L’euro alla ricerca
della sua identità.
Economic Briefing n. 21
Un bilancio intermedio in occasione del secondo anniversario della moneta unica europea.
Timing infelice o debolezze strutturali?
Quant’è lunga l’ombra degli Stati Uniti?
Economic Research
Politica: il tallone d’Achille di Eurolandia.
Sommario
1. Eurolandia sul banco di prova
Politica: il tallone d’Achille dell’Uem?
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Politica dei cambi Usa: il dollaro forte
asseconda gli interessi degli americani
4
Politica monetaria: la problematica
«one size fits all»
4
Attrattiva della piazza: Stati Uniti davanti a tutti
5
Flussi di capitale: tutto converge verso
gli Stati Uniti
6
2. Indicatori per l’euro
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12 dicembre 2000
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7
Politica dell’Ue: si parte da Nizza
7
Politica economica: urge un chiaro
indirizzo riformatore
7
Espansione dell’Uem: tra desideri e realtà
8
3. Prospettive
Editore
CREDIT SUISSE Economic Research,
casella postale 100, CH-8070 Zurigo
4
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L’euro alla ricerca della sua identità
All’inizio del 1999 l’introduzione della moneta unica europea venne accompagnata da obiettivi ambiziosi. Allora si sosteneva che l’euro sarebbe diventato altrettanto forte del marco tedesco. Nel
frattempo, questa previsione si è rivelata utopica,
visto che nei confronti del dollaro l’euro ha ceduto
progressivamente più di un quarto del suo valore.
L’attrattiva della piazza statunitense – contraddistinta soprattutto da una vigorosa crescita della
produttività e dall’ampia credibilità di cui gode la
banca centrale – ha calamitato un copioso flusso
di capitali nell’area del dollaro. L’euro non è stato
in grado di contendere al dollaro la supremazia di
moneta internazionale e l’allineamento congiunturale fra Eurolandia e Stati Uniti si è fatto attendere a lungo. Dopo due anni di Unione monetaria
europea ci si chiede se le iniziali difficoltà della
moneta unica europea vadano imputate a cause
strutturali o se non siano piuttosto il risultato di un
timing infelice.
CREDIT SUISSE Economic Research
Economic Briefing n. 21
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1. Eurolandia sul banco di prova
1.1. Politica: il tallone d’Achille dell’Uem?
Un’insufficiente stabilità politica nella zona dell’euro viene spesso addotta come motivo della diffidenza nutrita
dagli investitori esteri nei riguardi della moneta unica europea. Non si può certo affermare che il firmamento europeo subito dopo il decollo dell’Unione economica e
monetaria (Uem) non sia stato costellato da passi falsi e
crisi politiche. Nel 1999 il Governo tedesco guidato dal
Cancelliere Schröder visse una crisi di credibilità, che
attraverso la politica economica dell’allora ministro delle
finanze Lafontaine gettò lo scompiglio sui mercati finanziari europei. Peraltro anche la Francia riuscì a catturare
l’attenzione dei media. La riforma fiscale dell’attuale
Governo esprime più l’orientamento della politica francese alle elezioni presidenziali del 2002 che un’autentica volontà riformatrice. L’Italia è riuscita ad aderire
all’Uem in extremis grazie ai massicci sforzi di contenimento del bilancio; da allora la spinta riformatrice si è
tuttavia paralizzata.
Il rifiuto dell’euro espresso dalla Danimarca ha reso un
altro cattivo servizio politico alla moneta unica. La decisione ha avuto la valenza di un segnale e solleva
l’interrogativo del consenso per l’euro nella popolazione.
Il solo Paese dell’Ue il cui popolo poteva votare sulla
partecipazione all’Uem ha mostrato indifferenza per la
moneta unica europea.
Un altro quesito a cui dare risposta è sapere se l’unificazione di così tanti Paesi non faccia dell’euro una moneta più facilmente soggetta a crisi politiche. A prima
vista i rischi che si annidano in un investimento diversificato in euro non sono maggiori di quelli di un portafoglio
misto composto dalle monete storiche dei Paesi membri
di Eurolandia. Una crisi in un Paese dell’Uem, come dimostrato dai blocchi stradali eretti in Francia per protesta contro il rialzo del prezzo del greggio, potrebbe però
spingere gli investitori ad alienare «in blocco» gli averi in
euro e, per mancanza di monete alternative in Europa,
volgere le spalle all’intera area dell’euro. Unione monetaria europea significa pure che la crisi di un Paese importante acutizzerebbe il pericolo di contagio per la moneta comune e potrebbe innescare un effetto «valanga».
1.2. Politica dei cambi Usa: il dollaro forte
asseconda gli interessi degli americani
Gli aumenti di produttività dell’industria statunitense
hanno creato premesse propizie per la tendenza al rialzo
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Economic Briefing n. 21
del biglietto verde e hanno inoltre consentito di accettare
un dollaro ponderato su base commerciale più alto senza esporsi a rischi particolari per la capacità concorrenziale della propria industria d’esportazione. Le autorità
statunitensi hanno inoltre promosso in modo sistematico
e mirato la rivalutazione della moneta interna. Dall’insediamento del ministro delle finanze Robert Rubin, avvenuta all’inizio del 1995, l’amministrazione Usa ha costantemente perseguito una politica del «dollaro forte»,
rinunciando a usare il corso di cambio come arma contro
i partner commerciali ritrosi.
Non è un caso che proprio un ex banchiere di Wall
Street abbia vigorosamente sorretto questo indirizzo. La
politica dell’amministrazione statunitense di promuovere
in modo mirato una rivalutazione del dollaro ha contribuito, accanto a fattori di economia reale, a garantire un
costante afflusso di capitali esteri per il finanziamento
del disavanzo della bilancia delle partite correnti; e ciò
non da ultimo nell’aspettativa che gli investitori internazionali ottengano una parte del rendimento maturato sui
titoli in dollari sotto forma di guadagni sul cambio. Di più,
un dollaro forte imbriglierebbe i prezzi all’importazione,
mentre il conseguente afflusso di beni esteri contribuirebbe a sua volta a mitigare le spinte inflazionistiche.
Questo punto è stato sottolineato più volte dal Governatore della Banca centrale Alan Greenspan. Tanto fra i
democratici quanto fra i repubblicani prevale l’avviso che
un allontanamento dalla politica perseguita finora comprometterebbe la prosperità degli Stati Uniti.
1.3. Politica monetaria:
la problematica «one size fits all»
Il compito precipuo della Banca centrale europea (Bce)
è garantire la stabilità dei prezzi, intendendo con ciò un
tasso d’inflazione inferiore al 2%. L’eterogeneità delle
strutture economiche nell’area dell’euro ostacola in misura sostanziale l’assolvimento di questo compito. Ai
Paesi in rapida espansione come l’Irlanda o la Spagna,
che evidenziano tendenze al surriscaldamento e tassi
d’inflazione in ascesa, occorrerebbe pertanto una politica monetaria molto più rigida. L’aumento delle imposte
rispettivamente il contenimento della spesa pubblica
sarebbero un’alternativa ipotizzabile a una politica monetaria autonoma, ma poco realistica per motivi di carattere politico.
In fasi di spiccato ristagno della crescita l’istituto
d’emissione potrebbe altresì subire le pressioni di alcuni
importanti Paesi, esercitate al fine di ottenere maggiori
CREDIT SUISSE Economic Research
riguardi per le loro economie. A giusto titolo è stato sollevato l’interrogativo sulla definizione della politica monetaria della Bce, e in particolare sulla maggiore attenzione per le esigenze dei Paesi principali rispetto alle
economie minori. Secondo previsioni dell’Ue, il tasso di
rincaro nella zona euro dovrebbe spingersi oltre la soglia
obiettivo del 2% non solo nel 2000, ma anche nel 2001.
In questa evoluzione si riflette non da ultimo il rialzo del
prezzo del petrolio. A lungo termine l’effetto prodotto dal
prezzo del greggio non potrà più essere addotto a giustificazione di un superamento del tasso d’inflazione.
I problemi di comunicazione che hanno afflitto più volte
la Banca centrale europea nel corso della sua giovane
storia si sono rivelati un aggravio aggiuntivo. I mercati
delle divise hanno interpretato come pura nonchalance
la spensieratezza che ha a lungo caratterizzato l’atteggiamento della Bce nei confronti dell’andamento del
valore esterno dell’euro. Da allora pareri contrastanti
espressi da rappresentanti delle banche centrali e da
personalità politiche dell’Ue si sono susseguiti con frequenza, nuocendo alla credibilità della moneta unica europea.
Lo scetticismo nutrito da numerosi investitori nei confronti della praticabilità di una politica monetaria unitaria
in un’area economica ancora eterogenea ha trovato
espressione in un premio di rischio più elevato in sede di
valutazione di titoli stilati in euro. Dall’inizio del 1999 – in
sincronia con l’inizio dell’Unione monetaria – il cambio
USD/EUR non reagisce più ai movimenti del differenziale d’interessi reale a dieci anni fra Germania e Stati
Figura 1: cambi e differenziale reale d’interessi*
* Differenziale dei tassi swap decennali fra l’Ue degli Undici
e gli Stati Uniti
Fonte: Datastream, CREDIT SUISSE Economic Research
CREDIT SUISSE Economic Research
Uniti (vedi figura 1). A seguito della relazione storica,
l’euro dovrebbe presentare una quotazione superiore.
Una spiegazione ottimistica conforterebbe la tesi che
prima o poi gli operatori di mercato reagiranno a questa
valutazione errata, con l’effetto di alimentare verosimilmente una rivalutazione dell’euro. Una spiegazione più
obiettiva sosterrebbe che il crescente effetto forbice fra
corso di cambio e differenziale d’interessi sta a indicare
un premio di rischio per prestiti in euro a lungo termine,
ciò che andrebbe valutato come espressione dello scetticismo del mercato verso il potenziale di affermazione
sul lungo periodo della moneta unica europea.
1.4. Attrattiva della piazza:
Stati Uniti davanti a tutti
La capacità dell’economia statunitense di calamitare capitali e personale specializzato esteri è una caratteristica
essenziale della ripresa economica dal 1995. Nell’era
del «capitalismo globalizzato» il capitale confluisce nei
Paesi che offrono le migliori prospettive di rendimento. Il
disavanzo accusato dalla bilancia delle partite correnti
perde di importanza, fintantoché si riesce ad attirare capitali esteri con la promessa di condizioni quadro invitanti. Negli anni Novanta, il cambio USD/EUR presentava
una correlazione positiva con il disavanzo della bilancia
delle partite correnti statunitense.
Negli ultimi anni le condizioni quadro dei fondamentali
nell’area dell’euro si sono dimostrate, quasi senza eccezione, peggiori di quelle vigenti negli Stati Uniti. La deregolamentazione dei mercati del lavoro e delle merci è insufficiente e l’alto costo della manodopera in alcuni
Paesi è spesso un esplicito invito a trasferire la produzione all’estero. Sistemi educativi e formativi obsoleti frenano la dinamica innovativa, e in numerosi settori chiave
come l’informatica o la biotecnologia l’Europa accusa un
certo ritardo. Esperimenti come l’introduzione della
settimana lavorativa di 35 ore in Francia testimoniano
inoltre una limitata comprensione dei meccanismi
dell’economia. Infine, dalla fine del 1998 i governi
dell’Ue, in maggioranza d’indirizzo socialdemocratico,
hanno manifestato una scarsa disponibilità a varare riforme, il che ha inasprito l’atteggiamento improntato alla
prudenza adottato dagli investitori nei confronti
dell’euro.
L’onere fiscale e l’elevata regolamentazione sono altri
ostacoli che frenano il potenziale di crescita di Eurolandia. In molti Paesi dell’Ue lo Stato rivendica circa la metà
del valore aggiunto nazionale. In una simile «economia di
Economic Briefing n. 21
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Figura 2: gli investimenti diretti netti in Eurolandia
evidenziano la scarsa attrattiva della piazza
Fonte: Banca centrale europea
mercato» la voglia di spendere delle economie domestiche rimane perlopiù moderata, le imprese investono in
ampia misura all’estero e vi trasferiscono posti di lavoro.
Uno sguardo allo sviluppo dei flussi netti d’investimenti
diretti verso Eurolandia dal 1997 (vedi figura 2) comprova la scarsa attrattiva dell’area dell’euro come piazza
d’investimento. Pur se l’espansione negli Stati Uniti di
imprese europee è da valutare come una prova di dinamismo, questa crescita ha avuto pesanti ricadute sul
cambio. A dispetto delle smodate esagerazioni dei reaganomics negli anni Ottanta (sgravi fiscali aggressivi
senza riduzione delle uscite statali), l’esempio degli Usa
dimostra che un aggravio fiscale moderato accresce il
potenziale di crescita di una macroeconomia. Rispetto
agli Stati Uniti, Eurolandia è ancora penalizzata da svantaggi strutturali, situazione che si riflette in premi di rischio più consistenti per gl’investimenti in euro.
1.5. Flussi di capitale:
tutto converge verso gli Stati Uniti
La causa principale della fragilità dell’euro va ricercata
nella direzione dei flussi di capitale fra Stati Uniti ed Eurolandia. La crescente diversificazione dei portafogli
azionari osservata negli anni Novanta, l’alta redditività
del capitale proprio delle aziende statunitensi e l’arresto
della crescita in numerosi Paesi emergenti dal 1997/98
in poi hanno fatto degli Stati Uniti il bacino di raccolta
principale in cui convergono i flussi di capitale internazionali. Viceversa, l’area dell’euro ha subito le conseguenze prodotte da condizioni quadro avverse. Uno sguardo
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Economic Briefing n. 21
alle varie componenti della bilancia dei movimenti di capitale di Eurolandia illustra chiaramente questo stato di
fatto.
Investimenti diretti: negli anni scorsi diversi gruppi europei, non da ultimo grazie alla creazione di un euromercato dei capitali unitario, hanno effettuato in grande stile
rilevamenti di società negli Stati Uniti. Oggi nessuna impresa può aspirare alla leadership in un determinato settore senza prima assicurarsi una forte presenza negli
Stati Uniti. Nel frattempo molte società europee, come
la Deutsche Telekom con il fornitore di telefonia mobile
VoiceStream, hanno gettato una testa di ponte negli
Stati Uniti. Anche se i tonfi alle borse dei titoli tecnologici
e sui mercati del credito ostacolano il finanziamento di
acquisizioni e le tendenze al raffreddamento osservate
nell’economia mondiale lasciano presagire una contrazione delle fusioni societarie, riflessioni di natura strutturale rendono alquanto inverosimile un inaridimento repentino del flusso degli investimenti diretti verso l’area
del dollaro.
Investimenti di portafoglio: dal 1997 gli operatori esteri
hanno investito maggiormente in prestiti aziendali e azioni statunitensi. In un periodo di progressive crisi finanziarie l’impressionante forza di propulsione della congiuntura nazionale Usa, la quasi inesauribile crescita degli utili
dei gruppi tecnologici a stelle e strisce e la sedicente
infallibilità della Banca centrale statunitense hanno calamitato ingenti capitali esteri, facendo impennare il dollaro. L’affievolirsi della congiuntura Usa e il peggioramento della solvibilità di aziende statunitensi dovrebbero
lasciare tracce durature, cosicché in questo comparto si
pronostica una diminuzione dei flussi di capitale.
Nuova ponderazione della famiglia di indici MSCI: la
considerazione del flottante («free float») nella capitalizzazione di mercato di una società sfocia in una nuova
ponderazione della nota famiglia di indici azionari di Morgan Stanley Capital International (MSCI), che risulta
propizia alle azioni statunitensi. I Paesi europei detengono ad esempio ancora consistenti pacchetti di azioni delle loro ex società di telecomunicazioni, che vengono
soppressi nel nuovo calcolo dell’indice. Ricomposizioni
di portafoglio di gestori patrimoniali che indirizzano la
loro strategia agli indici dovrebbero generare un esodo
di capitali da Eurolandia pari a circa 45 miliardi di USD,
mentre gli Stati Uniti possono prevedere un afflusso di
pressappoco 35 miliardi di USD.
CREDIT SUISSE Economic Research
2. Segnavia per l’euro
Il 1° gennaio 2002 prenderà il via l’introduzione del
contante. La moneta unica europea diventerà così
tangibile anche per il vasto pubblico. Per effetto
delle nuove monete e banconote il valore esterno
dell’euro non verrà automaticamente sottoposto
ad una valutazione ex novo. Sotto il profilo psicologico il momento è però di estrema valenza: quando
la sostituzione fisica delle monete nazionali sarà
una realtà verranno ritirati maggiori capitali da
Eurolandia? Oppure l’euro sarà in grado di conquistare la fiducia degli investitori? La via da seguire
dipenderà da quali segnali invierà l’Ue, che intende
accrescere la propria attrattiva di piazza economica e sta preparando l’espansione verso Est.
2.1. Politica Ue: si parte da Nizza
Il sistema politico dell’Ue costituisce il quadro istituzionale di Eurolandia. Per radicare la fiducia nell’euro i processi decisionali all’interno della Comunità devono imperativamente funzionare. Solo una Ue capace di agire
è in grado di conferire impulsi a beneficio di un indirizzo
riformatore della politica economica e a guardare con fiducia all’espansione.
Il vertice Ue di Nizza con i suoi numerosi compromessi
ha segnato una tappa nel processo di riforme istituzionali, ma non un traguardo. In particolare si imporrebbe
una riforma del Consiglio direttivo della Bce, organo decisionale in materia di politica monetaria, e dove a
tutt’oggi il potenziale influsso di singoli interessi nazionali
è considerevole: a sei direttori della Bce fanno da contrapposto dodici governatori di banche centrali nazionali.
Ogni estensione della zona euro consolida quindi il piano
nazionale e potrebbe svigorire la capacità di agire della
Bce. Una riduzione della rappresentanza di banche centrali nazionali potrebbe essere ottenuta con un sistema
di rotazione ispirato al modello statunitense.
Ma sarà la prassi politica a evidenziare gli effetti che il
maggior potere – deciso al vertice di Nizza – degli Stati
ad alta densità demografica in seno al Consiglio dei Ministri produrrà sulla capacità decisionale dell’Ue. Rafforzare l’influsso dei grandi Paesi significa altresì consentir
loro di bloccare decisioni con il sostegno di pochi alleati.
Insoluta rimane inoltre la questione dell’equilibrio di potere fra Consiglio dei Ministri e Commissione. Il grande
dibattito incentrato su una chiara delimitazione delle
competenze fra l’Ue e i singoli Paesi membri è previsto
CREDIT SUISSE Economic Research
per il 2004. A Nizza è mancato un sostanziale progresso
del processo di votazione con decisioni maggioritarie.
Per contro, con l’agevolazione della collaborazione di
singoli Paesi membri è stato definito un approccio inteso
a mitigare l’effetto di veti nazionali. In futuro sarà pertanto sempre più difficile garantire un ritmo di marcia comune per il processo d’integrazione.
2.2. Politica economica:
urge un chiaro indirizzo riformatore
Eurolandia è adombrata dall’attrattiva dell’economia
statunitense. L’Europa si chiede se sarà possibile contenere il divario che la separa dagli Stati Uniti e se la leadership Usa permarrà sul lungo periodo, considerato
che negli anni Ottanta e Novanta la politica economica
statunitense ha seguito indirizzi dimostratisi paganti.
In Europa si impongono riforme di economia di mercato
che sappiano delineare una direzione di marcia comune
e non riflettano un’immagine confusa di obiettivi diversi.
Ciò potrebbe potenziare le conseguenze dell’introduzione dell’euro, che dà vita a un mercato dei capitali più
esteso e liquido. Gli sgravi fiscali in Germania e Francia
rappresentano un primo passo; s’impongono tuttavia
ulteriori interventi di flessibilizzazione dei mercati del lavoro e di riforma della previdenza per la vecchiaia. La realizzazione di progetti che mirano al completamento
dell’integrazione del mercato interno sarebbe un segnale positivo per l’area dell’euro. Al riguardo vanno sottolineati ad esempio i piani d’intervento Ue per servizi finanziari e il mercato del capitale di rischio, come pure
Figura 3: spese per le tecnologie dell’informazione
e della telecomunicazione
Fonte: Commissione europea, sulla base dell’EITO 2000
Economic Briefing n. 21
7
l’iniziativa eEurope. Con riguardo agli investimenti in capitale di rischio ad esempio, il Vecchio Continente arranca chiaramente alle spalle degli Stati Uniti. In Europa
sono meno generose anche le spese complessive per le
tecnologie dell’informazione e delle telecomunicazioni.
L’osservazione distinta delle spese in questo comparto
evidenzia tuttavia che, seppur chiaramente svantaggiata
nella tecnologia dell’informazione, l’Ue precede gli Stati
Uniti nelle telecomunicazioni (vedi figura 3). Sussiste
dunque il potenziale per migliorare la competitività nei
confronti degli Stati Uniti, ma è imperativo che si evitino
manovre restrittive nei progetti di riforma.
2.3. Espansione dell’Uem: tra desideri e realtà
Dopo il «no» all’euro espresso dalla Danimarca affiora
prepotentemente il seguente interrogativo: la zona
dell’euro è invitante soltanto per le economie più deboli
dell’Europa centrale e orientale, mentre non desta particolare interesse presso i Paesi più forti dell’Europa settentrionale?
Scetticismo in Europa settentrionale: Gran Bretagna,
Svezia e Danimarca sono i candidati ideali, appetibili agli
occhi di Eurolandia grazie a finanze statali sane e tassi di
disoccupazione inferiori alla media Uem. Ma non è solo
la Danimarca a mantenere le distanze dalla moneta unica europea: oggi, oltre il 70% dei britannici e più della
metà degli svedesi respingono l’euro. Un indicatore per
l’evoluzione del consenso nell’Europa settentrionale è la
misurazione delle forze in termini di politica interna in
Gran Bretagna. In occasione delle prossime elezioni,
che si terranno verosimilmente nella primavera 2001, i
conservatori sfideranno il Governo laburista di Tony Blair
promuovendo campagne anti euro.
Anticamera a Est: rispetto a Eurolandia, i possibili candidati all’Ue dei Paesi dell’Europa centrale e orientale presentano un reddito pro capite assai più modesto. Per
poter risollevare il capo tali economie devono mettere a
segno tassi di crescita più sostenuti sull’arco di vari anni,
uno sviluppo che – come insegna l’esperienza – è spesso accompagnato da tassi d’inflazione più accentuati. I
Paesi candidati avranno migliori chance di ricupero se
potranno disporre anche in avvenire della valvola di sfogo di una politica monetaria autonoma e di cambi flessibili. Un’adesione prematura graverebbe sull’euro, anche
se in ottica puramente statistica i tassi d’inflazione più
sostenuti nell’Europa centrale e orientale dovrebbero
esercitare un influsso trascurabile sul rincaro di Eurolandia (vedi figura 4). Se la Bce dovesse però tener conto
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Economic Briefing n. 21
Figura 4: ponderazione geografica nell’indice dei
prezzi al consumo di una Uem ampliata
Per misurare l’inflazione nell’area dell’euro la Bce utilizza l’indice
armonizzato dei prezzi al consumo (IAPC). Il peso di un Paese
nell’IAPC corrisponde alla sua quota al consumo interno privato
complessivo dell’Uem.
Fonte: CREDIT SUISSE Economic Research
della situazione dell’Europa centrale e orientale, penalizzerebbe l’intera area dell’euro con un intervento rialzista
sui tassi d’interesse; in difetto di interventi da parte
dell’istituto centrale, i tassi mantenuti artificialmente
bassi produrrebbero un surriscaldamento delle economie delle aree geografiche europee menzionate poc’anzi e di conseguenza un peggioramento della loro competitività. I mercati delle divise giungerebbero dunque alla
conclusione che Eurolandia è gravata da economie gracili, e ciò non per un periodo limitato, bensì in una prospettiva a lungo respiro.
I primi Stati dell’Europa centrale e orientale potranno
verosimilmente agganciarsi al treno dell’Ue a partire dal
2005. Con l’acquis giuridico comunitario si assumono
l’impegno, dopo una fase di transizione, di aderire
all’Uem. Tale passo premette l’adempimento dei criteri di
convergenza sanciti dal Trattato di Maastricht (tasso
d’inflazione, disavanzo pubblico, indebitamento, tassi
d’interesse e due anni di adesione allo SME II), nonché la
considerazione di altri fattori come l’integrazione dei mercati o il costo unitario del lavoro. Politicamente, la richiesta di elementi supplementari – in termini di economia
reale – è assai controversa. Per il loro stesso interesse, in
vista di un’eventuale adesione all’Uem i Paesi dell’Europa
centrale e orientale dovrebbero tuttavia monitorare l’andamento dell’economia reale e accettare di trattenersi un
po’ più a lungo nell’anticamera di Eurolandia.
CREDIT SUISSE Economic Research
3. Prospettive
Nel breve periodo l’euro ha compiuto il fatidico giro di
boa. La decelerazione della progressione economica
statunitense sta assottigliando notevolmente il gap di
crescita su ambo le sponde dell’oceano e ha preparato il
terreno per un rinvigorimento dell’euro. In un orizzonte di
un anno pronostichiamo un rapporto fra 0.95 – 0.98
USD/EUR.
Sarebbe tuttavia errato attendere un miglioramento fulmineo del corso dell’euro. Una fuga repentina dal dollaro è uno scenario che appare assai poco realistico. Gli
investitori istituzionali statunitensi controllano tuttora patrimoni considerevoli e dalla nascita dell’euro hanno dimostrato molta prudenza nei confronti della moneta unica europea. Alla luce dell’incerta evoluzione della
congiuntura statunitense, sui mercati finanziari Usa dovrebbe aumentare l’avversione al rischio, ciò che non lascia presagire grandi riassetti di portafoglio dal mercato
nazionale nell’area dell’euro.
Siccome l’intensa lotta sui prezzi dell’economia statunitense ha effetti antinflazionistici, in caso di turbolenze
borsistiche la Banca centrale statunitense può intervenire in soccorso dei mercati finanziari locali con tagli ai tassi, contrastando così una perdita di fiducia nei confronti
del biglietto verde. Peraltro, anche l’Europa è interessata a che l’economia statunitense non perda vigore e il
corso dell’euro non superi quota 1 USD/EUR. La debolezza dell’euro ha in qualche modo contribuito alla rivitalizzazione dell’economia europea. Un rapido deprezzamento del dollaro, collegato a un atterraggio tutt’altro
che morbido della congiuntura negli Stati Uniti, soffocherebbe la ripresa sorretta dalle esportazioni tuttora in
corso in Europa.
Due fattori d’incertezza potrebbero parimenti contenere
il ricupero dell’euro. Il primo è il prezzo del petrolio. Siccome sul mercato mondiale il barile viene contrattato in
dollari, un prezzo elevato del greggio comporta un rialzo
della domanda di tale moneta. Un inasprimento della situazione nel Medio Oriente potrebbe far nuovamente lievitare le quotazioni dell’oro nero. Il secondo fattore
d’incertezza risiede nel possibile stemperamento della
politica fiscale statunitense. L’affievolirsi del vento congiunturale negli Stati Uniti dovrebbe consentire persino
a un Presidente indebolito di far approvare dal Congresso un pacchetto di sgravi fiscali e aumenti delle spese.
Nella più estrema delle ipotesi, entro un anno potremmo
nuovamente assistere ad una politica fiscale espansiva
CREDIT SUISSE Economic Research
abbinata a un indirizzo monetario restrittivo, situazione
che negli anni Ottanta, sotto l’amministrazione Reagan,
fece impennare il biglietto verde.
Elementi strutturali e istituzionali influenzano l’evoluzione a lungo termine dell’euro. Solo ravvisabili e chiare
riforme in tema di politica economica possono convogliare capitali esteri verso l’area dell’euro, mentre un ristagno del processo riformatore in Europa li farebbe
semplicemente passare oltre. Sotto questo punto di vista i Paesi dell’Uem dovranno impegnarsi per fugare il
pericolo di un indebolimento strutturale duraturo della
moneta unica. Il valore esterno dell’euro dovrebbe inoltre essere influenzato dai futuri confini esterni di Eurolandia. Un’ostinata volontà di tenersi in disparte da parte
dell’Europa settentrionale e un’espansione affrettata
dell’Uem verso Est avrebbero pesanti ricadute sull’euro.
Proprio nell’ottica di un’espansione dell’area dell’euro
verso est, che seguirebbe all’allargamento dell’Ue, Eurolandia abbisogna di condizioni quadro istituzionali funzionanti. Fra queste si annovera un direttorio Bce sufficientemente influente a livello di politica monetaria in
seno al Consiglio direttivo Bce. Occorrono quindi processi decisionali che non possano essere bloccati neppure da un’Ue con 27 Paesi membri. A questo riguardo,
dopo la serrata lotta per le prime riforme istituzionali del
vertice Ue di Nizza appare chiaro che rimane ancora parecchio lavoro da fare.
Economic Briefing n. 21
9
Appunti
10
Economic Briefing n. 21
CREDIT SUISSE Economic Research
Nella collana «Economic Briefing» sono stati pubblicati i seguenti numeri:
N.
Titolo
N. di mat.
Italiano
N. di mat.
Tedesco
N. di mat.
Francese
N. di mat.
Inglese
1
Europäische Währungsunion:
Ein Jahr vor der Entscheidung (4/97)
–
esaurito
esaurito
–
2
L’unione monetaria europea:
Le vostre domande – le nostre risposte (7/97 und 5/98)
1521023
1521021
1521022
1521024
3
Inflation: Totgesagte leben länger (10/97)
–
1510331
–
–
4
Die EWU: Spreads and more . . . (10/97)
–
esaurito
–
esaurito
5
Schweizerische Sozialpolitik: Quo Vadis (10/97)
–
esaurito
1510352
–
6
Elchtest für den Euro: Der Weg zur Einheitswährung (3/98)
–
esaurito
esaurito
esaurito
7
Mercato svizzero del credito: nessi economici (7/98):
retrospettiva e prospettive
1510773
1510771
1510772
–
8
Imprese ed euro: Ho pensato a tutto? (5/98)
esaurito
1510781
1510782
–
9
Der Euro kommt: Mechanik und Dynamik im Euroland (7/98)
–
esaurito
esaurito
esaurito
10
Kantonale Finanzen: Die Herausforderungen
der Zukunft verlangen Teamarbeit (9/98)
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1510871
1510872
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11
Das Jahr-2000-Problem: Keine Rezession in Sicht (6/99)
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esaurito
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12
Finanza globale: non nuova, ma assai promettente (10/99)
1510993
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1510992
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13
Neuer Glanz für Gold . . . (10/99)
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1540702
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14
Aktien als langfristige Kapitalanlage (11/99)
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1540714
15
Electronic Commerce:
(R)evolution für Wirtschaft und Gesellschaft (1/00)
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16
Europäische Union: Gestern, heute, morgen (3/00)
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17
Shareholder Value: Viel mehr als ein Schlagwort (6/00)
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18
Die Schweiz im internationalen Wettbewerb (8/00)
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19
L’assetto del mercato svizzero del lavoro –
un ostacolo per la crescita? (9/00)
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20
Diversifikation – Strategie für eine erfolgreiche
Kapitalanlage. (12/00)
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21
L’euro alla ricerca della sua identità. (1/01)
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CREDIT SUISSE Economic Research
Economic Briefing n. 21
11
CCV / N. di mat. 1511493 / 1.2001
Stampato su cellulosa sbiancata al 100% senza cloro