EAN– European Astrosky Network n. 3, luglio 2011 Webzine gratuita www.eanweb.com [email protected] ASTRONOMIA & INFORMAZIONE INDICE • Editoriale • Vitttorio LOVATO, Spettroscopia astronomica amatoriale fai date • Daniele GASPARRI, Come ottenere i principali parametri planetari dall’osservazione di un transito extrasolare • Rodolfo CALANCA, Nel quarto centenario della nascita di Johannes Hevelius • Galleria fotografica del 4° Convegno EAN di Concordia sulla Secchia, 27-28-29 maggio 2011 • Foto dell’eclisse di Luna del 15 giugno 2011 Pagina 2 ASTRONOMIA NOVA n. 3, luglio 2011 REDAZIONE Direttore editoriale: Rodolfo Calanca, [email protected] Co-direttore: Angelo Angeletti, [email protected] Redattore responsabile: Manlio Bellesi, [email protected] Redattore: Lorenzo Brandi, [email protected] Responsabile dei servizi web: Nicolò Conte [email protected] In copertina: Una panoramica "definitiva" della bellissima eclisse seguita la sera tra il 15 e 16 giugno di Cristian Fattinnanzi. Cristian ha sommato separatamente le immagini del cielo e della luna, per evitare mossi relativi e riunito tutto con photoshop sulla base dell'immagine delle 20:26 UT. Molto bello anche il video realizzato da Cristian: www.youtube.com/watch?v=KPdUHbz72lw SPONSOR PROGETTI EAN ASTRONOMIA NOVA n. 3, luglio 2011 Pagina 3 EDITORIALE A CURA DELLA REDAZIONE EAN Il terzo numero di ASTRONOMIA NOVA accoglie alcuni interessanti contributi “tecnologici” e teorici. L’articolo di Vittorio Lovato è un’ottima introduzione alla progettazione e alla realizzazione di spettroscopi di qualità, a basso costo. Lovato è sempre disponibile a dare consigli a chi gli si rivolge per chiarimenti, per contattarlo, scrivere a: [email protected]. Il secondo articolo è uno di quelli “corposi” e di non facile digestione. D’altra parte, un po’ di matematica ci vuole, come ci dice giustamente Daniele Gasparri, in particolare se vogliamo ricavare informazioni fondamentali sui pianeti extrasolari dei quali abbiamo noi stessi osservato il transito. Crediamo che, con un po’ di pazienza, molti dei nostri lettori si potranno districare tra le formule proposte da Daniele, il quale, è sempre disponibile per chiarimenti: [email protected]. La soddisfazione di poter determinare, grazie ad una nostra osservazione di un transito e con l’applicazione del formulario di Daniele, le principali caratteristiche di un pianeta extrasolare lontanissimo, è una soddisfazione intellettuale e culturale davvero unica! L’ultimo articolo, di carattere storico, è di uno di noi (Calanca). L’obiettivo è di ricordare la figura di uno dei più grandi astronomi osservatori del Seicento, uno degli inventori dell’astronomia moderna, Johannes Hevelius, nel quarto centenario della nascita. Le iniziative EAN procedono con alacrità crescente. Da poche settimane si sono spenti i riflettori sul Convegno di Concordia, nel corso del quale, con tanti ospiti illustri, abbiamo celebrato alla nostra maniera il 150° dell’Unità Nazionale, ricevendo, per questo, l’ambitissima medaglia, quale premio di rappresentanza, del Presidente della Repubblica! Una soddisfazione straordinaria per tutto lo staff EAN e per il nostro grande sponsor CPL Concordia! Altre nostre proposte stanno avendo un buon successo di pubblico, in particolare, la rubrica sul web, in diretta, ma successivamente riproposta su Youtube, “L’esperto risponde”. Davanti alle webcam di EAN si sono alternati, con grande soddisfazione, Salvatore Albano, Plinio Camaiti, Cristian Fattinnanzi e Fabio Falchi ognuno portando la propria esperienza specifica, premiata dagli ascolti, in particolare su Youtube, con centinaia di “clic” su ogni intervento. Il 9 luglio avremo un incontro “organizzativo” di EAN, aperto a tutti e che sarà pure visibile sulla pagina delle dirette EAN: http://www.eanweb.com/dirette/ Numerosi gli argomenti trattati: dal punto della situazione delle attività, ad una seria proposta organizzativa fino alla presentazione di un articolato (e straordinario!) programma di attività per il biennio 2012-2013. Siete tutti invitati a partecipare! LA REDAZIONE DI ASTRONOMIA NOVA Da sinistra: Rodolfo Calanca, Angelo Angeletti, Manlio Bellesi, Lorenzo Brandi, Nicolò Conte Pagina 4 ASTRONOMIA NOVA n. 3, luglio 2011 Spettroscopia astronomica amatoriale fai da te Vittorio Lovato [email protected] INTRODUZIONE Con il presente saggio, l’autore desidera rendere noti alla comunità degli astrofili italiani, i risultati conseguiti nella progettazione e costruzione, in proprio, di spettroscopi amatoriali particolarmente studiati per essere impiegati sui telescopi, spesso di non grande potenza, posseduti dalla maggioranza degli astrofili, con la speranza di suscitare, fra costoro, degli emuli in grado di dare impulso e prestigio, in Italia, al “fai da te”, in questa particolarissima branca dell’astronomia. Per lo scrivente, l’interesse per la spettroscopia astronomica, inizialmente limitata all’osservazione del Sole, ma ben presto estesa agli oggetti stellari, può essere fatta risalire agli inizi degli anni ’90, grazie all’iniziativa dell’amico Alberto Villa, all’epoca Presidente di un’agguerrita associazione astronomica dell’Oltrepò Pavese. È stato, infatti, nell’anno 1991 che, sotto il suo impulso, abbiamo concepito e insieme realizzato un primo spettroscopio grazie alla disponibilità, che si era venuta a creare, di un eccellente prisma a visione diretta, di una fenditura regolabile e di un telescopio newtoniano da 140 mm, f/8, arrangiato per l’occasione (fig. 1). Benché in quegli anni i moderni sensori elettronici non fossero ancora alla nostra portata e dovessimo per forza accontentarci delle modeste prestazioni fornite dalle emulsioni fotografiche, i risultati ottenuti da questo strumento “quasi giocattolo” furono per noi così inaspettati che decidemmo di scrivere un articolo per la rivista “l’Astronomia”, poi pubblicato nel numero di Maggio 1992. Questo fu l’inizio. Spronati da questa prima positiva esperienza, il passo successivo fu quello di realizzare, utilizzando gli stessi componenti, una nuova versione di spettroscopio da adattare nientemeno che su un riflettore da 400 mm, f/4,5, un telescopio ben più potente del precedente. Purtroppo a quel punto, vicende della vita riferibili a vari fattori, fecero sì che le nostre strade si dividessero. I contatti necessariamente si diradarono, ma l’interesse per la spettroscopia rimase intatto, dandoci peraltro la consapevolezza che se volevamo continuare a coltivare la nostra passione avremmo dovuto (e potuto) provvedere da noi medesimi alla costruzione della strumentazione necessaria. Comunque sia, da Fig. 1: Vittorio Lovato (a sinistra) a fianco del riflettore newtoniano di 14cm utilizzato per i primi esperimenti di spettroscopia. qualche tempo un’altra idea mi frullava per la testa: l’elaborazione di un progetto e la successiva costruzione, forse la prima in Italia, di uno “Spettroelioscopio”, un singolare strumento (ideato da George E. Hale nel 1927), parente stretto dello spettroscopio, ma decisamente più complesso e con funzioni più raffinate. Lo strumento nasceva infatti con lo scopo di osservare il Sole in luce rigorosamente monocromatica, e non solo sull’usuale lunghezza d’onda della riga H-alfa dell’idrogeno, ma anche su righe di altri elementi presenti nello spettro solare. Una costruzione non facile per un amatore, data la complessità dello strumento, il poco tempo disponibile e la scarsa esperienza; ma mi convinsi, dopo breve tempo (e qualche intoppo) che avrei vinto la sfida il giorno in cui ebbi modo di conoscere, tramite “Sky & Telescope”, un americano che vive in California, tale Mr. Fredrick N. Veio, uno dei maggiori esperti in materia fin dagli anni ’70 e che in seguito ebbi anche modo di conoscere personalmente. Per una fortunata combinazione, proprio in quel numero della prestigiosa rivista americana veniva pubblicizzata una sua monografia dal titolo “The Spectrohelioscope” che, ovviamente, mi feci subito spedire. L’impresa, portata avanti a spizzichi e bocconi nei ritagli di tempo libero, richiese alcuni anni, ma alla fine il mio Spettroelioscopio venne alla luce e fatto funzionare (Sole permettendo). ASTRONOMIA NOVA n. 3, luglio 2011 Una breve descrizione di questo strumento, più unico che raro in campo amatoriale e che potrebbe costituire un’alternativa a basso costo dei filtri interferenziali di varia provenienza, sarà fornita più avanti. Un bel giorno, dopo quasi quarant’anni di professione, decisi di staccare la spina e dedicarmi il più possibile alla cura dei miei hobby. Ciò avvenne, circa una decina di anni fa. Alcuni risultati di questa mia attività di costruttore di strumenti amatoriali per l’astronomia, formano oggetto, per quanto si riferisce alla spettroscopia, di quel che segue. Per ognuna delle realizzazioni descritte nel seguito, sono stati elaborati accurati piani di costruzione, disegni costruttivi e abbondanti foto delle varie parti e delle varie fasi costruttive. Tutto questo materiale e altro ancora, è messo a disposizione di chiunque voglia davvero cimentarsi con questo tipo di attività. GENERALITA’ 1) – Lo spettroscopio classico Si presume che, costituendo la spettroscopia (e la spettrografia, che altro non sta a indicare se non la registrazione degli spettri), una branca essenziale dell’astronomia, ogni bravo astrofilo sappia di cosa si tratta e conservi qualche ricordo scolastico su com’è fatto e come funzioni un generico spettroscopio, e non ignori i concetti di Rifrazione e Diffrazione. Detto questo, prendiamo come riferimento lo schema del classico spettroscopio a prisma da laboratorio, che troviamo raffigurato in tutti i libri di Fisica (fig. 2). In esso distinguiamo le seguenti parti: - Una Fenditura, destinata a lasciar passare un sottile Fig. 2 Pagina 5 pennello di luce, proveniente dalla sorgente da analizzare. - Un Collimatore, solitamente un sistema ottico convergente, di conveniente apertura, illuminato dalla fenditura e avente la funzione di rendere paralleli (collimare) i raggi che lo attraversano, dato che il fuoco del collimatore viene fatto coincidere con la fenditura medesima. - Un Prisma, generalmente di vetro, ma che può essere di quarzo, raramente di salgemma,(secondo la gamma di lunghezze d’onda costituenti la radiazione che si vuole studiare), il quale, in base alla legge della rifrazione, funziona da elemento disperdente: dopo averlo attraversato, i raggi in uscita sono ancora paralleli ma deviati e separati nei vari colori. - Si può osservare lo spettro, prodotto dallo strumento, a occhio nudo o, meglio ancora, con l’ausilio di un piccolo cannocchiale, mentre se si vuole registrarlo, basterà sostituire il cannocchiale con l’Obiettivo di una camera fotografica (o altro analogo rivelatore). Benché di funzionamento ineccepibile un siffatto strumento, per com’è strutturato, non è molto indicato per applicazioni astronomiche amatoriali; si ricorrere allora ad altri schemi, fermo restando che il principio di funzionamento rimane immutato. Onde evitare attacchi di panico in lettori a ciò particolarmente predisposti, qui e nel seguito si cercherà di esporre le cose evitando, il più possibile, l’uso di formule matematiche, limitandole a quei casi in cui sono veramente utili e facilmente comprensibili. Pagina 6 ASTRONOMIA NOVA n. 3, luglio 2011 1.1) - Collimatori e Obiettivi Nello schema classico collimatore e obiettivo giocano ruoli separati, ma molto spesso è preferita una diversa soluzione che va sotto il nome di autocollimazione, nella quale le due funzioni sono svolte da un unico elemento. In altre parole, il collimatore assume anche la funzione di obiettivo. Ne vedremo alcuni esempi nel seguito. Con l’autocollimazione, l’elemento unico “collimatoreobiettivo” deve essere privo di aberrazione cromatica. Rispondono a questo requisito (ma non solo) ad esempio gli obiettivi delle vecchie camere reflex che, pertanto, vengono volentieri utilizzati per questo scopo, benché, essendo progettati per altre finalità, detti obiettivi garantiscono un acromatismo che difficilmente va oltre la riga C (656nm) di Fraunhofer, nel rosso, e la riga Hγ (434nm) dell’Idrogeno, nel violetto. Il problema del cromatismo può essere completamente superato adoperando elementi catottrici (specchi concavi) in luogo di elementi diottrici. Regola importante: qualunque sia il tipo di collimatore utilizzato, è imperativo che il suo rapporto d’apertura non sia inferiore a quello del telescopio sul quale è destinato a funzionare. Va detto anche che a parità di condizioni, la focale del collimatore influisce sul potere risolutivo dello strumento, mentre la focale dell’obiettivo ha influenza sulla dispersione reciproca (Å/mm o Å/pixel) e quindi sulla lunghezza dello spettro. Il poter scegliere focali diverse per le due funzioni, offre l’opportunità di soddisfare esigenze talora contrastanti, dello strumento. Ad esempio, tenendo maggiore di uno il rapporto tra le due focali, si ottiene una miglior definizione dello spettro. Nel caso di autocollimazione, le due focali sono uguali e, sotto quest’aspetto, i margini di manovra sono necessariamente più limitati, dovendo rinunciare ad un grado di libertà. 1.2)- La dispersione prodotta da un prisma è relativamente modesta; l’angolo di separazione tra la radiazione rossa e quella violetta è al massimo di due o tre gradi e dipende, a parità di altre condizioni, dall’indice di rifrazione del materiale con cui è fabbricato il prisma. Prima dell’avvento dei reticoli, per aumentare la dispersione si ponevano più prismi in serie. La complicazione meccanica era notevole e la resa non sempre all’altezza delle aspettative; eppure con quest’artifizio, l’astronomo Vesto M. Slipher un secolo fa, usando uno di questi “trabiccoli”, da lui medesimo costruito e montato sullo storico rifrattore da 60 cm dell’Osservatorio Lowell di Flagstaff (Arizona), scoperse per primo i moti delle galassie (fino allora ritenute appartenenti alla Via Lattea) e le loro velocità di allontanamento, misurate tramite l’effetto Doppler, spianando così la strada a E. P. Hubble con le rivoluzionarie conseguenze che ne derivarono. Il potere risolutivo di un prisma, che è la capacità di separare tra loro due righe adiacenti, dipende principalmente dalla lunghezza della base: più grosso è il prisma, maggiore è il potere risolutivo (se il prisma non è completamente illuminato dalla radiazione incidente, si deve considerare solo la parte illuminata). Tanto per fissare le idee, un prisma con base di un centimetro è già in grado di risolvere le due righe D1 e D2 del sodio, ma ciò nonostante, un obiettivo di focale troppo corta potrebbe non essere in grado di distinguerle Il concetto di “potere risolutivo” non deve quindi essere confuso con quello di “dispersione”: sono due cose completamente diverse. I Prismi Costituiscono la categoria di dispersori che funzionano per rifrazione. Nella versione più nota (fig. 2) la sezione del prisma è a forma di triangolo equilatero: con un angolo rifrangente di 60° ci si avvicina molto alla condizione di deviazione minima del fascio rifratto. In astronomia hanno dominato a lungo ma in seguito hanno dovuto cedere il campo ai reticoli di diffrazione. Vesto M. Slipher allo spettroscopio dell’Osservatorio Lowell di Flagstaff (Arizona) ASTRONOMIA NOVA n. 3, luglio 2011 Fig. 3 Come si è accennato più sopra, lo schema classico, a causa della deviazione che l’asse ottico subisce, non trova simpatie nelle applicazioni amatoriali; tuttavia, adottando uno schema ad autocollimazione, si riesce a superare il problema, come si vedrà più avanti. Una seconda soluzione consiste nell’utilizzare speciali prismi detti a “visione diretta”(fig. 3), così definiti poiché producono dispersione senza deviazione. Si tratta di prismi composti di più elementi fabbricati con vetri diversi, incollati assieme. 1.3) - I Reticoli di Diffrazione Appartengono alla categoria dei dispersori che funzionano per Diffrazione. Ne esistono di due tipi: reticoli a trasparenza (o a trasmissione), fig. 4 e reticoli a riflessione (fig. 5). Il principio di funzionamento è tuttavia il medesimo. I primi sono costituiti da un supporto trasparente (generalmente vetro) sul quale sono state tracciate, con alta precisione, delle linee o tratti, opachi ed equidistanti. La densità dei tratti è dell’ordine delle centinaia per millimetro. La luce incidente, nell’attraversare il reticolo subisce, in virtù della diffrazione, una scomposizione nei vari colori ma, a differenza dei prismi che producono un unico spettro, il reticolo (di qualunque tipo) ne produce molteplici, dei quali se ne utilizza solo uno. Una grossa quantità di luce (circa il 50%) non viene diffratta ma attraversa indisturbata il reticolo e va a costituire lo spettro (anomalo) di ordine zero. La rimanenza si ripartisce equamente a destra e a sinistra dell’ordine zero, andando a formare spettri (propriamente detti) di ordine +1, +2, +3, …da un lato, e di ordine -1, -2, -3 …, dall’altro. Vengono in tal modo prodotti due serie di spettri, simmetrici, d’intensità decrescente con l’ordine. Solitamente è utilizzato quello del 1° ordine, il più luminoso. Pagina 7 I reticoli a trasparenza, a causa dell’enorme spreco di luce che li caratterizza, non sono molto indicati per applicazioni in spettroscopia stellare ma, più che altro, per fini didattici, come si vedrà in seguito. Molto più efficienti sono invece i moderni reticoli a riflessione, costituiti da uno spesso supporto di vetro, una superficie del quale è lavorata otticamente e subisce l’incisione di microscopici solchi a forma di denti di sega, in numero di centinaia o migliaia per millimetro. Nasce così il reticolo master. La particolare forma dei solchi praticati in questi reticoli, fa sì che la maggior pare della luce diffratta sia concentrata in una particolare regione dello spettro, e questo è il motivo della loro maggior efficienza rispetto ai reticoli a trasparenza. La lunghezza d’onda in cui la resa è massima, si chiama lunghezza d’onda di blaze (ossia di maggior brillanza). In effetti, l’intensità dello spettro di ordine zero si riduce al 10%, mentre lo spettro blaze si appropria del 60 – 80% della restante radiazione. Dai costosissimi reticoli master, sono ricavate delle repliche che vengono commercializzate a prezzi (per nostra fortuna) molto più accessibili. Oggi si può avere una buona replica per applicazioni amatoriali spendendo un centinaio di euro o poco più (dipende dalle dimensioni della replica). Pagina 8 ASTRONOMIA NOVA n. 3, luglio 2011 La dispersione procurata dai reticoli è sensibilmente lineare e dipende dalla loro frequenza, ossia dal numero di tratti incisi per millimetro, mentre il potere risolutivo (nel 1° ordine) è dato dal numero totale di tratti illuminati dalla radiazione incidente. Man mano che sale la frequenza, i reticoli riescono rapidamente a superare i prismi, sia nel potere risolutivo, sia nella dispersione. Un oggetto assai familiare che ricorda molto un reticolo a riflessione è il comunissimo CD con la sua superficie iridescente, creata dall’incisione delle piste. Peccato che non sia seriamente utilizzabile in spettroscopia. 1.4) - Confronto delle prestazioni fra prismi e reticoli Più che tante parole, vale la sottostante tabella che mette a confronto in termini eminentemente pratici le prestazioni fornite dai prismi e dai reticoli riportate nella tabella 1. La “Focale dell’obiettivo” è quella dell’obiettivo della camera di ripresa; mentre nel caso di autocollimazione coincide con quella del collima- tore. La Tabella1 confronta la lunghezza degli spettri del 1° ordine ottenibili da due reticoli a riflessione di frequenza rispettivamente di 600 e 1200 tratti/mm, nel campo del visibile, e quelli forniti da un prisma, a parità di condizioni. I dati sono parametrati su tre diverse lunghezze focali, rispettivamente di 200mm, 100mm e 50mm ma sono estrapolabili sia per focali, sia per frequenze, diverse da quelle indicate. Per rimanere sul terreno della pratica e nel mondo delle applicazioni amatoriali, uno spettro che raggiunge i 25 mm è da considerarsi già un limite, giacché i sensori a CCD più diffusi hanno dimensioni inferiori al centimetro. Per quanto sia auspicabile la scelta di reticoli a frequenza la più alta possibile, l’esperienza mostra la non convenienza a superare i 300 – 600 tratti/mm, anche se in taluni casi particolari ci possono essere delle eccezioni. In caso poi di autocollimazione, la scelta della frequenza si fa più critica perché con questo schema si perde, come già detto, un grado di libertà. Comunque, reticoli da 300 – 600 tratti/mm il più delle volte vanno ancora bene. Un’altra differenza tra prismi e reticoli è data dal fatto che i prismi forniscono uno spettro non lineare, ( più esteso nel blu che nel rosso). Una differenza, tuttavia, più formale che sostanziale, che non sempre rappresenta uno svantaggio. 1.5) - Lo spettroscopio più semplice ed economico Girovagando qua e là nei meandri di internet, ci si accorge che ottenere uno spettro stellare non è poi così difficile e costoso come generalmente si pensa. Tutto ciò che serve sono un reticolo a trasparenza per uso didattico da 300 – 500 tr./mm (la ditta Jeulin, www.jeulin.fr, ne costruisce di ottimi al costo di pochi euro) o, ancora più semplicemente, un reticolo ricavato da uno di quei fogli di acetato venduti dalla Edmund Scientific, (circa 10 euro per foglio da 30x30 cm). TAB. 1: Lunghezza L dello spettro nella finestra del visibile (da 3800Ǻ a 7800Ǻ) Focale dell’obiettivo Reticolo 1200 tr./ mm f = 200mm Reticolo Prisma 100mm 600 tr./mm 50mm 16mm f = 100mm 50mm 25mm 8mm f = 50mm 25mm 12mm 4mm ASTRONOMIA NOVA n. 3, luglio 2011 Si fissa con del nastro adesivo il reticolo, così recuperato, sul corpo macchina di una reflex (analogica o digitale, non ha importanza) al posto dell’obiettivo, e si monta il tutto sul focheggiatore del telescopio, con l’avvertenza di tenere gli assi X e Y del fotogramma paralleli rispettivamente ai movimenti di Declinazione e di A.R. del telescopio. Si punta una stella, si mette a fuoco, e lo spettroscopio è pronto. Come si deduce dallo schema di fig. 6, trovata una stella abbastanza luminosa, si regola il puntamento in modo che nel campo inquadrato dal mirino si veda, lo spettro di ordine zero (l’immagine puntiforme della stella), con accanto, uno dei due spettri del 1° ordine. Lo spettro si presenta come un sottile, tremolante filo colorato che corre parallelo all’asse X e nel quale è assai arduo percepire la presenza di righe spettrali, per il semplice motivo che le righe, ammesso che ci siano, sono ridotte a semplici puntini, per di più disturbati dalla turbolenza atmosferica. Per evidenziare le righe, occorre che durante la ripresa si faccia scorrere il fotogramma secondo l’asse Y, per esempio rallentando o arrestando temporaneamente il moto orario. Lo spettro viene così pian piano “spalmato” trasversalmente e le righe compaiono come per incanto. Questo procedimento vale sempre, ma trova assoluta indicazione nel caso di registrazione su di un sensore digitale (CCD o CMOS). l’allargamento può essere eseguito via software, dopo l’acquisizione dello spettro grezzo, con uno dei tanti programmi disponibili per l’elaborazione delle immagini. Dalla stessa Fig. 6, quei pochi o tanti lettori che non si ritraggono inorriditi di fronte a formule matematiche, possono ricavare tutti gli elementi necessari per dimensionare da se stessi questo semplicissimo ed economico Pagina 9 spettroscopio, giocando su distanze, frequenza del reticolo, lunghezza dello spettro, dimensione del sensore, ecc. Non solo, ma dallo spettro così ottenuto è anche possibile determinare le lunghezze d’onda delle righe spettrali dalla loro distanza rispetto all’immagine della stella (spettro di ordine zero), presa come punto di riferimento. Si può notare, infatti, che queste distanze dipendono univocamente, per un dato reticolo, dalla lunghezza d’onda delle righe medesime. Per inciso, non c’è neppure bisogno di scervellarsi più di tanto, perché queste determinazioni possono essere fatte in automatico con il programma Visual Spec, disponibile su internet. Esercitarsi con questo “quasi giocattolo”, dal taglio squisitamente didattico, potrebbe costituisce una buona base di partenza per i principianti. Ma è arrivato il momento di parlare di apparecchiature un po’ più ”impegnative”, degne a tutti gli effetti di essere chiamate Spettroscopi astronomici. 2) - Criteri di progettazione Una volta presa la decisione, è necessario partire da un progetto. Quest’assioma ha validità universale. Se la “cosa” funziona sulla carta, ci sono moltissime probabilità che funzioni anche nella realtà. Magari ci sarà bisogno di qualche ritocco in corso d’opera o nella fase finale, ma il successo è assicurato. Disporre di un buon progetto è sempre importante, ma lo è particolarmente nel caso della spettroscopia, materia che non tutti masticano con l’auspicata disinvoltura. Fig. 6: Uno spettroscopio semplice ed economico Pagina 10 ASTRONOMIA NOVA n. 3, luglio 2011 Benché non sia possibile, in questa sede, esporre le teorie e i calcoli che stanno alla base della progettazione degli spettroscopi qui illustrati, si ritiene tuttavia opportuno esporre almeno i principali aspetti da considerare nella stesura di un progetto che risponda alle esigenze richieste dalle varie situazioni che si presentano nella pratica: Lo spettroscopio deve interfacciarsi, meccanicamente e otticamente, con due realtà preesistenti non modificabili, e cioè: il telescopio da un lato, e il dispositivo di registrazione, dall’altro. Questa semplice considerazione diventa un fattore dominante nella progettazione, e influisce pesantemente sullo schema ottico/meccanico da adottare, sulla scelta e dimensionamento delle ottiche (lenti o specchi), degli elementi disperdenti (prismi o reticoli), degli attacchi verso il telescopio e il dispositivo di ripresa. Tanto per citare le voci più ovvie. Dato che la costruzione assume necessariamente carattere artigianale, il progetto deve essere semplice, realizzabile con mezzi semplici e minimo ricorso all’uso di macchine utensili; richiedere l’impiego di materiali e componenti facilmente reperibili (pescando soprattutto nel ricchissimo mercato del surplus). Ultimo, ma non meno importante, è il contenimento dei pesi e degli ingombri. Si dovranno prevedere comandi esterni per tutte le regolazioni richieste dal funzionamento dello spettroscopio (messa a fuoco, esplorazione dello spettro, apertura della fenditura) Per le applicazioni più raffinate, può essere necessario prevedere una sorgente luminosa di confronto, integrata nello spettroscopio. 2.1) - Perché fare da sé Mi auguro vivamente di sbagliarmi, ma esiste una benemerita categoria di astrofili, che purtroppo si sta sempre più assottigliando, tanto da temere per la sua sopravvivenza. E’ composta da coloro che, rubando tempo prezioso al meritato riposo o allo svago, amano dedicarsi con passione, professionalità e successo, alla costruzione in proprio di strumenti per astronomia, come ad esempio telescopi, ma spesso anche qualcosa di più particolare e impegnativo. Ma i tempi cambiano e con loro anche i punti di vista e le leggi dell’economia. Oggi il mercato offre, come si sa, prodotti per astronomia sempre migliori e meno costosi e, allora, perché sudare le famose sette camicie su un progetto impegnativo, che comporta lunghi tempi di realizzazione e magari qualche insuccesso, quando con una spesa relativamente modesta (si pensi all’usato, che spesso lo è solo di nome) si può avere, da subito, lo strumento a lungo sognato? Chi ancora resiste a questa tentazione lo fa perché, di là da ogni altra considerazione, si sente gratificato nel praticare l’attività che lo appassiona. Null’altro. Ebbene, a costoro dico che, se già sono riusciti a costruire per proprio conto il tanto sospirato telescopio casalingo, sarebbero senz’altro in grado di cavarsela anche con uno spettroscopio, perché questa costruzione presenta difficoltà sicuramente minori, e tempi di esecuzione molto più brevi. Vorrei sbagliarmi, ma da troppo tempo la spettroscopia astronomica amatoriale, e segnatamente, quella stellare, parla soprattutto lingue straniere, mentre in Italia appena balbetta. Sarebbe ora che anche gli astrofili nostrani si unissero al coro generale facendo sentire, finalmente alta e forte, anche la loro voce. Il fatto è che, comunque stiano le cose, chiunque voglia dedicarsi seriamente a coltivare questa importante branca dell’astronomia, i “ferri del mestiere”, ossia gli spettroscopi, se li deve fabbricare da sé (o farseli costruire), perché il mercato in questo settore è molto avaro, costoso, e difficilmente vi si potrebbe trovare qualcosa di adatto al proprio telescopio. Temo proprio che vi siano ben poche altre possibilità di scelta. Gli strumenti che ci accingiamo a descrivere sono tutti di progettazione e costruzione amatoriale. 3) - Alcuni esempi di spettroscopi stellari per impiego amatoriale A) – Spettroscopi a prisma a visione diretta (Figg. 7 ,8, 9) Si cita un paio di esempi. Il primo si riferisce alla costruzione pionieristica che risale al 1990, già ricordata in apertura. Realizzata dallo scrivente e da Alberto Villa, utilizzava un prisma a visione diretta e una fenditura regolabile, entrambi di recupero. I vari elementi furono montati, come mostra la fig. 7, sul dorso di un telescopio newtoniano da 140 mm f/8, allestito per l’occasione. ASTRONOMIA NOVA n. 3, luglio 2011 Come collimatore fu usato l’obiettivo da 70 mm, f/2,8 di una vecchia macchina fotografica in disuso, mentre come dispositivo di registrazione era impiegata una reflex 35 mm con obiettivo zoom e pellicole TP 2415 ipersensibilizzate. Una più dettagliata descrizione sia della costruzione, sia del funzionamento e dei risultati conseguiti, si può trovare nell’articolo pubblicato sul fascicolo di Maggio 1992 de “l’Astronomia”. Pagina 11 le (da surplus). La ridotta lunghezza dello spettro ottenibile, cui corrisponde una maggiore luminosità, rende questo spettroscopio, contrariamente alle apparenze, particolarmente adatto a registrare spettri di oggetti celesti molti lontani ma ancora percettibili (si pensi ai Quasar), dotati di redshift particolarmente elevati e pertanto non difficili da rilevare anche a livello amatoriale. Fig. 9 Fig. 7 Fig. 9a Fig. 8: Da questo schema è possibile comprendere il funzionamento del sistema nel suo insieme. Anni dopo, traendo ispirazione da un’idea suggerita dall’esperto inglese Maurice Gavin, fu realizzato uno spettroscopio stellare che, impiegando ancora una volta un prisma a visione diretta (fornitura Jeulin, Francia) utilizzava una lente di Barlow come collimatore: un sistema prettamente afocale, fig. 9. E’ uno strumento veramente facile da costruire, leggero, e con poche parti tornite, se non si riesce a ricavarle da tubo (fig. 9a). L’obiettivo è un doppietto acromatico da 80 mm di foca- Il “prisma di Littrow” è un prisma con angolo rifrangente di 30° e superficie posteriore riflettente, sicché la luce, compiendo un doppio percorso all’interno del prisma medesimo, viene rifratta due volte. Ciò equivale a un prisma unidirezionale con angolo di 60°, ma con il vantaggio che il fascio rifratto può essere orientato in modo da rimanere sensibilmente in asse con lo strumento. Con ciò si risolvono i problemi riconducibili alla deviazione del fascio luminoso prodotto dallo schema classico. E’ apprezzabile la semplificazione della parte meccanica, il minor peso e la maggior compattezza dello strumento. Pagina 12 ASTRONOMIA NOVA n. 3, luglio 2011 Una più dettagliata descrizione dello strumento e del suo funzionamento si può trovare nell’articolo pubblicato sul numero di Aprile 2008 della rivista Nuovo Orione, a firma dello scrivente. Fig. 10: Spettroscopio a prisma di Littrow Fig. 11 B) – Spettroscopio a prisma di Littrow, ad autocollimazione, focale 220 mm con doppietto acromatico Il “prisma di Littrow” è un prisma con angolo rifrangente di 30° e superficie posteriore riflettente, sicché la luce, compiendo un doppio percorso all’interno del prisma medesimo, viene rifratta due volte. Ciò equivale a un prisma unidirezionale con angolo di 60°, ma con il vantaggio che il fascio rifratto può essere orientato in modo da rimanere sensibilmente in asse con lo strumento. Con ciò si risolvono i problemi riconducibili alla deviazione del fascio luminoso prodotto dallo schema classico. E’ apprezzabile la semplificazione della parte meccanica, il minor peso e la maggior compattezza dello strumento. Con riferimento allo schema di fig. 11 il fascio luminoso che entra nello strumento dalla fenditura è collimato da un doppietto acromatico da 50 mm e focale di 220 mm (da surplus). Si ricorda che, per qualunque spettroscopio, l’apertura relativa f/ del collimatore deve sempre essere maggiore o, al più, uguale a quella del telescopio. Ciò premesso, il fascio collimato che attraversa il prisma, subisce doppia dispersione e ritorna al collimatore che ora funziona da obiettivo per il dispositivo di ripresa, (una videocamera CCD). Lo spettro che si ottiene copre un ampio campo di lunghezze d’onda che, dal vicino infrarosso, si estende fino al violetto estremo, ben di là della riga K del Ca II; in totale 17 mm circa. l due fasci luminosi di andata e ritorno non si disturbano vicendevolmente, né incontrano ostacoli perché sono fatti viaggiare su due piani diversi, leggermente divergenti. La struttura meccanica dello spettroscopio è stata concepita per rendere possibile il fissaggio sul dorso del telescopio Newton da 200 mm, f/5 dello scrivente fig. 12, una soluzione che si ispira alla similare e collaudata costruzione del 1990, già citata. Fig. 12 Vittorio Lovato, ingegnere, è Presidente Onorario della A.A.T. – Ass.ne Astrofili Tethys di Voghera (PV) e socio onorario della A.A.A.V. di Peccioli (PI). I suoi principali interessi astronomici sono rivolti alla progettazione costruzione di sofisticati dispositivi spettrografici. ASTRONOMIA NOVA n. 3, luglio 2011 Pagina 13 Come ottenere i principali parametri planetari dall’osservazione di un transito extrasolare Daniele Gasparri [email protected] Attraverso considerazioni geometriche di base sviluppiamo un apparato di formule utili per calcolare alcuni importanti parametri planetari letti nelle curve di luce: raggio, durata massima del transito, inclinazione dell’orbita, massa e densità media. Nel seguito di questo articolo mostrerò come si possono ricavare importanti informazioni dallo studio della curva di luce ottenuta durante il transito di un pianeta extrasolare. Le formule che ricaverò partono da concetti semplici e, per semplificare i calcoli, farò uso di qualche approssimazione. Le dimostrazioni delle relazioni richiedono conoscenze di trigonometria e di algebra; capirle fino in fondo non è importante, piuttosto spero serva a far capire come si ricavano dati astronomici e come lavora un astronomo, professionista o dilettante, con un buon background scientifico. Lo scopo dell’articolo è arrivare a determinare alcuni importanti parametri del pianeta dalla sola analisi della curva di luce ottenuta durante il transito. La curva di luce è caratterizzata da tre dati principali: profondità, e durata del transito e periodo di rivoluzione del pianeta. E’ importante che la profondità sia espressa in termini di flusso piuttosto che in magnitudini. La conversione è semplice una volta trovato il punto di zero, che si ottiene studiando la luce stellare fuori dal transito (OOT). Da altre osservazioni conosciamo un limite inferiore alla M sin i massa ( ) attraverso le misure di velocità radiale, e il raggio della stella, determinabile, almeno in pri- ma approssimazione, attraverso lo studio fotometrico in due diversi indici di colore. Le informazioni che possiamo determinare sul pianeta sono: 1) Raggio 2) Inclinazione dell’orbita 3) Massa esatta 4) densità media. Queste 4 grandezze si ricavano solamente osservando un transito. E’ per questo motivo che questo genere di osservazione, se eseguita con la dovuta precisione, è un’attività così importante, da consigliare a tutti gli astrofili. In primo luogo, enunciamo le approssimazioni che faremo: - Stella a simmetria sferica; lo schiacciamento polare è trascurabile - La velocità orbitale del pianeta (e della stella) è costante durante l’intera durata del transito - La curvature dell’orbita planetaria è trascurabile durante il transito - Problema dei due corpi: nel nostro modello considererò solamente il sistema stella/pianeta, escludendo dall’analisi la presenza di altri eventuali corpi. Il dato più facile da ricavare è il raggio del pianeta, supponendo di conoscere quello della stella. Il raggio stellare, come vedremo più avanti, è abbastanza facile da stimare a partire dall’analisi fotometrica in due lunghezze d’onda diverse (indici di colore) utilizzando i modelli stellari finora noti (e abbastanza corretti, vedi diagramma HR). E’ facile intuire che il raggio del pianeta è influenzato dalle dimensioni reciproche stella/pianeta e dal calo di luminosità. Supponiamo, per assurdo, che il raggio planetario sia uguale a quello stellare. Se il transito è centrale, la caduta di luce è infinita, ovvero la luce della ASTRONOMIA NOVA n. 3, luglio 2011 Pagina 14 stella viene completamente nascosta dal disco del pianeta. Man mano che diminuiscono le dimensioni del pianeta, diminuirà pure il calo di luminosità che esso produce quando passa davanti alla stella. da questa semplice analisi abbiamo già ricavato la formula per il calcolo del raggio: Raggio del pianeta: RP = R* con Fout ∆F F Fout − Ftransit ∆F Fout F = dove = flusso stellare fuori dal transito, general- Ftransit mente normalizzato al valore 1, = profondità del transito, in termini di flusso; R*, raggio della stella. E’ importante notare come non si usano le magnitudini, bensì i flussi stellari. Quando si effettuano operazioni bisogna sempre trasformare le magnitudini in flussi, attraverso la formula di Pogson. Vediamo un esempio concreto. Supponiamo di misurare il transito di un pianeta extrasolare. Dall’analisi dei dati provenienti dalla stella prima (o dopo) il transito, determiniamo il cosiddetto plateau, ovvero il punto di zero. Questo rappresenta la luminosità della stella fuori dal transito, alla quale assegniamo il valore arbitrario pari ad 1. Durante il transito, la luce stellare diminuisce di una certa quantità rispetto al flusso totale, generalmente compresa tra 2 centesimi e 5 millesimi rispetto al flusso totale. Supponiamo che il calo è di 1 centesimo; se la parte fuori transito avrà un flusso pari ad 1, la profondità raggiunta avrà un valore pari a 0,99. Possiamo a questo punto calcolare il rapporto tra il raggio stellare e quello planetario: RP = R* ∆F F Diagramma H-R. In ascissa sono riportati i doppi valori dell’indice di colore B-V e la classe spettrale. In ordinata: la luminosità (Sole = 1) e la magnitudine assoluta. Le precisioni attuali della strumentazione amatoriale permettono di scoprire transiti con profondità di 5 millesimi di magnitudine, circa pari a 5 millesimi in termini di flusso; questo significa identificate pianeti di raggio circa 15 volte inferiore a quello della propria stella. Se consideriamo che esistono stelle di classe M, con raggi pari ad 1/3 di quello solare, arriviamo a diametri dei pianeti transitanti di circa 15000 Km, solamente due volte più grandi della Terra. , se F = flusso fuori transito = 1, allora: RP = ∆F = 1 − Fmin R* F min dove = flusso minimo misurato, ovvero profondità massima del transito. Nel nostro caso si ha Fmin = 0,99, quindi: RP = 1 − 099 = 0,01 = 0,1 R* ; il raggio del pianeta è 10 volte inferiore a quello della stella. Se la stella ha le dimensioni del Sole, ovvero RP ≈ 70000Km R* ≈ 7 ⋅ 10 5 Km , allora ovvero le dimensioni di Giove. Calcolo del raggio planetario ASTRONOMIA NOVA n. 3, luglio 2011 Per calcolare questo dato fondamentale per affinare la conoscenza dell’orbita planetaria, occorre prima di tutto, stimare la durata massima del transito, ovvero la durata di un transito centrale, che si verifica solamente quando l’inclinazione dell’orbita del pianeta è esatta- DMax mente di 90° dispetto all’osservatore ( i = 90°). Generalmente la durata misurata del transito è minore della massima durata teorica, in quando avviene lungo una corda della circonferenza stellare e non lungo il diametro. Determinare la massima durata del transito è importante per scoprire dati importanti, quali l’inclinazione esatta dell’orbita. Dalla figura possiamo vedere come la durata del transito sarà uguale a due volte il raggio totale (stella + pianeta) divisa la componente della velocità orbitale totale per- DMax = 2 RTot vTot ⊥ pendicolare all’osservatore: . Di questa formula ci manca sostanzialmente proprio la compo- vTot ⊥ nente della velocità , poiché i raggi li conosciamo già. Cerchiamo, allora, di scrivere il dato che ci manca rispetto ad altri che conosciamo. Facendo uso della trigonometria, possiamo scomporre vTot ⊥ = vTot sin ϕ vTot ⊥ come: Attraverso teoremi trigonometrici (teorema di Carnot e teorema dei seni) possiamo scrivere: sin ϕ = (rP + s P ) 2 − d 2 4rP s P Le quantità contenute sono però sconosciute, meglio modificare la relazione e scriverla in termini di una quantità semplice e conosciuta, come l’eccentricità orbitale del pianeta, che si ricava da studi sulla velocità radiale. Consideriamo, allora, le equazioni che regolano il problema dei due corpi sottoposti alla mutua interazione gravitazionale: a P (1 − e 2 ) r = r ( = 0 ) = φ 0 1+ e (1 − e 2 ) a P (1 − e 2 ) d = 2 a − 2 r = 2 a − = 2 a P 0 P 1 − P 1 + e 1 + e 2 rP = a P (1 − e ) 1 + e cos φ s P + rP = const = s0 + r0 = 2a P ⇒ s P = 2a P − rP Inserendo le relazioni trovate nella formula del abbiamo: sin ϕ = sin ϕ 1 − e2 1 1 (1 + e cos φ ) − 2 2 (1 + e) 2 1− e ϕ dove è l’angolo compreso tra l’orbita (la tangente nel punto di transito) ed r, ovvero la linea congiungente la stella, il pianeta e l’osservatore. sin ϕ Pagina 15 1) Ricaviamo attraverso quantità conosciute: Consideriamo la seguente configurazione: Calcoliamo 2) vTot : vTot La velocità orbitale totale è la combinazione delle velocità orbitali della stella e del pianeta. Per ricavare il suo valore attraverso quantità che conosciamo, consideriamo l’orbita stellare e planetaria e le relative velocità angolari, che naturalmente devono essere le stesse: ωS = ωP vP vS = rP rS vS = rS vP rP Utilizzando la relazione per il calcolo del centro di massa del sistema: vS = mP vP mS . La m P rP = m S rS velocità possiamo scrivere: totale allora è: ASTRONOMIA NOVA n. 3, luglio 2011 Pagina 16 m vTot = v P 1 + P mS è ancora v P Il valore sconosciuto. Utilizzando la relazione per la velocità orbitale 2 1 v P = GM − rP a P per orbite ellittiche, si ha: r elimi- a P P nando e attraverso la definizione dell’equazione dell’ellisse (scritta in coordinate polari): a P (1 − e 2 ) rP = 1 + e cos φ GP 2 M a P = 2 4π e la terza legge di Keplero 1/ 3 : mP 1 + = Α mS 1/ 2 1 − e2 1 1 (1 + e cos φ ) − 2 2 2 1− e (1 + e) 2/3 2(1 + e cos φ − 1 2 1− e =Β possiamo considerare A e B come dei valori di correzione che tengono conto del moto orbitale della stella attor- DMax = 2πGM vP = P 2 RTot 2πGM 2(1 + e cos φ − 1 2 P 1− e 1/ 3 1/ 2 1 D = 0 ΑΒ ΑΒ no al centro di massa e della geometria del transito. Finalmente possiamo calcolare l’inclinazione orbitale. m 2πGM 2(1+ e cosφ vTot = 1+ P −1 2 mS P 1− e 2/ 3 Dopo tanti calcoli (!), troviamo che la durata di un transito centrale può essere scritta nel seguente modo: DMax = Esso si inserisce nella formula appena trovata, che darà un valore più preciso della durata massima e quindi dell’inclinazione. Il procedimento converge molto rapidamente e già dopo 2-3 interazioni si ha un risultato che non si discosta più da quello reale. Per semplificare la relazione, possiamo definire delle costanti: Prima, però, dobbiamo fare una considerazione sulla geometria del sistema e ricordare che entrambi gli oggetti (stella e pianeta) ruotano attorno al comune centro di massa. Esaminiamo la seguente configurazione: 2RTot 2πGM 2(1+ecosφ −1 2 P 1−e 1/ 3 1/ 2 1/ 2 1−e2 1 1 (1+ecosφ) − 2 2 ( 1 + e ) 2 1−e mP 1+ mS Vi sono quantità non conosciute a priori, come M, ovvero la somma delle masse (pianeta + stella). Fortunatamente queste quantità sono sotto radice cubica o sotto mP mS rapporti molto piccoli ( ), per questo gli errori che si commettono sono generalmente modesti. Inoltre, il metodo si può applicare in sequenza: inizialmente non conosciamo con precisione la massa del pia- msin i neta ma solo il prodotto . Si inserisce questo valore, si calcola la durata massima e poi l’inclinazione. Da essa si ottiene un primo valore per la massa del pianeta. A questo punto possiamo usare questo nuovo valo- Poiché la stella generalmente non si trova nel fuoco dell’ellisse, per calcolare l’inclinazione, che è funzione C CM della corda C, dobbiamo inserire il valore , ovvero la corda teorica, come se la stella fosse nel fuoco dell’ellisse. Questo si calcola facilmente attraverso qualche relazio- re per replicare i passaggi. d ne trigonometrica: eff = rP cos i ASTRONOMIA NOVA n. 3, luglio 2011 Pagina 17 Densità media: Se supponiamo il pianeta a simmetria sferica (abbastanza esatto per gli errori che abbiamo), dalla conoscenza della massa e del raggio ci possiamo ricavare subito la densità media: < ρ >= MP 4 3 πR P 3 Questa grandezza ci fornisce importanti dati sulla struttura e composizione del corpo celeste. Una densità minore di quella dell’acqua suggerisce un corpo gassoso, simile a Saturno o Giove; una densità superiore a 2 C CM = 2 RTot − d eff2 2 = 2 RTot − rP2 cos 2 i 2 g / cm 3 Considerando la durata del transito per i = 90° e quella misurata dalla curva di luce, abbiamo: C D1 = v D = 2 RTot Max v DMax 2 RTot = = D1 C RTot è invece indice di un corpo in parte roccio- so. Attraverso dei modelli di formazione ed evoluzione, siamo in grado di prevedere anche una rozza struttura interna dalla semplice conoscenza della densità. 2 RTot − rP2 cos 2 i UN ESEMPIO DI CALCOLO: rP Risolvendo per i ed eliminando i = arccos R GP 2 M 4π 2 D Tot 1 / 3 2 Max avremo: − D L’analisi del transito di HD17156b 2 1 1 − e 2 1 + e cos φ D Max Da questa formula possiamo calcolare l’inclinazione esatta dell’orbita planetaria, a partire dalla conoscenza di parametri noti. Questa, come già detto, può essere iterata con la formula per la durata teorica e la massa, per ottenere valori via via più precisi. Massa: Le misure di velocità radiale, necessarie per confermare che il corpo transitante sia effettivamente un pianeta, consentono di ricavare solamente una stima della massa. Attraverso queste osservazioni è impossibile ricavare l’inclinazione, quindi la massa, poiché le due grandezze sono collegate da una relazione matematica che deriva dalla trattazione fisica del problema dei due corpi. Attraverso le misure di velocità radiale, ab- msin i biamo solamente il prodotto ; ora che conosciamo l’inclinazione, possiamo trovare la massa esatta mP = del pianeta: m sin i sin i Applicando le relazioni che abbiamo ricavato, attraverso semplici considerazioni geometriche, dall’analisi dell’orbita planetaria e del transito, possiamo ottenere in modo preciso dati di grande importanza sul pianeta. E’ giunto il momento di utilizzare l’apparato di formule di cui sopra per analizzare il transito di un pianeta extrasolare scoperto dall’autore nella notte tra il 9 ed il 10 settembre 2007: HD17156b. La notte tra il 9 e il 10 settembre 2007, l’astronomo Mauro Barbieri, specializzato nello studio dei pianeti extrasolari, allerta un gruppo di astrofili esperti nelle riprese fotometriche ad altissima precisione, avvertendoli che il pianeta HD17156b, scoperto con la tecnica delle velocità radiali, aveva una probabilità di circa il 12% di effettuare un transito durante quella notte. L’occasione era ghiotta: si sarebbe potuto scoprire, per la prima volta con strumentazione amatoriale, il transito di un pianeta, per di più estremamente peculiare, con un periodo di 21 giorni e con un’orbita fortemente eccentrica, molto simile a quella delle comete del nostro sistema solare. Da notare che tutti i pianeti in transito, scoperti fino a quel momento, avevano orbite pressoché circolari e periodi di rotazione al massimo di 5 giorni. Pagina 18 ASTRONOMIA NOVA n. 3, luglio 2011 Data la bassa probabilità di transito, quasi nessun telescopio professionale si sarebbe concentrato sul pianeta quella sera, per problemi di tempo e risorse, per questo l’occasione offerta agli astrofili era davvero ghiotta. Non sto qui a farvi il resoconto di quella notte fantastica, fatta di speranze e problemi, di illusioni svanite e di adrenalina crescente quando sembrava esserci una piccola speranza di aver ripreso il transito. Quella notte il pianeta passò davanti alla stella e i nostri telescopi riuscirono a mettere in evidenza il debolissimo calo di luce: avevamo scoperto un pianeta, un pianeta tutto nostro, visto da noi per la prima volta! Dopo le prime concitate ed emozionanti fasi, piene di scambi di mail e controlli incrociati dei dati, giunse il momento di fare le cose sul serio e di cominciare ad estrapolare le informazioni quantitative raccolte. Il metodo seguito, almeno da me, fu semplice e razionale; quando i dati fotometrici sono stati puliti ed estrapolati, si è passato all’interpretazione e a ricavare le informazioni quantitative sul pianeta. La costruzione della curva di luce ha seguito le seguenti fasi: • Calibrazione e selezione delle immagini: quelle vistosamente rovinate dalle nubi sono state eliminate. • Media delle immagini a gruppi di 13, per ottenere la massima precisione. Questo metodo è ora sconsigliato dai professionisti, che preferiscono avere singole immagini piuttosto che la media a posteriori (binning). Nel caso di HD17156 le singole esposizioni, di 30 secondi, non possedevano la necessaria precisione e la tecnica della sfocatura non poteva essere applicata in quanto presentava problemi con l’autoguida. In questo caso, e solo in questo caso, si è preferito, quindi, fare esposizioni a fuoco (o quasi) e mediarle in fase di elaborazione per aumentare la precisione. E’ stato creato un altro set, composto da immagini mediate a gruppi di 6, per un controllo e per evidenziale meglio gli istanti di inizio e fine transito. • Con le 25 osservazioni ad alta precisione, si è effettuata l’analisi in fotometria d’apertura con IRIS, che ha fornito in uscita il file testuale con riportate le intensità della stella da studiare e delle 3 stelle di paragone utilizzate. • Si sono importati i dati in un foglio di calcolo, nel caso specifico in Gnumeric, gratuito e funzionante sia con Windows che con Linux. In Gnumeric si è costruita una curva di luce di controllo delle stelle di paragone, per vedere se esse possedevano la giusta precisione e scongiurare eventuali variabilità fisiche. In pratica, si sceglie una delle stelle di paragone e si costruisce la curva di luce dividendo la sua intensità per la somma delle altre due stelle di paragone, trascurando, in questa fase, la stella da studiare. Il grafico risultante ha mostrato un andamento lineare, con poca dispersione dei dati: le stelle scelte sono tutte adatte. Dopo questo controllo si è costruita la curva di luce di HD17156, sempre a partire dalle intensità e secondo la relazione già vista: LC = ADU HD17156 ADU 2 + ADU 3 + ADU 4 . • Si è costruito un grafico preliminare per un controllo sulla bontà dei dati. Dal grafico è emerso un dato fotometrico con un errore oltre 3 volte quello medio, che si è quindi scartato. • Stima degli errori dovuti alla scintillazione e al rapporto S/N; somma quadratica per le incertezze totali. • Controllo della stima delle incertezze, utilizzando la funzione deviazione standard di Gnumeric (Excel ne ha una identica). La deviazione standard, calcolata su dati che non presentano variazioni dovute al transito, mostra un valore molto simile all’errore medio calcolato: la stima è stata corretta! • Normalizzazione: per ricavare dati quantitativi e mostrare le incertezze, si deve normalizzare la curva. Dobbiamo ricavare il valore più probabile per il flusso stellare fuori dal transito e dividere ogni dato per il valore trovato. Il valore si ricava osservando i punti fuori transito (OOT) e facendo la media. Per la teoria di propagazione degli errori, se la distribuzione delle misure, quindi delle incertezze, è gaussiana, la media di N valori ha un errore minore del singolo dato; in particolare si ha σ= σ N che: . Nel nostro caso, quindi, la deviazione standard della media, con 7 misurazioni fuori transito, si riduce di 2,64 volte. Considerato che la deviazione standard calcolata dei punti è inferiore ad 1 millesimo di magnitudine, l’errore commesso nell’identificazione del “pianerottolo” o punto di zero, è trascurabile rispetto alle incertezze stimate. La curva di luce è pronta per essere visualizzata e analizzata. Il grafico, che riporto nel seguito, è utile solamente per avere un’idea e per dare informazioni qualitative immediate agli altri astrofili e astronomi. I dati si ricavano sui valori numerici che compongono la curva di luce, non certo sul grafico. Ai dati, che originariamente, erano la data giuliana e le intensità delle stelle usate per la fotometria, ora si sono aggiunte almeno altre 5 colonne, ovvero: la curva di luce, la curva di luce normalizzata, gli errori causati dalla scintillazione, quelli dal rapporto S/N, la stima totale. ASTRONOMIA NOVA n. 3, luglio 2011 Pagina 19 Curva di luce di HD 17156 durante il transito In questo modo la curva di luce può dirsi completa e possiamo cominciare a ricavare i dati che ci servono, ovvero la deviazione standard fuori dal transito, quella dei punti in transito, la profondità e la durata del transito. Questo ultimo dato non è facile da determinare, soprattutto per profondità piccole, che richiedono elevate precisioni, a scapito, generalmente, del campionamento temporale. La deviazione standard, che coincide, se la stima è fatta bene, con l’incertezza calcolata, serve per la propagazione delle incertezze. Minore è questo valore, minore sarà l’incertezza dei dati ricavati. L’unico modo per ridurre la deviazione standard in fase di analisi è di mediare i dati. E’ utile costruire la tabella 1 con i dati che ho ricavato dall’osservazione. Per estrapolare le informazioni in merito al pianeta e all’orbita, ci servono altri dati, che non possiamo ricavare direttamente, ma che sono disponibili negli articoli di scoperta del pianeta e che sono forniti attraverso l’applicazione dl metodo delle velocità radiali. Dall’articolo degli autori della scoperta del pianeta HD 17156b, ricaviamo i seguenti dati stella-pianeta, raccolti nella tabella 2. Il dato che si potrebbe migliorare è la conoscenza del raggio stellare, attraverso l’analisi in fotometria assoluta tramite gli indici di colore, preferibilmente U-B. Con i dati che abbiamo appena ricavato, e con quelli di cui disponiamo dalle analisi eseguite da altri osservatori, possiamo stimare le grandezze relative al pianeta. TABELLA 1 Numero dati utili = 25 Sigma dei 7 punti fuori transito = 0,001 Sigma dei 13 punti in transito = 0,0009 Sigma della media dei 7 punti fuori transito = 0,0004 Flusso medio dei 13 punti in transito: Sigma della media dei 13 punti in transito = 0,0003 Ftransit = 0,9933 ± 0,0003 Profondità: ∆F = 1 − Ftransit = 0,0065 ± 0,0005 Durata stimata: TABELLA 2 M * = (1.2 ± 0.1) M Sun e = 0.67 ± 0.08 R* = (1.47 + 0.13 − 0.17) RSun φ = (329 ± 11)° a = 0.15 AU D = (9000 ± 600) s ASTRONOMIA NOVA n. 3, luglio 2011 Pagina 20 Utilizzando le relazioni che abbiamo ricavato nelle pagine precedenti, ricaviamoci alcuni dati fondamentali: 1) Raggio Il calcolo del raggio è semplicissimo, se conosciamo il raggio della stella. Nel nostro caso si ha: R P = R* ∆F (1.226 + 0.130 − 0.155) R j = . L’errore totale deriva dalla propagazione degli errori della relazione, ma, come si può ben vedere, è molto simile all’incertezza nella stima del raggio stellare, molto maggiore dell’incertezza con cui è conosciuto il flusso. Per aumentare la precisione è necessario prima di tutto effettuare osservazioni fotometriche di alta precisione della stella e ridurre l’incertezza sul raggio, ma come primo dato non possiamo di certo lamentarci. 2) Durata massima del transito (i=90°) Questo dato è fondamentale per ricavare l’inclinazione. Se supponiamo che il disco stellare abbia forma sferica e che sia trascurabile l’oscuramento del bordo (limb darkening), la formula per la durata massima del transito è quella già vista, che non vi sto a riscrivere. Avremo allora che: DMax = (9.905 + 1.693 − 1.822)h 3) Inclinazione L’inclinazione orbitale si può calcolare dalla durata del transito e dalla durata massima appena ricavata. Essa è estremamente importante per determinare in modo univoco la massa, altrimenti conosciuta come il prodotto mo: M sin i . In questo caso, inserendo i dati, otteniai = (87.881 + 0.685 − 0.702)° 4) Massa La massa esatta si può ricavare semplicemente dalla relazione: MP = M sin i = (3.12213 + 0.00138 − 0.00141) M j sin i 4) Densità media A questo punto, supponendo il pianeta sferico, possiamo calcolare la densità media: < ρ >= MP = (2.144 + 0.68 − 0.83) g / cm 3 4 3 πR P 3 In questo caso, il valore trovato indica un corpo sostanzialmente gassoso, senza escludere, però, la presenza di elementi pesanti, che tendono a rialzare la densità media ad un valore maggiore di quello dei pianeti gassosi come Giove o Saturno. L’analisi è finalmente completata: ho calibrato le immagini ed ho estratto la curva di luce. La successiva analisi dei dati fotometrici mi ha consentito di caratterizzare il pianeta appena scoperto. Per affinare i dati, si dovrà seguire il pianeta per diversi transiti, magari con strumenti e tecniche più potenti. Gli astronomi professionisti hanno un approccio per l’estrapolazione dei dati leggermente diverso: invece di calcolare le grandezze quali raggio, inclinazione e massa e i relativi errori manualmente, le utilizzano come parametri di fit. In altre parole, invece di applicare le relazioni, gli astronomi costruiscono dei programmi in grado di analizzare la curva di luce e di sovrapporvi la curva matematica teorica che meglio descrive l’andamento sperimentale trovato. La curva trovata è unica per una determinata scelta dei parametri fondamentali, quali la durata, il raggio, l’inclinazione orbitale, e quindi, quando si sovrappone, sono univocamente determinati, con le relative incertezze, i dati che caratterizzano il pianeta e la sua orbita. Per gli astrofili, costruire un programma che consente di fittare i dati sperimentali è molto difficile. Sfortunatamente, al contrario delle stelle variabili, non esistono in commercio programmi già pronti che possono svolgere questa funzione e l’analisi attraverso il fit del dati è generalmente oltre le possibilità dell’astrofilo medio. Questo non è troppo limitativo, poiché i dati che si possono ricavare manualmente sono assolutamente confrontabili con quelli che si ottengono, sebbene in modo molto più veloce, dalla curva di fit. ASTRONOMIA NOVA n. 3, luglio 2011 Daniele Gasparri con la sua strumentazione Pagina 21 Per Daniele Gasparri, l’astronomia è, contemporaneamente, una passione e una professione. Studia astronomia a Bologna ma, allo stesso tempo, cerca, con la propria strumentazione amatoriale, di condurre progetti di ricerca, ottenendo spesso risultati di alta qualità, come la scoperta di un pianeta extrasolare in transito nel settembre 2007, di qualche nuova stella variabile e lo studio in alta risoluzione dei corpi del sistema solare. Accanto allo studio del cielo vi è la passione, nata da poco, di comunicare, in un linguaggio nuovo e coinvolgente, tutte le meraviglie che esso contiene, che non necessariamente devono coinvolgere solo la vista ma, anzi, devono afferrare il lettore ad un lato superiore, più profondo, e proiettarlo nel vero mondo che ci circonda, che spesso non è come lo vogliamo vedere. BELLA SEQUENZA FOTOGRAFICA DELL’ECLISSE DI LUNA DEL 15 GIUGNO 2011 STRUMENTO DI RIPRESA: Newton Skywatcher BlackDiamond 10” MONTATURA: EQ6-PRO SENSORE DI RIPRESA: Canon 550d POSE: 9 pose per ogni immagine, per un totale di 162 foto DATA: 15-06-2011 da Loreto (AN) FOTO DI: LORENZO CAPPELLA E MICHELE GUZZINI Pagina 22 ASTRONOMIA NOVA n. 3, luglio 2011 Nel quarto centenario della nascita di Johannes Hevelius Grande osservatore del cielo e fondatore della topografia lunare Rodolfo Calanca [email protected] Fig. 1: Ritratto di Johannes Hevelius; è molto accurato il disegno del globo celeste sul quale è perfettamente riconoscibile l’Orsa Maggiore (fig. 2), disegnata dallo stesso Hevelius per la sua opera Firmamentum Sobiescianum, uno splendido atlante composto da 56 carte celesti. Johann Hewelke (latinizzato in Johannes Hevelius, fig. 1) è una delle figure più rappresentative dell’astronomia secentesca. Nato il 28 gennaio del 1611 a Danzica, ricco borghese, rampollo di una famiglia di birrai di origine ceche, negli anni giovanili studiò in diverse città europee, a Leyden, Parigi e Londra, stringendo preziose amicizie con alcuni degli scienziati più famosi del tempo, quali il padre Marin Mersenne, Pierre Gassendi, Ismael Boulliaud. Dotato di una non comune abilità manuale dedicò buona parte del suo tempo allo sviluppo della tecnologia degli strumenti di precisione, perfezionandosi contemporaneamente nel disegno e nell’arte dell’incisione. Realizzò, con la collaborazione dell’ottico italiano Tito Livio Burattini (1617-1681), il gigantesco cannocchiale noto come maximus tubus, e numerosi quadranti e sestanti in dotazione alla specola, chiamata Stellaeburgum, che si era costruito nel 1641 su un ampio terrazzo sovrastante la propria abitazione, nel pieno centro mercantile di Danzica. La Selenographia (1647) In quegli anni fu affascinato dal grandioso progetto del filosofo Pierre Gassendi (1592-1655) e del ricco aristocratico provenzale Fabri de Peiresc (1580-1637) che avevano elaborato un sofisticato metodo per trovare le differenze di longitudine in mare, basato sull’osservazione delle eclissi di Luna. L’eclisse lunare del 27 agosto 1635 costituì l’occasione per attivare la prima rete d’osservazione astronomica simultanea a fini geografici. Grazie alle influenti conoscenze politiche di Peiresc, alcuni gesuiti, al Cairo, Aleppo, Cartagine, Malta e Italia, opportunamente addestrati nell’uso dei sestanti astronomici, eseguirono accurate osservazioni dell’eclisse. Il loro compito era di rilevare, con la massima precisione possibile, l’ora locale dell’inizio: la differenza dei tempi avrebbe fornito la differenza di longitudine tra le diverse località. Le osservazioni raccolte, esaminate e confrontate, diedero un risultato che li lasciò allibiti: il Mediterraneo si estendeva in longitudine 20° in meno di quanto creduto da Tolomeo, le cui carte geografiche erano ancora ampiamente in uso. Con questa misurazione, il Mar Nostrum si restringeva di ben 1000 chilometri e si scoprì poi che l’errore tolemaico era nella lunghezza della sua parte più orientale, da Cartagine ad Alessandria, ampiamente sovrastimata. Per una miglior precisione, il metodo delle eclissi richiedeva però la disponibilità di una cartografia detta- ASTRONOMIA NOVA n. 3, luglio 2011 gliata del nostro satellite. Le osservazioni della superficie lunare, a causa delle difficoltà nell’apprezzare il momento d’inizio dell’eclisse, avevano mostrato che era preferibile che due osservatori seguissero il procedere dell’ombra della Terra su mari e crateri sicuramente individuati e che, contemporaneamente, rilevassero il tempo locale di tali accadimenti; la differenza dei tempi d’occultazione faceva conoscere la differenza nella longitudine degli osservatori. Il progetto di Peiresc e Gassendi, rimasto largamente incompiuto per la morte del nobile provenzale, prevedeva la preparazione di numerosi disegni delle fasi della Luna, e di una nomenclatura utile per riconoscere le diverse formazioni. Esso condusse, nel 1636, alla pubblicazione di tre soli disegni eseguiti dall’incisore Claude Mellan (15981688) su precise indicazioni di Peiresc: una Luna piena, un primo ed un ultimo quarto. Hevelius, affascinato dall’idea di cartografare la Luna, decise di realizzare una vasta raccolta di disegni, sottoponendosi a lunghe veglie al telescopio. Dal novembre 1643 all’aprile 1645 lavorò intensamente nella sua specola, poi si dedicò all’incisione delle tavole e, infine, alla redazione di un testo molto corposo, autentica summa delle conoscenze selenografiche del tempo. Al termine del lavoro, la sua accurata cartografia lunare, che non temeva il confronto con alcun altro lavoro precedente, fu pubblicata nel 1647 in uno splendido volume, Selenographia (fig. 3), subito considerato uno dei grandi monumenti della scienza secentesca. Pagina 23 Il successo dell’opera fu immediato e clamoroso: a Roma Niccolò Zucchi la mostrò al Papa, nascondendogli però che si trattava dell’opera di un protestante. Nella Selenographia, Hevelius realizzò quattro cartografie generali e una splendida rassegna di ben quaranta aspetti delle fasi, ciascuna con la Luna di 16.5 cm di diametro, quattordici sono del 1643, ventidue del 1644, due del 1645, mentre altre due non portano indicazione di data. Le quattro carte generali, indicate con le lettere O, P, Q e R hanno invece dimensioni diverse: la prima un diametro di 16.5 cm, le altre 28 cm. Le figure O e P (fig. 4) presentano l’aspetto della Luna piena vista al cannocchiale. La carta topografica R mostra anche le zone intorno al bordo, visibili grazie all’effetto di librazione, e con le ombre tutte orientate nella stessa direzione come se la luce provenisse dall’ovest lunare. La selenografia moderna, pur rappresentando la Luna convenzionalmente con l’illuminazione unica, ha invece adottato la convenzione della luce proveniente dall’est lunare. Nella carta R, la quantità di configurazioni che in realtà non esistono è consistente. Spesso, anche i crateri realmente esistenti hanno dimensioni e disposizioni errate. Esempi di scarso rispetto della topografia si riscontrano nel Mar Imbrium, nei pressi di Archimede, Aristillo e Autolico: Thimocharis è raffigurato molto più grande del vero, come pure la miriade di piccoli crateri a nord di Copernico che crateri non sono, bensì massicce strutture montuose. Fig. 3: Il frontespizio dell’opera di Hevelius, Selenographia, pubblicata a Danzica nel 1647, la prima interamente dedicata all’iconografia lunare. Le due figure sono, a sinistra, l’arabo Alhazen, che rappresenta la Ragione e, a destra, un improbabile Galileo che regge un cannocchiale (con un abito ed un copricapo di foggia araba che certamente mai indossò), che raffigura il Senso della Vista. Pagina 24 ASTRONOMIA NOVA n. 3, luglio 2011 D’altra parte, sono improbabili e assai fantasiosi anche gli strani raggi intorno a Stevinus A e Furnerius A, con la loro forma a “orecchie di coniglio”. Analizzando la carta R, si ha la viva impressione che Hevelius, quando la tracciò, fosse suggestionato dalla particolare rilevanza fotometrica di alcune strutture lunari che spesso non è però direttamente proporzionale alle loro reali dimensioni. Nella mappa indicata con Q, disegnata con la fantasiosa tecnica cartografica del tempo, è riportata la sua toponomastica, con una lista che comprende ben 274 formazioni. Inizialmente aveva deciso di usare i nomi di astronomi antichi e moderni, quali: Mar Kepplerianum, Lacum Galilei, Oceanum Coperniceum, ma vi rinunciò per timore di farsi dei nemici tra i contemporanei a causa di sempre possibili dimenticanze. La scelta cadde quindi su innocui soggetti geografici, come Appennini, Alpi, Carpazi, che, tra l’altro sono tra i pochissimi tuttora conservati. Il Maximus Tubus di Hevelius Hevelius aveva un particolare interesse per la tecnologia costruttiva dei telescopi ed era sempre alla ricerca di metodi che gli consentissero la realizzazione di telescopi sempre più potenti. A quel tempo però, i cannocchiali a lenti singole, sia di tipo galileiano che kepleriano, subivano gli effetti nefasti delle aberrazioni sferica e cromatica, che potevano essere ridotte solo usando obbiettivi di grande distanza focale e di piccola apertura. Già si sapeva che utilizzando lenti di diametro relativamente piccolo si escludevano i raggi extra-assiali, principale causa Fig. 5: particolare della carta R della Selenographia nella quale sono indicati, con frecce, i crateri Stevinus A e Furnerius A e le strane “orecchie di coniglio”. Fig. 6: bellissima immagine della Luna crescente disegnata da Hevelius il 17 febbraio 1647. dell’aberrazione sferica, mentre, ingrandendo l’immagine, si riducevano gli effetti dell’aberrazione cromatica. Gli ottici avevano proposto delle regole empiriche per dimensionare opportunamente il diametro e la focale dei cannocchiali. Ad esempio, l’olandese Nicolas Hartsoeker (1656-1725) consigliava di adottare la regola della focale dell’oculare uguale al diametro dell’obbiettivo e un rapporto focale (cioè il rapporto tra la focale e il diametro obbiettivo) compreso tra 50 e 500. Nei rifrattori moderni tale rapporto è generalmente compreso tra 8 e 15. Così, un cannocchiale di 4 centimetri di diametro doveva avere una focale di 2.7 metri, un oculare di 4 centimetri di fuoco ed un ingrandimento di 63 volte. Il costruttore napoletano Francesco Fontana (1585 circa – 1656) osservava i pianeti con un cannocchiale di circa 11 metri di focale, mentre Eustachio Divini (1610-1685), nel 1649, aveva disegnato la sua carta lunare con un obbiettivo di 10 metri circa. La lunghissima focale dei cannocchiali produceva, però, dei gravi problemi di tipo strutturale a livello di flessioni e torsioni della struttura. Inoltre, per poterli puntare, spesso si ricorreva alla forza di molti uomini e risultava sommamente difficile tenere centrato l’oggetto celeste nel campo di vista. I tubi che congiungevano l’ottica principale all’oculare erano realizzati in carta, latta o legno, e la loro sezione poteva essere circolare, quadrata od ottagonale. In tutti i casi, per evitare che la struttura si incurvasse, avevano bisogno di un sostegno che corresse per tutta la loro lunghezza. Il sostegno e la manovra dei lunghi tubi fu studiato da alcuni dei maggiori astronomi e costruttori ottici del Seicento. Christiaan Huygens (1629-1695), nel 1659, osservò Saturno con un telescopio di latta lungo 7.2 metri, sostenuto da pertiche congiunte in cima. Il tubo, ASTRONOMIA NOVA n. 3, luglio 2011 sorretto da una fune che scorreva in una carrucola posta al vertice del treppiede, poggiava, dalla parte dell’oculare, su di un piede portatile regolabile in altezza. Fig. 7: Cannocchiale ottagonale a sette tiraggi, realizzato dall’ottico marchigiano Eustachio Divini nel 1674. L’obiettivo è pianoconvesso e l’ingrandimento originale 55x (Firenze, Istituto e Museo di Storia della Scienza). La mancanza di soluzioni meccaniche adeguate, capaci di garantire saldezza e rigidità ai lunghi cannocchiali della metà del Seicento, indusse Leopoldo de’ Medici ad indire una gara tra gli accademici del Cimento per la miglior soluzione del problema. Il progetto di Candido Del Buono (1618-1676, presentata all’Accademia dal fratello Anton Maria, vinse la gara. Questo gigantesco cannocchiale, noto come l’Arcicanna, non fu però mai realizzato. Leopoldo inviò a studiosi di tutta Europa il progetto di del Buono, e tra questi Huygens, che l’approvò pienamente: sono ammirato dall’ingegno dell’autore che ha risolto con rara abilità un problema così complesso. L’arcicanna costituì uno dei primi tentativi per eliminare la canna telescopica, ma la sua struttura, ancora troppo pesante e sostenuta in modo precario da una semplice fune, non costituiva certamente una soluzione efficace contro le flessioni e le torsioni della struttura e non eliminava la sorgente delle vibrazioni che produceva il fastidioso tremolio dell’immagine. All’arcicanna si ispirarono anche Hevelius e l’italiano Tito Livio Burattini (1617-1681). Quest’ultimo soggiornò a lungo in Polonia, dove ricoprì l’incarico di architetto reale e ricevette in appalto le miniere d’argento di Olkusz. Annoverava tra i suoi migliori amici, Paolo, uno dei fratelli del Buono, morto prematuramente nel 1659. I gravosi incarichi istituzionali, non impedirono a Burattini di occuparsi con successo, della costruzione di Pagina 25 lenti e di supporti per i grandi cannocchiali. Nel 1665 realizzò uno strumento, chiaramente derivato dall’arcicanna, lungo 20 metri e 750 chilogrammi, lo ponevano tra i più massicci cannocchiali mai realizzati. E’ nota la sua collaborazione con Hevelius, tanto che il maximus tubus, lo strumento di maggiori dimensioni costruito dall’astronomo di Danzica, fu realizzato su suo progetto. Questo straordinario cannocchiale, lungo 46 metri (fig. 9), eretto da Hevelius sulla spiaggia di fronte alla città, dovette dare notevoli grattacapi di natura tecnica ed operativa se, dopo molti mesi dalla sua realizzazione l’astronomo non era ancora riuscito a provarlo. La soluzione costruttiva inventata da Burattini era particolarmente ingegnosa: egli aveva utilizzato delle lunghe assi congiunte per una costola ad angolo retto, formando una sezione ad “L”; in questo modo riduceva la flessione delle tavole. La lunghezza di questo enorme cannocchiale non è ancora stata superata e forse non lo sarà mai: le moderne tecnologie ottico-meccaniche consentono, infatti, di ridurre la distanza tra l’obbiettivo ed il piano focale entro dimensioni meccaniche contenute ma con prestazioni ottiche enormemente superiori a quelle dei giganteschi e traballanti strumenti in uso nel Seicento. Fig. 8: Una ricostruzione della “arcicanna”, il grande cannocchiale progettato da Candido Del Buono (Firenze, Istituto e Museo di Storia della Scienza). Pagina 26 ASTRONOMIA NOVA n. 3, luglio 2011 Fig. 9: Il maximus tubus, costruito da Hevelius su progetto di Tito Livio Burattini. Fu eretto sulla spiaggia di Danzica ma, non fu però mai utilizzato dal suo costruttore a causa delle difficoltà di movimentazione della gigantesca struttura. Le opere di Hevelius Nel 1656 Hevelius scrisse una dissertazione sulla forma di Saturno e delle sue “strane protuberanze”, la Dissertatio de Nativa Saturni facie, nella quale sosteneva che il pianeta era composto da un corpo centrale ovoidale da cui sporgevano due oggetti in forma di luna. La rotazione di questa figura attorno ad un asse longitudinale spiegava, a parere di Hevelius, il succedersi delle apparenze osservate al telescopio (fig. 10). Christiaan Huygens, uno dei maggiori scienziati del Seicento, confutò le idee di Hevelius, proponendo un nuovo modello di Saturno, a grandi linee tuttora accettato: Saturno è un globo circondato da un anello di forma ellittica, solido (!) e di spessore consistente, inclinato sul piano dell’eclittica. Secondo Huygens, l’apparenza tricorporea di Saturno era dovuta ad osservazioni al limite della risoluzione strumentale. Un suo cannocchiale, di ottima qualità, svelò il mistero di Saturno. Il transito di Mercurio del 3 maggio 1661 trovò ben preparato Hevelius che, da Danzica, seguì le fasi del fenomeno, in seguito descritte nell’opera Mercurius in Sole visus (Mercurio visto sul Sole). Egli vide l’ingresso di Mercurio sul Sole ma non l’uscita, perché i due astri si trovavano ormai sotto l’orizzonte. Il diametro apparente di Mercurio, ricavato da Hevelius tramite l’osservazione del transito, fu una delle più accurate determinazioni del Seicento: differiva dal valore vero a meno di 0”.5. La variabilità della stella Mira Ceti fu scoperta, dopo una serie di osservazioni, da David Fabricius a partire dal 3 agosto 1596. Durante le sue osservazioni di Mercurio, Fabricius ebbe bisogno di una stella di riferimento per misurarne la posizione, e scelse una vicina stella anonima di terza magnitudine. Quando la riosservò il 21 agosto di quell’anno, si accorse che la stella era diventata di prima magnitudine mentre in ottobre era così debole da scomparire alla vista. La rivide il 16 febbraio 1609. Hevelius la osservò decenni dopo, e la chiamò Mira (che significa "meravigliosa") nel suo lavoro Historiola Mirae Stellae del 1662, perché si comportava come nessun'altra stella. Il periodo di Mira fu perfezionato da Ismail Bouillaud che lo ritenne pari a 333 giorni, sbagliando di meno di un giorno rispetto al valore moderno di 332. Fig. 10: Due disegni di Saturno eseguiti intorno alla metà del Seicento. A sinistra in un’opera di Christiaan Huygens, che lo raffigurò in modo esatto. A destra, nella Selenographia di Hevelius, che invece non riuscì a raffigurare correttamente gli anelli. ASTRONOMIA NOVA n. 3, luglio 2011 Pagina 27 Fig. 11: Alcuni modelli di strumenti che furono realizzati da Hevelius nel suo osservatorio di Danzica. La dotazione di strumenti comprendeva cannocchiali di tipo kepleriano e quadranti, sestanti e ottanti a visione diretta (ovvero, senza cannocchiale di mira). Fig. 12: Le tavole A e B del Prodromus Cometicus raccolgono le osservazioni di Hevelius della cometa dal 14 dicembre 1664 al 18 febbraio 1665. Nel 1665 esce il Prodromus Cometicus, opera composta dall’astronomo polacco per raccogliere le sue osservazioni sulla grande cometa (fig. 12) apparsa nei cieli europei nell’inverno 1664-1665. Due tavole della stessa opera, contrassegnate con le lettere a e b, raccolgono 28 disegni della cometa vista al telescopio dall’inizio della sua apparizione il 14 dicembre 1664 fino alla sua scomparsa il 18 febbraio 1665. In queste due tavole è interessante notare, oltre all’evoluzione della coda cometaria, anche l’evolversi del suo nucleo e della sua chioma. La comparsa di questa cometa luminosa nei cieli Europa è stato uno degli eventi astronomici più studiati del periodo. In Inghilterra, Christoher Wren, John Wallis e Robert Hooke osservarono la cometa. In Italia, gli osservatori furono numerosi, da Giovanni Domenico Cassini a Geminiano Montanari. Fu anche la prima cometa ad ispirare Isaac Newton, che ne annotò sul suo taccuino l’osservazione, il 23 dicembre 1664. Nel 1668 pubblicò la Cometographia, nella quale, per analogia con il moto dei proiettili sulla Terra, teorizzava per le comete traiettorie paraboliche. In quest’opera descrive e commenta con dovizia di particolare le comete del 1652, 1661, 1664 e 1665. Il primo volume della Machinae coelestis, uscito nel 1679, descrive l'apparato osservatorio astronomico di Hevelius presso Danzica, che era, fino all'incendio di quello stesso anno, tra i più attrezzati in Europa. I disegni contenuti nella Machinae - in particolare quelle per i telescopi - sono di grande interesse. Il secondo volume dell’opera, diviso in due parti, conteneva una notevole collezione di dati osservativi e riduzioni di ogni genere, un’autentica miniera di informazioni illustrate con mappe stellari e diagrammi. Questo secondo volume è una delle opere astronomiche più rare, a causa di un incendio che il 26 settembre 1679 distrusse l'osservatorio, la stamperia, la casa di Hevelius, e la maggior parte delle copie delle opere contenute nella biblioteca. Qualcuno afferma che meno di 100 copie del secondo volume sopravvissero all’incendio. Pagina 28 ASTRONOMIA NOVA n. 3, luglio 2011 Nell’opera Annus Climactericus (1685), Hevelius descrive l'incendio del 1679, e include le osservazioni fatte sulla stella variabile Mira nonché un catalogo di 1564 stelle. Il fatto che egli preferisse utilizzare i grandi strumenti di misura astrometrica (quadranti, sestanti, ecc., vedi fig. 11) privi di cannocchiale innescò una vivace polemica con Robert Hooke. Hevelius continuava ad usare i metodi tradizionali di osservazione ad occhio nudo con strumenti come quadranti, sestanti e sfere armillari. Edmund Halley gli fece visita a Danzica e lavorò per circa sei mesi con lui, al suo rientro scrisse una relazione alla Royal Society, sostenendo che i metodi di Hevelius erano così accurati che egli avrebbe difficilmente potuto far di meglio. Il Firmamentum Sobiescianum (1690), è l’ultima opera di Hevelius, pubblicata postuma dalla seconda moglie. Si tratta di uno splendido atlante di 56 fogli, corrispondente al suo catalogo stellare, che contiene nuove costellazione alcune ancora in uso. Hevelius è stato un grande osservatore, anche se non ancora pienamente convinto delle potenzialità del telescopio nelle misure astrometriche degli astri. Al tempo circolavano i primi rozzi, e non certo affidabili, micrometri che solo dagli inizi del Settecento furono impiegati per migliorare le misure di posizione delle stelle. I suoi pazienti lavori ed accuratissimi lavori sulla Luna, il Sole, ed i pianeti gli valsero una meritata fama tra i suoi contemporanei e l’ammirazione incondizionata dei posteri. Fig. 13: A sinistra: Una delle due copie esistenti del frontespizio meravigliosamente acquerellato dallo stesso Hevelius, della prima parte della Machinae Coelestis. A destra: il ricco frontespizio del Firmamentum Sobiescianum, dove sono raffigurati, intorno ad un tavolo, molti personaggi dell’astronomia del passato e del presente, a partire da Hevelius stesso (il prima a sinistra), mentre l’ultimo a destra è padre Riccioli, il gesuita ferrarese notissimo alla metà del Seicento per la sua monumentale opera, Almagestum Novum (Bologna, 1651). Rodolfo Calanca è direttore editoriale di EANweb. Notizie biografiche alla pagina: http://win.eanweb.com/autore.htm ASTRONOMIA NOVA n. 3, luglio 2011 Pagina 29 4° CONVEGNO EAN, 27-28-29 maggio 2011, L’astronomia in Italia nel 150° dell’Unità, problemi e prospettive Concordia sulla Secchia, Modena Teatro del Popolo ALBUM FOTOGRAFICO DEL CONVEGNO Il Teatro del Popolo di Concordia sulla Secchia; a destra: preparativi per la serata inaugurale, da sinistra: R. Calanca (di spalle), Angelo Angeletti, Nicolò Conte (al PC), Mauro Dolci, un tecnico video (di spalle), Arnaldo Gaudenzi, tecnico audiovideo. La Filarmonica di Concordia mentre esegue l’inno nazionale , al centro, Rodolfo Calanca presenta la serata, a destra, Roberto Casari, presidente della CPL Concordia, saluta i convenuti. Pagina 30 ASTRONOMIA NOVA n. 3, luglio 2011 A sinistra: il sindaco di Concordia sulla Secchia, Carlo Marchini, saluta i convenuti. Al centro, Gemma Messori recita l’inno nazionale. A destra, Angelo Angeletti presenta gli ospiti. Consegna dei premi Marsden 2011: a sinistra, Nico Cappelluti riceve la targa dalle mani di Roberto Casari, presidente CPL Concordia, a destra, è premiato Vittorio Goretti. A sinistra, il pubblico in piedi durante l’esecuzione dell’inno nazionale. Teatro del Popolo di Concordia s/S, 27 maggio: un momento del seguitissimo dibattito sul tema: “Viaggi spaziali, pianeti extrasolari e vita nel cosmo”: da sinistra (in piedi): dott. Mauro Dolci (astronomo all’Osservatorio INAF di Teramo). Seduti, da sinistra: prof. Cesare Barbieri (ordinario di astronomia all’Università di Padova, responsabile scientifico della sonda spaziale ESA, ROSETTA); il prof. Corrado Bartolini (ordinario di astronomia all’Università di Bologna); con il microfono: dott. Umberto Guidoni (astronauta, ex europarlamentare); dott.ssa Stefania Varano (Osservatorio Radioastronomico di Medicina, Bologna); prof. Flavio Fusi Pecci (direttore dell’Osservatorio INAF di Bologna); infine: Jacopo Fo, scrittore, regista, attore. ASTRONOMIA NOVA n. 3, luglio 2011 Pagina 31 Jacopo Fo autografa un suo libro. A destra: Nico Cappelluti, vincitore del premio “B.G. Marsden” 2011 insieme all’astronauta Umberto Guidoni. Da sinistra: il prof. Cesare Barbieri, dr. Corrado Lamberti e dr. Francesco Poppi Da sinistra: dr. Francesco Rea, prof. Giovanni Bignami e Jacopo Fo Pagina 32 ASTRONOMIA NOVA n. 3, luglio 2011 Da sinistra: dr. Mario Di Martino e dr. Nico Cappelluti Da sinistra: dr. Umberto Guidoni e prof.ssa Angela Misiano Da sinistra: dr. Mauro Dolci, a destra: prof. Flavio Fusi Pecci ASTRONOMIA NOVA n. 3, luglio 2011 Pagina 33 Da sinistra Massimo Mazzoni, a destra dr. Alberto Ombres 9 luglio 2011, dalle ore 10: Planetario di S. Giovanni Persiceto (BO), incontro EAN per discutere le idee e i progetti futuri, PARTECIPATE, ANCHE ATTRAVERSO LA DIRETTA WEB http://www.eanweb.com/dirette/ per sabato 9 luglio, a partire dalle ore 10:00, abbiamo organizzato un incontro (fisico e virtuale sul web) al planetario di S. Giovanni Persiceto nel corso del quale discuteremo dei progetti EAN. Chi non potesse essere fisicamente presente potrebbe ugualmente assistere ai lavori in diretta sul sito EAN e interagire con gli altri. Ecco gli argomenti in discussione: 1) Stato attuale di EAN: risultati e problemi. Durante questo incontro faremo il punto di oltre tre anni di attività. Ricordo, infatti, che EAN è stata fondata (informalmente) a S. Giovanni P. il 15 marzo 2008. 2) esame di uno statuto per trasformare EAN in associazione culturale. EAN ha la necessità di darsi una struttura organizzata per poter affrontare nuovi importanti progetti. Riteniamo finito il tempo della sperimentazione. I risultati fin qui conseguito in questo periodo di "rodaggio" (durato circa tre anni) sono stati di grande interesse sia a livello culturale che scientifico. 3) Programma di massima delle attività EAN per il biennio 2012-2013. Se EAN si costituirà in associazione culturale, sarà possibile programmare iniziative estremamente importanti a livello nazionale ed internazionale. 4) Ampia discussione sugli obiettivi scientifici/culturali/organizzativi di EAN Gli argomenti in esame sono di grandissima importanza, pertanto preghiamo tutti di partecipare, fisicamente o virtualmente (seguendo la diretta web). Per informazioni: 348-3687842