LA RICERCA COMPOSITIVA IN MUSICA E ARCHITETTURA: CONVERGENZE PARALLELE1 Anna Irene Del Monaco Dipartimento di Architettura e Progetto “Sapienza” Università di Roma e-mail: [email protected] Abstract Il saggio si propone di dimostrare attraverso la lettura comparata di saggi, testi, episodi nel campo della musica e dell’architettura, in particolar modo della composizione, quali e se esistano analogie e accostamenti possibili fra le due discipline. Nel paragrafo Composizione: avanguardie in musica e architettura si esplora l’appartenenza di personaggi alle ricerche considerate d’avanguardia, il diverso rapporto con la letteratura del passato delle star in musica e architettura oltre che il diverso modo di intendere i confini disciplinari. Il secondo capitolo Composizione-esecuzione. L’interprete e la trascrizione analizza la profonda differenza fra musica e architettura in rapporto al processo dell’“esecuzione” dell’opera, all’importanza dell’interprete, alla quasi assenza della figura del compositore-esecutore durante il Novecento, all’importanza dell’esercizio della trascrizione. In Sperimentazioni parallele, si esaminano alcuni casi studio e riferimenti bibliografici che mettono in luce alcuni aspetti metodologici comuni alle due discipline. In conclusione si affronta attraverso metafore comparative La difficoltà di essere moderni in entrambe le discipline. 1 Composizione: avanguardie in musica e architettura. Un recente saggio di Luciano Semerani2 dal titolo La ricerca compositiva delle avanguardie del XX secolo [1], si apre con una affermazione drastica. Egli sostiene che sia possibile parlare di “composizione” – definita come necessità di “ridurre” o “astrarre” l’esperienza in “essenza”, in linea col pensiero di Edmund Husserl – per la ricerca condotta nel dopoguerra dagli allievi dei corsi estivi di Darmstadt (Oliver Messiaen, Luigi Nono), sia per i sostenitori della dodecafonia che per quelli della composizione aleatoria. Al contrario, egli afferma, non si può parlare di “composizione” per il lavoro di architetti come Bernard Tschumi, Rem Koolhaas, Elia Zenghelis, Zaha Hadid – architetti postmoderni della seconda generazione – intenti a confrontarsi con la smisuratezza degli oggetti (The Bigness) e, in generale, con la dissoluzione della forma urbana chiusa, tradizionalmente intesa. Semerani attribuisce questa circostanza al fatto che i professionisti dell’architettura non hanno il tempo di riflettere sulla vicenda complessiva dell’avanguardia, da cui copiano, e che lo star-system è troppo impegnato ad utilizzare a proprio favore le “invenzioni comuni” da non avere alcun “interesse ad inserirsi in un disciplinare che relazioni tra loro le diverse esperienze del pensiero creativo”. Le affermazioni del moderno accademico veneziano sono utili per comprendere quanto possano essere ambigui e contraddittori, a volte tendenziosi e strumentali – quindi 1 Dal punto di vista retorico si tratta di un ossimoro o paradosso, si tratta di due parole in antitesi, storicamente l’espressione è attribuita ad Aldo Moro, durante un convegno del 1959, a proposito della politica delle alleanze. In questo caso si vuole sottolineare l’aspetto paradossale o contraddittorio che le discipline musica-architettura possono rivelare se messe a confronto. 2 Luciano Semerani, nato a Trieste nel 1933, professore ordinario presso l’Università IUAV di Venezia, allievo di E. Nathan Rogers. intellettualmente stimolanti – i paralleli e gli accostamenti tra architettura e musica. Il dopoguerra, infatti, in architettura è rappresentato magistralmente da figure come Le Corbusier e Wright e molti altri Maestri – contemporanei di Arnold Schönberg – per i quali, certamente, si può parlare di “composizione”; egli, perciò, propone indirettamente un appello nostalgico per una architettura che considera “impegnata” a tutto campo verso un mondo nuovo, secondo le convinzioni della sua generazione (Guido Canella, Aldo Rossi) e quella dei suoi maestri (E. Nathan Rogers, Giuseppe Samonà). Semerani, inoltre, pone indirettamente il problema – comune a musica e architettura – dell’appartenenza a modi di “fare composizione”, a stagioni culturali e reti di affiliazione intellettuale che si legittimano (o meno) reciprocamente. In una recente intervista3 Jaques Herzog – incluso nel novero delle archi-star e autore della Elbphilharmonie di Amburgo in costruzione – si allinea, in qualche modo, al giudizio di Semerani sugli architetti postmoderni della seconda generazione, affermando che gli ultimi due libri-scuola – seminal – sul pensiero architettonico, ad oggi, rimangono: L’architettura della città di Aldo Rossi (1966) e Learning from Las Vegas di Robert Venturi (1972), gli unici testi scritti da architetti postmoderni della prima generazione paragonabili al livello degli scritti di Le Corbusier e di Adolf Loos. Alcuni fra i più noti testi scritti successivamente, molti dei quali per mano dei suoi contemporanei archi-star, sostiene Herzog, sono prevalentemente “brillanti prodotti giornalistici”. In questo quadro, infine, spicca l’incisiva metafora di Lucio Valerio Barbera che, in rapporto con questi temi, nel suo saggio Quaroni Brucia 4[2], definisce “diadochi” (come i superbi generali “eredi” di Alessandro Magno) gli architetti della generazione che Semerani considera fuori dal sistema della “composizione” e che Jaques Herzog definisce brillanti giornalisti o autori di pamphlet autopromozionali. Per Barbera i diadochi, in architettura, sono appunto gli architetti considerati archi star; come gli eredi di Alessandro Magno essi, eredi di Le Corbusier e Wright, “riempiono la storia senza farla”. In campo musicale la questione mi sembra più complessa. Non mancano certo personaggi illustri che hanno preso le distanze dalla musica contemporanea e quindi, in un certo senso, dalla ricerca musicale considerata “d’avanguardia”. Sia Leonard Bernstein durante le famose Northon Lectures ad Harvard5 che Arthur Rubistein in 3 Intervista a quattro voci sull’attività delle archi-star di Basilea Herzog&de Meroun: Hubertus Adam, Marc Angélil, Jørg Himmelreich, Jaques Herzog - “The last seminal publications are a lot older still: L’ Archittetura della città by Rossi and Learning from Las Vegas by Venturi, Denise Scott Brown and Steven Izenour, which were both analyses of specific urban conditions: the Italian city, which Rossi invoked with a poetic and nostalgic impetus; and Venturi’s Las Vegas, which introduced pop art into architecture. I regard all key later architecture books like Koolhaas’ publications more as brilliant journalistic articles. They’re not sustainable textbooks or instructions as Rossi, Venturi or, even earlier and more explicitly, Le Corbusier or Adolf Loos, intended. The theoretical works of my generation consist more of individual essays or pamphlets.” Fonte:http://places.designobserver.com/feature/an-interview-with-jacques-herzog/32118/ 4 Lucio Barbera, Quaroni Brucia in Orazio Carpenzano e Fabrizio Toppetti (a cura di) Modernocontemporaneo. Scritti in onore di Ludovico Quaroni, Gangemi, Roma 2006 - “Gli attuali maestri, invece, prendono il nome di Stelle e sembrano competere tra loro per dare a noi - e a sé stessi -, sempre più suggestivamente, il senso del presente. Come i Diadochi, gli “Eredi” di Alessandro, per un tempo lunghissimo - tre secoli - dalla morte del Macedone sino a Cleopatra, con le loro personalità in perenne competizione, splendidamente, fantasticamente, cinicamente, generazione dopo generazione riempirono la storia senza farla – la faceva unicamente Roma, con grande durezza e nessuna eleganza così le figure dell’architettura d’oggi, che si levano in rapida successione come eredi delle grandi generazioni del Movimento Moderno e, soprattutto, – a ben guardare - dei due monumentali innovatori, Le Corbusier e Wright, competono tra loro per imporre, per quanto è concesso dalla memoria breve del nostro tempo e dalla pressione delle nuove generazioni, il loro profilo negli spazi reali e concettuali dove si elabora lo stile di vita contemporaneo, nella città fisica e nella metropoli virtuale.” 5 Charles Eliot Norton Lectures tenute da Bernstein ad Harvard fra il 1972 e il ‘73 sulla semantica e le forme della musica nella storia : http://www.leonardbernstein.com/norton.htm : “ Bernstein based much of the lectures on the linguistic theories Noam Chomsky set out in his book, Language and Mind. In the first three lectures, Bernstein analyzed music in linguistic terms phonology (sound), syntax (structure) and semantics (meaning)--focusing on music from the una delle sue ultime interviste6 – come molti altri musicisti – hanno dichiarato di sentirsi distanti dalle forme musicali concepite al di fuori del sistema tonale. Il dato interessante da confrontare con le consuetudini in architettura è che diversi compositori contemporanei hanno continuano a lavorare con entrambi i sistemi (tonale e atonale): lo stesso Luciano Berio, Charles Wuorinen, Rodion Shchedrin (recentemente più vicino all’alea e al seriale), Nicoi Kapustin, ecc. Del resto anche Sergei Rachmaninoff, Sergei Prokofiev, Arnold Schönberg, Ferruccio Busoni, Béla Bartók sono stati cronologicamente quasi tutti contemporanei, vissuti fra la metà dell’ ‘800 e la metà del ‘900: ciò dimostra che il panorama della pratica compositiva nel XX secolo è ricco di alternative oltre alla dodecafonia e all’alea: neoclassicismo, folklore, tardo romanticismo. In musica l’adesione ideologica a “forme”, “stili”, “poetiche” è avvenuta spesso in modo meno esclusivo che in architettura, sia nel campo della ricerca che delle performance. Nonostante vi siano strumentisti “specialisti” in generale, le star del mondo musicale – diversamente da quelle dell’architettura – esibiscono la loro perizia tecnica e interpretativa in diversi generi, sia nel corso di un medesimo concerto che nelle incisioni, spaziando da Scarlatti a Shostakovich, da Bach a Boulez, da Frescobaldi a Ligeti. Tatiana Nikolayeva, ad esempio, didatta e pianista russa vissuta nel secolo scorso, fu specialista, potremmo dire, di musica polifonica. Le sue incisioni di Bach furono numerose e rilevanti, infatti Shostakovich le dedicò i suoi 24 preludi e fughe, ed ella fu la prima ad eseguirli in pubblico. Il pianista Maurizio Pollini, figlio dell’architetto Gino Pollini e nipote dello scultore Fausto Melotti – per formazione un intellettuale umanista-progressista – ha incluso nel proprio repertorio da virtuoso, prevalentemente classico e ottocentesco, fin dalla giovane età, autori come Schönberg, Berg, Webern, Nono, Manzoni, Boulez, Stockhausen. Pensare in modo unitario alla produzione musicale storica è un indirizzo di pensiero tradizionalmente radicato in musica, a partire dal sistema della formazione accademica. Nonostante le molte riflessioni e dibattiti7 continuano ad essere in uso presso i Conservatori di musica programmi ministeriali in cui si insegna, obbligatoriamente, a tutti i livelli di compimento per il conseguimento del diploma (strumentisti e compositori), l’esecuzione e la composizione “in stile” barocco (clavicembalisti e contrappunto), pezzi classici, romantici e del secolo scorso. In alcuni prestigiosi concorsi pianistici, ad esempio il Concorso Busoni di Bolzano, da qualche edizione è obbligatorio includere nel repertorio pezzi contemporanei oltre che del Novecento. Ciò è dovuto alla necessità condivisa, ai massimi livelli, di promuovere la musica contemporanea attraverso interpreti accreditati. Sarebbe impensabile oggi nelle facoltà di architettura, traslando la metodologia didattica e le consuetudini in uso nel mondo musicale, imparare a progettare in stile come era in uso, invece, fino a tutti gli anni ‘50 in Italia, in particolare presso la Scuola romana d’Architettura - fondata da Gustavo Giovannoni – presso i due primi corsi di Storia dell’Architettura. Classical period. In the fourth lecture (The Delights and Dangers of Ambiguity), Bernstein looked at music from the Romantic period, with its heightened harmonic uncertainties and structural freedoms. The fifth lecture (The Twentieth Century Crisis) outlined the movement toward atonality and the crisis provoked by this crucial change in our musical language. Charles Ives’ The Unanswered Question, one of the primary musical examples, became Bernstein’s title for the entire series of lectures. The final lecture (The Poetry of the Earth) concentrated on the work of Igor Stravinsky, whom Bernstein thought had found a musical answer to the unanswered question, one that kept tonality at its center. The series ended with Bernstein’s artistic and philosophical credo, an essentially optimistic and celebratory statement of beliefs”. Fonte: http://www.leonardbernstein.com/vid_teach.php 6 Intervista al novantenne Arthur Rubinstein nella sua casa parigina, ad Avenue Foch., da Robert MacNeil http://www.youtube.com/watch?v=SZmr4yCgBMU 7 Piero Rattalino, La didattica per i concertisti, Convengo Il pianoforte nella società di oggi, Como 5-6 Giugno 1999; http://www.furcht.it/300rtl3.htm Eppure, per inciso, si potrebbe interpretare il ritorno agli studi della storia rinascimentale di Manfredo Tafuri [3] – dopo una lunga stagione militante e ideologica dedicata all’architettura contemporanea e culminata nel nichilismo – come una necessità di rinnovamento – quaronianamente – attraverso la ricerca “dentro” la Storia. Queste asserzioni sono utili per comprendere che il dibattito sul discorso disciplinare – in questo caso la composizione in architettura e in musica – sembrano sollevare analoghe controversie nelle due discipline, almeno apparentemente, sviluppando esiti totalmente divergenti. È comune ad entrambe la necessità di stabilire quali siano le “forme” in uso che abbiano carattere cutting-edge, quale sia lo stato della sperimentazione in atto; ma profondamente diverse sono le finalità e gli usi che le due discipline fanno delle conquiste disciplinari apparentemente omologhe. La materie “costruttiva” sono radicalmente diverse: in musica è il suono, in architettura i materiali da costruzione (o la materia storica)8. In musica far vivere la musica “storica” significa eseguirla, dunque significa saperla eseguire, comprendendone a fondo metodi e finalità; in architettura l’opera storica vive comunque perché è già stata eseguita una volta per tutte e la sua ri-esecuzione sarebbe un’aborrita copia. Ancora: non vi è stata in architettura, recentemente, una “rivoluzione disciplinare” comparabile a quella che ha portato in musica alle forme di cui parla Semerani (dodecafonica, seriale, aleatoria, minimalista...), semplicemente perché l’architettura è essenzialmente un’arte applicata ed è, heideggerianamente, costruita per “abitare” [4], dunque più lenta nel rinnovarsi rispetto alle altre arti. Il portato di una rivoluzione in architettura pari a quello avvenuto in musica all’inizio del secolo scorso ad opera di Schönberg corrisponderebbe ad uno stravolgimento dei sistemi di riferimento che includono i sistemi statici che permettono l’eseguibilità dell’architettura. Per questo, io credo, l’avanguardia in architettura, nei momenti fondanti, ha voluto appoggiare l’esigenza di nuove forme e nuovi metodi compositivi su decisive innovazioni tecnologiche e produttive: la prefabbricazione e l’industrializzazione (Gropius), il cemento armato (quasi tutti gli europei, ma soprattutto Le Corbusier), l’acciaio (gli americani, nobilitati dall’opera di Mies Van der Rohe). Ma il progresso tecnologico, in architettura, è lento, cauto, circoscritto e di lunga durata. Non può essere diversamente. La ricerca d’avanguardia in architettura, dunque, nello sforzo di perpetuare uno slancio innovativo scivola inevitabilmente nel campo che noi architetti chiamiamo “formalismo”. Proprio questo, a ben guardare, costituisce la debolezza, o meglio la non compiuta grandezza degli odierni diadochi, le archistar che sembrano impegnate più a produrre una propria griffe personale, formalmente riconoscibile che a far progredire l’architettura, arte sociale, arte applicata. Una strada difficile, ma più interessante è quella di confrontare continuamente l’architettura con l’introduzione nell’industria delle costruzioni di materiali completamente diversi, derivati da operazioni di vivisezione della materia costruttiva utilizzata tradizionalmente. Se volessimo fare un parallelo, anche se un po’ forzato, lo si potrebbe tentare con la musica informale di Aldo Clementi9. Occorre, comunque, fare riferimento alla storia: parlando di rivoluzioni disciplinari, quando iniziò il movimento della Secessione viennese, in campo musicale la tradizione resisteva incontrastata [5] anche se Berlino era frequentata da artisti di prim’ordine: Arthur Nikisch, Richard Strauss, Ferruccio Busoni, in un’atmosfera culturale vivace, frenetica, animata da polemiche e dibattiti in tutte le arti. Ciò impone di esaminare il problema del rapporto tra avanguardia e innovazione in un dato periodo storico e le sue ricorrenti modalità. Per approfondire questo tema può essere d’aiuto 8 9 Vedi il saggio di Lucio Barbera e Giorgio Nottoli in questo volume. Giuseppe Scotese, La letteratura contemporanea – fonte web: Ad esempio la Rapsodia per orchestra con accompagnamento di Pianoforte del ‘94 di Aldo Clementi è una fittissima trama contrappuntistica tessuta con “cellule” tratte dalla berceuse e dalla barcarola di Chopin - http://www.furcht.it/ una ragionamento proposto da Arnaldo Bruschi10 durante un colloquio con Lucio Valerio Barbera nel 2005. Il noto storico romano dell’architettura sosteneva che esiste un punto di vista “antropologico” rispetto ai processi di “globalizzazione” e delle occasioni di innovazione in architettura: nella storia dell’architettura si possono riscontrare modi comuni di operare in un dato territorio e altri che provengono da movimenti internazionali: ciò avvenne anche ad Atene nel V sec, a Firenze al tempo del Brunelleschi, etc. Si determinano allora delle condizioni di operare che rispondono, quasi miracolosamente, a quello che serve, a quello che bisogna fare per superare i problemi di quel momento storico e portare la società di quel luogo ad un livello decisamente più alto; in alcuni di questi luoghi è già preesistente una condizione culturale molto viva e quindi si determinano ibridazioni vitali, una produzione innovativa che talvolta compare in modo isolato e non si ripete più; ma più spesso, se le condizioni di base sono già forti, l’innovazione permane e dà luogo ad una Scuola i cui prodotti intellettuali e artistici vanno ad arricchire, come necessari elementi esogeni, un processo di trasformazione che vive ancora allo stato nascente in altre condizioni locali anche molto lontane. Questa circostanza può ripetersi più volte nella storia e nei luoghi diffondendosi a tal punto da diventare una cultura storica “globale”. Questo concezione “migratoria” del sapere appare oggi più convincente e adeguata – oltre che più affascinante – rispetto a quella divulgata da Walter Gropius – e molti altri intellettuali operanti in diverse discipline – nel 1943, cioè: “la possibilità di fissare una base comune per intendere la composizione, fondata su ricerche obiettive piuttosto che su intuizioni personali, al fine di scoprire un denominatore comune, che dovrebbe potersi applicare a qualsiasi forma di composizione: i processi compositivi di un grande edificio o di una semplice sedia, differiscono infatti solo nel grado, non nella sostanza. […] Gli insegnanti di composizione hanno incominciato a creare un ordine nuovo nelle loro ricerche tecniche e teoriche. Una teoria fondamentale della composizione necessita innanzi tutto di un denominatore universale. Parte del lavoro di base per la formazione di un linguaggio compositivo è stata compiuta dal Bauhaus, da Le Corbusier e Ozenfant ne L’esprit Nouveau, da Moholy-Nagy nelle sue opere La nuova visione e Visione in movimento, dall’insegnamento di Josef Albers, dal Linguaggio della visione di Kepes, dalla Educazione con l’arte di Herbert Read e particolarmente dal Modulor di Le Corbusier, e da altri in questo ambito e campi congiunti.”[6] La posizione di Gropius e di molti suoi contemporanei – anche nel mondo della musica – persegue, dunque, non soltanto un ordine nuovo basato sull’oggettività, ma anche e soprattutto sul perseguimento di “un’architettura totale”, “un’opera d’arte totale”, totalmente coinvolgente, apparentemente e ostentatamente obliando l’identità tardo romantica di tale missione. Ciò è evidente se si considera l’esperienza del Padiglione Philips [7] (Le Corbusier-Xenakis), il denso scambio epistolare [8] che portò a diverse sperimentazioni come l’associazione suono-colore Die gluckliche Hand (Kandinskij-Schönberg) o l’esperienza del Prometeo11 (Kandinskij-SkrjabinSabaneev-Kul’bin), e le frequentazioni fra Walter Gropius, Béla Bartók, Paul Klee a Dessau (1927) documentati da una storica fotografia conservata presso l’archivio del museo d’arte ad Harvard12. Pertanto si potrebbe affermare che soltanto in particolarissime circostanze storiche, quando l’obiettivo comune di una koinè è stato ricercare un denominatore comune fra le arti, “la traducibilità di un genere artistico in un altro”13 musica e architettura hanno tentato la 10 Da un colloquio fra Arnaldo Bruschi e Lucio Valerio Barbera svoltosi presso il Dipartimento di Storia e Restauro, sede di piazza Borghese, nel 2005 in vista dell’organizzazione di un possibile Convegno sull’Identità dell’Architettura italiana contemporanea. 11 Luigi Verdi, Kandinsky e la musica, fonte: http://users.unimi.it/~gpiana/dm6/dm6kmlv.htm 12 http://www.harvardartmuseums.org/art/221276 13 Luigi Verdi, Kandinsky e la musica, cit. possibilità di esprimersi all’unisono. Tuttavia la presenza nell’esperimento di un architettomusicista (professionista, semi-professionista o dilettante come Xenakis o Kandinskij) ha costituito la condizione determinante per conseguire un risultato credibile. Lo stesso si può affermare per i lavori di Sylvano Bussotti e George Crumb, di recente ripercorsi da Simon Shaw-Miller, presso il Birkbeck College, con una ricerca da titolo “musical iconography, synaesthesia, musical ekphrasis, and the aesthetics of the gesamtkunstwerk” [9]. Ed è nel quadro dell’opera d’arte totale – e del grande progetto mai realizzato del teatro di Mejerchol’d di Gropius in cui pubblico e artisti sono continuamente mobili – che lavora Luigi Nono durante gli anni ‘70 al Prometeo affidando a Renzo Piano la commessa per qualcosa che stesse fra la cassa armonica e il rivestimento adatto ad ospitare diverse cantorie, quattro orchestre, solisti, ecc... Per questo appare tardivamente innovativa – ma comprensibilmente pretestuosa dal punto di vista di un architetto in carriera – la dichiarazione di intenti di Steven Holl per il suo progetto dalla Stretto House (1988) a Dallas. È noto a molti il parallelo compositivo che l’architetto americano è solito stabilire in vari scritti fra il suo progetto per la Stretto House ed un’opera di Béla Bartók, la Musica per archi, percussioni e celesta (1936). Ed è utile, ai nostri fini, per ragioni esplicative, approfondirne qualche aspetto. Secondo Holl le condizioni del luogo evocano lo schema del contrappunto fugato (stretto), diffusamente più ricorrente nella letteratura musicale (in primo luogo barocca) che precede la musica Bartók. Lo schema compositivo della residenza progettata da Holl, infatti, si basa su un modulo compositivo ripetitivo più che comune in architettura e in musica: A-B-A-B. Altri elementi, tuttavia, potrebbero aver indotto Holl a dichiarare un legame fra il suo progetto residenziale e Bartók: il cliente e/o Fort Worth. Il proprietario della Stretto House, collezionista, è cresciuto in una residenza progettata da F.L. Wright14 e sembrerebbe, secondo una fonte web commerciale, che la Stretto House sia stata realizzata dagli stessi costruttori del Kimbell Museum progettato da Louis Kahn. Oltre che per il Kimbell Museum Fort Worth è internazionalmente nota per il premio dedicato al pianista Van Cliburn. Questi – storico vincitore della prima edizione del Concorso Čajkovskij di Mosca nel 1958 – ha acquistato alla fine degli anni ‘80 una residenza neo-Tudor appartenuta ai Kimbell, essendosi ritirato a Fort Worth e avendo istituito una fondazione filantropica localmente molto radicata che promuove lo studio della musica classica e organizza il noto concorso. Inoltre, il tema dell’edificio sull’acqua – presente nella Stretto House – era già stato praticato magistralmente da Steven Holl per il suo progetto per il Palazzo del cinema di Venezia (1990) e Andrei Tarkovsky e il suo film Nostalgia erano stati uno dei riferimenti creativi. Non va trascurato un dettaglio: Kubrick utilizza il pezzo di Béla Bartók Musica per archi, percussioni e celesta nel suo film Shining, assieme ad altri brani di György Ligeti e Krzysztof Penderecki. Dunque le relazioni cólte fra architettura-cinema-musica sono certamente un sedimento presente nel repertorio di Holl, precedenti all’esperienza progettuale a Dallas. Holl ha continuato successivamente negli anni accademici 2005-06 e 2007-08 a sviluppare il rapporto architettura-musica nel suo “corso di composizione” presso la Columbia University di New York col titolo “Architectonics of music”, affiancando al corso alcuni seminari di introduzione alla musica contemporanea (Bartók, Schönberg, Cage, Feldman, Ligeti, Xenakis) affidati a Raphael Mostel, con la collaborazione di Haiko Cornelissen che ha curato la presentazione dei risultati presso il Brooklyn Experimental Media Center of NYU Polytechnic della New York University15. È molto probabile, inoltre, che il rapporto concettuale che Holl stabilisce con Bartók sia nato a seguito delle esplorazioni effettuate per l’uso della sezione aurea nelle facciate (Bartók e Debussy hanno fatto ampio uso nelle loro composizioni di riferimenti alla sezione aurea). 14 c’è una sola residenza costruita da F. L. Wright in Texas, la John Gillin Residence. 15 http://bxmc.poly.edu/xenakis La vicenda della Stretto House – ricca di nessi capziosi e mezze verità – e la ricerca di lungo periodo condotta da Steven Holl sul tema musica-architettura, sono significative per comprendere la complessità e l’ambiguità dei ragionamenti che possono condurre il lavoro di un progettista architetto in rapporto ai temi musicali. Egli utilizza materiale concettuale mutuato dal mondo della composizione musicale, seppure con evidenti deboli connessioni, ma col fine di portare a termine, nel più efficace e seducente dei modi, la propria composizione architettonica, sempre con occhio ben vigile alla conquista di un’identità preziosa e singolare nel vastissimo universo della competizione professionale d’architettura. 2 Composizione – esecuzione. L’interprete e la trascrizione. Carlo Piccardi,16 musicologo italo-svizzero, in un suo saggio dal titolo “La Modernità attraverso l’interprete” pone una questione di grande rilievo in musica che, comparativamente, potrebbe condurre a nuove possibili riflessioni – con le dovute trasposizioni – sullo stato della produzione contemporanea in architettura. Qui di seguito si riporta una sequenza di estratti del saggio di Piccardi. Egli scrive: “Considerando che la musica più praticata nelle sale da concerto è quella del passato e non quella del presente, è lecito chiedersi se la funzione dell’interprete oggi si svolga ancora allo stesso livello di quello vigente nei decenni passati. Negli anni ‘30 ad esempio erano ancora attivi come concertisti compositori quali Rachmaninov, Bartók e Prokofiev, negli anni Sessanta Stravinsky dirigeva ancora regolarmente le sue composizioni, per indicare alcuni autori fra gli ultimi a conquistarsi un posto permanente nel repertorio, che nel contempo furono anche interpreti delle loro opere (costringendo gli altri esecutori a tenere conto quindi non solo della loro estetica compositiva ma anche della loro prassi esecutiva). […] Tutti i compositori che popolano gli attuali cartelloni concertistici sono invece da tempo defunti. Sui palcoscenici delle sale di concerto le figure “autoriali” sono scomparse, lasciando il posto a interpreti legittimati nel ruolo proprio di mediatori. Di questa mediazione si parla spesso, a fronte dell’instaurazione di un regime che ha praticamente cancellato la contemporaneità creativa declinando la musica ormai al passato, creando con i grandi della storia musicale (Bach, Mozart, Beethoven, ecc.) un rapporto oltre il tempo, come fossero loro quasi i referenti delle nostre esigenze espressive e non già i compositori oggi viventi (sempre più estranei al sentire comune). Al di là delle ragioni di mercato che fomentano questa forma di polarizzazione (non riscontrabile ad esempio nelle arti figurative che, con le esibizioni dei contemporanei, attirano ancora folle nei musei e nelle gallerie), vi è certamente una ragione costitutiva nel modo in cui la musica contemporanea ha imboccato strade che l’hanno allontanata dal pubblico.” Tornando al mondo dell’architettura, si può affermare che un personaggio che ha progettato ed “eseguito” le sue opere alla stregua di Rachmaninov in musica è certamente stato Pier Luigi Nervi – titolare dell’impresa Nervi & Bartoli con la quale ha firmato e costruito alcune fra le sue più importanti opere, vincendo gli incarichi con la procedura di appalto-concorso, e imponendosi, spesso, col miglior progetto ad un costo competitivo. Al tempo di Wright e di Le Corbusier, di Otto Wagner e di Adolf Loos, oltre che di Nervi, l’architetto era più intrinsecamente coinvolto – alla stregua di un artigiano-artista – nell’esecuzione delle proprie progettazioni-composizioni di quanto non lo siano oggi gli architetti postmoderni della seconda generazione (Hadid, Koolahass, ecc.) o i loro più giovani epigoni. Ciò è dovuto anche alla complessità delle normative e della burocrazia in vigore che hanno lentamente separato quasi del tutto oramai la figura del progettista creatore di concept dalla fase esecutiva, soprattutto nel caso delle grandi opere, la cui realizzazione è frantumata ulteriormente anche nella fase della cosiddetta “cantierizzazione” del progetto. 16 Carlo Piccardi, musicologo italo-svizzero formatosi presso la scuola di Friburgo, attualmente direttore artistico per RSI del Progetto Martha Argerich a Lugano; http://www.rsi.ch/argerich/welcome.cfm?lng=0&ids=490&idc=10405 È questa, direi oggi, la profonda differenza del destino di una composizione in musica e architettura: dopo la fase della “composizione” nel caso della musica l’esecuzione è affidata quasi esclusivamente all’interprete (solista o orchestra) che, almeno fino alla primo quarto del secolo scorso era un “virtuoso” o un “interprete” professionale (vedi anche il caso di Mahler). Nel caso dell’architettura, invece l’opera, dopo la fase della composizione, ben presto si è allontanata e si allontana sempre di più dal controllo univoco e unitario di colui che l’ha concepita passando, per l’esecuzione, nelle mani di più attori, la cui priorità non è quasi mai una esecuzione memorabile (virtuoso) ma il profitto più semplicemente perseguito (imprenditore). Inoltre, nei vari passaggi, l’impresa o il direttore dei lavori in architettura dovrebbero attenersi, durante fase esecutiva, al progetto; non dovrebbe essere previsto alcun margine “interpretativo” né le ricorsive “varianti” e “varianti in corso d’opera” a cui si è abituati, spesso semplificanti quando non addirittura banalizzanti. Piccardi continua il suo ragionamento – nel medesimo saggio – con approfondimenti interessanti sul ruolo dell’interprete: “Nella musica di Mendelssohn si rispecchiava la sua frequentazione di Bach, in Brahms quella di Beethoven, in Reger quella di Bach e di Beethoven insieme [in Casella quella di Scarlatti, in Poulenc quella di Couperin e via dicendo]. La mediazione con il passato passava allora attraverso i compositori, attraverso la loro estetica compositiva, più che attraverso gli interpreti. Oggi, venendo a mancare il referente compositivo condiviso, non sono più i compositori a dirigere l’ascolto (men che meno i compositoriinterpreti di cui non c’è più traccia), ma gli interpreti tout court. [...] Ora, se nella Vienna di fine Settecento l’interesse per Bach e per Händel era coltivato ad esempio da un pioniere della ricerca antiquaria quale fu il Barone van Swieten (con l’incarico a Mozart di rifare la strumentazione del Messia e di altre opere del precedente passato in modo da renderle compatibili con le abitudini del tempo), oggi è maturata una coscienza storica che chiede giustificazione a tale tipo di annessione, un grado di consapevolezza culturale che ha portato a distinguere nettamente i piani estetici. A un attento esame ci accorgiamo però che il cosiddetto ripristino della prassi esecutiva originale non dipende tanto dall’applicazione di norme interpretative desunte dai trattati d’epoca (dalla cosiddetta filologia), bensì piuttosto da modelli maturati nell’ambito estetico della musica del Novecento, nel versante che da Stravinsky a Bartók, Prokofiev, Poulenc, Milhaud, ecc. ha segnato lo stacco dalla superfetazione espressiva del secolo precedente. In altre parole il vero passaggio è stato effettuato dapprima a livello compositivo, soprattutto grazie alla stagione del “neoclassicismo” degli anni Venti e Trenta deliberatamente confrontata con i modelli del passato, che in seguito su quelle nuove musiche ha formato schiere di interpreti indotti ad adottare uno stile e una maniera improntati a un’idea costruttivistica, tesa a valorizzare i vettori energetici della scrittura anziché psicologistica (cioè incline ad evidenziare i sottintesi emozionali) tipica dell’eredità romantica.[...] Martha Argerich ne è un esempio supremo per il senso strutturale della sua concezione interpretativa, che nella lettura di un Prokofiev o di uno Sostakovic (dalla nervatura geometrica della loro scrittura) ricava le linee di sviluppo di una conduzione del discorso che nulla concede all’enfasi e all’aura della religione del suono, sempre mantenuto a livello del fisico sentire, della pulsazione della materia sonora. Parlando di questo suo modo di aggredire la tastiera, “selvaggio” ed “esplosivo”, troppo spesso si è insistito sul suo temperamento “leonino” e “demonico”, quasi fosse la manifestazione di un carattere individuale. In verità la sua potente forza d’urto, lo slancio a volte forsennato, il travolgente impulso ritmico delle sue esecuzioni sono soprattutto il risultato del suo essere pienamente donna del Novecento, di un secolo che, attraverso la tecnica, l’urbanizzazione, la moltiplicazione dei rapporti tra le persone, non ha trasformato solo il paesaggio esteriore ma anche quello interiore dell’uomo.” Portando ancora più direttamente dentro il dominio dell’architettura il ragionamento di Carlo Piccardi – il quale da una parte già tende un ponte verso tale dominio citando l’urbanizzazione tra gli eventi portanti della modernità e dall’altra sembra comunque rilanciare il significato di “strutturalismo” in termini meno astratti e concettuali – in architettura sembrerebbe possibile – forse temerariamente – affermare che Koolhaas, Hadid, Holl, Herzog & de Meroun, ecc., con le dovute differenze, siano gli “interpreti” o i “mediatori” di un patrimonio estetico del passato per lo più di declinazione modernista, espressionista o postmodernista e depurato dalla missione sociale o, tout court, socialista. Herzog & de Meroun, tra l’altro, hanno sempre dichiarato di sentirsi allievi di Aldo Rossi: “Architecture can only define and keep reinventing itself from within. In that sense, we’re pupils of Aldo Rossi and continue to pursue this approach – perhaps even in a far more archaic sense.”17 Il ragionamento può essere ulteriormente approfondito; al fine di comprendere la differenza fra “virtuoso” e “interprete” riportiamo alcune considerazioni espresse da Glen Glould in un’intervista per una TV russa18. Egli sosteneva che esistono due categorie di personaggi leggendari nella musica: quelli come Liszt e Paganini, virtuosi, che hanno avuto come obiettivo principale quello di dimostrare il loro rapporto con lo strumento; quelli come Sviatoslav Richter che hanno come obiettivo quello di aggirare il meccanismo della performance e creare l’illusione di un rapporto diretto fra essi stessi e lo spartito e aiutare l’ascoltatore a raggiungere un senso di coinvolgimento diretto non con la performance ma con la musica stessa, osservandola da una prospettiva inusitata. Tuttavia, a proposito di performace, va detto che, l’esecuzione di un musicista deve comunque fondarsi su un talento individuale difficilmente discutibile, in assenza del quale l’artista non potrebbe nemmeno tenere la scena. Certo le agenzie commerciali della musica classica oggi sono in grado di costruire successi discografici senza che le star siano passate per il tradizionale vaglio dei concorsi (esistono oggi circa 400 concorsi per pianisti), ma parliamo comunque di “virtuosi”, cioè di personaggi che sono in grado di sostenere esecuzioni complessissime, alla stregua di atleti olimpionici. Nel caso dell’architettura, negli ultimi decenni, sebbene la pressione della vita professionale delle archistar sia comunque paragonabile a quella di un atleta agonista, è accaduto che operazioni mediatiche, imprenditoriali, politiche abbiano determinato l’attribuzione di incarichi di primissimo livello e responsabilità, dunque il futuro di parti di città, non sempre in relazione dall’indiscusso talento o “virtuosismo” dell’architetto, poiché le dinamiche del mercato urbano sono molto differenti. C’è un’altro nodo concettuale e storico fondamentale che solleva lo stesso Piccardi nel suo scritto, che riguarda la sfera dell’interpretazione: oltre all’esecuzione di un interprete c’è la “trascrizione” di un interprete compositore. Afferma Ferruccio Busoni – autore delle famose trascrizioni neoclassiche di Bach – nei suoi appunti teorici19 dal titolo Saggio di una nuova estetica musicale20: “«Notazione» («scrittura») mi conduce a «trascrizione»: concetto molto mal compreso oggi e quasi spregiativo. La frequente opposizione che ho sollevato con le mie «trascrizioni», e quella che tante critiche irragionevoli hanno sollevato in me, mi hanno spinto a tentar di raggiungere la chiarezza su questo punto. Ecco quanto in definitiva ne penso: ogni notazione è già trascrizione di un’idea astratta. Nel momento in cui la penna se ne impadronisce, il pensiero perde la sua forma originale. L’intenzione di fissare l’idea con la scrittura impone già la scelta della battuta e della tonalità. [...] Anche l’esecuzione di un pezzo è una trascrizione, e anche questa non potrà mai far sì che l’originale non esista – per quanto libera ne sia l’esecuzione. 17 Herzog & deMeroun: intervista citata 18 http://www.youtube.com/watch?v=Q1iUdM5k5Hc&feature=related 19 http://www.rodoni.ch/busoni/estetica/estetica.html 20 Saggio di una nuova estetica musicale, un piccolo libro, per dimensioni, che va considerato, assieme all’Harmonielehre di Schönberg, un caposaldo del pensiero musicale del Novecento. http://web.infinito.it/utenti/h/heinrich.fleck/default.htm Giacché l’opera d’arte musicale sussiste intera e indenne prima di risuonare e dopo che ha finito di risuonare. È insieme dentro e fuori del tempo, e la sua essenza è quella che ci può dare una tangibile rappresentazione del concetto dell’idealità del tempo, altrimenti inafferrabile. Del resto la maggior parte delle composizioni per pianoforte di Beethoven fanno l’effetto di trascrizioni dall’orchestra, la maggior parte delle opere orchestrali di Schumann di trascrizioni dal pianoforte – e in certo modo lo sono. Strano a dirsi, la forma della variazione trova grande considerazione presso coloro che si attengono alla lettera. È strano, perché la forma della variazione – quando è costruita su un tema altrui – presenta tutta una serie di rielaborazioni, e tanto più irrispettose quanto più sono geniali. Così la rielaborazione sarebbe illegittima perché muta l’originale; e il mutamento legittimo, benché lo rielabori.” Sulla scorta di questi ragionamenti – trascrizione in arte, architettura e musica – Lucio Valerio Barbera si è provato negli ultimi anni in una ricerca condotta in seno al Dottorato di Ricerca in Composizione (Teoria della Progettazione) parzialmente pubblicata [10]: la ricostruzione tridimensionale digitale di alcune opere di un maestro, Ludovico Quaroni, mai realizzate, il Progetto del Concorso per la Stazione Termini, presentato in gruppo con Ridolfi, Carè (1947), e la Casa Tuccimei all’Eur (1939), prime di quattro ricostruzioni di opere fondamentali del maestro. La ricostruzione-trascrizione si basa sui disegni originali, restituendo e “interpretando” alcune parti dei progetti che probabilmente nemmeno lo stesso Quaroni aveva controllato o esplicitato del tutto attraverso i suoi disegni, trattandosi di progetti per concorsi o, comunque, di progetti non realizzati. Queste ricostruzioni digitali dimostrano (questo è il senso della ricerca di Barbera) quanto la trascrizione in architettura possa rivelarsi uno strumento di ricerca di sicuro interesse e fino ad ora poco praticato in chiave moderna, carico di soggettività interpretativa; non distante, come esperienza compositiva o precompositiva dagli appunti e taccuini di viaggio dei Grand Tour compiuti da artisti e architetti, o delle rovine che Piranesi ridisegnò dopo le sue visite a Roma o dei disegni dell’architettura dioclezianea di Spalato che i fratelli Adam riportarono nell’Inghilterra tardo georgiana. 3 Sperimentazioni parallele In molte occasioni musica e architettura utilizzano un lessico comune. Interessante lo studio svolto da Gregory Young, Jerry Bancroft, Mark Sanderson sulle possibilità di integrazione didattica fra le due discipline e pubblicato col titolo Musi-Tecture: Seeking Useful Correlations between Music and Architecture [11] che si apre ponendo un problema tassonomico e individuando le parole comuni nel lessico delle due discipline: articulation, cluster, color, composition, ontour, contrast, development, form, imitation, line/linear, organization, proportion, repetition, rhythm, shape, structure, texture, theme, transformation, transition, variation. Inoltre è ricorrente la analoga classificazione dei generi: l’architettura può essere minimalista, self-generative, computational, responsive, parametrica (John Pawson, Makoto Sei Watanabe, Patrick Schumaker, Karl Chu, Greg Lynn, ecc.), aggettivazioni utilizzate anche in musica. L’architettura minimalista in molti casi è ispirata a pratiche estetiche come la land art o l’architettura giapponese (Pawson), anche in risposta alla produzione postmoderna degli anni ‘70-’80 oppure quando è stata computational o self-generative ha avuto spesso il destino di non uscire mai dallo schermo di un computer se non, nel migliore dei casi, per realizzare una sola delle possibili configurazioni ammissibili dall’algoritmo del software, dunque utilizzando il processo di autogenerazione come ausilio all’invenzione dell’opera di architettura che è sempre un “pezzo unico”. Negli anni ‘90 le sperimentazioni sull’architettura digitale hanno spesso intersecato quelle della musica elettronica. Alcune pubblicazioni riportano gli esiti di questi ragionamenti: Aesthics of total serialism di Markus Bandur [11] e The Music of Architecture: Computation and Composition21 di Marcos Novak. Le ricerche svolte spesso in ambito interdisciplinare 21 http://www.mat.ucsb.edu/~marcos/TheMusicOfArchitecture.pdf sull’applicazione del computing in architettura, musica e arti visuali in genere hanno rappresentato durante gli anni ‘80-’90 un tentativo di riaffermazione dello spirito wagneriano del gesamtkunstwerk, dell’opera d’arte totale e condivisa fra le discipline anche ai tempi del Movimento Moderno [12]. Il corso di dottorato fondato da Roy Ascott in quegli anni, Caiia Star poi denominato Platenary Collegium, presso l’Università di Plymouth, ne era una dimostrazione. Altre esperienze più recenti, realizzate all’insegna del Computational Space, sono state svolte presso l’Architectural Association: l’installazione Smoke signals @ offload, al Festival Bristol UK, per iniziativa dell’AA DRL Lab (Stephen e Theodor Spyropoulos) e Steve Reich. Tuttavia alcune realizzazioni non hanno confermato gli entusiasmi iniziali della fase progettuale: uno dei primi progetti di Greg Lynn, la Presbiterian Corean Church a New York, è rimasto esemplare a questo proposito: presentato come un accattivante oggetto digitale nella fase progettuale ebbe un esito costruttivo deludente e si attestò al livello di un’edilizia poco più che tradizionale. Dai primi anni ‘90 ad oggi sono stati realizzati numerosi edifici di grande interesse architettonico presentati da molta stampa – e spesso dagli stessi autori – come prodotti di una “rivoluzione informatica” in architettura [13]. Tuttavia non è un caso che dopo circa vent’anni il campo di interesse dei sostenitori – accademici e architetti – dell’“architettura digitale” sia traslato verso le pratiche “ecologiche” e “sostenibili”, cioè quelle più diffusamente condivise dai trend culturali globali più recenti – di gran moda o politically correct [14]. Una recente pubblicazione a cura di Hubertus Adam dal titolo Architektur Musik. Boa Baumann Fritz Hauser, invece, attraverso alcune interviste, ripercorre la mutua collaborazione nelle opere di un architetto e di un musicista, testimoniando l’esistenza di una ancora viva formula di collaborazione di tipo tradizionale fra le due discipline [15]. Queste brevi note dimostrano quanto sia difficile in architettura attuare concretamente e in tempi brevi i risultati della ricerca d’avanguardia a differenza di quanto avviene in musica e quanto possa essere importante in entrambe le discipline lo scambio fra il dibattito sull’avanguardia e quello sull’avanzamento tecnologico e “strumentale”. Una osservazione interessante scaturisce a partire dalle Variazioni “Là ci darem la mano” di Fryderyk Chopin op.2 (1827). Esse si basano sul tema del “Don Giovanni” di Mozart, e rappresentano una delle prime composizioni che Chopin pubblicò riscuotendo perfino gli elogi di Robert Schumman22. Nelle variazioni, in particolare nelle battute centrali del tema, prima della cellula tematica mozartiana, ad esempio, sono evidenti sia alcuni frammenti che il compositore polacco svilupperà in molti passaggi caratterizzanti sia il Concerto n.1 in E minor, op. 11 (1930) per pianoforte e orchestra, sia molte altre cellule tematiche che saranno riproposte altrove nelle sue opere. Per certi aspetti questo procedimento può essere assimilato agli esercizi compositivi che Peter Eisenman, architetto statunitense, sviluppa nella sua tesi di dottorato, a partire dall’architettura di Giuseppe Terragni, esponente del razionalismo italiano, e che costituiscono l’elaborazione di un vocabolario e di una sintassi propria dell’accademico americano, innestati su una radice storica molto precisa, che costituirà un riferimento per tutta la sua produzione successiva. Eisenman ha pubblicato questo materiale di ricerca solo qualche anno fa, quasi a voler segnare il compimento ex post di un programma culturale impostato molti anni addietro. Certamente anche per Eisenman gli strumenti digitali – dunque l’innovazione tecnologica – hanno costituito un interessante strumento per indagare e rielaborare alcuni temi compositivi, come è evidente nei suoi progetti più recenti [16]. Ma anche per Chopin l’invenzione di un nuovo tipo di strumento per quell’epoca, il pianoforte, sebbene diverso dai pianoforti in produzione oggi, fu un’opportunità per innovare. Egli prediligeva i pianoforti Pleyel [17], dal tocco velato, 22 Schumman, per voce di Eusebius, alter ego utilizzato come espediente retorico nei suoi scritti, esclamò rispetto alle Variazioni Là ci darem la mano di Chopin: “Giù il cappello, signori! Ecco un genio!” in “Allgemeine musikalische Zeitung” , 7 Dicembre 1831 pastoso, argentino, non fortissimo. Prima che egli scrivesse lo Studio n.1 op. 10 (1829), non era mai stato scritto nulla del genere per pianoforte se si considera l’estensione, la varietà e la velocità degli arpeggi – e nonostante fossero evidenti in quel brano influenze della letteratura bachiana sebbene impostata su tutt’altro tipo di strumento. Chopin tenne fede all’impegno preso con uno dei suoi maestri: realizzare il desiderio forse troppo audace, ma nobile, di creare un mondo nuovo23. Tutto questo implicava un atteggiamento diverso rispetto alla tecnica pianistica: nei suoi Appunti per un Metodo24 Chopin sosteneva che il polso per un pianista è come la respirazione per un cantante. Con queste premesse – cioè il riferimento alle tecniche e alle metodologie di un’altro strumento, in questo caso la voce – risulta più chiaro come affrontare tecnicamente lo Studio n. 1 op. 10 e dei suoi arpeggi ascendenti e discendenti, facendo leva sul secondo dito negli arpeggi ascendenti e staccando il fraseggio e ruotando il polso, rispetto al piano della tastiera, all’inizio dell’arpeggio discendente. Una operazione analoga in architettura – dal punto di vista metodologico – è quella che Frank Gehry ha sperimentato e reso praticamente uno standard (Gehry technologies), applicando alla progettazione e alla costruzione software acquisiti dall’industria aeronautica (Dessault). Egli, realizzando il modello matematico di un edificio, ha forzato i limiti delle scelte formali e del linguaggio, simulandone preventivamente i comportamenti tecnico-strutturali. 4 La difficoltà d’essere moderni Linguaggio e tecnica, lirismo e forme sono il territorio di esplorazione condiviso da musica e architettura. La difficoltà di interpretare la modernità25 [18] – parafrasando di nuovo Lucio Valerio Barbera e riportando qui di seguito alcuni estratti da suoi scritti su Zevi e Quaroni in cui egli stesso si avvale della metafora musicale – è il problema comune ad entrambe. Bruno Zevi sosteneva nella sua opera Il linguaggio moderno dell’architettura che Schönberg avesse creato un nuovo linguaggio musicale e avesse saputo renderlo trasmissibile a differenza di grandi architetti innovatori come Voysey e Mackintosh, Horta e Olbrich, Sullivan e Gaudì, Wright, Le Corbusier, Häring e Mendelsohn che crearono un nuovo linguaggio architettonico ma fallirono nel codificarlo [18]. Tuttavia la scuola di Schönberg – secondo il pensiero di Pierre Boulez – non seppe risolvere la contraddizione “libertà-diffusione, codice-immaginazione fantastica”; Zevi, invece, decise di farsi capire da tutti e in Saper vedere l’architettura affermò la natura autoriale del critico senza la cui azione l’opera non è ancora architettura realizzata nel pentagramma della Storia. Egli tentò così l’annullamento della corrispondenza fra musica scritta ed eseguita e architettura disegnata e costruita. Quaroni afferma [19] sull’opera di Schubert: “c’è vita; c’è la vita. Schubert è uno che ama la vita […] pensare che, neanche dieci anni dopo, Mendelssohn avrebbe detto che questa era cattiva musica. Era un po’ di invidia […] Mendelssohn non riusciva ad essere stupido quanto Schubert... proprio da quell’epoca è cominciato a diventare maledettamente difficile essere stupidi. Sempre più difficile – forse addirittura più per loro [musicisti] che per noi [architetti]”. 23 Gastone Belotti, ibidem, pg 88. 24 Gastone Belotti, ibidem, pg 538; Fra gli abbozzi di Chopin furono trovati alcuni foglietti che passarrono dalla principessa Marcelina Czartoryska a Natalia Janotha che li pubblico a Londra nel 1896; non ebbero molta risonanza ma nel 1936 furono acquistati da Alfred Cortot che li pubblicò nel 1949 come Aspects de Chopin. 25 Lucio Barbera, Quaroni Brucia in Orazio Carpenzano e Fabrizio Toppetti (a cura di) Modernocontemporaneo. Scritti in onore di Ludovico Quaroni, Gangemi, Roma 2006; Moderno? Contemporaneo? Credo che, a voler essere severi, il conclamato diritto all’incoerenza ponga Ludovico Quaroni fuori del moderno, se a questo termine diamo il senso ideologico cui si riferiva Argan. Postmoderno, dunque? [...] Premoderno, allora? Certo la sua difficoltà quasi biologica a aderire al moderno come ideologia non è frutto di un ripensamento, di una tarda conversione – come è avvenuto a molti - ma sembra iscritto nel suo atto di nascita. Riferimenti Bibliografici [1] L. Semerani, La ricerca compositiva delle avanguardie del XX secolo, in C. D’Amato (a cura di) Il Progetto di Architettura fra didattica e ricerca, Polibapress, Bari, 2010. [2] L.V. Barbera, Quaroni Brucia, in O. Carpenzano e F. Toppetti (a cura di) Modernocontemporaneo. Scritti in onore di Ludovico Quaroni, Gangemi, Roma, 2006, pag. 25. [3] M. Tafuri, Ricerca del Rinascimento. Principi, città, architetti, Einaudi, Torino, 1992. [4] M. Heidegger, Saggi e discorsi [1954], Mursia, Milano, 1976, pp. 135-138. [5] S. Sablich, Busoni, ETD, Torino 1982, pag. 41. [6] W. Gropius, Per un’architettura totale, Abscondita, Milano, 2007. Titolo originale: Scope of Total Architecture 1943; pp. 47, 63. [7] A. Capanna, Le Corbusier. Padiglione Philips. Bruxelles, Testo&Immagine, Torino, 2000. [8] J. Hahl Koch, Musica e pittura Arnold Schönberg, Vasilij Kandinskij, Abscondita, Milano 2012 (tradotto da M.Torre). [9] S. Shaw-Miller, Thinking through construction: Notation-Composition-Event, The Architecture of Music, in «AA Files» n. 53, 2008, pag. 38. [10] L.V. Barbera, La “camera oscura” e gli allestimenti multimediali: la trascrizione del progetto di Quaroni, Ridolfi, Carè per l’edificio di testa della Stazione Termini a Roma, 1947, in Andrea Bruschi, La memoria del progetto. Per un archivio dell’architettura moderna a Roma, Gangemi, Roma 2006, pp. 179187. [11] G. Young, J. Bancroft, M. Sanderson, Musi-Tecture: Seeking Useful Correlations between Music and Architecture, in «Leonardo Music Journal», Vol. 3 (1993), pp. 39-43, MIT Press. [12] L.Ribichini,”Recondite Armonie” a Ronchamp, in «Disegnare Idee Immagini» vol. 40, pp. 58-69 Gangemi, Roma, 2010. [13] A. Saggio, Introduzione alla rivoluzione informatica in architettura, Carrocci, Roma, 2007. [14] M. Bandur, Aesthetics of Total Serialism. Contemporary Research form Music to Architecture, Springer, 2001. [15] H. Adam, B. Baumann, F. Hauser, Architektur Musik, Niggli Verlag, Sulgen, 2011. [16] P. Eisenmann, Giuseppe Terragni. Trasformazioni, scomposizioni, critiche, con due saggi di G. Terragni e M. Tafuri, Quodlibet, Macerata, 2004. [17] G. Belotti, Chopin, Edizioni di Torino, Torino, 1984, pp. 88, 122, 538. [18] L.V. Barbera, Poetica della Dissonanza, in A. Muntoni e A. Terranova (a cura di) Atti del Convegno “Bruno Zevi, per l’architettura, Roma 14-16 marzo 2002”, Gangemi, Roma, 2005. [19] L.V. Barbera, Schubert è uno stupido, in Lucio Barbera, 5 Pezzi Facili in onore di Ludovico Quaroni, Kappa, Roma 1989, pag. 38. Sitografia http://places.designobserver.com/feature/an-interview-with-jacques-herzog/32118/ http://www.leonardbernstein.com/norton.htm http://www.youtube.com/watch?v=szmr4ycgbmu http://www.furcht.it/300rtl3.htm http://users.unimi.it/~gpiana/dm6/dm6kmlv.htm http://www.rsi.ch/argerich/welcome.cfm?lng=0&ids=490&idc=10405 http://www.mat.ucsb.edu/~marcos/themusicofarchitecture.pdf http://www.rodoni.ch/busoni/estetica/estetica.html http://www.harvardartmuseums.org/art/221276