18 sabato 11 maggio 2013 Reportage UNA NATURALISTA A PASSEGGIO «Tutto è veleno, e nulla esiste senza veleno. Solo la dose fa in modo che il veleno non faccia effetto» Paracelso || L’elleboro verde (pascoli di Potkilavac) L’insidia costante delle pian di Chiara Veranić || Colchico con foglie e ovari (prati di Gerovo) || La Cicuta L’ evoluzione della farmacopea botanica, ossia della preparazione dei medicinali da prodotti vegetali secondo formule prestabilite, a partire dalle prime ricette redatte nell’antica Cina, è stata lunga e complessa. Si può dire, anzi, che all’epoca attuale parecchie sostanze sono ancora in fase di studio e ricerca, in relazione alle potenzialità terapeutiche che se ne potrebbero ricavare. Esiste però un ramo della fitoterapia che per l’estrema difficoltà nel dosaggio e le proprietà curative soverchiate dagli effetti collaterali negativi è in gran parte caduto in disuso. Si tratta dell’impiego delle piante velenose, avvolte nel passato da un alone di mistero, che per forza di cose dovettero apparire agli antichi come fonti di magie e incantesimi, visti i terrificanti esiti che spesso sortivano sugli esseri viventi. Le frecce mortali Molti animali possiedono ghiandole atte a produrre veleni con cui difendersi o colpire le prede. Già nella preistoria, però, l’uomo che invece ne è privo, si accorse che in piccole dosi i veleni potevano tramortire se non uccidere e quindi impiegò tali sostanze per immergervi le punte delle frecce o i giavellotti, come del resto fanno ancor oggi gli indios dell’Amazzonia. La maggior parte di essi era di origine vegetale; i Galli usavano il succo dell’elleboro bianco, mentre i Celti adoperavano gli estratti o il legno del tasso. I Romani consideravano più grave l’uccisione per mezzo del veleno che non tramite la spada, reputando il primo un metodo subdolo e indegno. Conoscenza delle piante o stregoneria? Nel Medio evo, coloro che si occupavano di erboristeria e quindi conoscevano anche le proprietà delle piante velenose, venivano spesso accusati di stregoneria. Il Rinascimento, che dava grande importanza all’osservazione diretta, dette origine a una nuova fase di progresso e conoscenza. All’epoca attuale, dopo un periodo nel quale i farmaci sintetici avevano quasi soppiantato i rimedi offerti dalle piante medicinali, si assiste a un vero e proprio ritorno alla natura. Spesso, però, sulla scia della moda del momento, erboristi improvvisati si cimentano nella raccolta di piante che non conoscono e quindi scambiano con vegetali che contengono sostanze tossiche, talvolta talmente velenose da portare alla morte. In questo senso, la nostra è una regione specifica, ricca di numerose fasce climatiche e areali || Il mughetto (Monte Maggiore) particolari, dove, tra le altre, abbondano parecchie piante di questo tipo. Attenzione alle somiglianze Le specie di aconito che popolano il Monte Maggiore o i rilievi del Gorski kotar e che fioriscono tra luglio e settembre, contengono vari alcaloidi noti col nome generico di aconitine, che vengono considerati i più tossici tra i veleni vegetali conosciuti. Agiscono provocando la paralisi dei centri nervosi e altri gravi fenomeni a carico del cuore (aritmia, fibrillazione). Piantato spesso anche nei giardini per i suoi fiori ornamentali, l’aconito contiene il veleno in tutte le sue parti, radice compresa; si calcola che la dose letale per un uomo vada dai 3 agli 8 milligrammi. Del resto, risulta irritante anche nel solo contatto dermico. Nel Medio evo, ridotto in poltiglia, veniva usato per fabbricare esche avvelenate destinate alle volpi e ai lupi! Anche il veratro, che ama le stesse regioni, contiene sostanze molto tossiche, analoghe a quelle dell’aconito. Il fusto e le foglie, per un conoscitore inesperto, risultano simili a quelli della genziana maggiore (da Gentius, l’ultimo re degli Illiri), la cui radice, amarissima, veniva raccolta nel tardo autunno per le sue proprietà capaci di aumentare la secrezione gastrica favorendo la || Ciclamini (Valle delle meraviglie) Reportage ante... fatali sabato 11 maggio 2013 19 || Il Tasso (Gorski kotar) || Scopolia carniolica (Fužine) || L’aconito (monte Nevoso/Snježnik) || Fiori di colchico (Velebit meridionale) digestione e corroborando quindi l’organismo. Oggi la pianta è rigorosamente protetta! La Parca che recide il filo della vita Un altro gruppo di sostanze mortali o fortemente tossiche è quello dei cosiddetti alcaloidi delle solanacee, contenuti nelle piante di belladonna, stramonio, dulcamara, scopolia e vari altri vegetali che vanno dalle regioni insulari a quelle montane. La più nota tra queste sostanze è l’atropina, che si forma durante il processo di essiccamento della belladonna; veniva usata anticamente in dosi minime come cosmetico e dilatante delle pupille (per rendere, appunto, la donna più bella). Questa pianta erbacea perenne cresce selvatica nelle radure dei boschi montani e submontani di tutta l’Europa centro meridionale ed è frequente nel Gorski kotar. Il frutto alla maturità è una bacca carnosa nero violacea, dall’aspetto particolarmente invitante. Ne bastano però da tre a quattro per provocare tachicardia, allucinazioni, convulsioni, il coma e quindi la morte. Che fosse un veleno potente, lo sapevano già i nostri antenati, visto che la parola Atropo in greco antico significa crudele, inesorabile, ed è il nome della Parca che recide il filo della vita. Anche la scopolamina, contenuta nella Scopolia carniolica, ha per l’uomo un effetto || Il veratro (Velebit settentrionale) sedativo e narcotico molto potente e in un recente passato ha trovato applicazione nella cura di alcune forme di parkinsonismo. Errori fatali Il colchico autunnale, che in questi ultimi anni ha provocato alcuni avvelenamenti, (nel maggio scorso due addirittura mortali) contiene anch’esso un alcaloide particolare, noto col nome di colchicina. Comunissimo nei prati montani, fiorisce a fine estate, ma rinverdisce e dà e frutti solo nella primavera successiva. Le sue foglie lanceolate e lucenti possono venir scambiate con quelle dell’aglio degli orsi, che invece si distingue se non altro per il forte odore caratteristico. La dose mortale per un adulto si aggira intorno ai 70 grammi (ma è, come tutti i veleni, molto individuale); la tossicità aumenta con la temperatura, per cui l’intera pianta, ma soprattutto i semi, sono particolarmente pericolosi se ingeriti dagli esseri a sangue caldo. Gli erbivori la evitano, ma se per caso viene mangiata, riesce persino a contaminare il loro latte! Purtroppo non esiste un farmaco capace di combatterla e soprattutto dà accumulo, con conseguente paralisi, scompensi ematici, blocco renale, cianosi, collasso e morte, spesso dopo un’agonia che dura un paio di giorni. || Spighe mature di gigaro (isola di Iso/Iž) Il ciclamino... ma chi lo avrebbe mai detto Per questa estrema tossicità, pur essendo un ottimo rimedio contro la gotta, tutti i vari preparati d’un tempo, attualmente non vengono più adoperati. La scorsa primavera è capitato pure che per aglio orsino fossero scambiate le foglie del mughetto, anch’esso velenoso per la presenza dei glicosidi, impiegati un tempo nella cura delle affezioni cardiache. Queste particolari sostanze, dall’intensa azione sulle fibre muscolari cardiache, sono contenute, oltre che nei mughetti, anche in piante appartenenti a famiglie botaniche differenti, tipo varie specie di digitali ed ellebori che crescono rigogliosi anche nella nostra area. Anzi, soprattutto sui pascoli, spiccano in particolare questi ultimi, che gli animali evitano accuratamente, probabilmente perché conservano un preciso ricordo nella loro memoria genetica. Lo stesso dicasi dei ciclamini, che sulle isole (Cherso, Arbe, Veglia) prosperano in barba alle pecore, che non li brucano a causa della loro forte tossicità (contengono la ciclamina, dal potente effetto purgativo). Anche il gigaro, amante dei climi temperati, è comune nella nostra area. Il suo fiore caratteristico, simile a una calla, produce una spiga con bacche globose di color rosso. In passato veniva usato per eliminare i parassiti intestinali, ma per l’elevato contenuto di tossine (provoca tumefazione della lingua, vomito, alterazione del ritmo cardiaco e coma) si è definitivamente desistito dal suo impiego. La cicuta e la leggenda di Socrate Nel completare la serie, anche se l’elenco potrebbe annoverare numerosi altri vegetali, è necessario citare la cicuta, che rappresenta una pianta altrettanto comune, addirittura infestante dei terreni incolti, dall’odore particolarmente sgradevole. Parente della carota, porta dei fiori abbastanza simili a quest’ultima, che si aprono ad ombrella tra giugno e settembre. È nota soprattutto perché Socrate fu costretto a berne l’infuso, allorché fu condannato a morte nel 399 a.C. Anche se l’intera pianta è tossica in quanto contiene coniina, la massima concentrazione del veleno si trova nei frutti immaturi. L’intossicazione accade poiché si può confondere con l’anice. Un buon erborista dev’essere quindi soprattutto un ottimo naturalista e un discreto conoscitore delle piante. Per distinguerle, non c’è atlante o libro che tenga. Si può imparare soltanto osservandole nel loro ambiente, guidati da una persona veramente esperta. Il veleno infatti non perdona e le conseguenze spesso risultano fatali.