non può infatti sottacersi come il principio del pareggio tre entrate e uscite di bilancio assuma nell’odierno scenario italiano ed europeo un palpitante rilievo giuridico, politico ed economico-finanziario;
conseguentemente la Corte nelle proprie sentenze non
dovrebbe in nessun caso pretermetterne la valutazione nella comparazione degli interessi in rilievo, atteso il momento di gravissima congiuntura economica
che sta vivendo il nostro Paese71. Ciò sarebbe imposto
al giudice delle leggi non soltanto dalla Carta costituzionale ma direttamente dall’ordinamento europeo, le
1997). In proposito CORSO G., Manuale di diritto amministrativo, VII ed., Giappichelli, Torino, 2015, p. 128. Secondo l’Autore l’obiettivo a medio termine del Patto di crescita e stabilità “è quello di raggiungere il pareggio
del bilancio (o un avvicinamento al pareggio dello 0,5%) salvi i periodi di recessione. In precedenza il Trattato di Maastricht aveva portato ad una modifica del Trattato di Roma del 1957. Sicchè oggi l’art. 104 di quest’ultimo prevede:
-che gli Stati membri devono evitare disavanzi pubblici eccessivi;
-che il rapporto tra disavanzo pubblico e prodotto interno lordo non deve superare un valore di riferimento (che il protocollo annesso al Trattato fissa nel 3%);
-che il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo non deve superare un valore di riferimento (che il protocollo fissa nel 60%);
-che la Commissione europea sorveglia l’evoluzione della situazione di bilancio e dell’entità del debito pubblico degli Stati membri”.
61 Tale accordo è stato approvato nel marzo 2011 dai Capi di Stato o di governo degli Stati membri della zona Euro e successivamente confermato dal Consiglio. Attraverso l’Euro Plus Pact gli Stati contraenti si sono
vincolati alla realizzazione di alcuni prioritari obiettivi, tra cui la sostenibilità delle rispettive finanze pubbliche e la stabilità finanziaria del proprio ordinamento giuridico.
I Paesi membri, poi, hanno deciso di re-
cepire in Costituzione o nella legislazione ordinaria le regole contenute nell’accordo. (In proposito G. DELLA CANANEA, La disciplina giuridica delle finanze dell’Unione e delle finanze nazionali, in Diritto amministrativo europeo, a cura di M.P. Chiti, Giuffrè, Milano, 2013, pp. 314-316).
62 Il Six pack è un insieme di misure approvate nel novembre 2011 in sede europea. Tale pacchetto si compone di una direttiva e cinque regolamenti, direttamente attuativi sia degli artt. 121, 126, 136 TFUE sia del Protocollo n. 12 del Trattato di Lisbona.
63 Il Fiscal Compact è un Trattato internazionale che a rigore non rientra direttamente nell’ordinamento giuridico europeo, pur se ad esso è riconducibile attraverso il rinvio operato dai Trattati UE, nei limiti di compati-
bilità con le norme europee. Gli Stati contraenti si sono impegnati a sostenere la Commissione nelle sue proposte e raccomandazioni relative all’applicazione della procedura per disavanzi eccessivi agli Stati membri, sal-
vo vengano respinte dal Consiglio a maggioranza qualificata. A riguardo CORSO G., Manuale di diritto amministrativo, VII ed., op. cit., p. 128: “Il recente Fiscal Compact prevede che alla percentuale del 60% nel rapporto
debito-pil gli Stati membri più indebitati (in prima linea l’Italia) debbano tornare con una riduzione annua del debito pari ad un ventesimo dell’eccedenza: il che dovrebbe implicare una riduzione progressiva del rappor-
to per effetto della crescita, cioè con l’aumento del denominatore. Tra le implicazioni di questi vincoli vi è stata, in Italia (ma non solo), una vasta campagna di privatizzazione allo scopo di conseguire entrate straordinarie da destinare al ripiano del debito. La privatizzazione dovrebbe comportare anche la dismissione di attività pubbliche che non è necessario mantenere in ambito pubblico e la conseguente riduzione della spesa.
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gnatale dalla Costituzione. Inoltre da indiscrezioni giornalistiche, non smentite, pare che, nonostante la delicatezza della questione esaminata, il collegio abbia assunto la decisione di accoglimento con il voto decisivo del Presidente in ragione della parità dei suffragi favorevoli e contrari (6 a 6)73. Una simile circostanza è elemento che a fortiori conferma i dubbi espressi sul contenuto di una pronuncia che, obliterando del tutto le
primarie esigenze economico-finanziarie imposte dalla Costituzione e dalle norme sovranazionali74, rischia
di riverberare pericolosi effetti tanto sulla sostenibilità del bilancio pubblico italiano75 quanto sulla stabilità del globale assetto dell’Unione europea.
cui norme, come è noto, conformano l’esercizio di tutti i pubblici poteri, allocandosi quale parametro di legittimità dei rispettivi atti (ivi incluse le pronunce della Corte costituzionale)72.
In definitiva, l’imposizione di un’adeguata motivazione al legislatore, pur rilevante ai fini di un più idoneo sindacato di legittimità della legge, stride con l’omissione imputabile alla Consulta, la quale ha ingiustificabilmente pretermesso nel bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti la valutazione del
principio del pareggio di bilancio; in tal modo la Corte ha dato prova di esercitare in modo non pienamente
ragionevole la funzione di controllo sulle legge asse-
64 A. PACE, Pareggio di bilancio: qualcosa si può fare, in www.rivistaaic.it, 2011. G.L. TOSATO, I vincoli europei sulle politiche di bilancio, in www.apertacontrada.it, 2012.
65 Diversamente la Consulta con la sentenza 17 dicembre 2013, n. 310 ha agito in un caso analogo in senso diametralmente opposto, considerando legittimo il blocco degli automatismi previsto per il personale non
contrattualizzato della Pubblica Amministrazione, in base al principio del pareggio di bilancio.
66 Da indiscrezioni giornalistiche sembra che il Governo italiano intenda richiedere un parere non vincolante alla Corte di giustizia dell’Unione europea per chiarire l’incidenza della pronuncia della Corte costituzionale su eventuali profili di diritto europeo, al fine di intraprendere ogni azione necessaria per ottemperare alla pronuncia.
67 Per ora da quanto appreso dai principali quotidiani la Commissione europea avrebbe posto sotto sorveglianza il nostro Paese per la voragine nel bilancio cagionata dalla sentenza della Corte costituzionale.
68 G. DI GASPARE, Innescare un sistema in equilibrio della finanza pubblica ritornando all’art. 81 della Costituzione, in www.amministrazioneincammino.luiss.it, 2005. G. BOGNETTI, Costituzione e bilancio dello stato:
il problema delle spese in deficit, in www.astrid-online.it, 2009. L. GIANNITI, Il pareggio di bilancio nei lavori della costituente, in www.astrid-online.it, 2011.
69 La questione era stata proposta nel 2011 dalla Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia in relazione alle disposizioni del D.L. n. 112/2008 che hanno introdotto, per il periodo d’imposta 2008, un prelievo
aggiuntivo, qualificato come addizionale all’imposta sul reddito delle società (IRES), pari al 5,5%, da applicarsi ai soggetti operanti nei settori petrolifero ed energetico (tra cui, per esempio, le imprese che commercializzano benzine, petroli, gas e oli lubrificanti), con ricavi superiori a 25 milioni di euro nel periodo d'imposta 2007.
70 L’Assemblea Costituente, nell’istituire la Corte costituzionale ha prefigurato, due soli possibili esiti al giudizio di legittimità delle leggi: l’uno di accoglimento, l’altro di rigetto. Tuttavia, nel corso dei decenni la Con-
sulta ha progressivamente superato le strettoie di questa tradizionale e netta alternativa, adottando pronunce di nuovo conio e dagli effetti peculiari (si pensi per esempio alle sentenze additive, alle sentenze con de-
correnza ex nunc, alle sentenze monito etc..). In questo modo la Corte ha manifestato, in più di un’occasione, la volontà di calibrare il proprio sindacato, caso per caso, in ragione di una valutazione degli interessi costituzionalmente rilevanti, che considerasse, sia pure a latere, le ricadute politiche, economiche e finanziarie delle proprie sentenze sul sistema Paese.
71 La Corte costituzionale riveste un ruolo sui generis, svolgendo un’attività giuridica che agli albori del terzo millennio ha ricadute politiche, economiche e finanziarie di non poco momento che il giudice delle leggi deve
tenere in considerazione. D'altronde già autorevole dottrina (H. KELSEN, Lineamenti di dottrina pura del diritto, trad. it. Treves, Milano, 1952, passim) definiva la Corte costituzionale un organo di natura politica. A testi-
monianza di ciò milita poi la circostanza che l’Assemblea costituente decise di eliminare il precedente sindacato estrinseco sulla forma e sulla procedura della legge affidato dallo Statuto albertino alla Suprema Corte di
Cassazione (C. ESPOSITO, La validità delle leggi: studio sui limiti della potestà legislativa, i vizi degli atti legislativi e il controllo giurisdizionale, Cedam, Padova, 1934, passim). Diversamente, i Padri costituenti hanno vo-
luto, in netta discontinuità con il passato, istituire un nuovo organo (la Consulta) cui affidare un sindacato (di ragionevolezza) diverso e più stringente sulla legge alla luce di una Carta costituzionale di tipo rigido. Da
un’attenta analisi, infatti, può evincersi come l’odierno sindacato legittimità delle leggi, lungi dall’essere esclusivamente tecnico, presenti una portata necessariamente più ampia, non potendo la Consulta trascurare le
conseguenze politiche, economiche e finanziarie delle proprie sentenze. In particolare nell’odierno contesto giuridico-politico, caratterizzato dall’appartenenza dell’Italia all’ordinamento europeo, ai sensi degli artt. 11 e
117 I co. Cost., tutti gli organi pubblici sono tenuti all’osservanza di puntuali vincoli di bilancio, vincoli che nemmeno la Corte costituzionale può disattendere.
72 A. CELOTTO-F. MODUGNO, L’impatto del diritto comunitario sulla giustizia costituzionale: il controllo misto sulle leggi, cap. XII, La giustizia costituzionale, in Lineamenti di diritto pubblico, a cura di F. Modugno, Giap-
pichelli, Torino, 2010, pp. 734 ss.: “L’impatto del diritto dell’Unione europea sul nostro ordinamento ha carsicamente eroso il sistema di giustizia costituzionale, modificandolo profondamente e addirittura stravolgen-
dolo. (…). Si pensi che una legge interna se conforme a norma costituzionale, ma difforme da norma comunitaria, è comunque illegittima; mentre se difforme da norma costituzionale, ma conforme a norma comunita-
ria, può divenire persino…legittima, o quanto meno efficace. (…) Tali devastanti effetti fanno addirittura pensare che oggi non si possa più parlare semplicemente, in Italia, di controllo di legittimità costituzionale delle
leggi, ma occorra precisare che il controllo sugli atti legislativi è di tipo costituzional-comunitario (o qualcosa di simile)”.
73 Sulla prevalenza del voto del presidente della Corte costituzionale, a parità di suffragi, G. PEPE, La primazia negli organi collegiali pubblici, Editoriale, Scientifica, Napoli, 2014, pp. 194 ss..
74 In base agli artt. 11 e 117 I co. Cost. l’adesione dell’Italia all’ordinamento europeo impone al nostro sistema giuridico l’osservanza dei vincoli di bilancio statuiti in sede sovranazionale e recepiti, segnatamente, all’art.
81 I co. Cost.. Il rispetto di tali vincoli non può non ripercuotersi anche sull’attività della Corte costituzionale la quale oggi, forse più che in passato, è tenuta a valutare le conseguenze economico-finanziarie che le pro-
prie pronunce possono riverberare, in via diretta o riflessa, sui conti pubblici del Paese. Del resto, impreviste ed insostenibili voragini nel bilancio pubblico nazionale rischierebbero di condurre l’Italia al default; un default che imporrebbe la ripartizione dei relativi costi finanziari tra tutti gli Stati membri con conseguenze imprevedibili per la stabilità dell’Unione europea.
75 La Corte costituzionale in una nota ufficiale ha voluto smentire alcune indiscrezioni filtrate dalle agenzie di stampa sulla natura auto-applicativa della sentenza in base alla quale la pronuncia avrebbe un’immediata
efficacia erga omnes, senza necessità di ricorsi da parte dei pensionati beneficiari. La Consulta si è viceversa affrettata a puntualizzare che dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione gli interessati possono
intraprendere le iniziative ritenute necessarie e gli organi politici, ove lo ritengano, possono adottare i provvedimenti del caso nelle forme costituzionali.
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PROSPETTIVE DI RIFORMA IN MATERIA
DI RAPPRESENTANZA MILITARE
di Giorgio Guerriero
Premessa storica
Tale regolamento è stato abrogato a seguito dell’entrata in vigore del D.P.R. 15 marzo 2010, n. 90, recante il testo unico delle disposizioni regolamentari in
materia di ordinamento militare che ne ha recepito il
contenuto.
La richiamata legge n. 382 del 1978, come confluita nel Codice dell’ordinamento militare, vieta ai militari di esercitare il diritto di sciopero, di costituire associazioni professionali a carattere sindacale, di aderire ad altre associazioni sindacali (art. 1475 Codice dell’ordinamento militare). Agli organi della rappresentanza
militare risulta precluso l'esercizio delle attività caratteristiche delle organizzazioni sindacali: l'indizione di
scioperi e l'assunzione del ruolo di parte nella contrattazione collettiva. Alle rappresentanze dei militari appare in definitiva attribuito il compito di trasmettere le
istanze della base agli organi politici di indirizzo ed ai
vertici amministrativi dell'istituzione militare.
Dall'attuazione delle disposizioni della legge n. 382
del 1978 è inoltre risultato un complesso quadro normativo, che si è stratificato nel corso degli anni.
A partire dalla XIII legislatura, proprio per far fronte
ai problemi che sono emersi nel corso dei venti anni
successivi all’approvazione della legge n. 382/1978, le
Commissione Difesa della Camera e del Senato hanno
avviato l’esame di diversi progetti di legge diretti a realizzare un'ampia revisione della normativa in tema di
rappresentanza militare.
Da ultimo, nel corso della XVI legislatura, la Commissione difesa del Senato ha avviato l’esame delle proposte di legge A.S.1157, Norme di principio sulla rappresentanza militare, A.S.801 Riforma della rappresentanza militare; S.161 Ordinamento della rappresentanza militare. L'iter dei progetti di legge non si è
tuttavia concluso. Disposizioni in materia di rappresentanza militare sono state, altresì, esaminate dalla
Commissione difesa della Camera in occasione dell'esame di atti del Governo sottoposti al parere parlamentare, ovvero in occasione dell'esame in sede consultiva di provvedimenti legislativi.
La ricchezza del dibattito condotto nel corso delle
Diritto ed ordinamento militare
La normativa in materia di rappresentanza militare
risale alla legge 11 luglio 1978, n. 382, Norme di principio sulla disciplina militare, con la quale sono stati
istituiti gli organismi rappresentativi del personale militare, articolati sui tre livelli distinti degli organi di
base,1 (i COBAR), gli organi intermedi (i COIR), ed un
organo centrale, il COCER, a carattere nazionale e interforze, articolato in commissioni nazionali interforze di categoria (ufficiali, sottufficiali, volontari) e in sezioni di Forza armata o di Corpo armato (Esercito, Marina, Aeronautica, Carabinieri e Guardia di finanza).
1 La natura rappresentativa dell'istituto - che costituisce
peraltro parte integrante dell'ordinamento militare - si
realizza quindi attraverso un sistema di elezione a tre
stadi: di primo grado per i COBAR, di secondo grado
per i COIR e di terzo grado per il COCER.
La legge n. 382 del 1978 è stata abrogata a seguito dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 66 del
2010, recante il Codice dell’ordinamento militare. Il contenuto della legge n.382 del 1978 è stato, quindi, riassettato nel citato Codice (artt.1465 e ss.).
La natura rappresentativa dell’istituto si realizza
attraverso un sistema di elezione a tre stadi: di primo
grado per i COBAR, di secondo grado per i COIR e di
terzo grado per il COCER. Il COCER ha la facoltà di formulare pareri, proposte e richieste su tutte le materie
che formano oggetto di norme legislative o regolamentari circa "la condizione, il trattamento, la tutela di natura giuridica, economica, previdenziale, sanitaria, culturale e morale - dei militari".
In attuazione della legge è stato emanato il D.P.R.
4 novembre 1979 n. 691, recante Regolamento che disciplina l’attuazione della rappresentanza militare. Il
regolamento stabilisce le competenze degli organi della rappresentanza militare, le facoltà e i limiti del mandato conferito ai rappresentanti dei militari, i procedimenti elettorali relativi ai suddetti tre livelli in cui si
articola l’istituto, le attività proprie degli organi rappresentativi.
27
diverse legislature ha messo in evidenza come il problema fondamentale sia quello di trovare il giusto equilibrio degli interessi in campo affinché sia compiutamente definito il ruolo della rappresentanza nel rispetto
delle esigenze di gerarchia e di funzionalità dello strumento militare, apportando le modifiche necessarie per
rendere l'istituto stesso più funzionale e allo stesso tempo mantenendone inalterata la configurazione di organo
interno per esaltare, nel rispetto e nella distinzione delle singole competenze, la coesione della compagine militare, scongiurando i rischi della conflittualità interna.
Il dibattito in materia di rappresentanza militare
si è incentrato, in particolare, sull'assetto che si intende
conferire alle Forze armate e, conseguentemente, sull’individuazione delle soluzioni legislative più opportune riguardo alla configurazione del sistema di rappresentanza.
Proposte di legge presentate nel corso della XVII
Legislatura
Alla luce delle problematiche evidenziate, e a seguito delle legittime richieste sempre più pressanti, nonché dalle aspettative da parte delle rappresentanze delle Forze armate, nel corso della presente Legislatura
(XVII), sono state predisposte una serie di proposte di
legge (sette in tutto), dagli esponenti di tutte le parti
politiche. Tali proposte, confluite tutte presso la Commissione difesa della Camera dei deputati, sono a tutt’oggi all’esame della Commissione di merito. Il complesso iter che si sta svolgendo alla Camera, coinvolgendo chiaramente una serie di molteplici, deve essere, in questa sede, analizzato con il massimo rigore e
criterio scientifico; pertanto qui di seguito, verranno esaminati i tratti essenziali delle proposte presentate, nonché il testo di sintesi finale presentato dalla relatrice
in Commissione difesa, onorevole Villecco Calipari, al
termine della fase istruttoria, preliminare al passaggio
per la definitiva approvazione, prima in Commissione,
e successivamente in Assemblea plenaria della Camera
dei deputati.
Innanzitutto le proposte depositate sono così specificate per numero e presentatore: C. 1963 Scanu, C.
1993 Duranti, C. 2097 D’Arienzo, C. 2591 Corda, C.
2609 Cirielli, C. 2679-novies Governo, C. 2748 Petrenga
e C. 2776 Palmizio.
Pronuncia della Corte Costituzionale in materia
Sulla materia in esame è intervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza n. 449 del 1999.
Secondo la Corte, il principio della libertà sindacale non
si concilia con i valori ispiratori e fondanti delle Forze armate. Secondo la Corte, non deve trarre in inganno
il contrasto che si determinerebbe, nella condizione
attuale, ove, alla Polizia di Stato ("la quale svolge anch’essa un servizio essenziale") è stata già concessa da
tempo la rappresentanza del sindacato, mentre tale soluzione manca nell'ambito più generalmente militare.
Le due posizioni normative sono differenti, perché rispondono a motivazioni e scopi diversi. Per questo non
si configura alcuna contraddizione a fronte degli articoli 39 e 52 della Costituzione, né lesione dei principi di eguaglianza e ragionevolezza dell'ordinamento.
La Corte ha tenuto a ribadire che le ragioni della esclusione dell'ipotesi sindacale all'interno delle nostre Forze armate risponde a "esigenze di organizzazione, coesione interna e massima operatività", che ne fanno un
caso distinto da qualsiasi altro nella struttura statale. La peculiarità del codice militare, ribadita dalla Corte anche in precedenti sentenze (sentenze nn. 113 del
1997, 197 del 1994, 17 del 1991, ordinanza n. 396 del
1996) rispetto alla residua vita istituzionale, consente di non ritenere illegittimo il divieto posto dal legislatore a proposito dell'ammissione di forme associative sindacali al suo interno.
Il contenuto delle proposte di legge
I provvedimenti in esame riformano la normativa
degli organismi della rappresentanza militare e contengono disposizioni concernenti la nozione e i compiti della rappresentanza militare, i consigli che la compongono nella loro articolazione interna, le categorie del
personale militare che fanno parte dei consigli di rappresentanza, le competenze dei consigli della rappresentanza, i loro rapporti con il Parlamento ed il Governo,
la composizione dei consigli della rappresentanza e le
modalità di elezione dei loro membro, l'elettorato passivo; le modalità di svolgimento della propaganda elettorale, le facoltà e i limiti del mandato dei delegati e le
modalità di tutela dei loro diritti, la disciplina degli organi dei consigli della rappresentanza, le modalità di
convocazione dei consigli, i criteri di validità delle riunioni e deliberazioni e la pubblicità di queste. Vi sono,
inoltre, disposizioni attuative e norme finali.
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Necessità dell'intervento con legge
dice militare, rispetto alla residua vita istituzionale, consente di non ritenere illegittimo il divieto posto dal legislatore a proposito dell'ammissione di forme associative sindacali al suo interno.
Secondo la Corte “struttura militare non è un ordinamento estraneo, ma costituisce un’articolazione dello Stato che in esso vive, e ai cui valori costituzionali si
informa attraverso gli strumenti e le norme sopra menzionati, non consente tuttavia di ritenere illegittimo il divieto posto dal legislatore per la costituzione delle forme associative di tipo sindacale in ambito militare. Se
è fuori discussione, infatti, il riconoscimento ai singoli
militari dei diritti fondamentali, che loro competono al
pari degli altri cittadini della Repubblica, è pur vero che
in questa materia non si deve considerare soltanto il rapporto di impiego del militare con la sua amministrazione
e, quindi, l’insieme dei diritti e dei doveri che lo contraddistinguono e delle garanzie (anche di ordine giurisdizionale) apprestate dall’ordinamento. Qui rileva nel
suo carattere assorbente il servizio, reso in un ambito
speciale come quello militare (art. 52, primo e secondo
comma, della Costituzione). Orbene, la declaratoria di
illegittimità costituzionale dell’art. 8, nella parte denunciata, aprirebbe inevitabilmente la via a organizzazioni la cui attività potrebbe risultare non compatibile con i caratteri di coesione interna e neutralità dell’ordinamento militare”.
La necessità dell'intervento con legge deriva dal fatto che la materia oggetto delle proposte di legge è in
massima parte contenuta in fonti di rango primario ed
in particolare nel decreto legislativo n. 66 del 2010 che
reca il Codice dell’ordinamento militare.
Coordinamento con la normativa vigente
I citati provvedimenti non appaiono coordinati con
la normativa vigente. Le proposte di legge, infatti, pur
riformando in maniera significativa gli organismi della rappresentanza militare non intervengono direttamente sulle disposizioni normative che attualmente ne
regolano il funzionamento. Si segnala, inoltre, che detti provvedimenti determinano l'attrazione alla fonte primaria della disciplina attualmente dettata da fonti secondarie. Infatti tutta una serie di materie trattate dal
Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare (D.P.R. n. 90 del 2010) trovano ora collocazione nelle proposte di legge in esame.
Rispetto dei principi dell'Ordinamento costituzionale
I provvedimenti in esame, pertanto, intervengono
su materie rientranti nella potestà legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione, comma 2, lettera d) che attribuisce, tra l’altro,
allo Stato la potestà legislativa esclusiva in materia di
difesa e Forze armate.
Per quanto riguarda il rispetto di altri principi costituzionali coinvolti dalle proposte, è opportuno ricordare la sentenza della Corte costituzionale n. 449
del 1999 pronunciata sulla questione della legittimità costituzionale dell’art. 8, primo comma, della legge
11 luglio 1978, n. 382, successivamente confluita nel
codice dell’ordinamento militare che vieta agli appartenenti alle Forze armate di costituire associazioni professionali a carattere sindacale e, comunque, di aderire
ad altre associazioni sindacali. La Corte ha tenuto a ribadire che le ragioni della esclusione dell'ipotesi sindacale all'interno delle nostre Forze armate risponde
a "esigenze di organizzazione, coesione interna e massima operatività", che ne fanno un caso distinto da qualsiasi altro nella struttura statale. La peculiarità del co-
Quadro politico-istituzionale
I contenuti di tali proposte, sono da valutare, innanzitutto, alla luce dell’attuale contesto politico ed istituzionale.
Ci riferiamo principalmente a tre passaggi fondamentali che negli ultimi dieci anni si sono verificati nel
Comparto della Difesa e della Sicurezza e che hanno
modificato radicalmente i compiti, la struttura organizzativa e la composizione sociale delle nostre Forze armate:
- l’impiego “fuori area” in un numero altamente significativo di reparti delle Forze armate ha comportato
l’introduzione di più impegnative attività addestrative, l’adozione di sistemi d’arma più adatti all’attività
di peace keeping ed una esperienza soggettiva alla quale hanno partecipato migliaia di uomini e donne;
-
29
il passaggio dalla leva obbligatoria alle Forze armate
professionali ha segnato l’evento spartiacque rispetto
ad una normativa nata per garantire innanzitutto la componente dei militari di leva, in passato maggioritaria. Inoltre, tale passaggio ha determinato un innalzamento della formazione di base per accedere al reclutamento e contemporaneamente una diversa composizione sociale basata non più su un obbligo ma su una libera scelta. In
generale, le più recenti esperienze di concertazione tra
Amministrazione della difesa e Consigli della rappresentanza militare sui temi scottanti della riforma pensionistica, del blocco stipendiale, del riordino delle carriere, ma soprattutto gli interventi operati mediante i decreti legislativi attuativi della “riforma Di Paola” hanno
fatto emergere tutti i limiti di un’impostazione degli organismi per la rappresentanza militare non più al passo con la modernità e anche con il nuovo diritto europeo, alla luce delle rilevanti acquisizioni derivanti dal
Trattato di Lisbona e dalla Carta di Nizza. Si tenga conto che nei maggiori Paesi europei, come Germania, Francia, Regno Unito o Spagna, il diritto di associazione e di
riunione in ambito militare ha trovato negli ultimi anni
nuove modalità di declinazione normativa tali da conciliare il nuovo quadro dei diritti dei cittadini europei con
lo status militare. A tal proposito è d’obbligo precisare
che nel nostro Paese si è meritoriamente scelta fin dal
1980 la formula elettiva, che ora appare doveroso adeguare al nuovo contesto giuridico europeo;
è stata approvata una delega al Governo per una profonda revisione degli assetti organici, funzionali e operativi del nostro strumento militare. Questa normativa
viene spesso citata come il contribuito del Comparto alla
spending review, mettendo in secondo piano che il progetto di riduzione degli organici e delle infrastrutture
avviene ad invarianza di spesa.
Questo, in estrema sintesi, è il quadro di situazione nel quale ci si è trovati a discutere nuove norme in
materia di rappresentanza militare. Agli organismi
elettivi della rappresentanza militare è affidato un ruolo di salvaguardia degli interessi morali e materiali del
personale, che soprattutto nell’ultima fase, tra quelle che
ho ricordato, si è dimostrato inadeguato. Come indicato in un inciso nella relazione illustrativa della proposta di legge C. 1963, dobbiamo registrare che nei confronti di questo personale si è intervenuti più sul tema
dei doveri che su quello dei diritti.
E’ questa una delle ragioni che ha spinto il legislatore a rivedere e rafforzare il ruolo degli organismi elettivi, introducendo nella normativa in vigore talune significative novità.
Ciò premesso, quali devono essere oggi le priorità
di una riforma della rappresentanza militare, alla luce
della sfida derivante innanzitutto dalla necessità di riduzione della spesa e dall’emergere di rischi crescenti
sul piano internazionale?
- in terzo luogo, la riforma del vertice militare che ha
modificato profondamente la catena di comando sostituendo quella basata sulla realtà territoriale con un’altra organizzazione incentrata su comandi verticali in relazione alle esigenze operative. Mi riferisco ai comandi
delle grandi unità quali la squadra aerea, la squadra navale, le forze terrestri e quelle di reazione rapida, solo
per citarne alcune.
Indubbiamente vi è la necessità di preservare innanzitutto il principio dell’assoluta neutralità politica delle Forze armate, da cui deriva l’esigenza di contemplare taluni essenziali limiti all’esercizio di alcuni diritti fondamentali. Si tratta di assicurare il pieno esercizio di diritti individuali e collettivi, riconosciuti dalla nostra Costituzione, tra cui il diritto di associazione e di riunione, a cittadini e lavoratori in divisa, armati e cui spettano
peculiari compiti, obblighi e limitazioni personali, previsti da leggi e regolamenti, in ragione delle funzioni di
tutela delle istituzioni democratiche e di difesa dell'ordine e della sicurezza interna ed esterna del Paese. Si tratta di un aspetto connaturato al principio di specificità
del Comparto, quale è peraltro contemplato negli stessi termini nei maggiori ordinamenti nazionali europei.
All’interno di questo “spazio”, in Italia l’istituzione
degli organismi elettivi della rappresentanza militare ha,
Il richiamo questi tre passaggi fondamentali rende
chiaro come lo strumento militare italiano sia tra le organizzazioni dello Stato quella che negli ultimi dieci/quindici anni si sia più profondamente trasformata.
Soggetto e oggetto di questa nuova realtà che potremmo chiamare “la generazione con le stellette 2.0”, quella cioè nata nel Terzo Millennio, del quale viene sottolineato l’aspetto dell’evoluzione tecnologica, è stato altrettanto protagonista nel mondo militare anche e soprattutto il “fattore umano”.
Bisogna, inoltre, in conto che negli ultimi due anni
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tra l’altro, consentito la delegificazione di gran parte degli istituti che regolano i contenuti del rapporto di impiego, lo stato giuridico e il trattamento economico.
ze dei Consigli della rappresentanza, i loro rapporti con
il Parlamento ed il Governo, la composizione dei Consigli della rappresentanza e le modalità di elezione dei
loro membri, l'elettorato passivo, le modalità di svolgimento della propaganda elettorale, le facoltà e i limiti
del mandato dei delegati e le modalità di tutela dei loro
diritti, la disciplina degli organi dei Consigli della rappresentanza, le modalità di convocazione dei Consigli,
i criteri di validità delle riunioni e deliberazioni e la pubblicità di queste.
Nell’intento del rafforzamento della rappresentanza militare, la maggiore differenza tra i testi in esame
consiste nel fatto che mentre le proposte di legge C. 1963
Scanu e altri e C. 2097 D’Arienzo riconoscono alla rappresentanza militare il ruolo di “parte sociale”, la proposta di legge C. 1993 Duranti e altri si spinge ad istituire veri e propri sindacati delle Forze armate e delle
Forze di polizia ad ordinamento militare.
La proposta C. 1963 Scanu e altri, inoltre, prevede
l’istituzione di un apposito fondo finalizzato ad evitare disallineamenti retributivi tra gli operatori dei comparti. Dispone che i Consigli nazionali della rappresentanza militare siano organizzati in due diversi comparti, da un lato il Comparto Difesa e dall’altro il Comparto Sicurezza, nel cui ambito sono presenti un organo centrale interforze e tre organi centrali per le singole
forze di polizia ad ordinamento militare. Prevede, poi,
l’istituzione di Consigli regionali interforze rappresentativi dei reparti delle Forze armate e dell’Arma dei carabinieri (CORER) in luogo dagli attuali Consigli intermedi della rappresentanza militare (COIR). Reca una dettagliata disciplina in ordine alla composizione, all’elezione dei delegati, alle facoltà ed ai limiti del mandato
ed alla tutela dei diritti dei delegati, alle competenze degli organi dei Consigli di rappresentanza ed allo svolgimento dei lavori al loro interno.
La proposta di legge C. 1993 Duranti ed altri configura un nuovo modello di rappresentanza militare basato, da un lato, sul diritto riconosciuto al personale militare di associarsi in sindacati, dall’altro lato, sulla istituzione di sindacati di militari sia a livello nazionale, sia
in ambito locale, ai quali la proposta di legge in esame
riconosce una serie di facoltà proprie delle organizzazioni sindacali con talune limitazioni derivanti dalle esigenze operative dello strumento militare, a partire dal
divieto di esercizio del diritto di sciopero per gli appartenenti alle Forze armate e di polizia ad ordinamento
militare. Si tratta di un delicato profilo che appare bi-
Adesso si tratta di fare un ulteriore salto di qualità ed è ciò che le proposte di legge presentate si prefiggono di fare operando tutte per il riconoscimento al
COCER della qualità di parte sociale che consente a tale
organo di superare l’attuale ruolo meramente consultivo a disposizione della struttura gerarchico-disciplinare
in cui si inserisce e di esercitare una piena titolarità nei
procedimenti di negoziazione per il rinnovo dei contratti
presso il Governo.
A tale riconoscimento si collega un necessario rafforzamento ed una migliore definizione di natura, competenze e struttura propri degli organismi elettivi della rappresentanza militare.
Ecco perché l’intervento si caratterizza per le ulteriori
seguenti novità:
- riconoscimento e valorizzazione della specificità con
i vari ministeri che impiegano a vario titolo il personale del comparto;
- un rapporto nuovo con gli enti locali ed una più articolata gestione del rapporto tra i diversi livelli territoriali, individuando nuove modalità di organizzazione
interforze che superino l’assetto attuale, basato sulle diverse componenti delle singole Forze armate;
- nuove modalità per l’elezione e la composizione degli consigli;
- una riformulazione dei diritti dei delegati e la capacità di tutelarli.
Anche la previsione di una componente tecnica, elettiva ed interna al COCER, nella figura di un Segretario o
Segretario generale mira ad assicurare una più puntuale
esecuzione delle deliberazioni ed una gestione strutturata dei rapporti esterni. Si avverte, altresì, l’esigenza di ampliare il novero delle attività di competenza, con
inclusione dei rapporti con altri settori della P.A. o con
l’informazione.
Passando specificatamente alle proposte di legge sopraindicate, esse contengono tutti disposizioni concernenti la nozione e i compiti della rappresentanza militare, i Consigli che la compongono nella loro articolazione interna, le categorie del personale militare che fanno parte dei Consigli di rappresentanza, le competen-
31
sognoso di specifici approfondimenti, anche in considerazione della rilevante giurisprudenza costituzionale in materia e delle novità introdotte dal Trattato di Lisbona e dalla Carta di Nizza.
Da tale impostazione deriva un’articolata disciplina in materia di attività concertativa e negoziale. Inoltre, si stabiliscono taluni obblighi di informazione
concernenti la “rappresentanza sindacale” sia all'atto dell'arruolamento del personale militare, sia nel periodo di
prima istruzione presso le scuole militari, le accademie
o i reparti addestrativi. Si tratta di profili assai innovativi che muovono nella direzione di maggiore trasparenza e di una formazione dei giovani ad una più consapevole gestione del proprio rapporto di lavoro con
l’Amministrazione, che potranno rappresentare uno
spunto importante ai fini della definizione di un testo
unificato.
La proposta di legge C 2097 D’Arienzo si differenzia rispetto a quella a prima firma Scanu per specifiche
disposizioni concernente la rappresentanza militare del
personale appartenente al Corpo della Guardia di finanza
ed una articolata disciplina di numerosi aspetti della rappresentanza militare, attualmente già regolati da fonte
normativa di natura regolamentare.
to, rispetto a quanto previsto dalla proposta di legge Scanu ed altri sopraesposta, si possono riassumere evidenziando gli aspetti salienti del seguente articolato:
L’articolo 3, comma 1, lett. m) prevede che il COCER formuli proposte nelle materie di competenza in merito a
“principi generali in punto di impiego e addestramento”.
L’articolo 6 disciplina i rapporti dei Consigli di rappresentanza con le Camere e con il Governo
L’articolo 9 prevede che, per le elezioni dei Consigli di
Rappresentanza, i candidati possano presentarsi sia in
liste sia individualmente.
L’articolo 9, comma 1, prevede che i candidati alle elezioni possano presentarsi in liste oppure individualmente
e che le liste devono prevedere la partecipazione di candidati “di tutte le categorie”.
L’articolo 9, comma 1, prevede che nelle liste sia presente
almeno un candidato donna.
L’articolo 10 prevede che “Sono organi dei Consigli della Rappresentanza militare l’Assemblea, il Presidente, il
Segretario generale e il comitato di Presidenza” (comma
1); che il Presidente è il delegato più elevato in grado (comma 2); e che il Segretario generale “E’ eletto a maggioranza
qualificata dall’Assemblea tra tutti i delegati del Consiglio senza distinzione di grado e categoria” (comma 3).
L’articolo 12, comma 1, prevede che il personale possa costituire associazioni professionali, ferme restando
le prescrizioni di cui all’articolo 1475 del codice dell’ordinamento militare (in base al quale: la costituzione
di associazioni o circoli fra militari è subordinata al preventivo assenso del Ministro della difesa; i militari non
possono costituire associazioni professionali a carattere sindacale o aderire ad altre associazioni sindacali; non
possono aderire ad associazioni considerate segrete a norma di legge e a quelle incompatibili con i doveri derivanti
dal giuramento prestato; e non possono esercitare il diritto di sciopero).
L’articolo 16 prevede l’adozione di un regolamento
di attuazione della legge, sentito il parere del COCER e
delle Commissioni parlamentari.
L’articolo 18 novella il decreto legislativo n. 195 del
1992, che disciplina le procedure per regolare i contenuti
del rapporto di impiego del personale delle Forze armate
(e di Polizia). La novella, tra l’altro, sostituisce all’attuale meccanismo (concertazione tra i ministri competenti, con la partecipazione del COCER) un meccanismo nuovo (negoziazione tra i ministri e l’articolazione competente del COCER).
Contenuti del testo unificato finale all’esame della Commissione difesa della Camera dei deputati
Sulla base di quanto emerso da questa ampia disamina in materia, i lavori svolti in Commissione difesa, hanno portato alla luce una proposta di testo unificato finale che rappresenta la sintesi tecnico-politica delle varie istanze espresse dalle numerose proposte di legge presentate presso detta Commissione. L’impianto che
ne deriva ricalca in gran parte l’impostazione delle proposte di legge Scanu ed altri, che sono evidentemente
espressione della maggioranza parlamentare; le altre proposte, avendo un impianto più strettamente riferibile al
concetto di organizzazione sindacale, nonché dei rapporti datoriali, così come strutturato dalla disciplina vigente per i rapporti lavorativi esterni al peculiare settore
della Difesa, non sono state prese in considerazione in
maniera completa, proprio perché in tale contesto bisogna necessariamente rifasi ad un campo in cui per questioni di inderogabile sicurezza nazionale, potrebbe verificarsi una non piena corrispondenza (se non anche derogabilità) con la disciplina del diritto sindacale.
Pertanto, i tratti innovativi formulati nel testo unifica-
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LA CENTRALIZZAZIONE DEGLI ACQUISTI
IN MATERIA DI APPALTI PUBBLICI
di Simone Castrovinci Zenna
1 PREMESSA
scelta fornita alla P.A. inserendo, però, un generalizzato obbligo di utilizzare i prezzi imposti o gli standard di prezzo, che andrebbero a costituire (naturalmente laddove presenti) il benchmark degli appalti pubblici.
Sono, poi, evidenti i benefici che la centralizzazione degli acquisti genera con riferimento alla semplificazione dei processi di approvvigionamento e, quindi, allo
snellimento dell’intera macchina amministrativa.
In particolare, si viene a realizzare un fenomeno
di esternalizzazione delle funzioni pubbliche, ispirato a logiche di tipo manageriale mutuate dal modello
statunitense, che si sono diffuse anche in Italia alla fine
del XX secolo. In linea generale, tale fenomeno consiste nell’affidamento a soggetti terzi, in possesso di competenze specialistiche, di attività prima gestite da unità organizzative interne alla Pubblica Amministrazione. Il ricorso alle centrali di committenza realizza, peraltro, una esternalizzazione di secondo grado, laddove
si considerino gli stessi processi di acquisto di beni e
servizi da parte delle pubbliche amministrazioni quali forme di esternalizzazione di attività ad esse strumentali.
Tuttavia occorre osservare che l’aggregazione
della domanda pubblica, specie se attuata mediante
strumenti dal carattere cogente, può determinare una
situazione di oligopsonio che, se sicuramente aumenta
il potere contrattuale della parte pubblica, può comunque condurre, in linea astratta, ad inefficienze del
mercato.
Infine, uno dei possibili rischi insiti nell’utilizzo delle centrali di committenza consiste nella scelta, da parte della singola Amministrazione, di affidare all’esterno le funzioni di stazione appaltante allo scopo
di limitare le responsabilità connesse all’aggiudicazione
di contratti pubblici.
Questo aspetto – che assume un significativo rilievo in
relazione al nuovo ruolo di player riconosciuto alle stazioni appaltanti – risulta particolarmente delicato.
Infatti, proprio alla luce del particolare tecnicismo
della materia della contrattualistica pubblica, non è in-
Diritto amministrativo
Gli strumenti centralizzati di approvvigionamento delle pubbliche amministrazioni hanno, di recente,
acquisito un ruolo sempre più centrale nella dinamica della contrattualistica pubblica
I numerosi interventi legislativi in materia hanno
perseguito, in modo più o meno consapevole, un duplice obiettivo: lotta alla corruzione e maggiore efficienza degli affidamenti.
Il primo dei due obiettivi – che ha animato il legislatore nazionale degli ultimi decenni e sul quale gli studiosi della contrattualistica pubblica si sono lungamente
soffermati – non formerà oggetto del presente scritto.
Con riferimento, invece, al secondo obiettivo, può osservarsi che lo stesso può essere inteso in un’accezione
più ampia, consistente in una migliore gestione degli
acquisti pubblici (in ossequio ai principi che dovrebbero regolare l’attività amministrativa), ovvero nell’accezione di risparmio di spesa delle amministrazioni
aggiudicatrici.
Nell’accezione (per così dire) più “nobile”, la centralizzazione dei soggetti aggiudicatori consente di arricchire il patrimonio cognitivo della Pubblica Amministrazione, così riducendo la fisiologica asimmetria informativa della stessa nei confronti dei privati.
Infatti, ad una riduzione delle stazioni appaltanti
corrisponde una maggiore competenza degli enti aggiudicatori, che consente di assicurare una maggiore
efficienza nello svolgimento della procedura ad evidenza pubblica e nella scelta del contratto da aggiudicare.
Il risparmio di spesa – che, per la verità, sembra il
principale interesse del Legislatore – sarebbe, a ben vedere, una conseguenza di questo approccio e potrebbe essere perseguito da strumenti meno invasivi della libertà negoziale delle P.A.. Ed infatti, l’obbligo di ricorrere alle centrali di committenza e al Mercato Elettronico della Pubblica Amministrazione (il “MePA”), la
cui violazione è sanzionata con la nullità del contratto, potrebbe essere sostituito dalla semplice facoltà di
33
frequente che l’attività di committenza formi oggetto
di un sindacato giurisdizionale da parte del giudice amministrativo e del giudice contabile. La prospettiva di
una contestazione per danni all’Erario rappresenta,
quindi, un elemento che può potenzialmente condurre alla paralisi dell’attività amministrativa, specie se svolta da amministrazioni sprovviste di un adeguato bagaglio di professionalità.
La possibilità di ricorrere a centrali di committenza
potrebbe, quindi, indurre le P.A. ad abdicare al proprio
ruolo nel mercato e alle proprie funzioni in un’ottica
meramente opportunistica, cioè al fine di ridurre al minimo il proprio coinvolgimento e la propria responsabilità nei processi di acquisto di beni e servizi.
mento dell’accordo-quadro ovvero mediante specifiche deleghe.
2.2 La direttiva 2014/24/UE in materia di appalti
pubblici esprime, con maggiore forza rispetto al precedente intervento europeo, la volontà di ridurre la
frammentazione della committenza pubblica mediante lo strumento delle centrali di committenza. In
quest’ottica, sono stati riconosciuti i vantaggi in termini
di ottenimento di economie di scala e di maggiore professionalità nella gestione degli appalti, evidenziando,
però, la necessità di monitorare l’attività delle centrali di committenza allo scopo di garantire la trasparenza
e la concorrenza, nonché la possibilità di accesso al mercato per le PMI.
La nuova direttiva prevede, pertanto, che all’attività di centrale di committenza di tipo tradizionale, caratterizzata dalla stabilità e finalizzata all’acquisto di
servizi e forniture destinate ad altre amministrazioni,
si affianchi un’attività di committenza ausiliaria, consistente nel fornire supporto alle amministrazioni aggiudicatrici attraverso specifici elementi (consultivi, tecnici e di assistenza) così che queste possano gestire in
autonomia le procedure più complesse.
Inoltre, la direttiva specifica che l’attribuzione da
parte di un’amministrazione aggiudicatrice della funzione di committenza (tradizionale o ausiliaria) può avvenire senza applicare le norme ivi indicate in materia di procedure di affidamento. Il rispetto della disciplina degli appalti è richiesto soltanto nel caso in cui
una stazione appaltante debba aggiudicare l’attività di
committenza ausiliaria a una centrale di committenza che non stia contestualmente fornendo attività di
centralizzazione tradizionale.
Tale specificazione si giustifica alla luce della querelle sulla necessità di svolgere una procedura ad evidenza pubblica per l’affidamento delle funzioni di centrale di committenza, integranti un appalto di servizi.
Infatti, la giurisprudenza comunitaria ha affermato che
anche gli accordi tra amministrazioni pubbliche vanno ricostruiti come contratti e, pertanto, sono sottoposti alle regole stabilite in materia di appalti pubblici ad eccezione dei casi in cui ricorrano i requisiti per
un affidamento in house. La giurisprudenza nazionale, prima degli specifici interventi legislativi in materia, aveva valorizzato gli obiettivi di esternalizzazione
sottesi al meccanismo delle convenzioni quadro – qualificate come contratti normativi che necessitano di essere attuati mediante ulteriori accordi negoziali con-
2 LE CENTRALI DI COMMITTENZA
2.1 La figura della centrale di committenza è stata introdotta a livello europeo dalle direttive comunitarie del 2004, intesa quale amministrazione aggiudicatrice che “acquista forniture e/o servizi destinati ad
altre amministrazioni aggiudicatrici” o “aggiudica appalti pubblici o conclude accordi quadro di lavori, forniture o servizi destinati ad altre amministrazioni aggiudicatrici”.
L’intervento dell’Unione Europea è risultato, comunque, cauto rispetto ad un fenomeno già diffuso tra
gli Stati membri. Infatti, pur riconoscendo i potenziali benefici che le centrali di committenza avrebbero potuto apportare al mercato del public procurement, si
voleva evitare che un eccessivo utilizzo di tale strumento potesse determinare effetti pregiudizievoli.
Pertanto, gli Stati membri sono stati lasciati liberi di prevedere la possibilità, per le stazioni appaltanti, di ricorrere alle centrali di committenza, i cui compiti e la
cui disciplina venivano, però, definiti a livello europeo.
A livello nazionale, l’art. 3, comma 34 del D.Lgs.
163/2006 (il “Codice Appalti”) definisce la centrale di
committenza come un’amministrazione aggiudicatrice (pertanto soggetta al più ampio obbligo di rispetto
del Codice Appalti) che “acquista forniture o servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatrici o ad altri enti
aggiudicatori” o che “aggiudica appalti pubblici o conclude accordi quadro di lavori, forniture o servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatrici o altri enti aggiudicatori”.
Tali soggetti possono operare mediante lo stru-
34
clusi dalle amministrazioni interessate – così da utilizzare la nozione di interposizione per ricostruire il
rapporto tra amministrazione agente e il soggetto individuato ex lege per la selezione del contraente.
In posizione affatto peculiare, si pone, poi, il modello
Consip (che costituisce il principale riferimento in materia): per giustificare l’affidamento diretto delle funzioni di stazione appaltante a tale soggetto, si era fatto riferimento al modello dell’ente pubblico a struttura
societaria o a quello dell’in house providing.
Infatti, la partecipazione totalitaria del Ministero
dell’Economia e delle Finanze, la determinazione legislativa delle funzioni societarie, in parziale deroga alla
disciplina civilistica, consentirebbero di qualificare la
Consip quale longa manus del Ministero e di qualificare i rapporti con questo intercorrenti in termini di
“sostituzione amministrativa”.
Altra parte della dottrina aveva, invece, qualificato la
Consip quale organismo di diritto pubblico investito
del servizio pubblico di gestione della gara o quale soggetto affidatario in house del servizio di approvvigionamento di servizi e forniture per pubbliche amministrazioni. Con riferimento a questa seconda interpretazione, si era affermato che il possibile ricorso di enti
non statali a Consip – modulato in termini di facoltà
e non di obbligo – sarebbe comunque coerente con il
modello in house (che consente di realizzare economie
di scala), purché l’attività di quest’ultima fosse svolta
in via principale a favore dell’amministrazione controllante.
In realtà, tali ricostruzioni presentavano non pochi aspetti critici. Infatti, la stessa possibilità di qualificare Consip quale organismo in house dell’intero apparato amministrativo statale, oltre a presupporre una
rinuncia all’ormai acquisito principio di pluralismo della P.A. a favore di una nozione onnicomprensiva di amministrazione statale, si poneva in contrasto con il carattere tipicamente societario di tale strumento, che presuppone la necessità di una partecipazione diretta all’organismo in house nonché la sussistenza del requisito del controllo analogo da parte di tutte le amministrazioni beneficiarie.
Ad oggi devono, pertanto, ritenersi superate tali ricostruzioni dogmatiche a favore del modello normativo, confermato dalle nuove direttive, che tipizza lo
schema derogatorio dell’affidamento diretto delle
funzioni di centrale di committenza. Questo aspetto
è, poi, confermato dalla considerazione che, anche a
voler ritenere tale affidamento quale contratto/accordo
tra pubbliche amministrazioni, la necessità di una procedura ad evidenza pubblica sorgerebbe, secondo le coordinate fornite dalla giurisprudenza europea, soltanto
nel caso in cui si tratti di attività aventi rilievo economico in quanto espletabili anche da altri soggetti.
Invece, come già detto, l’art. 33 del Codice Appalti prevede la possibilità di esternalizzare le funzioni di
acquisto esclusivamente facendo ricorso a centrali di
committenza. Pertanto, salvo non si voglia ipotizzare
una gara tra centrali di committenza (che, alla luce della normativa di riferimento, dovrebbero essere regionali) per l’ottenimento dell’incarico di gara, in contrasto con lo stesso assetto costituzionale delle competenze, lo svolgimento della funzione di centrale di committenza non sembra rientrare nel novero di quegli accordi il cui affidamento richiede una preventiva procedura ad evidenza pubblica.
2.3 Recentemente il legislatore nazionale è più
volte intervenuto, in un’ottica di spending review, sulla disciplina delle centrali di committenza, introducendo
novità non sempre coerenti con la disciplina preesistente.
In primo luogo, si segnala che l’art. 9 della L. 89/2014
ha introdotto all’interno dell’Anagrafe unica delle
stazioni appaltanti istituita dall’art. 33-ter del D.L.
179/2012, convertito dalla L. 221/2012 l’elenco dei soggetti aggregatori.
All’interno del citato elenco dovranno iscriversi (mediante una procedura disciplinata dallo stesso art. 9)
i soggetti aggregatori e, in particolare, la Consip e – qualora costituita ai sensi dell’art. 1, comma 455 della L.
296/2007 – una centrale di committenza per ciascuna Regione. A tal fine, si prevede che ciascuna Regione debba costituire, ove non esistente, un soggetto aggregatore. In alternativa, si prevede la possibilità che
le Regioni stipulino con il Ministero dell’Economia e delle Finanze un’apposita convenzione, in base alla quale affidare a Consip la funzione di centrale di committenza per gli enti del proprio territorio regionale.
Inoltre, anche i soggetti diversi dalla Consip e dalle centrali di committenza regionali che svolgono attività di
centrale di committenza ai sensi dell’art. 33 del Codice Appalti, dovranno iscriversi all’elenco dei soggetti
aggregatori.
Con Delibera n. 58 del 22 luglio 2015, l’ANAC ha
preso atto dell’elenco dei soggetti aggregatori risultante
35
in esito alla definizione della procedura prevista dalla normativa e, pertanto, ha provveduto ad iscrivere tali
enti all’interno dell’elenco dei soggetti aggiudicatori.
L’iscrizione di tali soggetti nell’elenco ANAC ha delle conseguenze di notevole rilievo pratico. Infatti le amministrazioni statali, le regioni (ivi compresi i consorzi e le associazioni delle regioni) e gli enti del servizio
sanitario nazionale hanno l’obbligo di ricorrere ai soggetti aggiudicatori inclusi in tale elenco per l’acquisto
dei beni e servizi individuati annualmente, sulla base
di specifiche categorie e soglie economiche, dal Presidente del Consiglio dei Ministri.
Nel caso di violazione del predetto obbligo, l’ANAC
non rilascerà all’amministrazione aggiudicatrice il
Codice identificativo di gara (CIG) necessario per lo svolgimento delle gare per l’affidamento dei contratti pubblici. In altre parole, la violazione dell’obbligo di ricorso
alle centrali di committenza limita fortemente lo
svolgimento di attività contrattuale da parte delle P.A..
Come già anticipato, tuttavia, il sistema in questione
si inserisce in una trama normativa molto fitta, che viene fatta salva dalla nuova disciplina.
Pertanto, sussistono dei casi di eccezione all’obbligo
di ricorrere ai soggetti aggiudicatori.
In primo luogo, permane il compito del Ministro
dell’Economia e delle Finanze di individuare annualmente le tipologie di beni e servizi per le quali tutte le
amministrazioni statali sono tenute ad approvvigionarsi
mediante le convenzioni-quadro Consip. Le pubbliche
amministrazioni non statali, possono, invece, scegliere se ricorrere a tali convenzioni-quadro ovvero utilizzare i relativi parametri di prezzo-qualità quali prezzo massimo di aggiudicazione.
Al di sotto della soglia comunitaria rimane, poi, l’obbligo di utilizzare il MePA, che costituirà oggetto di trattazione del prossimo paragrafo.
Con specifico riferimento, poi, ad alcune categorie merceologiche individuate direttamente dalla legge (energia elettrica, gas, carburanti rete e carburanti
extra-rete, combustibili per riscaldamento, telefonia fissa e telefonia mobile) le amministrazioni pubbliche e
le società a totale partecipazione pubblica diretta o indiretta hanno il dovere di approvvigionarsi attraverso
le convenzioni o gli accordi-quadro messi a disposizione
dalla Consip e dalle centrali di committenza costituite dalle Regioni.
Con riferimento ai Comuni non capoluogo di provincia, rispetto ai quali la necessità di apprestare stru-
menti di accentramento si poneva con forza, l’art. 9 del
D.L. 66/2014, convertito con L. 89/2014 e l’art. 23-bis
del D.L. 90/2014, convertito con L. 114/2014, hanno
previsto che tali soggetti potranno acquisire beni, servizi e forniture mediante: a) unioni di Comuni di cui
all’art. 32 del D.Lgs. 267/2000; b) un accordo consortile tra gli stessi Comuni, avvalendosi dei competenti
uffici (anche provinciali); c) il ricorso ad un soggetto aggregatore (di cui all’elenco ANAC) o alle province; d) l’utilizzo del MePA o altri strumenti elettronici di acquisto
gestiti da un soggetto aggregatore.
Sotto tale aspetto, si evidenzia che il punto d), che
qualifica in termini di facoltà il ricorso al MePA nel caso
di acquisti sotto-soglia, appare di difficile compatibilità con la specifica normativa che prevede l’obbligo per
le pubbliche amministrazioni (di cui fanno parte anche i Comuni non capoluogo di provincia) di acquistare
tramite il MePA.
Infine, è opportuno sottolineare che, all’interno del
già citato quadro normativo, permane la specifica disciplina relativa al c.d. sistema Consip, che definisce
un sistema a sé stante, caratterizzato da un proprio
plesso normativo. La violazione degli obblighi di approvvigionarsi attraverso gli strumenti di acquisto messi a disposizione da Consip è sanzionata con la nullità dei contratti, la responsabilità disciplinare e la responsabilità erariale dell’autore della violazione.
3 IL MERCATO ELETTRONICO DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
3.1 Una particolare modalità per effettuare acquisti centralizzati è costituita dal MePA.
Il MePA è una piazza “telematica” in cui i soggetti abilitati possono acquistare, per valori inferiori alla
soglia comunitaria, i beni e servizi offerti da fornitori abilitati a presentare i propri cataloghi sul sistema.
Il MePA è realizzato da Consip per conto del Ministero dell’Economia e delle Finanze ed è specificatamente disciplinato dagli artt. 328, 332, 335 e 336 del D.P.R.
207/2010 (il “Regolamento”) e da una serie di norme
di carattere generale e speciale che ne ispirano e ne regolano il funzionamento.
La normativa di riferimento distingue tra soggetti abilitati e soggetti obbligati ad acquistare tramite il
MePA.
In particolare, possono acquistare sul MePA le stazio-
36
ni appaltanti (come definite dall’art. 3, comma 33 del
Codice Appalti), le ONLUS di cui al D.Lgs. 460/1997 e
le organizzazioni di volontariato di cui alla L. 266/1991
iscritte nei registri istituiti dalle regioni e dalle province
autonome di Trento e di Bolzano.
Diversamente, le amministrazioni pubbliche, nonché
le autorità indipendenti, sono tenute a ricorrere al MePA
per gli acquisti di importo inferiore alla soglia di rilievo comunitario.
Le modalità di acquisto, rispettose dei principi di
trasparenza, rotazione e parità di trattamento, sono sostanzialmente modulate sulla base della regola espressa dall’art. 125 del Codice Appalti.
Infatti, si può distinguere tra acquisti al di sotto dei
40.000 Euro e acquisti pari o al di sopra di tale importo
e fino alla soglia comunitaria.
Nel primo caso, sarà possibile procedere ad un affidamento diretto che si traduce, nella sistematica
MePA, in un ordine diretto di acquisto. Mediante tale
strumento, l’amministrazione pubblica potrà direttamente selezionare il prodotto dal catalogo presente in
rete (che ha l’efficacia di un’offerta al pubblico rivolta ai soggetti aggiudicatori ex art. 1336 c.c.) e perfezionare l’acquisto.
Nel caso in cui, invece, l’acquisto sia di importo pari
o superiore ai 40.000 Euro, l’Amministrazione effettuerà un confronto concorrenziale tra offerte ricevute in risposta ad una richiesta di offerta rivolta ai fornitori abilitati (c.d. “RDO”). Naturalmente, tale strumento potrà essere utilizzato se e nella misura in cui
sussiste più di un operatore in grado di fornire il prodotto che si intende acquistare ovvero un prodotto con
le medesime caratteristiche.
Sotto tale aspetto, si segnala che, di recente, il Consiglio di Stato ha chiarito come non sussista un diritto
alla partecipazione esteso a tutti gli operatori del mercato, ma possono aspirare a divenire aggiudicatari del
contratto affidato tramite MePA soltanto gli operatori economici inclusi negli elenchi gestiti dalla Consip
(cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 20 agosto 2015, n. 3954).
D’altro canto, anche per importi inferiori alla soglia dei 40.000 Euro, l’amministrazione potrà ricorrere alla procedura di RDO laddove sia necessario “sartorializzare” il prodotto presente in catalogo. In tal caso,
infatti, sarà possibile precisare gli ulteriori requisiti del
prodotto richiesto, rimettendo al confronto tra gli operatori presenti in catalogo la realizzazione del prodotto
tailor made.
3.2 Il MePA ha già dimostrato significativi vantaggi in termini di abbattimento dei prezzi, celerità negli acquisti e maggiore trasparenza, consentendo alle
P.A. di ampliare la propria conoscenza del mercato di
riferimento ben oltre i ristretti confini territoriali, eventualmente conosciuti mediante indagini di mercato.
Sotto tale aspetto, il potenziamento di tale strumento consente di ottenere quei risparmi di spesa e quella maggiore semplificazione negli acquisti cui il Legislatore nazionale da lungo tempo mira.
4 CONCLUSIONI
Lo sviluppo e il potenziamento degli acquisti centralizzati si inserisce nell’ambito della strategia Europa 2020, che riconosce un rilevante ruolo alla materia
della contrattualistica pubblica.
In particolare, mediante l’utilizzo di strumenti centralizzati di acquisto, si consente di incrementare l’efficienza del public procurement e di veicolare in
modo più efficace la domanda pubblica verso finalità
sociali.
Infatti, la riduzione e la maggiore competenza dei soggetti aggiudicatori consente di perseguire con maggiore
razionalità l’obiettivo, centrale nella predetta strategia
europea, di orientare la spesa pubblica verso soluzioni più compatibili con la sostenibilità ambientale, la promozione di considerazioni di politica sociale e il sostegno dell'innovazione, così garantendo alla P.A. un
ruolo di player attivo nel mercato.
La maggiore professionalità delle centrali di committenza permette, inoltre, di superare il rigido formalismo procedurale che, in passato, ha caratterizzato
le pubbliche amministrazioni italiane, spesso restie ad
utilizzare strumenti innovativi (in alcuni casi maggiormente efficienti) per mancanza di adeguate professionalità interne e per paura di dover affrontare rischiosi giudizi di responsabilità.
Da questo punto di vista, pertanto, l’ampliamento – contenuto nel testo della Legge di stabilità 2016
attualmente approvato dal Senato – dei soggetti che
hanno la facoltà di ricorrere, per l'acquisto di beni
e servizi, alle convenzioni-quadro e agli accordi-quadro stipulati da Consip, appare sicuramente opportuno. In particolare, tra le varie novità contenute nel citato intervento normativo, appare rilevante la possibilità
di consentire alle “stazioni appaltanti”, così come de-
37
tano il carattere della serialità, mentre presenta maggiore problematicità con riferimento ad acquisti in cui
è più marcata la componente discrezionale. Tuttavia,
sono proprio tali acquisti a richiedere una maggiore professionalità e, quindi, a rendere più opportuno il ricorso a professionalità esterne nella gestione
della commessa pubblica.
In altre parole – e senza che lo strumento delle
centrali di committenza venga qualificato latu sensu come sanzione per il non corretto utilizzo della
discrezionalità da parte delle singole stazioni appaltanti – occorre ripensare il tradizionale concetto
di autonomia negoziale delle singole amministrazioni
aggiudicatrici in virtù del nuovo ruolo strategico che
l’Europa stessa riserva alla P.A. in veste di acquirente pubblico.
finite dall’art. 3, comma 33 del Codice Appalti, il ricorso agli strumenti centralizzati di acquisto gestiti dalla Consip.
Tuttavia, occorre evidenziare come gli strumenti prescelti per perseguire tali obiettivi comportino
il rischio di ridurre fortemente i margini di autonomia delle stazioni appaltanti italiane.
Infatti, l’introduzione di una disciplina vincolistica
della capacità d’agire negoziale della Pubblica Amministrazione riduce fortemente i margini di discrezionalità amministrativa dei buyers pubblici, impedendo agli stessi di determinare liberamente il contenuto dei contratti e limitando la libertà di scelta del
contraente.
Tale aspetto, da un lato, non comporta specifiche criticità con riferimento ad acquisti che presen-
38
L’INVALIDITÀ DERIVATA E LA TUTELA GIURISDIZIONALE NEI
CONFRONTI DEGLI ATTI PRESUPPOSTI: LA DISAPPLICAZIONE
di Giulio Anatrella
Il cosiddetto principio di derivazione, in forza del
quale sul provvedimento amministrativo finale si riverberano tutti i vizi verificatisi nel corso del procedimento, trova applicazione, ricorrendo determinate
condizioni, anche nei rapporti tra atti distinti e tuttavia legati dal vincolo della presupposizione.
Tale vincolo sussiste quando un atto, detto presupposto, distinto ed autonomo rispetto ad un altro
atto detto presupponente, ne costituisce il fondamento,
condizionandone l’esistenza e la validità.
Attesa l’autonomia che caratterizza questi atti, si
ritiene normalmente necessaria l’impugnazione distinta
di entrambi gli atti, sia pur ammettendosi l’impugnativa dell’atto presupposto contestualmente all’atto presupponente: e ciò nonostante il vizio sia unico riguardando l’atto presupposto e ripercuotendosi su
quello presupponente solo in virtù del vincolo che lega
i due atti.
Senonché, da sempre ci si chiede se, almeno in talune ipotesi e ricorrendo determinate condizioni,
possa ammettersi che l’annullamento dell’atto presupposto determini la caducazione automatica dell’atto
consequenziale (invalidità ad effetto caducante) o se
invece si converta in un vizio dell’atto consequenziale, da impugnare autonomamente (invalidità ad effetto viziante).
Secondo una prima tesi l’annullamento giurisdizionale, in quanto circoscritto all’atto impugnato, è in
grado di produrre effetti solo su questo e mai su un
altro provvedimento (benché consequenziale). Ciò
comporta l’onere di proporre un’autonoma impugnazione contro l’atto consequenziale viziato per invalidità temporanea.
Secondo un’altra tesi, seguita da una parte della giurisprudenza, l’effetto caducatorio si può estendere a
tutti gli atti che sono con il primo strettamente connessi
o che in essi trovano il loro logico presupposto. A sostegno di tale tesi è stata addotta soprattutto l’esigenza
del ricorrente di trovarsi alleggerito dall’onere gravoso di inseguire con ripetute impugnazioni il procedere dell’attività dell’amministrazione. Quanto ai requi-
Diritto amministrativo
siti in presenza dei quali il nesso di presupposizione
deve ritenersi causa della caducazione automatica del
provvedimento presupponente, la giurisprudenza
prevalente ritiene che il travolgimento di un atto per
effetto dell’annullamento del provvedimento presupposto si verifica solo quando tra l’atto invalidato e quello presupponente sussiste un nesso di stretta consequenzialità, ossia una relazione di presupposizione logica e giuridica.
Il nesso di presupposizione inoltre è stato ripetutamente individuato nella circostanza che l’atto antecedente è il presupposto non solo necessario, ma anche unico del provvedimento consequenziale.
In tal senso si è espressa la giurisprudenza che ha ribadito il riconoscimento delle distinzioni delle due figure e ha precisato che:
1) L’invalidità caducante si delinea allorquando il
provvedimento annullato in sede giurisdizionale costituisce il presupposto unico ed imprescindibile dei
successivi atti consequenziali, esecutivi e meramente
confermativi, in modo tale che il suo venir meno travolge automaticamente gli atti successivi strettamente collegati al provvedimento presupposto (es. il decreto
di esproprio rispetto alla dichiarazione di pubblica utilità).
2) L’invalidità ad effetto solo viziante si ravvisa in
tutte le diverse ipotesi nelle quali si è in presenza di
provvedimenti presupponesti solo genericamente o indirettamente connessi a quello presupposto.
Legato alla problematica dell’impugnazione degli atti
presupposti (es. regolamento ed atto applicativo), è
quello relativo alla controversa ammissibilità della disapplicazione dei regolamenti amministrativi da parte del giudice amministrativo. All’impostazione tradizionale, che affida il sindacato di legittimità delle fonti secondarie al solo meccanismo dell’impugnazione nel
rispetto del termine decadenziale, si contrappone quella che invece consente che il regolamento, pure non ritualmente impugnato, possa essere disapplicato da parte del giudice amministrativo.
L’orientamento giurisprudenziale favorevole alla
39
disapplicazione da parte del giudice amministrativo dei
regolamenti non ritualmente impugnati è fondato in
particolare sulla natura sostanzialmente normativa del
regolamento. In tal modo è stato possibile superare il
precedente orientamento volto invece a sopravvalutare
il carattere formale dei regolamenti, intesi quali atti soggettivamente amministrativi, privilegiando la loro
funzione normativa e il ruolo che essi svolgono nel complessivo quadro normativo con riferimento al quale il
giudice amministrativo è chiamato a decidere la controversia.
In senso favorevole alla disapplicabilità dei regolamenti, in armonia con la ritenuta natura tipicamente normativa delle fonti in questione, si valorizza l’inclusione degli stessi tra le fonti del diritto, come tali
assoggettate ai principi di gerarchia delle fonti e iura
novit curia. In ossequio al primo principio in caso di
contrasto tra norme di rango diverso, il giudice è tenuto – tramite la disapplicazione regolamentare – ad
assicurare in giudizio la primazia della fonte gerarchicamente superiore, applicando direttamente la
legge o altro atto di normazione primaria sovraordinato. In forza del principio iura novit curia il giudice
è tenuto a conoscere anche ufficiosamente l’intero quadro normativo, a prescindere dalle deduzioni formulate dalla parte nel ricorso. Invece in forza del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato il giudice valuta, in via incidentale, la legittimità del regolamento e procede, se del caso, alla disapplicazione solo
delle disposizioni regolamentari rilevanti per il giudizio, di cui il ricorrente fa esplicita menzione tra i motivi del ricorso.
Per la verità si fa notare che ciò che viene in rilievo non è la disapplicazione in senso tecnico, in quanto il regolamento illegittimo non è idoneo ad innovare l’ordinamento in modo contrastante con la fonte sovraordinata, con la conseguenza che non vi è alcun effetto suscettibile in senso tecnico di disapplicazione,
ma solo la normale operatività della fonte sovraordinata per effetto della gerarchia delle fonti.
A questa impostazione di cui si è testé trattato aderisce ormai da tempo la giurisprudenza a fare data dagli anni novanta.
Nel caso che era venuto in rilievo il provvedimento attuativo era stato adottato in violazione del rego-
lamento presupposto, a sua volta contrastante con la
legge: è il caso del rapporto di c.d. antipatia, ricorrendo il quale l’atto applicativo risulta, conclusivamente,
conforme alla legge, tra l’uno l’atro collocandosi il regolamento illegittimo. In tale ipotesi, se fosse escluso
il potere di disapplicazione, il giudice amministrativo
dovrebbe paradossalmente annullare l’atto amministrativo impugnato, contrario al regolamento ma perfettamente il linea con la previsione di rango primario.
Dunque, la giurisprudenza amministrativa ammette la
disapplicazione del regolamento illegittimo cui consegue pertanto la reiezione del ricorso, essendo lato applicativo ab origine conforme a legge.
Diversa l’ipotesi del rapporto c.d. di simpatia, che
si realizza quando un provvedimento applica un regolamento, tuttavia confliggente con la previsione di
legge. In questo caso, escludendo la disapplicazione del
regolamento, andrebbe assurdamente respinto il ricorso, attesa la conformità del provvedimento impugnato al regolamento e stante il contrasto di entrambi con la fonte primaria. La giurisprudenza ha ammesso
la disapplicazione anche nel caso in cui ricorra un rapporto di simpatia tra provvedimento e regolamento: disapplicato in questo caso il regolamento, il giudice accoglie il ricorso, concludendo nel senso della contrarietà del provvedimento applicativo (che mutua il vizio dal regolamento) rispetto alla legge.
Parte della giurisprudenza distingue la disapplicazione del regolamento (quando il provvedimento è in contrasto con il regolamento illegittimo) dall’”invalidazione”
del medesimo (quando il provvedimento mutua il vizio dal regolamento).
La disapplicazione vera e propria riguarderebbe
solo i rapporti di antipatia tra regolamento e atto applicativo: in questi casi il regolamento non ha alcun effetto ai fini della decisione, in quanto il giudice amministrativo, accertata la conformità alla legge del provvedimento “a valle”, per il principio di gerarchia delle
fonti, darà applicazione alla legge disapplicando il regolamento, cioè considerando tamquam non esset rispetto al caso deciso.
Diversamente, in caso di rapporto di simpatia, il giudice non disapplicherà il regolamento ai fini della decisione ma, in un certo senso, lo applicherà verificandone
l’attitudine ad invalidare il provvedimento a valle.
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L’EVOLUZIONE DEL DIRITTO AMMINISTRATIVO EUROPEO
E L’UNIFICAZIONE VERSO UN DIRITTO
AMMINISTRATIVO GLOBALE
Seconda parte
di Edoardo La Rosa
L’integrazione tra strutture procedimentali nazionali e comunitarie: l’esecuzione indiretta delle politiche comunitarie
damentale il contributo di Paesi come la Spagna che,
forti di un’antica tradizione procedimentale alle
spalle, da sempre individuano nell’operato imparziale una garanzia essenziale del procedimento amministrativo.
Nel Regno Unito, invece, il rispetto dell’imparzialità è venuto costituendosi nel tempo attraverso la massima informazione per i cittadini. La politica dei rights to know, infatti, ha costituito il miglior vincolo per i governi a non esercitare indebite ingerenze sulla sfera decisionale.
Un terzo principio, di proporzionalità, è derivato
direttamente dall’interpretazione dottrinaria tedesca, in virtù del quale le istituzioni comunitarie
non possono imporre obblighi e restrizioni agli amministrati in misura superiore a quella strettamente
necessaria a quella finalizzata alla realizzazione degli interessi pubblici loro affidati2. Anche qui si possono svolgere due considerazioni. Il fatto anzitutto che questo costituisca un esempio evidente del
recepimento comunitario dei principi nazionali. Al
tempo stesso, con riguardo ai singoli procedimenti amministrativi, le diverse modalità con le quali
è stato disciplinato. In Italia ad esempio la proporzionalità si è legata all’esercizio discrezionale di
potere amministrativo, fornendo al giudice un
metro di valutazione per l’eccesso di potere.
Infine, il principio di sussidiarietà (enunciato dall’articolo B del Trattato sull’Unione) che, imponendo
l’intervento di quel potere in grado di assicurare la
realizzazione più efficace degli obiettivi comuni, inevitabilmente incide sulla ripartizione dei compiti tra
diversi livelli di amministrazione e sulle relative modalità di svolgimento. Principio questo che gli Sta-
Diritto amministrativo europeo
Evidenziati i principi, la ricerca si sofferma sui
tre principali modelli procedimentali: l’esecuzione
diretta, quella indiretta e la coamministrazione.
Ad interessare non sono tanto gli aspetti legati allo
svolgimento concreto di queste, quanto piuttosto
le conseguenze che producono sul fenomeno in esame: l’integrazione tra procedure amministrati.
L’esecuzione indiretta comporta l’attuazione
delle norme e delle politiche comunitarie in ragione della quale alla Comunità spetta il compito di ravvicinare le disposizioni (legislative, regolamentari
ed amministrative) vigenti negli Stati membri ed a
questi ultimi di dare esecuzione del diritto europeo
nei rispettivi ordinamenti. Le pubbliche amministrazioni nazionali operano in qualità di veri e propri uffici di attuazione decentralizzata del diritto
comunitario, finendo per essere soggette tanto alle
disposizioni del diritto amministrativo interno
quanto a quelle comunitarie1.
In questo caso l’influenza sui modelli procedimentali amministrativi è uniforme per quanto attiene l’intensità perché la procedura seguita è
quella comunitaria e non nazionale. Al tempo stesso, la differenza opera con riferimento al diverso
grado di assorbimento dei procedimenti: più rapido ma meno stabile nei Paesi che affidano alla giurisprudenza la ricezione dei principi (es. Francia).
Al contrario, più stabile ma meno rapido nei Paesi
che disciplinano i suddetti principi e l’operato amministrativo della Comunità. In tal senso è stato fon-
1 Sulla crisi del modello dell’esecuzione indiretta, legato prevalentemente alla prima fase di vita del procedimento comunitario, si sofferma Chiti, M.P., Diritto amministrativo europeo, Milano, 2004, pag. 407 ss., ove si
sottolinea il venir meno della rigida distinzione tra la sfera comunitaria e quella nazionale che l’autore lega all’emersione dei procedimenti composti.
2 In senso critico Chiti, E., Franchini, C., op. cit., pag. 134 ss., si soffermano sugli inconvenienti che il processo di adattamento delle amministrazioni nazionali alle prescrizioni sovranazionali può comportare. A titolo
esemplificativo viene presa la materia degli appalti pubblici nella quale, come noto, s’è lungamente dibattuto in ordine a diversi aspetti, non ultimo quello dell’ammissibilità di soggetti giuridici privati ad assumere funzioni di rilevanza pubblicistica, qualificandosi come organismi di diritto pubblico.
41
ti europei a struttura fortemente decentrata come
la Germania hanno recepito e rielaborato rapidamente. Nel caso dell’Inghilterra poi il principio ha
trovato la sua massima attuazione, per il tramite del
processo di agencification, volto ad instaurare
centri operativi vicini all’utenza e con competenze
tecniche specifiche. Al contrario, l’Italia ha intrapreso
un lungo processo di riforma costituzionale che è
giunto, negli anni, ad attribuire una rilevanza
maggiore ai poteri locali. Va aggiunto che il principio, nella sua accezione “orizzontale”, ha operato nel senso di una delimitazione della sfera pubblicistica a fronte di quella privata. Come osserva
la dottrina, ciò è alla base delle tendenze nazionali alla progressiva liberalizzazione di attività soggette ad un forte condizionamento pubblico, nonché alle tendenze alla semplificazione dei procedimenti amministrativi. Il nucleo dei principi sinteticamente evidenziato permette di giungere ad una
prima, importante, conclusione: il diritto amministrativo comunitario e quello dei singoli Stati procedono di pari passo, perché operano sulla base di
principi comuni. Essi cioè determinano una “convergenza verticale” tra standards procedurali che
accorciano le distanze tra Commissione e cittadini, avvicinando l’una agli altri, e viceversa.
Evidenziati i principi, la ricerca si sofferma sui
tre principali modelli procedimentali: l’esecuzione
diretta, quella indiretta e la coamministrazione. Ad
interessare non sono tanto gli aspetti legati allo svolgimento concreto di queste, quanto piuttosto le conseguenze che producono sul fenomeno in esame:
l’integrazione tra procedure amministrative.
L’esecuzione indiretta comporta l’attuazione
delle norme e delle politiche comunitarie in ragione della quale alla Comunità spetta il compito di ravvicinare le disposizioni (legislative, regolamentari
ed amministrative) vigenti negli Stati membri ed a
questi ultimi di dare esecuzione del diritto europeo
nei rispettivi ordinamenti. Le pubbliche amministrazioni nazionali operano in qualità di veri e propri uffici di attuazione decentralizzata del diritto
comunitario, finendo per essere soggette tanto alle
disposizioni del diritto amministrativo interno
quanto a quelle comunitarie.
In questo caso l’influenza sui modelli procedimentali amministrativi è uniforme per quanto attiene l’intensità perché la procedura seguita è
quella comunitaria e non nazionale. Al tempo stesso, la differenza opera con riferimento al diverso
grado di assorbimento dei procedimenti: più rapido ma meno stabile nei Paesi che affidano alla giurisprudenza la ricezione dei principi (es. Francia).
Al contrario, più stabile ma meno rapido nei Paesi
che disciplinano il procedimento amministrativo tramite la legge e dunque chiedono tempi burocratici più lunghi affinchè questa possa essere modificata ed adattata definitivamente al modello uniforme comunitario.
L’esecuzione diretta e l’incidenza sulle posizioni
giuridiche soggettive dei destinatari
L’esecuzione diretta, da intendersi come attribuzione di rilevanti poteri di vigilanza e controllo
alla Commissione, incidendo direttamente sul diritto dei singoli Stati e, di conseguenza, sulle posizioni giuridiche soggettive, opera un ravvicinamento
tra distinte procedure amministrative. Questa circostanza ha dato luogo ad un’ampia controversia
di fronte al giudice comunitario, vertente in modo
particolare sui diritti della difesa garantiti nei procedimenti amministrativi. Particolarmente significativa è, a titolo d’esempio, la vicenda del diritto ad
accedere ai documenti amministrativi posseduti dagli uffici pubblici comunitari. In merito, una giurisprudenza costante della Corte di giustizia ha riconosciuto già a partire dagli anni Sessanta l’accessibilità dei soggetti interessati alla documentazione, configurandola alla stregua di un diritto alla
partecipazione nella formazione delle politiche decisionali. Il diritto di accesso ovviamente è stato così
recepito e potenziato in tutti gli ordinamenti nazionali. Si ricordano in particolare il caso italiano
ed inglese che hanno legato all’accessibilità ai documenti in possesso dell’amministrazione una rivoluzione logistica nel modo di pensare l’azione amministrativa. In senso managerialistico il Regno Unito ed in ottica evoluzionistica l’Italia, preoccupata
dalla necessità di implementare l’efficacia e l’efficienza.
Un ulteriore esempio di integrazione procedimentale: la coamministrazione delle politiche comunitarie
L’esecuzione diretta e quella indiretta non solo le
uniche modalità gestorie delle decisioni ammini-
42
strative comunitarie che confermano la tesi dell’integrazione operativa e procedurale3. È bene ricordare, infatti, che non solo il procedimento amministrativo europeo non si svolge quasi mai a livello sovranazionale, ma che sono oramai rare le
ipotesi in cui i singoli Stati non prevedono l’innesto di fasi comunitarie nei rispettivi procedimenti.
Esiste dunque una terza, e significativa, ipotesi da considerare: quella della coamministrazione.
Quell’ipotesi in cui cioè si prevedono procedimenti amministrativi composti, articolati lungo diverse fasi sia nazionali che comunitarie, cui accedono
soggetti di natura diversa: la Commissione, i Comitati di settore ed ulteriori organismi di intervento.
Un’ipotesi nella quale è evidente che la scelta di una
procedura uniforme risulta non solo auspicabile ma
doverosa per garantire la più rapida conclusione e
la efficiente ed efficace realizzazione satisfattiva dell’interesse coinvolto. Ciò, sebbene si ripresentino le
stesse considerazioni problematiche già esposte sulla tutela degli interessati con particolare riguardo
alla tipologia di provvedimento da impugnare ed alla
legittimazione a ricorrere. La comparazione tra i diversi procedimenti finisce evidenzia l’incapacità di
questi di individuare soluzioni normative agevoli.
Solamente la Francia, grazie al contributo esclusivo della giurisprudenza amministrativa, ha offerto un’azione rapida ed opportuna.
in seno ai procedimenti di cui s’è dato conto, e sulla scorta dei principi posti dai diversi ordinamenti nazionali, non è difficile immaginare come questa circostanza offra il fianco ad una critica difficilmente superabile. Presenta cioè il rischio di determinare l’assimilazione dei principi posti da
quei Paesi che esercitano un’influenza socio-politico-economica maggiore di altri sullo scacchiere internazionale.
In altre parole, il paradosso – e dunque la sfida dell’integrazione – è dato dal fatto che all’aumentare
dell’esigenza di dare peso ai principi unificati tra
procedimenti si accompagna l’inevitabile differenza di trattamento che (alcuni di) questi ricevono a livello nazionale, in ragione delle forti asimmetrie tra diverse tradizioni giuridiche. Da qui, la
conseguenza paradossale di un’unificazione che accentua, anziché diminuirle, le differenze.
Una circostanza che solamente la febbrile attività della giurisprudenza comunitaria e nazionale
ha evitato che potesse stravolgere i benefici effetti prodotti dall’unificazione amministrativa tutt’oggi
in atto. La soluzione proposta da alcuni, criticata da
altri, individua nella codificazione del procedimento
amministrativo europeo una possibile soluzione al
problema. Un importante passo in questo senso lo
si è compiuto con l’emanazione di due documenti: la Carta dei diritti fondamentali anzitutto, proclamata a Nizza nei dicembre 2000, che nel Titolo
V dedicato alla Cittadinanza e contenente quattro
importanti previsioni. Il diritto di buona amministrazione (nell’articolo 41); la disciplina del diritto
d’accesso (all’articolo 42); la previsione, all’articolo 43, della figura del Mediatore europeo; infine, la
configurazione di un diritto ad un ricorso effettivo, contemplata dall’articolo 47.
In secondo luogo, la Costituzione europea, che
non si limita a riprendere il contenuto della Carta,
ma interviene a sistemare varie questioni generali, tra le quali le competenze (che sono la base giuridica per il tema stesso del procedimento). Attraverso il riconoscimento del sistema delle competenze “si supera il principio dell’autonomia proce-
I limiti della convergenza e l’esigenza di codificazione
L’ultimo ordine di considerazioni consente di
introdurre il discorso sui limiti della convergenza
e, con esso, l’ultimo passaggio logico della ricerca.
La problematica è duplice. Non solo quella evidenziata, in ordine alla ricerca ed elaborazione di
un procedimento amministrativo congiunto, cui si
lega una diversa intensità nell’assimilazione dei principi che promanano dai singoli procedimenti. Ma anche una seconda situazione legata al concetto medesimo di integrazione procedimentale. Se, infatti, partiamo dall’assunto che l’unificazione avviene
3 Cfr. Chiti, M.P., Diritto amministrativo europeo, Milano, 2004, pag. 422: “La prima previsione sul diritto ad una buona amministrazione, da un lato, sintetizza una serie di principi generali sull’azione amministrativa,
elaborati dalla giurisprudenza e solo in parte già trasfusi nei Trattati ( ad esempio, l’obbligo di motivazione). Così il diritto ad essere ascoltato, il diritto ad accedere alle informazioni, il diritto giacché le proprie questioni siano trattate in modo imparziale, equo ed entro un termine ragionevole”.
43
dimentale degli Stati membri, e si dà un preciso fondamento legale ai procedimenti amministrativi europei nella sfera dell’Unione”.
Al di là delle perplessità riportate, non può dirsi che i limiti intrinseci contenuti nel Trattato di
Roma siano stati definitivamente superati. La disciplina del procedimento amministrativo comunitario risulta, tutt’ogg,i inidonea a fornire un
quadro di riferimento adeguato e completo come
quello approntato da molti Stati europei. La convergenza integrativa, da sola, non è sufficiente e si
fa sempre più avvertita l’esigenza di codificazione.
Da ciò, l’accresciuta importanza degli studi comparativi, che evidenzino i punti comuni ma, soprattutto, le divergenze che è necessario colmare.
Che quindi superino le mancanze proprie dell’influenza comunitaria sull’unificazione dei procedimenti.
e transnazionali, che lo compongono. Che ha seguito, infine, un’evoluzione assimilabile a quella già
trattata in proposito al diritto amministrativo comunitario. Abbandonato cioè l’originario carattere
della nazionalità, e delle peculiarità da esso derivanti, ha subìto un progressivo ma costante processo di europeizzazione ed internazionalizzazione.
Costituendo, in altri termini, la base regolatoria di
una complessa ed articolata serie di rapporti che
hanno la loro sede nell’ambito sovra-nazionale, e che
dunque necessitano di un proprio, distinto, diritto.
Un confronto tra procedimenti nazionali può allora essere letto ed interpretato anche in chiave globale. Perché l’ordinamento comunitario ne è parte,
perché consta di organi e procedure globali atte a
disciplinare i differenti settori. Perché, inoltre, si fonda anch’esso su principi comuni, operando un costante ravvicinamento tra ordinamenti e tra i rispettivi ordinamenti.
La ricerca di un ordinamento globale che sappia decontestualizzare il futuro della regolamentazione
degli interessi, facendo però tesoro delle peculiarità dei singoli componenti – meglio: sfruttando e
valorizzando quelle differenziazioni per giungere
ad una forma di unificazione qualitativamente valevole ancor prima che quantitativamente strutturata – costituisce una sfida ed, al tempo stesso,
un’opportunità che non può essere mancata. Solamente così i governi del XXI secolo sapranno dare
una risposta pacifica alle principali divergenze che
affliggono la “società internazionale”.
Solo in questo modo, si aggiunge, il diritto globale ed i procedimenti che lo compongono saranno
latori di civiltà giuridica.
Il più vasto fenomeno della globalizzazione degli ordinamenti e l’influenza esercitata sull’integrazione
Un breve cenno va però speso nei confronti del
più complesso fenomeno conosciuto come “globalizzazione”. Ad esso si lega un peculiare sistema
regolatorio, sorretto da proprie basi e fondato su
propri principi, definito diritto amministrativo
globale. Si tratta del diritto di un’organizzazione
frammentaria, o meglio: a rete. Di un diritto asimmetrico perché non si presenta con la stessa intensità in tutte le regioni del globo. Di un diritto che
delinea un ambito definito di compiti e funzioni tra
Stati, organizzazioni sovranazionali, internazionali
44
IL MARE CINESE MERIDIONALE, IN RIFERIMENTO ALLA SOGGETTIVITÀ DELLO SPAZIO AEREO INTERNAZIONALE
di Stefano Rovito
Spesso, nel corso della storia, lo spazio fisico
è stato investito dal processo di interpretazione del
mondo che l’umanità compie per sua natura. Lo spazio, d’altronde, ben si presta a questo tipo di speculazione per via della sua duplice natura di oggettività e soggettività: alla denotazione oggettiva
di uno spazio, infatti, sovente si è aggiunta la connotazione soggettiva che ne hanno dato i popoli, le
nazioni e gli Stati.
A questo processo è seguito lo scontro sulle interpretazioni che più popoli, nazioni e Stati hanno
dato del medesimo territorio. A tal proposito è interessante richiamare alla mente le interpretazioni che le nazioni, soprattutto nell’età dei nazionalismi, hanno dato di alcuni territori. Si prenda, ad
esempio, il caso del Tirolo Meridionale, preteso tanto dai propugnatori della teoria della Grande Italia,
quanto dai pangermanisti. O anche la regione dell’Epiro, ovviamente greca per i nazionalisti di Atene, ma albanese nelle teorie che partorirono il concetto di Albania Etnica o Grande Albania. Scontro
di interpretazioni che, purtroppo, è costato due
guerre mondiali.
La fine dell’età dei nazionalismi, e la successiva nascita del confronto bipolare, imposero l’ideologia come nuovo e principale motore delle relazioni
internazionali. I confini e le etnie passarono in secondo piano nello scontro tra l’ideologia sovietica
e quella occidentale: durante la Guerra Fredda, infatti, non era tanto importante ottenere porzioni di
territorio o ridisegnare i confini, quanto conquistare
alla propria ideologia intere nazioni per trarne vantaggio strategico. Non è un caso, infatti, che le manifestazioni più calde del confronto bipolare (Corea, Vietnam e Afghanistan) furono, di fatto, guerre civili in cui veniva deciso il futuro ideologico di
una nazione. Così come non è un caso che i confini statuali siano rimasti praticamente congelati dal
1945 al 1989.
Con la fine del confronto bipolare, e relativo arretramento dell’aspetto ideologico, il nazionalismo
Diritto internazionale
fece la sua nuova comparsa nel palcoscenico internazionale. Etnie e confini tornarono alla ribalta
drammaticamente, come nel caso delle guerre balcaniche degli anni ’90. Senza la copertura ideologica, l’interesse nazionale è tornato centrale nelle
relazioni internazionali e, dopo il sostanziale ridimensionamento della lotta al terrorismo di matrice islamica, il sistema internazionale sembra mostrare una fase di nuova fluidità, in cui i confini tornano a muoversi dopo più di mezzo secolo. A tal
proposito, l’annessione della Crimea da parte della Federazione Russa assume un significato ben preciso.
Un caso paradigmatico del rapporto tra interpretazione soggettiva di uno spazio geografico e le
sue conseguenze geopolitiche è quello del Mar Cinese Meridionale. Tutte le nazioni che si affacciano su questo mare (Repubblica Popolare Cinese, Repubblica di Cina-Taiwan, Vietnam, Filippine, financo
ai giapponesi che, in realtà, non godono delle sue
acque) hanno dato una loro interpretazione, che si
può riscontrare già nella toponomastica. Per i cinesi
tale specchio d’acqua è il Nan Hai (Mare del Sud);
i filippini lo chiamano Dagat Kanlurang Pilipinas
(Mare Occidentale delle Filippine), mentre i vietnamiti Bie’n Ong (Mare dell’Est); in Giappone viene chiamato Minami shina umi (Mar Cinese del Sud), che
se da un lato concede la paternità alla Cina, dall’altro
contiene i caratteri Shina, usati in modo dispregiativo durante la seconda guerra mondiale per indicare la Cina stessa. Tokyo esclusa, tutti gli Stati
dell’area considerano il Mar Cinese Meridionale
come il loro mare.
Fin qui sembrerebbe una questione di mera toponomastica, se non fosse che il Mar Cinese Meridionale è il fulcro dei traffici commerciali mondiali
(più del 40% della quota globale), i suoi fondali sono
ricchi di giacimenti petroliferi e di gas naturale ed
è al centro degli interessi del gigante della zona: la
Repubblica Popolare Cinese.
Pechino rivendica lo sfruttamento esclusivo di
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un’area che comprende fino all’80% delle acque del
Mar Cinese Meridionale. Le pretese cinesi riposano
sulla cosiddetta nine dotted line, una linea a “U” che
include gran parte delle acque territoriali di Vietnam, Filippine, Malesia e Brunei, e che si poggia sulla presunta sovranità cinese sugli arcipelaghi che
vi si stagliano, le Isole Spratly e le Isole Paracelso.
Queste ultime furono interamente occupate dalla
Cina nel 1974, ma sono reclamate dal Vietnam. Le
Spartly, invece, sono oggetto tutt’oggi di una disputa
internazionale tra i soggetti che si affacciano sul
Mare: la Cina sostiene di controllare l’arcipelago sin
dalla dinastia Han (200 d.C.); per il Vietnam non ci
sono tracce di presenza cinese prima del 1933, mentre per Manila le isole erano terra nullius fino al
1956, quando un cittadino filippino le colonizzò.
Nel corso della sua storia millenaria, la Cina ha
sempre avuto una proiezione continentale, volendo emanare la sua forza all’interno dell’Asia. Pur
avendo sviluppato una prodigiosa tecnologia nautica, le avventure marittime cinesi si sono limitate
a due sfortunati tentativi di invasione del Giappone, nel 1274 e nel 1281, e all’epopea del grande navigatore Zheng He alla quale, però, non fu dato seguito. La visione del mondo dei cinesi, d’altronde,
poneva Pechino al centro dell’universo: di conseguenza, non era la Cina a dover uscire di casa per
osservare, ed eventualmente sottomettere, il mondo esterno, ma era quest’ultimo che doveva avvicinarsi alla Cina per godere dei frutti della sottomissione all’imperatore. Una visione del mondo che
traspare già dal nome che i cinesi hanno dato alla
loro patria: Zhōngguó, il Regno di Mezzo.
La proiezione continentale viene mantenuta anche nei primi decenni della Repubblica Popolare: alla
Zhōngguó Rénmín Jiěfàngjūn Hǎijūn, la marina militare cinese, ad esempio, sono stati affidati compiti di mera difesa costiera fino agli anni settanta.
Questo approccio era funzionale al tentativo, ritenuto primario dal governo comunista, di riunire sotto un’unica bandiera tutti i territori appartenuti storicamente all’impero cinese: l’occupazione del Tibet, il rafforzamento della presenza nello Xinjiang
e nella Mongolia interna, così come la schermaglia
con l’India del 1962, furono azioni tese a perseguire
tale obiettivo.
Il compito di tenere unita la Cina che si era dato
il governo di Pechino era sostanzialmente compa-
tibile con i cinque principi della convivenza pacifica (rispetto dell’integrità territoriale e della sovranità, mutua non aggressione, non interferenza negli affari interni, uguaglianza e mutuo vantaggio) elaborati dalla diplomazia cinese sin dagli anni cinquanta e che avrebbero dovuto regolare i rapporti tra la Cina e gli altri stati dell’area.
Alla poderosa avanzata della potenza cinese,
tuttavia, ha fatto seguito un’evoluzione degli obiettivi strategici. La vocazione continentale e interna,
infatti, poteva coniugare i principi della convivenza pacifica con la tutela dei core interests (in cinese Héxin lìyì) ossia gli interessi per i quali il governo cinese è pronto a ricorrere all’uso della forza. Tali
core interests erano essenzialmente la tutela della sovranità e l’indivisibilità territoriale, con particolare riferimento al Tibet, Xinjiang e Taiwan. Dal
2010, però, Pechino ha aggiunto alla lista anche la
sovranità esclusiva sul Mar Cinese Meridionale.
L’aggressività di Pechino ha provocato la comprensibile reazione degli altri Stati rivieraschi. La dottrina della nine dotted line, infatti, va a sconvolgere i confini marittimi della zona, forgiati secondo
quanto stabilito nella Convenzione delle Nazioni
Unite sul diritto del mare del 1982 e che garantisce
agli Stati il possesso di una zona economica esclusiva che si estende per duecento miglia nautiche dalle coste. Posizione, questa, sostenuta dagli Stati interessati dalla disputa anche in seno all’ASEAN (l’Associazione degli Stati dell’Asia orientale), e che vorrebbe risolvere la questione su base convenzionale e nel rispetto del diritto internazionale.
L’approccio multilaterale dell’ASEAN è diametralmente opposto a quello tenuto da Pechino negli ultimi anni. Dagli anni Novanta, infatti, il governo cinese ha preferito lasciare irrisolte le dispute internazionali, procedendo di volta in volta al consolidamento dei
propri guadagni territoriali e imponendo la propria posizione con la deterrenza militare, economica e diplomatica; ma soprattutto la Cina ha cercato di dividere il fronte opposto con un approccio bilaterale, negando all’ASEAN la possibilità di interferire nella questione. Da ultimo, Pechino, per rafforzare la propria posizione nell’area, ha proceduto con una sorta di colonizzazione degli arcipelaghi disputati: in tal senso va
considerata la creazione della città di Sansha, in
un’isola delle Paracelso, e il suo riconoscimento dello
status di prefettura.
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lippine, il paese forse più esposto all’espansionismo cinese. Nell’occasione è stato raggiunto un accordo militare che prevede il ritorno di truppe americane nell’arcipelago dopo più di vent’anni dal referendum indetto da Corazon Aquino con il quale vennero chiuse le basi militari straniere.
Il Mar Cinese Meridionale è uno spazio disputato. Tutti i protagonisti dello scontro hanno
dato una loro interpretazione soggettiva per accampare pretese sul medesimo spazio. Tale interpretazione soggettiva non è in realtà la ragione scatenante dello scontro: essa appare più
come una copertura ideale per legittimare l’eventuale possesso del Mare. Nelle sue acque, infatti,
scorrono interessi geopolitici ed economici che vanno ben al di là della mera conquista territoriale per
riequilibrare i conti della storia e della geopolitica.
La disputa del Mar Cinese Meridionale è, semmai, una spia del più ampio processo che ha reso
il sistema internazionale più fluido e nel quale ha
fatto ricomparsa l’interpretazione soggettiva dello spazio per giustificare le mire espansionistiche
della potenza di turno.
La bellicosità cinese, inoltre, ha spinto gli atri
protagonisti della vicenda ad avvicinarsi ulteriormente agli Stati Uniti, i quali si sono precipitati in
zona. Per Washington, l’area riveste un’importanza
capitale, come spesso dichiarato nell’argomentare la strategia che ha nel pivot to Asia il futuro della politica estera americana. L’interesse americano è in questo caso duplice: da un lato vuole far
sentire la sua capacità di deterrenza nei confronti della potenza cinese; dall’altro si propone di farsi garante dei principi di risoluzione multilaterale e pacifica delle controversie internazionali e della libertà di accesso alle rotte di comunicazione marittime: questioni, queste, messe in discussione dall’atteggiamento cinese. L’approccio multilaterale
americano, inoltre, è funzionale al mantenimento
dell’unità di quegli Stati che costituiscono la parte meridionale della prima catena di isole che nella visione di Washington dovrebbero fungere da
barriera contro l’espansionismo di Pechino.
Il progressivo avvicinamento tra Washington
e gli Stati dell’ASEAN si è rinnovato, lo scorso aprile, con l’ultimo viaggio di Barack Obama nell’area.
Di particolare rilevanza è stata la visita nelle Fi-
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IL REATO DI CAPORALATO
Diritto del lavoro
di Giulio D’Imperio
In attesa della definitiva approvazione della nuova
norma sul caporalato e lavoro nero, all’esame del Governo, poniamo l’attenzione su quella che è, ad oggi, la
disciplina per contrastare il fenomeno del “caporalato”.
Svariati sono i provvedimenti posti in essere per provare
ad arginare tale reato che, nonostante sia disciplinato
dall’articolo 12 del DL 138 del 13 agosto 2011, successivamente trasformato nella L.148 del 14 settembre
2011, è un fenomeno non ancora debellato. Ad oggi, la
Regione Puglia, una delle regioni maggiormente colpite dal fenomeno, ha provato a scoraggiare gli imprenditori agricoli a far ricorso ai caporali per assumere lavoratori, con una deliberazione di giunta n.2017 del 13
settembre 2011, pubblicata sul BURP n.155 del 6 ottobre 2011. La sua azione consiste nell’istituire elenchi di
prenotazione in agricoltura su base provinciale/territoriale in cui possono iscriversi, in maniera del tutto volontaria, tutti i lavoratori che intendono essere assunti
o riassunti presso le imprese agricole.
L’INPS dal canto suo con la circolare n.147/2015 ha
chiarito che per il comparto agricolo sono previsti controlli con cui si intende costantemente a verificare l’eventuale “incongruità contributiva”, con cui si intende debellare sia il lavoro nero, i falsi rapporti di lavoro e le conseguenti erogazioni indebite elargite dall’Istituto ai lavoratori.
pur di ridurre gli importi contributivi da versare all’INPS,
hanno indicato nel modello DMAG caratteristiche contributive, in modo particolare “zona Tariffaria” e “Tipo
Ditta”, risultate differenti ed incongruenti rispetto a quelle indicate dalla sede Inps a seguito della presentazione della D.A. (Denuncia Aziendale). In questo modo l’istituto previdenziale avrà la possibilità di giungere ad effettuare un recupero contributivo degli importi non versati correttamente a seguito delle indicazioni errate riportate nel DMAG.
Inoltre, la piattaforma informatica attivata dall’INPS
verrà sviluppata con ulteriori sezioni finalizzate a
svolgere i seguenti controlli:
- Verifica dei tipi di contratto e delle somme compensate dalle aziende;
- Verifica del versamento del contributo di solidarietà;
- Controllo di congruità del fabbisogno di manodopera.
Per quanto attiene ai tipi di contratto e degli importi
compensati dalle aziende l’Inps sta predisponendo una
procedura che, così come previsto per le aziende UNIEMENS, ha come finalità verificare sia la congruità che la
correttezza:
- delle tipologie contrattuali dichiarate nel flusso
DMAG per ogni singolo lavoratore agricolo per il quale
si paga una contribuzione per la quale è previsto un beneficio e/o riduzione subordinati alla regolarità contributiva dell’azienda;
- degli importi a credito riportati sul modello F24 dalle aziende a titolo di anticipo prestazioni corrisposte ai
lavoratori.
Le misure adottate dall’INPS contro il lavoro irregolare
in agricoltura
L’INPS al punto 8.2 della Circolare n.147 del 7 agosto 2015 ha inteso chiarire agli imprenditori agricoli
come provvederà a contrastare tutti i comportamenti non
regolari posti in essere dai datori di lavoro agricolo che
instaurano rapporti di lavoro non regolari.
L’aver sviluppato la piattaforma informatica TUTORAGRI ha come obiettivo quello di far emergere e contrastare comportamenti, posti in essere dal datore di lavoro agricolo, non regolari o quanto meno anomali.
Da una prima analisi effettuata dall’istituto previdenziale è emerso che alcuni datori di lavoro agricolo
Per quanto attiene la verifica del contributo di solidarietà si sta predisponendo una nuova sezione del Tutor Agri per verificare la congruità tra le somme riportate nel quadro “C” del flusso DMAG ai fini dell’assoggettamento a contribuzione di solidarietà,. L’istituto previdenziale chiarisce che l’omessa e/o insufficiente dichiarazione degli importi comporta una omissione
contributiva totale e/o parziale.
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Al controllo di congruità del fabbisogno di manodopera che si attua per prevenire fenomeni non regolari ed
eventuali truffe, si sta collaudando un’altra applicazione che ha come finalità:
Le aziende che si iscriveranno alla Rete di lavoro
agricolo avranno come beneficio quello di distinguersi dalle aziende agricole che agiscono in modo irregolare. La Rete sarà gestita da una cabina di Regia, presieduta da un rappresentante dell’Inps, che di fatto avrà
il compito di sovraintendere alla Rete di lavoro agricolo
di qualità.
I componenti la cabina di Regia non riceveranno alcun compenso né rimborsi spesa e saranno individuati in un rappresentante del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, in un rappresentante del Ministero
delle politiche agricole e forestali, in un rappresentante del Ministero dell’economia e delle finanze, in un rappresentante dell’Inps e dalla Conferenza delle regioni
e province autonome di Trento e Bolzano, da tre rappresentanti dei lavoratori subordinati, da tre rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori autonomi
dell’agricoltura. Spetterà organizzazioni sindacali a carattere nazionale maggiormente rappresentative individuare i rappresentanti dei lavoratori.
I compiti affidati alla cabina di regia sono i seguenti:
- l’individuazione di falsi rapporti di lavoro;
- l’individuazione di aziende a rischio di utilizzo di
lavoro nero e/o irregolare;
- la riduzione di prestazioni indebite.
In pratica l’INPS, considerando i dati culturali che
l’azienda spontaneamente ha dichiarato con la Denuncia Aziendale (D.A.), effettuerà un calcolo con specifici algoritmi per stabilire il corretto fabbisogno tendenziale per anno solare.
Il risultato ottenuto verrà, in un primo momento,
confrontato con il valore del fabbisogno di manodopera che l’azienda ha dichiarato nel quadro “E” del modello di Denuncia Aziendale (D.A.) e qualora dovesse
verificarsi un notevole scostamento, si cercherà di individuare, attraverso un sistema di semafori, le aziende che dovranno essere sottoposte ad un eventuale controllo preventivo.
Successivamente, il valore elaborato dalla procedura dovrà essere confrontato anche con le giornate
che sono state dichiarate durante l’anno attraverso il
flusso DMAG in modo da individuare e sottoporre a
controllo le aziende che presentano dati non congrui
prima che si proceda alla compilazione degli elenchi
nominativi dei braccianti agricoli, che rappresentano
la base su cui effettuare il pagamento delle prestazioni
ai lavoratori.
- deliberare sulle domande di partecipazione alla Rete
del lavoro agricolo di qualità, entro trenta giorni dalla
presentazione delle stesse;
- escludere dalla Rete del lavoro agricolo di qualità
tutte le imprese che dopo essersi iscritte perdono i requisiti per poterci rimanere;
- redigere e tenere aggiornato l’elenco delle imprese agricole che partecipano alla Rete, avendo cura di pubblicarlo sul sito internet dell’INPS;
- far giungere proposte al Ministero del lavoro e delle politiche sociali e dal Ministero delle politiche agricole e forestali per quanto attiene rispettivamente la materia di lavoro e legislazione sociale riguardante il comparto agricolo.
La rete di lavoro agricolo di qualita’
L’INPS con un proprio comunicato stampa datato
28 agosto 2015 ha precisato che a partire dal 1° settembre 2015 le aziende agricole “virtuose” hanno la possibilità di poter presentare domanda di adesione alla
Rete del lavoro agricolo di qualità, attraverso un apposito
servizio telematico che lo stesso istituto previdenziale mette a disposizione.
Le aziende che intendono iscriversi dovranno entrare nel sito dell’INPS e seguire il seguente percorso:
Servizi on line > Accedi ai servizi > Per tipologia di utente > Aziende, consulenti e professionisti > Agricoltura:
domanda iscrizione alla rete del lavoro agricolo di qualità.
Potranno presentare la domanda di iscrizione alla
Rete di lavoro agricolo di qualità le imprese agricole, individuate dall’articolo 2135 del codice civile, purché in
possesso dei seguenti requisiti:
- non aver subito condanne penali e non avere procedimenti penali in corso a seguito di violazioni della
normativa sia in materia di lavoro, di legislazione sociale che in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto;
- non aver subito, negli ultimi tre anni, sanzioni am-
49
ministrative definitive a seguito delle violazioni previste
al punto precedente;
- essere in regola con il pagamento dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi.
tribuzione difforme diventa necessario avere dei testimoni, perché se si è retribuiti in contanti sarà difficile
dimostrarlo.
Se, invece, si imponesse la tracciabilità dei pagamenti
delle retribuzioni dei lavoratori, qualunque siano gli importi da elargire ai dipendenti, tutto diventerebbe un più
semplice e credibile.
Un aspetto su cui il legislatore non è stato del tutto chiaro è: per identificare l’esistenza del reato di sfruttamento
di manodopera sia sufficiente rilevare l’applicazione di
uno solo di questi indicatori?
La sanzione prevista per il caporale è sia di natura
penale che amministrativa, prevedendo pene che variano
da cinque ad otto anni oltre ad una multa compresa tra
€1.000 ed € 2.000 per ogni lavoratore reclutato.
Il legislatore ha previsto un aumento di pena fino
alla metà delle sanzioni previste in presenza di specifiche aggravanti, ovvero quando il reato di intermediazione illecita viene compiuto:
Le sanzioni previste per chi svolge attivita’ di caporalato
L’articolo 12 del DL 138/2011, per definire tale reato ha introdotto due nuovi articoli del codice penale: l’articolo 603 bis e l’articolo 603-ter che puniscono “chiunque svolga una attività organizzata di intermediazione,
reclutando manodopera od organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia, o intimidazione approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori”.
Per meglio comprendere cosa si intende per sfruttamento di manodopera sono stati stabiliti gli indici di
sfruttamento:
- la sistematica retribuzione dei lavoratori in modo palesemente differente da quanto previsto dalla contrattazione collettiva nazionale, oppure sproporzionato rispetto
sia alla qualità che alla quantità del lavoro svolto;
- la sistematica violazione della norma riguardante
l’orario di lavoro, il riposo settimanale, l’aspettativa obbligatoria e le ferie;
- la sussistenza di violazioni della normativa in materia di sicurezza ed igiene nei luoghi di lavoro che espongono il lavoratore a pericolo per la sua salute, la sicurezza o l’incolumità personale;
- la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza, o situazioni di alloggio particolarmente degradanti.
- nei confronti di un numero di lavoratori superiore a tre;
- nei confronti di lavoratori minori under 16, ovvero
nei confronti di coloro che non sono in età lavorativa;
- esponendo i lavoratori a situazioni di grave pericolo,
considerando le prestazioni lavorative da svolgere e le
condizioni di lavoro.
Per colui che compie il reato di intermediazione illecita è prevista l’esclusione per due anni da agevolazioni,
finanziamenti, contributi e sussidi elargiti sia dallo Stato, da Enti pubblici e dall’Unione Europea per il settore
per il quale è stato compiuto il reato. Nel caso di recidiva l’esclusione sarà aumentata da due a cinque anni
quando la recidività riguarda un nuovo delitto non colposo della stessa indole del precedente, e quando il nuovo delitto è stato svolto durante o dopo l’esecuzione della pena, oppure durante il tempo in cui il condannato
volontariamente si sottrae all’esecuzione della pena.
Inoltre, nei confronti di chi compie il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro verrà applicata l’interdizione dagli uffici direttivi riferiti alle persone giuridiche, ovvero consigli di amministrazione, cariche di amministratori, etc.
Invece, le imprese che compiranno il reato di intermediazione e sfruttamento del lavoro non potranno
concludere contratti di appalto, di cottimo fiduciario, di
fornitura di beni, opere e servizi riguardanti la pubblica amministrazione ed i relativi contratti di subfornitura.
Considerando quanto previsto dagli indicatori è opportuno precisare che potrebbe diventare difficile provare l’esistenza del reato di sfruttamento di manodopera
provando, ad esempio, che i lavoratori vengono retribuiti
in maniera difforme da quanto previsto dalla contrattazione collettiva nazionale.
Infatti, potrebbe capitare che il lavoratore “sfruttato” sia regolarmente assunto a cui viene elargita una busta paga nel pieno rispetto di quanto previsto dalla contrattazione collettiva nazionale, ma di fatto il lavoratore viene ad essere retribuito in contanti con un importo inferiore a quello riportato nella busta paga. Dimostrare che si sia verificato l’indicatore relativo alla re-
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IL DIRITTO DI RIELABORAZIONE DELLE OPERE
CINEMATOGRAFICHE CADUTE IN PUBBLICO DOMINIO
di Alessandro Della Ragione e Luca Patruno
zione2 di cui godono le parti letterarie e musicali
da essi create, i diritti di sfruttamento economico
che acquisisce il produttore sull’opera che ha realizzato, definiti nel loro contenuto dall’art. 78-ter
LDA, hanno carattere relativo (e sono, infatti,
qualificati dalla legge, al pari di quelli attribuiti ad
altre categorie di soggetti quali gli artisti esecutori interpreti, come diritti “connessi”, per via della
loro natura e funzione ancillare rispetto ai diritti
d’Autore c.d. “pieni”) ed un contenuto assai più ridotto. Fra essi figura il diritto:
a) di autorizzare la riproduzione diretta o indiretta, temporanea o permanente, in qualunque
modo o forma, in tutto o in parte, degli originali e
delle copie delle proprie realizzazioni;
b) di autorizzare la distribuzione con qualsiasi mezzo, compresa la vendita, dell'originale e delle copie di tali realizzazioni;
c) di autorizzare il noleggio ed il prestito dell'originale e delle copie delle sue realizzazioni;
d) di autorizzare la messa a disposizione del
pubblico dell'originale e delle copie delle proprie
realizzazioni, in maniera tale che ciascuno possa
avervi accesso dal luogo e nel momento scelti individualmente.
La diversa natura ed il diverso contenuto delle categorie dei diritti in esame si riverbera anche
nella disciplina relativa alla loro durata: mentre infatti a norma dell’art. 32 LDA i diritti di utilizzazione economica vantati dagli Autori dell’opera cinematografica sulle parti letterarie e musicali da
esse realizzate e segnatamente del “…direttore artistico, gli autori della sceneggiatura, ivi compreso
Diritto d’autore
Cosa comporta per un produttore la decisione di
procedere alla rielaborazione di un’opera cinematografica o audiovisiva caduta in pubblico dominio?
Per analizzare compiutamente le problematiche poste dal quesito e fornire una risposta esauriente occorre muovere dall’individuazione degli autori
dell’opera cinematografica1, dalla definizione del
ruolo svolto dal produttore e all’analisi del tipo di
diritti in capo ad essi configurabili.
A norma dell’art. 44 L. 633 del 22.04.1941 (Legge sul Diritto d’Autore, di seguito indicata anche
solo come LDA) sono da considerarsi autori dell’opera cinematografica l’autore del soggetto, quello della sceneggiatura, l’autore della musica ed il
“direttore artistico” ossia il regista (di seguito separatamente o cumulativamente definiti anche solo
gli “Autori”).
Il produttore invece è, a norma dell’art. 45 LDA,
colui il quale ha organizzato la produzione dell’opera cinematografica sostenendone i costi ed i
rischi, reperendo i necessari mezzi finanziari e tecnici e gestendo i c.d. “rapporti fondamentali”
(quelli relativi alla commissione o all’acquisto delle parti letteraria e musicale, nonché quello con il
regista e con gli attori), in modo da dare vita ad un
quid novi rispetto ai singoli contributi autoriali e
tecnici, di cui egli acquista a titolo originario alcuni
specifici diritti di sfruttamento economico.
Mentre, tuttavia, i diritti vantati dagli Autori dell’opera cinematografica sul risultato della loro individuale attività creativa, definiti nel loro contenuto dagli artt. 12 e segg. LDA, hanno carattere pieno ed assoluto in virtù dell’autonoma considera-
1 Sul dibattito relativo all’applicabilità in generale delle norme dettate dalla L. 633 del 22.04.1041 anche alle opere televisive ed audiovisive, oggi superato dal progressivo avvicinamento del prodotto (e del produttore)
cinematografico a quello televisivo ad opera delle norme nazionali e comunitarie, cfr. Gino Galtieri “Telefilm e diritto d’Autore”, in Dir. Aut. 1987, pag. 251 e, prima ancora, Vittorio De Sanctis, “In tema di opere cinematografiche e di opere televisive”, in Dir. Aut. 1965, pag. 123.
2 L’art. 49 LDA attribuisce, infatti, agli autori delle parti letterarie (soggetto, sceneggiatura, trattamento, ecc.) e musicali di un’opera cinematografica la facoltà di procedere ad uno sfruttamento autonomo delle stesse,
ponendo quale unica condizione che l’uso separato non venga a confliggere con il diritto del produttore alla utilizzazione economica dell’opera cinematografica realizzata.
51
l’autore del dialogo, e l’autore della musica specificamente creata per essere utilizzata nell’opera cinematografica o assimilata”3 durano sino al termine
del settantesimo anno dopo la morte dell’ultima
persona fra questi ultimi sopravvissuta, la durata
dei diritti del produttore cinematografico (o assimilato) è pari, a norma dell’art. 78-ter e 85-quinquies, a cinquanta anni a decorrere dal 1° gennaio
dell’anno successivo a quello della fissazione o, in
caso di pubblicazione o comunicazione al pubblico, dal primo fra questi due eventi che si sia verificato.
Decorsi i termini di cui sopra, i diritti rispettivamente degli Autori e quelli del produttore cadono
in pubblico dominio, con la contestuale ed automatica acquisizione delle creazioni e delle attività sulle quali essi insistono al patrimonio collettivo, e pertanto possono essere esercitati liberamente
da chiunque, venendo meno il rapporto di esclusività con il precedente titolare.
La differente durata delle suddette categorie di
diritti acquisisce particolare rilevanza proprio
con riferimento all’ipotesi un cui un produttore decida di realizzare un rifacimento4 di un’opera cinematografica caduta in pubblico dominio.
Il diritto di rielaborare l’opera cinematografica (che non consista nell’atto di trarre semplice
"ispirazione" da elementi preesistenti in un'opera
precedente, perfettamente lecita e coerente con l'intero sistema della proprietà intellettuale, che non
consente la protezione della semplice "idea") implica, infatti, un’attività che, solitamente, coinvolge non solo l’opera in quanto tale (ovvero il film inteso quale successione di immagini in movimen-
to), ma anche le parti letterarie sulle quali essa è
fondata, e fra esse innanzitutto la sceneggiatura e,
sebbene in misura minore, il soggetto.
E’, infatti, difficile ipotizzare il rifacimento di
un film che non comporti il contestuale e proporzionale rifacimento della sceneggiatura e del soggetto. Una simile ipotesi potrebbe darsi nel caso,
più che altro di scuola, in cui il film girato dal regista e realizzato dal produttore si discosti totalmente dalla sceneggiatura (ivi inclusi i dialoghi) e
dal soggetto originali in virtù delle improvvisazioni
degli attori e/o di un montaggio a seguito del quale sia stato inserito nel film materiale eteronegeo
non riconducibile all’opera degli autori e degli interpreti. Non è, tuttavia, escluso (ed anzi è frequente
nei film che si caratterizzano per la capacità di improvvisazione di certi attori5) che singole battute
o piccole porzioni del film si discostino dalla sceneggiatura e dal soggetto, divenendo irriconducibili a questi ultimi, e facendo sorgere i relativi diritti di sfruttamento economico direttamente in
capo al produttore cinematografico che ha commissionato l’opera interpretativa all’attore e l’opera di direzione artistica al regista, acquisendone i
correlativi diritti.
In tutti gli altri casi, e si tratta della maggioranza, la rielaborazione di un’opera implica necessariamente la rielaborazione delle parti letterarie
sottostanti.
Ciò impone anzitutto una riflessione sulla riconducibilità del diritto di rielaborazione ad entrambe le categorie di diritti sopra individuate (quella degli Autori dell’opera e quella del produttore
della stessa) o ad una sola di essa, ed in secondo
3 Dall’elencazione dell’art. 32 risulta escluso l’autore del soggetto, che pertanto sembra non potersi giovare della maggior durata dei diritti in esame rispetto a quelli connessi del produttore cinematografico.
4 Le considerazioni sopra svolte con riferimento ai rifacimenti (o rielaborazioni, più comunemente indicate come “remake”) di un’opera preesistente possono essere estese a tutte le opere c.d. “derivate” quali, nel caso
dell’opera cinematografica, audiovisiva o assimilata, i c.d. “prequel”, “sequel”, “spin off”, ecc . In particolare mentre il "remake" consiste nel rifacimento di una preesistente opera, il “sequel” (o “diritto di seguito”), ponendosi in rapporto di derivazione dall'opera originaria, consiste nella continuazione “cronologica” di quest'ultima all'interno del medesimo "universo narrativo". La stessa giurisprudenza ha definito il diritto di seguito come "... il diritto di realizzare un'opera che si presenti in qualche misura collegata con la precedente: come continuazione e sviluppo della prima o come generica comunanza di elementi e caratteri di identificazione" (Pret. Roma 29 ottobre 1990). Il "prequel", anch'esso caratterizzato dal rapporto di comunanza riguardo agli elementi creativi della prima opera, consiste nella rappresentazione degli eventi cronologicamente antecedenti a quelli dell'opera originaria. Il c.d. "spin-off" costituisce anch'esso un'opera derivata, che si caratterizza per la medesima ambientazione dell'opera principale, ma si focalizza su personaggi di minor rilievo rispetto agli originari "protagonisti", che vengono pertanto "elevati" di ruolo.
5 Basti pensare ai film interpretati dal “principe della risata” Totò, al secolo Antonio De Curtis, che sovente inseriva nei dialoghi battute, modi di dire e giri di parole di sua creazione, discostandosi pertanto dalla sceneggiatura originale.
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ta del medesimo produttore che ha realizzato il film
originale) a mezzo di contratto dagli Autori delle
relative parti letterarie (o dai loro aventi causa in
virtù di atti disposti inter vivos o mortis causa), il
diritto di rielaborazione di queste ultime.
In alternativa occorrerà attendere il compimento del settantesimo anno dopo la morte dell’ultimo degli Autori secondo l’ordine indicato dall’art. 32 LDA.
Le conclusioni che precedono sono confortate dalla sentenza n° 1722 del 19 maggio 19698, emanata dalla Corte Suprema di Cassazione a conclusione del lungo e tormentato giudizio che ha riguardato il film muto “Cabiria”, tratto nel 1914 dall’omonima opera di Gabriele D’Annunzio. Con tale
esemplare sentenza, cui tutta la successiva giurisprudenza di merito si è conformata e la migliore
dottrina9 si è dichiarata concorde, la Suprema Corte ha chiarito in modo inequivocabile che mentre
la scadenza ed il conseguente passaggio in pubblico
dominio dei diritti connessi del produttore cinematografico sull’opera prodotta di cui agli artt. 78ter e 85-quinquies della L. 633 del 22.04.1941 si verificano decorsi trenta (oggi cinquanta) anni dal 1°
gennaio dell’anno successivo alla prima proiezione in pubblico dell’opera, quella dei diritti assoluti di sfruttamento economico delle parti letterarie
dell’opera cinematografica, che il produttore della stessa acquisisce a titolo derivativo dagli Autori si verifica, ex art. 32 L. 633/41, unicamente decorsi cinquanta (oggi settanta)10 anni dalla morte
dell’ultimo di essi.
luogo una verifica del tempo trascorso dall’evento cui la legge ricollega la caduta in pubblico dominio di ciascuna di esse.
Sotto il primo profilo occorre osservare che il
diritto di rielaborazione rientra fra le facoltà
esclusive riservate all’Autore dall’art. 12 e segg. LDA
(e segnatamente dall’art. 18 LDA) ma non anche fra
i diritti cd. “connessi” attribuiti al produttore dall’art. 78-ter LDA. Cionondimeno gli Autori possono cedere espressamente (e ordinariamente per
prassi contrattuale cedono) per contratto il suddetto diritto6 al produttore.7
Ciò comporta che, pur quando siano decorsi i
cinquanta anni previsti dagli artt. 78-ter e 85-quinquies LDA, la rielaborazione dell’opera non sia liberamente effettuabile, poiché ad essere caduti in
pubblico dominio sono unicamente i diritti connessi
del produttore cinematografico, che riguardano,
come abbiamo visto, unicamente lo sfruttamento
dell’opera così com’è stata realizzata e non comprendono il diritto di procedere alla sua rielaborazione.
Quest’ultimo diritto, infatti, nasce unicamente in capo agli Autori delle parti letterarie in virtù
della loro creazione, che può essere autonoma (nel
caso di testi letterari preesistenti al film, quali romanzi, opere teatrali, ecc.) o commissionata dal produttore (nel caso di soggetti e sceneggiature). Pertanto, il produttore che intenda effettuare un rifacimento di un film decorsi 50 anni dal 1° gennaio
della sua prima proiezione in pubblico, dovrà specificamente acquisire (o aver acquisito, se si trat-
6 A norma di quanto risulta dal combinato disposto degli artt. 19 e 110 19 LDA, per poter essere efficace ed opponibile ai terzi, l’atto dispositivo di un diritto di sfruttamento economico posto dalla LDA e dalle leggi che
fanno rinvio a quest’ultima deve risultare da una specifica ed esplicita menzione contrattuale, che individui il tipo di diritto oggetto di disposizione.
7 Il diritto di rielaborazione non va confuso con il diritto di procedere alla mera “riduzione cinematografica”. La rielaborazione consiste, infatti, in un’attività volta a creare una nuova opera (cd. “opera derivata”) a partire da quella originale (l’opera rielaborata) nella creazione di una, con contestuale acquisizione a titolo originario da parte del rielaboratore di un diritto d’autore pieno ed assoluto sulla medesima. Dal punto di vista contrattuale il diritto in esame si esprime anche nella facoltà di trarre dal medesimo testo letterario uno o più opere cinematografiche, televisive, audiovisive, ecc.. Il diritto di riduzione cinematografica si configura invece
più esattamente con riferimento alle opere letterarie non realizzate appositamente per il cinema (si pensi ad un romanzo), poiché esse appunto, a differenza delle sceneggiature, hanno bisogno di essere adattate dal punto di vista narrativo (con la trasformazione dei capitoli in scene, ecc.) per essere rappresentate con il mezzo della cinematografia (ma lo stesso vale oggi per la televisione, o il web).
8 In Riv. Dir. Ind. 1972, pag. 50, con nota di Gian Paolo Savi.
9 Cfr. Giorgio Jarach e Alberto Pojaghi, “Manuale del Diritto d’Autore” Mursia, 2011, pag. 99; V.M. De Sanctis, “La protezione delle opere dell’ingegno”, Giuffrè, 1999, par. 2.2.2., pagg. 277 e segg.
10 La durata del diritto d’autore è stata portata dai 30 anni a 50 anni dal D.P.R. 8 gennaio 1979, n. 19 e successivamente a 70 anni in virtù della L. n. 52 del 06.02.1996 di attuazione della direttiva CE 98/93 e quella dei
diritti connessi del produttore cinematografico è stata parallelamente portata dagli originari 30 anni a 50 anni.
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LA NUOVA CITTA’ INTERIORE:
TRASFORMAZIONE URBANA: LA RIGENERAZIONE ARMONICA
DECOROSA E DI BELLEZZA DELLA CITTA’ CONTEMPORANEA
di Mario Arcidiacono
Pianificazione urbanistica
Premessa
Grazie alla sensibilità del Comitato di redazione di
questa Rivista sulle tematiche urbanistiche ed architettoniche, si apre una nuova rubrica dedicata allo
spazio vitale dell’uomo, ovvero la manifestazione
esteriore della sua visione interiore: la generazione
urbana lo spazio naturale antropomorfizzato.
La rubrica si pone l’alto obiettivo di portare a tutti
i lettori, con argomenti semplificati, la conoscenza
dei concetti dell’urbanizzazione, spazi che inconsapevolmente ogni giorno viviamo, attraverso un percorso generativo di trasformazione urbana attraverso
la rigenerazione per una nuova città interiore.
gnifica, infatti, mettere in gioco da un lato molte più
componenti della città e del suo territorio che non
i soli circoscritti ambiti oggetto della prima, mentre,
d’altro lato, significa considerare tutte le risorse che
riguardano l’economia delle città, per rispondere attraverso il loro contributo alle domande di miglioramento della condizione abitativa e dei servizi relativi, di dotazione di spazio pubblico per le parti
che ne sono prive e qualificazione e fruizione per
quello esistente, di sviluppo dell’economia e dell’occupazione per le popolazioni urbane in crescita.
Un approccio finalizzato a liberare innanzitutto le risorse presenti nelle città, che si affida quindi alle potenzialità endogene, sostenute anche da una
sostanziale revisione della fiscalità locale, ma che
non potrà prescindere da un intervento dello Stato
e delle Regioni con uno specifico impegno “esogeno” nelle “politiche per le città”, finalizzato a promuovere e finanziare gli interventi che non possono essere sostenuti dalle Amministrazioni Locali,
come quelli relativi alla mobilità, al trasporto pubblico e alle infrastrutture energetiche.
Un impegno del quale c’è stata un primo segnale
ed una prima parziale anticipazione nel 2012 con
il “Piano città”, la cui definizione programmatica è
stata consolidata con la costituzione del Comitato
Interministeriale per le Politiche Urbane (CIPU) all’inizio di quest’anno; iniziative che devono essere
riprese e adeguatamente sviluppate partendo da una
Agenda Urbana Nazionale che permetta non solo alle
amministrazioni cittadine di essere direttamente
coinvolte nell’elaborazione delle strategie di sviluppo
legate alla politica di coesione 2014-2020, quanto di
sviluppare azioni integrate per lo sviluppo urbano
sostenibile legate alle città.
Se nei prossimi anni le strategie urbanistiche per
le città dovranno mutare anche in modo sostanziale,
come suggerito in queste note, non deve dunque essere attenuata la rivendicazione di una nuova poli-
Pensare alle città come motore dello sviluppo del
Paese significa pensare innanzitutto ancora in termini di sviluppo (o di crescita), seppure riferendosi a un diverso modello di sviluppo e ad una diversa crescita rispetto al passato: sono ancora troppi
i bisogni non soddisfatti, di lavoro, abitazione mobilità e servizi, per pensare ad una prospettiva diversa, influenzata dalle trasformazioni dell’economia e della società che questi lunghi anni di crisi
sembrano voler stabilizzare.
Significa far riemergere dalle città la capacità di
produzione di ricchezza, pubblica e privata, che esse
posseggono, che oggi appare sopita e che può tuttavia essere liberata da un cambiamento radicale del
modo di considerare le città e dei conseguenti strumenti d’intervento, mettendo in discussione gran
parte delle certezze e dei paradigmi che abbiamo costruito nel passato, anche in quello più recente, sia
analitici che progettuali.
Ciò significa fare della rigenerazione urbana il
punto centrale intorno al quale ridefinire la nuova
strumentazione di intervento sulla quale fondare, sia
nel medio che nel lungo periodo, un nuovo intervento pubblico e di programmazione delle risorse.
Passare da una prospettiva di trasformazione e
riqualificazione ad una di rigenerazione urbana si
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figurare in termini del tutto diversi rispetto al passato.
Solo così, mettendo in campo le proprie energie,
politiche e progetti e con il sostegno di una politica nazionale, le città potranno esprimere quella capacità competitiva e di coesione che alla base della loro vitalità e che dovrà essere giocata sulla valorizzazione e liberazione in primo luogo delle proprie risorse specifiche.
tica per le città a carico del Governo del Paese; una
politica che in futuro possa utilizzare tutte le risorse
necessarie una volta portata a termine l’operazione
di risanamento dei conti pubblici e avviata la riduzione del debito pubblico, ma che già nell’attuale situazione di ricerca di stabilità, possa garantire il necessario sostegno ad uno scenario di sviluppo al quale concorreranno in modo determinante anche le risorse proprie delle città, che comunque si dovrà con-
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