L`insidia costante delle piante... fatali

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sabato
11 maggio 2013
Reportage
UNA NATURALISTA
A PASSEGGIO
«Tutto è veleno,
e nulla esiste senza
veleno. Solo la dose
fa in modo
che il veleno non
faccia effetto»
Paracelso
|| L’elleboro verde (pascoli di Potkilavac)
L’insidia costante delle pian
di Chiara Veranić
|| Colchico con foglie e ovari (prati di Gerovo)
|| La Cicuta
L’
evoluzione della farmacopea
botanica, ossia della preparazione
dei medicinali da prodotti vegetali
secondo formule prestabilite, a partire dalle
prime ricette redatte nell’antica Cina, è
stata lunga e complessa. Si può dire, anzi,
che all’epoca attuale parecchie sostanze
sono ancora in fase di studio e ricerca, in
relazione alle potenzialità terapeutiche che
se ne potrebbero ricavare. Esiste però un
ramo della fitoterapia che per l’estrema
difficoltà nel dosaggio e le proprietà curative
soverchiate dagli effetti collaterali negativi
è in gran parte caduto in disuso. Si tratta
dell’impiego delle piante velenose, avvolte
nel passato da un alone di mistero, che per
forza di cose dovettero apparire agli antichi
come fonti di magie e incantesimi, visti i
terrificanti esiti che spesso sortivano sugli
esseri viventi.
Le frecce mortali
Molti animali possiedono ghiandole atte a
produrre veleni con cui difendersi o colpire
le prede. Già nella preistoria, però, l’uomo
che invece ne è privo, si accorse che in
piccole dosi i veleni potevano tramortire se
non uccidere e quindi impiegò tali sostanze
per immergervi le punte delle frecce o i
giavellotti, come del resto fanno ancor oggi
gli indios dell’Amazzonia. La maggior parte
di essi era di origine vegetale; i Galli usavano
il succo dell’elleboro bianco, mentre i Celti
adoperavano gli estratti o il legno del tasso. I
Romani consideravano più grave l’uccisione
per mezzo del veleno che non tramite
la spada, reputando il primo un metodo
subdolo e indegno.
Conoscenza delle piante o stregoneria?
Nel Medio evo, coloro che si occupavano
di erboristeria e quindi conoscevano
anche le proprietà delle piante velenose,
venivano spesso accusati di stregoneria. Il
Rinascimento, che dava grande importanza
all’osservazione diretta, dette origine a
una nuova fase di progresso e conoscenza.
All’epoca attuale, dopo un periodo nel
quale i farmaci sintetici avevano quasi
soppiantato i rimedi offerti dalle piante
medicinali, si assiste a un vero e proprio
ritorno alla natura. Spesso, però, sulla
scia della moda del momento, erboristi
improvvisati si cimentano nella raccolta
di piante che non conoscono e quindi
scambiano con vegetali che contengono
sostanze tossiche, talvolta talmente
velenose da portare alla morte. In questo
senso, la nostra è una regione specifica,
ricca di numerose fasce climatiche e areali
|| Il mughetto (Monte Maggiore)
particolari, dove, tra le altre, abbondano
parecchie piante di questo tipo.
Attenzione alle somiglianze
Le specie di aconito che popolano il Monte
Maggiore o i rilievi del Gorski kotar e che
fioriscono tra luglio e settembre, contengono
vari alcaloidi noti col nome generico di
aconitine, che vengono considerati i più
tossici tra i veleni vegetali conosciuti.
Agiscono provocando la paralisi dei centri
nervosi e altri gravi fenomeni a carico del
cuore (aritmia, fibrillazione). Piantato
spesso anche nei giardini per i suoi fiori
ornamentali, l’aconito contiene il veleno in
tutte le sue parti, radice compresa; si calcola
che la dose letale per un uomo vada dai 3
agli 8 milligrammi. Del resto, risulta irritante
anche nel solo contatto dermico. Nel Medio
evo, ridotto in poltiglia, veniva usato per
fabbricare esche avvelenate destinate alle
volpi e ai lupi! Anche il veratro, che ama
le stesse regioni, contiene sostanze molto
tossiche, analoghe a quelle dell’aconito. Il
fusto e le foglie, per un conoscitore inesperto,
risultano simili a quelli della genziana
maggiore (da Gentius, l’ultimo re degli Illiri),
la cui radice, amarissima, veniva raccolta nel
tardo autunno per le sue proprietà capaci di
aumentare la secrezione gastrica favorendo la
|| Ciclamini (Valle delle meraviglie)
Reportage
ante... fatali
sabato
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|| Il Tasso (Gorski kotar)
|| Scopolia carniolica (Fužine)
|| L’aconito (monte Nevoso/Snježnik)
|| Fiori di colchico (Velebit meridionale)
digestione e corroborando quindi l’organismo.
Oggi la pianta è rigorosamente protetta!
La Parca che recide il filo della vita
Un altro gruppo di sostanze mortali o
fortemente tossiche è quello dei cosiddetti
alcaloidi delle solanacee, contenuti nelle
piante di belladonna, stramonio, dulcamara,
scopolia e vari altri vegetali che vanno dalle
regioni insulari a quelle montane. La più
nota tra queste sostanze è l’atropina, che si
forma durante il processo di essiccamento
della belladonna; veniva usata anticamente
in dosi minime come cosmetico e dilatante
delle pupille (per rendere, appunto, la donna
più bella). Questa pianta erbacea perenne
cresce selvatica nelle radure dei boschi
montani e submontani di tutta l’Europa centro
meridionale ed è frequente nel Gorski kotar.
Il frutto alla maturità è una bacca carnosa
nero violacea, dall’aspetto particolarmente
invitante. Ne bastano però da tre a quattro
per provocare tachicardia, allucinazioni,
convulsioni, il coma e quindi la morte. Che
fosse un veleno potente, lo sapevano già i
nostri antenati, visto che la parola Atropo in
greco antico significa crudele, inesorabile, ed
è il nome della Parca che recide il filo della
vita. Anche la scopolamina, contenuta nella
Scopolia carniolica, ha per l’uomo un effetto
|| Il veratro (Velebit settentrionale)
sedativo e narcotico molto potente e in un
recente passato ha trovato applicazione nella
cura di alcune forme di parkinsonismo.
Errori fatali
Il colchico autunnale, che in questi ultimi
anni ha provocato alcuni avvelenamenti,
(nel maggio scorso due addirittura mortali)
contiene anch’esso un alcaloide particolare,
noto col nome di colchicina. Comunissimo
nei prati montani, fiorisce a fine estate, ma
rinverdisce e dà e frutti solo nella primavera
successiva. Le sue foglie lanceolate e lucenti
possono venir scambiate con quelle dell’aglio
degli orsi, che invece si distingue se non
altro per il forte odore caratteristico. La
dose mortale per un adulto si aggira intorno
ai 70 grammi (ma è, come tutti i veleni,
molto individuale); la tossicità aumenta con
la temperatura, per cui l’intera pianta, ma
soprattutto i semi, sono particolarmente
pericolosi se ingeriti dagli esseri a sangue
caldo. Gli erbivori la evitano, ma se per caso
viene mangiata, riesce persino a contaminare
il loro latte! Purtroppo non esiste un
farmaco capace di combatterla e soprattutto
dà accumulo, con conseguente paralisi,
scompensi ematici, blocco renale, cianosi,
collasso e morte, spesso dopo un’agonia che
dura un paio di giorni.
|| Spighe mature di gigaro (isola di Iso/Iž)
Il ciclamino... ma chi lo avrebbe mai detto
Per questa estrema tossicità, pur essendo
un ottimo rimedio contro la gotta, tutti i
vari preparati d’un tempo, attualmente non
vengono più adoperati. La scorsa primavera
è capitato pure che per aglio orsino fossero
scambiate le foglie del mughetto, anch’esso
velenoso per la presenza dei glicosidi,
impiegati un tempo nella cura delle affezioni
cardiache. Queste particolari sostanze,
dall’intensa azione sulle fibre muscolari
cardiache, sono contenute, oltre che nei
mughetti, anche in piante appartenenti a
famiglie botaniche differenti, tipo varie specie
di digitali ed ellebori che crescono rigogliosi
anche nella nostra area. Anzi, soprattutto
sui pascoli, spiccano in particolare questi
ultimi, che gli animali evitano accuratamente,
probabilmente perché conservano un preciso
ricordo nella loro memoria genetica. Lo stesso
dicasi dei ciclamini, che sulle isole (Cherso,
Arbe, Veglia) prosperano in barba alle pecore,
che non li brucano a causa della loro forte
tossicità (contengono la ciclamina, dal potente
effetto purgativo). Anche il gigaro, amante dei
climi temperati, è comune nella nostra area.
Il suo fiore caratteristico, simile a una calla,
produce una spiga con bacche globose di color
rosso. In passato veniva usato per eliminare i
parassiti intestinali, ma per l’elevato contenuto
di tossine (provoca tumefazione della lingua,
vomito, alterazione del ritmo cardiaco e
coma) si è definitivamente desistito dal suo
impiego.
La cicuta e la leggenda di Socrate
Nel completare la serie, anche se l’elenco
potrebbe annoverare numerosi altri vegetali,
è necessario citare la cicuta, che rappresenta
una pianta altrettanto comune, addirittura
infestante dei terreni incolti, dall’odore
particolarmente sgradevole. Parente della
carota, porta dei fiori abbastanza simili a
quest’ultima, che si aprono ad ombrella
tra giugno e settembre. È nota soprattutto
perché Socrate fu costretto a berne l’infuso,
allorché fu condannato a morte nel 399 a.C.
Anche se l’intera pianta è tossica in quanto
contiene coniina, la massima concentrazione
del veleno si trova nei frutti immaturi.
L’intossicazione accade poiché si può
confondere con l’anice.
Un buon erborista dev’essere quindi
soprattutto un ottimo naturalista e un discreto
conoscitore delle piante. Per distinguerle, non
c’è atlante o libro che tenga. Si può imparare
soltanto osservandole nel loro ambiente,
guidati da una persona veramente esperta. Il
veleno infatti non perdona e le conseguenze
spesso risultano fatali.