I.I.S. ”25 aprile” Cuorgnè - Concorso “Stella Polaris”
Anno scolastico 2010-2011
Alunno Matteo BUFFO
Docente prof. Maria GUGLIELMO
Classe I H/cat
La chiave della Chiesa
Nota: La leggenda dell’antica chiave della Chiesa Parrocchiale (di Prascorsano) che, applicata ardente sulle ferite
provocate dai cani rabbiosi, sarebbe stata in grado di guarire l’idrofobia, esiste davvero e ad essa ci si è ispirati, ma i
nomi e i fatti narrati di seguito sono totalmente inventati e frutto di fantasia. Matteo BUFFO.
Narra la leggenda che molti secoli or sono, tra i verdeggianti rilievi montuosi dell’estremo
occidente del Piemonte, vi fosse un luogo che conosceva ancora la magia; magia antica, portata in
quei luoghi dai Santi viaggiatori, magia benigna, con poteri curativi.
Il centro di questa magia era un paesello, sulle pendici delle Prealpi, un luogo di pace assoluta.
Questo paesello era all’epoca sotto il dominio dei conti Valperga, i quali, pur essendo
estremamente minuto il luogo, avevano deciso di farvi costruire una splendida chiesa
rigorosamente secondo i canoni di stile dell’epoca. Essa non si protendeva verso il cielo, come le
grandi cattedrali dei paesi d’oltralpe, ma simboleggiava ugualmente il timor di Dio, che a
quell’epoca regnava supremo. Gli interni erano ben spogli, non vi erano grandi ricchezze e
manufatti pregiati.
Era chiusa da una porta di legno massiccio e scuro, con dei chiavistelli, grossi quanto il braccio
dell’uomo più possente, che si aprivano solo con una chiave così grande e pesante che servivano
due uomini per manovrarla.
Quando i lavori furono completati, la chiesa fu benedetta dal cardinale.
Si diceva che si trovasse da quelle parti un vagabondo che aveva fama di santo e che aveva
compiuto diversi miracoli in giro per l’Europa. Fu mandato a cercare dal conte il quale gli chiese di
benedire la chiave della neonata casa del Signore. Il Santo, che si faceva chiamare Andrea, accettò
di buon grado. Fu condotto da una scorta di guardie fino alla piazza principale, dove si era
radunata una folla di curiosi, che volevano assolutamente vedere il sant’uomo.
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Vi erano anche sulla piazza il conte, il cardinale e il prete. Tutti e tre restarono stupiti dal suo
aspetto. Sembrava veramente un vagabondo. Aveva la barba incolta e i capelli, bianchi per la sua
già ormai veneranda età, erano lunghi e sporchi. Vestiva di stracci e calzava degli zoccoli di legno
malandati. Non aveva con sé che una piccola borsa di pelle sgualcita e un lungo bastone, al quale si
appoggiava.
I tre signori dubitavano che un barbone par suo potesse essere un santo, ma le voci dei miracoli
che egli aveva compiuto nelle regioni franche della Savoia parevano attendibili. Facendo buon viso
a cattivo gioco, i tre si prodigarono in saluti e inchini al santo. Poi fecero portare la grezza chiave di
bronzo sostenuta da due uomini, che la posarono su un tavolo di legno mal intagliato.
Il santo, dopo essersi segnato con la croce e aver sussurrato qualche parola, aprì il borsellino e ne
estrasse una boccetta; poi chiamò i due ecclesiastici e li fece avvicinare al tavolo. Unendo le mani e
circondando il tavolo, i tre uomini di chiesa cominciarono una lunga preghiera dal ritmo
cantilenante, e a loro si unì tutta la folla. Il conte solo non pregava, anzi si spazientiva. Non credeva
che quella nenia servisse ad alcunché, ma il suo rispetto verso la Chiesa gli imponeva di rimanere
fino alla fine del rito.
Ad un certo punto, i tre uomini intorno alla chiave completarono la preghiera, disgiunsero le mani
e il prete e il cardinale tornarono al loro posto. Il santo prese la boccetta tra le mani, la sollevò
verso il cielo e dopo aver sussurrato qualche altra preghiera asperse con l’acqua benedetta la
pesante chiave. Mentre le gocce cadevano sulla chiave, vennero viste illuminarsi di luce propria,
come se quella della boccetta fosse luce liquida, e spegnersi subito al contatto con il bronzo.
Tutti guardavano stupefatti, persino il conte ora mostrava un vivo interesse per quello che
succedeva. Quando i due uomini tornarono per riprenderla, la chiave non era bagnata. Non se lo
spiegavano, eppure l’acqua non poteva essere evaporata tutta, perché l’aria era proprio fredda:
nel mese di novembre non fa mai caldo!
Il santo, dopo aver salutato ancora le autorità ecclesiastiche e politiche presenti, se ne andò.
Anche la folla se ne tornò a casa, forse un po’ delusa. Non era successo nulla di eccezionale, a
parte quelle strane gocce. E la chiave non aveva niente di speciale…
Accadde poi che, dopo alcuni mesi, in quel paese ci fosse un’epidemia di rabbia. Un gruppo di cani,
palesemente idrofobi, erano stati visti girare per i boschi e in molti erano stati morsi. I cacciatori
non riuscivano a catturare quei flagelli che vagavano senza meta per i boschi e pensavano solo ad
azzannare tutto quello che capitava loro a tiro.
Il prete, non sapendo più che cosa fare, mandò a chiamare Sant’Andrea, per domandare consiglio
e aiuto.
Il santo fu condotto nella stanza della canonica che era stata trasformata in infermeria per curare
gli azzannati e i febbricitanti. Si fece portare la chiave da lui benedetta qualche tempo prima e, con
l’aiuto di due vigorosi, l’arroventò sopra al braciere che riscaldava la stanza. Poi fece tutto il giro
del letto dei rabbiosi che si dimenavano, con la schiuma alla bocca. Applicava la chiave rovente
sulle ferite provocate dai cani idrofobi, ed esse si cicatrizzavano all’istante sotto gli occhi degli
aiutanti. I malati smettevano immediatamente di dimenarsi, si abbassava loro la febbre e, dopo
pochi giorni, potevano alzarsi in piedi e camminare. Uscivano dall’infermeria lodando il santo e il
Signore. Dopo aver mostrato come utilizzare nuovamente la chiave miracolosa, il santo se ne andò
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di nuovo per la sua strada. La cittadina gli fu molto riconoscente per ciò che aveva fatto e così si
decise di intitolare a lui la chiesa.
Quello che, però, la popolazione festante ignorava è che mentre Sant’Andrea scendeva verso la
pianura, il branco di cani rabbiosi saltò fuori dalla foresta e gli sbarrò la strada, digrignando i denti.
Il santo, senza perdere la calma, alzò il bastone e pronunciò queste esatte parole “Demonio,
abbandona queste bestie e fa’ che lascino in pace il prossimo!” il Demonio uscì dai cani ululando
selvaggiamente e si dissolse. Poi Sant’Andrea continuò per la sua strada, continuando a portare la
parola del Signore in giro per il mondo.
Oggi non si sa dove si trovi la chiave o se sia mai esistita, ma la leggenda vuole che la Contessa di
Valperga, guarita dalla rabbia grazie ad essa, si sia fatta seppellire nell’umile chiesa di campagna,
che era stata teatro di tutti quegli avvenimenti.
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