EAN– European Astrosky Network
n. 3, luglio 2011
Webzine gratuita
www.eanweb.com
[email protected]
ASTRONOMIA & INFORMAZIONE
INDICE
•
Editoriale
•
Vitttorio LOVATO, Spettroscopia astronomica amatoriale fai date
•
Daniele GASPARRI, Come ottenere i principali parametri planetari dall’osservazione
di un transito extrasolare
•
Rodolfo CALANCA, Nel quarto centenario della nascita di Johannes Hevelius
•
Galleria fotografica del 4° Convegno EAN di Concordia sulla Secchia, 27-28-29
maggio 2011
•
Foto dell’eclisse di Luna del 15 giugno 2011
Pagina 2
ASTRONOMIA NOVA
n. 3, luglio 2011
REDAZIONE
Direttore editoriale: Rodolfo Calanca, [email protected]
Co-direttore: Angelo Angeletti, [email protected]
Redattore responsabile: Manlio Bellesi, [email protected]
Redattore: Lorenzo Brandi, [email protected]
Responsabile dei servizi web: Nicolò Conte [email protected]
In copertina: Una panoramica "definitiva" della bellissima eclisse seguita la sera tra il 15 e 16 giugno di Cristian Fattinnanzi.
Cristian ha sommato separatamente le immagini del cielo e della luna, per evitare mossi relativi e riunito tutto con photoshop sulla base dell'immagine delle 20:26 UT. Molto bello anche il video realizzato da Cristian: www.youtube.com/watch?v=KPdUHbz72lw
SPONSOR
PROGETTI EAN
ASTRONOMIA NOVA
n. 3, luglio 2011
Pagina 3
EDITORIALE A CURA DELLA REDAZIONE EAN
Il terzo numero di ASTRONOMIA NOVA accoglie alcuni interessanti contributi “tecnologici” e
teorici. L’articolo di Vittorio Lovato è un’ottima introduzione alla progettazione e alla realizzazione di spettroscopi di qualità, a basso costo. Lovato è sempre disponibile a dare consigli a chi
gli si rivolge per chiarimenti, per contattarlo, scrivere a: [email protected].
Il secondo articolo è uno di quelli “corposi” e di non facile digestione. D’altra parte, un po’ di
matematica ci vuole, come ci dice giustamente Daniele Gasparri, in particolare se vogliamo ricavare informazioni fondamentali sui pianeti extrasolari dei quali abbiamo noi stessi osservato il
transito. Crediamo che, con un po’ di pazienza, molti dei nostri lettori si potranno districare tra
le formule proposte da Daniele, il quale, è sempre disponibile per chiarimenti: [email protected]. La soddisfazione di poter determinare, grazie ad una nostra osservazione di un transito e con l’applicazione del formulario di Daniele, le principali caratteristiche di
un pianeta extrasolare lontanissimo, è una soddisfazione intellettuale e culturale davvero unica!
L’ultimo articolo, di carattere storico, è di uno di noi (Calanca). L’obiettivo è di ricordare la figura di uno dei più grandi astronomi osservatori del Seicento, uno degli inventori dell’astronomia
moderna, Johannes Hevelius, nel quarto centenario della nascita.
Le iniziative EAN procedono con alacrità crescente. Da poche settimane si sono spenti i riflettori
sul Convegno di Concordia, nel corso del quale, con tanti ospiti illustri, abbiamo celebrato alla
nostra maniera il 150° dell’Unità Nazionale, ricevendo, per questo, l’ambitissima medaglia, quale premio di rappresentanza, del Presidente della Repubblica! Una soddisfazione straordinaria
per tutto lo staff EAN e per il nostro grande sponsor CPL Concordia!
Altre nostre proposte stanno avendo un buon successo di pubblico, in particolare, la rubrica sul
web, in diretta, ma successivamente riproposta su Youtube, “L’esperto risponde”. Davanti
alle webcam di EAN si sono alternati, con grande soddisfazione, Salvatore Albano, Plinio Camaiti, Cristian Fattinnanzi e Fabio Falchi ognuno portando la propria esperienza specifica, premiata
dagli ascolti, in particolare su Youtube, con centinaia di “clic” su ogni intervento.
Il 9 luglio avremo un incontro “organizzativo” di EAN, aperto a tutti e che sarà pure visibile sulla
pagina delle dirette EAN: http://www.eanweb.com/dirette/
Numerosi gli argomenti trattati: dal punto della situazione delle attività, ad una seria proposta
organizzativa fino alla presentazione di un articolato (e straordinario!) programma di attività
per il biennio 2012-2013. Siete tutti invitati a partecipare!
LA REDAZIONE DI ASTRONOMIA NOVA
Da sinistra: Rodolfo Calanca, Angelo Angeletti, Manlio Bellesi, Lorenzo Brandi, Nicolò Conte
Pagina 4
ASTRONOMIA NOVA
n. 3, luglio 2011
Spettroscopia astronomica amatoriale fai da te
Vittorio Lovato
[email protected]
INTRODUZIONE
Con il presente saggio, l’autore desidera rendere noti
alla comunità degli astrofili italiani, i risultati conseguiti
nella progettazione e costruzione, in proprio, di spettroscopi amatoriali particolarmente studiati per essere impiegati sui telescopi, spesso di non grande potenza, posseduti dalla maggioranza degli astrofili, con la speranza
di suscitare, fra costoro, degli emuli in grado di dare
impulso e prestigio, in Italia, al “fai da te”, in questa particolarissima branca dell’astronomia. Per lo scrivente,
l’interesse per la spettroscopia astronomica, inizialmente limitata all’osservazione del Sole, ma ben presto estesa agli oggetti stellari, può essere fatta risalire agli inizi
degli anni ’90, grazie all’iniziativa dell’amico Alberto
Villa, all’epoca Presidente di un’agguerrita associazione
astronomica dell’Oltrepò Pavese. È stato, infatti,
nell’anno 1991 che, sotto il suo impulso, abbiamo concepito e insieme realizzato un primo spettroscopio grazie
alla disponibilità, che si era venuta a creare, di un eccellente prisma a visione diretta, di una fenditura regolabile e di un telescopio newtoniano da 140 mm, f/8, arrangiato per l’occasione (fig. 1). Benché in quegli anni i moderni sensori elettronici non fossero ancora alla nostra
portata e dovessimo per forza accontentarci delle modeste prestazioni fornite dalle emulsioni fotografiche, i
risultati ottenuti da questo strumento “quasi giocattolo”
furono per noi così inaspettati che decidemmo di scrivere un articolo per la rivista “l’Astronomia”, poi pubblicato nel numero di Maggio 1992.
Questo fu l’inizio. Spronati da questa prima positiva esperienza, il passo successivo fu quello di realizzare, utilizzando gli stessi componenti, una nuova versione di
spettroscopio da adattare nientemeno che su un riflettore da 400 mm, f/4,5, un telescopio ben più potente del
precedente. Purtroppo a quel punto, vicende della vita
riferibili a vari fattori, fecero sì che le nostre strade si
dividessero. I contatti necessariamente si diradarono,
ma l’interesse per la spettroscopia rimase intatto, dandoci peraltro la consapevolezza che se volevamo continuare a coltivare la nostra passione avremmo dovuto (e
potuto) provvedere da noi medesimi alla costruzione
della strumentazione necessaria. Comunque sia, da
Fig. 1: Vittorio Lovato (a sinistra) a fianco del riflettore
newtoniano di 14cm utilizzato per i primi esperimenti di
spettroscopia.
qualche tempo un’altra idea mi frullava per la testa:
l’elaborazione di un progetto e la successiva costruzione,
forse la prima in Italia, di uno “Spettroelioscopio”, un
singolare strumento (ideato da George E. Hale nel
1927), parente stretto dello spettroscopio, ma decisamente più complesso e con funzioni più raffinate. Lo
strumento nasceva infatti con lo scopo di osservare il
Sole in luce rigorosamente monocromatica, e non solo
sull’usuale lunghezza d’onda della riga H-alfa
dell’idrogeno, ma anche su righe di altri elementi presenti nello spettro solare. Una costruzione non facile per
un amatore, data la complessità dello strumento, il poco
tempo disponibile e la scarsa esperienza; ma mi convinsi, dopo breve tempo (e qualche intoppo) che avrei vinto
la sfida il giorno in cui ebbi modo di conoscere, tramite
“Sky & Telescope”, un americano che vive in California,
tale Mr. Fredrick N. Veio, uno dei maggiori esperti in
materia fin dagli anni ’70 e che in seguito ebbi anche
modo di conoscere personalmente. Per una fortunata
combinazione, proprio in quel numero della prestigiosa
rivista americana veniva pubblicizzata una sua monografia dal titolo “The Spectrohelioscope” che, ovviamente, mi feci subito spedire.
L’impresa, portata avanti a spizzichi e bocconi nei ritagli
di tempo libero, richiese alcuni anni, ma alla fine il mio
Spettroelioscopio venne alla luce e fatto funzionare
(Sole permettendo).
ASTRONOMIA NOVA
n. 3, luglio 2011
Una breve descrizione di questo strumento, più unico
che raro in campo amatoriale e che potrebbe costituire
un’alternativa a basso costo dei filtri interferenziali di
varia provenienza, sarà fornita più avanti. Un bel giorno, dopo quasi quarant’anni di professione, decisi di
staccare la spina e dedicarmi il più possibile alla cura dei
miei hobby. Ciò avvenne, circa una decina di anni fa.
Alcuni risultati di questa mia attività di costruttore di
strumenti amatoriali per l’astronomia, formano oggetto,
per quanto si riferisce alla spettroscopia, di quel che segue. Per ognuna delle realizzazioni descritte nel seguito, sono stati elaborati accurati piani di costruzione, disegni costruttivi e abbondanti foto delle varie parti e
delle varie fasi costruttive. Tutto questo materiale e altro
ancora, è messo a disposizione di chiunque voglia davvero cimentarsi con questo tipo di attività.
GENERALITA’
1) – Lo spettroscopio classico
Si presume che, costituendo la spettroscopia (e la
spettrografia, che altro non sta a indicare se non la
registrazione degli spettri), una branca essenziale
dell’astronomia, ogni bravo astrofilo sappia di cosa si
tratta e conservi qualche ricordo scolastico su com’è fatto e come funzioni un generico spettroscopio, e non ignori i concetti di Rifrazione e Diffrazione.
Detto questo, prendiamo come riferimento lo schema
del classico spettroscopio a prisma da laboratorio, che
troviamo raffigurato in tutti i libri di Fisica (fig. 2). In
esso distinguiamo le seguenti parti:
- Una Fenditura, destinata a lasciar passare un sottile
Fig. 2
Pagina 5
pennello di luce, proveniente dalla sorgente da analizzare.
- Un Collimatore, solitamente un sistema ottico convergente, di conveniente apertura, illuminato dalla fenditura e avente la funzione di rendere paralleli
(collimare) i raggi che lo attraversano, dato che il fuoco
del collimatore viene fatto coincidere con la fenditura
medesima.
- Un Prisma, generalmente di vetro, ma che può essere
di quarzo, raramente di salgemma,(secondo la gamma
di lunghezze d’onda costituenti la radiazione che si vuole studiare), il quale, in base alla legge della rifrazione,
funziona da elemento disperdente: dopo averlo attraversato, i raggi in uscita sono ancora paralleli ma deviati e
separati nei vari colori.
- Si può osservare lo spettro, prodotto dallo strumento, a
occhio nudo o, meglio ancora, con l’ausilio di un piccolo
cannocchiale, mentre se si vuole registrarlo, basterà sostituire il cannocchiale con l’Obiettivo di una camera
fotografica (o altro analogo rivelatore).
Benché di funzionamento ineccepibile un siffatto strumento, per com’è strutturato, non è molto indicato per
applicazioni astronomiche amatoriali; si ricorrere allora
ad altri schemi, fermo restando che il principio di funzionamento rimane immutato. Onde evitare attacchi di
panico in lettori a ciò particolarmente predisposti, qui e
nel seguito si cercherà di esporre le cose evitando, il più
possibile, l’uso di formule matematiche, limitandole a
quei casi in cui sono veramente utili e facilmente comprensibili.
Pagina 6
ASTRONOMIA NOVA
n. 3, luglio 2011
1.1) - Collimatori e Obiettivi
Nello schema classico collimatore e obiettivo giocano
ruoli separati, ma molto spesso è preferita una diversa
soluzione che va sotto il nome di autocollimazione,
nella quale le due funzioni sono svolte da un unico elemento. In altre parole, il collimatore assume anche la
funzione di obiettivo. Ne vedremo alcuni esempi nel seguito.
Con l’autocollimazione, l’elemento unico “collimatoreobiettivo” deve essere privo di aberrazione cromatica.
Rispondono a questo requisito (ma non solo) ad esempio gli obiettivi delle vecchie camere reflex che, pertanto, vengono volentieri utilizzati per questo scopo, benché, essendo progettati per altre finalità, detti obiettivi
garantiscono un acromatismo che difficilmente va oltre
la riga C (656nm) di Fraunhofer, nel rosso, e la riga Hγ
(434nm) dell’Idrogeno, nel violetto.
Il problema del cromatismo può essere completamente
superato adoperando elementi catottrici (specchi concavi) in luogo di elementi diottrici.
Regola importante: qualunque sia il tipo di collimatore utilizzato, è imperativo che il suo rapporto
d’apertura non sia inferiore a quello del telescopio sul
quale è destinato a funzionare.
Va detto anche che a parità di condizioni, la focale del
collimatore influisce sul potere risolutivo dello strumento, mentre la focale dell’obiettivo ha influenza sulla
dispersione reciproca (Å/mm o Å/pixel) e quindi
sulla lunghezza dello spettro. Il poter scegliere focali
diverse per le due funzioni, offre l’opportunità di soddisfare esigenze talora contrastanti, dello strumento. Ad
esempio, tenendo maggiore di uno il rapporto tra le
due focali, si ottiene una miglior definizione dello spettro.
Nel caso di autocollimazione, le due focali sono uguali e,
sotto quest’aspetto, i margini di manovra sono necessariamente più limitati, dovendo rinunciare ad un grado di
libertà.
1.2)-
La dispersione prodotta da un prisma è relativamente
modesta; l’angolo di separazione tra la radiazione rossa
e quella violetta è al massimo di due o tre gradi e dipende, a parità di altre condizioni, dall’indice di rifrazione
del materiale con cui è fabbricato il prisma. Prima
dell’avvento dei reticoli, per aumentare la dispersione si
ponevano più prismi in serie. La complicazione meccanica era notevole e la resa non sempre all’altezza delle
aspettative; eppure con quest’artifizio, l’astronomo Vesto M. Slipher un secolo fa, usando uno di questi
“trabiccoli”, da lui medesimo costruito e montato sullo
storico rifrattore da 60 cm dell’Osservatorio Lowell di
Flagstaff (Arizona), scoperse per primo i moti delle galassie (fino allora ritenute appartenenti alla Via Lattea) e
le loro velocità di allontanamento, misurate tramite
l’effetto Doppler, spianando così la strada a E. P. Hubble
con le rivoluzionarie conseguenze che ne derivarono.
Il potere risolutivo di un prisma, che è la capacità di
separare tra loro due righe adiacenti, dipende principalmente dalla lunghezza della base: più grosso è il prisma,
maggiore è il potere risolutivo (se il prisma non è completamente illuminato dalla radiazione incidente, si deve considerare solo la parte illuminata). Tanto per fissare le idee, un prisma con base di un centimetro è già in
grado di risolvere le due righe D1 e D2 del sodio, ma ciò
nonostante, un obiettivo di focale troppo corta potrebbe
non essere in grado di distinguerle
Il concetto di “potere risolutivo” non deve quindi essere
confuso con quello di “dispersione”: sono due cose completamente diverse.
I Prismi
Costituiscono la categoria di dispersori che funzionano
per rifrazione. Nella versione più nota (fig. 2) la sezione del prisma è a forma di triangolo equilatero: con un
angolo rifrangente di 60° ci si avvicina molto alla condizione di deviazione minima del fascio rifratto. In astronomia hanno dominato a lungo ma in seguito hanno
dovuto cedere il campo ai reticoli di diffrazione.
Vesto M. Slipher allo spettroscopio dell’Osservatorio Lowell di Flagstaff (Arizona)
ASTRONOMIA NOVA
n. 3, luglio 2011
Fig. 3
Come si è
accennato
più sopra, lo schema classico, a causa della deviazione
che l’asse ottico subisce, non trova simpatie nelle applicazioni amatoriali; tuttavia, adottando uno schema ad
autocollimazione, si riesce a superare il problema,
come si vedrà più avanti. Una seconda soluzione consiste nell’utilizzare speciali prismi detti a “visione diretta”(fig. 3), così definiti poiché producono dispersione
senza deviazione. Si tratta di prismi composti di più
elementi fabbricati con vetri diversi, incollati assieme.
1.3) - I Reticoli di Diffrazione
Appartengono alla categoria dei dispersori che funzionano per Diffrazione. Ne esistono di due tipi: reticoli a
trasparenza (o a trasmissione), fig. 4 e reticoli a riflessione (fig. 5). Il principio di funzionamento è tuttavia il medesimo.
I primi sono costituiti da un supporto trasparente
(generalmente vetro) sul quale sono state tracciate, con
alta precisione, delle linee o tratti, opachi ed equidistanti. La densità dei tratti è dell’ordine delle centinaia per
millimetro. La luce incidente, nell’attraversare il reticolo
subisce, in virtù della diffrazione, una scomposizione nei
vari colori ma, a differenza dei prismi che producono un
unico spettro, il reticolo (di qualunque tipo) ne produce
molteplici, dei quali se ne utilizza solo uno.
Una grossa quantità di luce (circa il 50%) non viene diffratta ma attraversa indisturbata il reticolo e va a costituire lo spettro (anomalo) di ordine zero. La rimanenza
si ripartisce equamente a destra e a sinistra dell’ordine
zero, andando a formare spettri (propriamente detti) di
ordine +1, +2, +3, …da un lato, e di ordine -1, -2, -3 …,
dall’altro. Vengono in tal modo prodotti due serie di
spettri, simmetrici, d’intensità decrescente con l’ordine.
Solitamente è utilizzato quello del 1° ordine, il più luminoso.
Pagina 7
I reticoli a trasparenza, a causa dell’enorme spreco di
luce che li caratterizza, non sono molto indicati per applicazioni in spettroscopia stellare ma, più che altro, per
fini didattici, come si vedrà in seguito.
Molto più efficienti sono invece i moderni reticoli a riflessione, costituiti da uno spesso supporto di vetro, una
superficie del quale è lavorata otticamente e subisce
l’incisione di microscopici solchi a forma di denti di sega, in numero di centinaia o migliaia per millimetro.
Nasce così il reticolo master. La particolare forma dei
solchi praticati in questi reticoli, fa sì che la maggior
pare della luce diffratta sia concentrata in una particolare regione dello spettro, e questo è il motivo della loro
maggior efficienza rispetto ai reticoli a trasparenza. La
lunghezza d’onda in cui la resa è massima, si chiama
lunghezza d’onda di blaze (ossia di maggior brillanza).
In effetti, l’intensità dello spettro di ordine zero si riduce
al 10%, mentre lo spettro blaze si appropria del 60 –
80% della restante radiazione.
Dai costosissimi reticoli master, sono ricavate delle repliche che vengono commercializzate a prezzi (per nostra fortuna) molto più accessibili. Oggi si può avere una
buona replica per applicazioni amatoriali spendendo un
centinaio di euro o poco più (dipende dalle dimensioni
della replica).
Pagina 8
ASTRONOMIA NOVA
n. 3, luglio 2011
La dispersione procurata dai reticoli è sensibilmente
lineare e dipende dalla loro frequenza, ossia dal numero
di tratti incisi per millimetro, mentre il potere risolutivo (nel 1° ordine) è dato dal numero totale di tratti
illuminati dalla radiazione incidente. Man mano che
sale la frequenza, i reticoli riescono rapidamente a superare i prismi, sia nel potere risolutivo, sia nella dispersione. Un oggetto assai familiare che ricorda molto un
reticolo a riflessione è il comunissimo CD con la sua superficie iridescente, creata dall’incisione delle piste. Peccato che non sia seriamente utilizzabile in spettroscopia.
1.4) - Confronto delle prestazioni fra prismi e reticoli
Più che tante parole, vale la sottostante tabella che mette a confronto in termini eminentemente pratici le prestazioni fornite dai prismi e dai reticoli riportate nella
tabella 1. La “Focale dell’obiettivo” è quella
dell’obiettivo della camera di ripresa; mentre nel caso
di autocollimazione coincide con quella del collima-
tore. La Tabella1 confronta la lunghezza degli spettri
del 1° ordine ottenibili da due reticoli a riflessione di
frequenza rispettivamente di 600 e 1200 tratti/mm, nel
campo del visibile, e quelli forniti da un prisma, a parità
di condizioni. I dati sono parametrati su tre diverse lunghezze focali, rispettivamente di 200mm, 100mm e
50mm ma sono estrapolabili sia per focali, sia per frequenze, diverse da quelle indicate.
Per rimanere sul terreno della pratica e nel mondo delle
applicazioni amatoriali, uno spettro che raggiunge i 25
mm è da considerarsi già un limite, giacché i sensori a
CCD più diffusi hanno dimensioni inferiori al centimetro.
Per quanto sia auspicabile la scelta di reticoli a frequenza la più alta possibile, l’esperienza mostra la non convenienza a superare i 300 – 600 tratti/mm, anche se in
taluni casi particolari ci possono essere delle eccezioni.
In caso poi di autocollimazione, la scelta della frequenza
si fa più critica perché con questo schema si perde, come
già detto, un grado di libertà.
Comunque, reticoli da 300 – 600 tratti/mm il più delle
volte vanno ancora bene.
Un’altra differenza tra prismi e reticoli è data dal fatto
che i prismi forniscono uno spettro non lineare, ( più
esteso nel blu che nel rosso). Una differenza, tuttavia,
più formale che sostanziale, che non sempre rappresenta uno svantaggio.
1.5) - Lo spettroscopio più semplice ed economico
Girovagando qua e là nei meandri di internet, ci si accorge che ottenere uno spettro stellare non è poi così
difficile e costoso come generalmente si pensa.
Tutto ciò che serve sono un reticolo a trasparenza per
uso didattico da 300 – 500 tr./mm (la ditta Jeulin,
www.jeulin.fr, ne costruisce di ottimi al costo di pochi
euro) o, ancora più semplicemente, un reticolo ricavato
da uno di quei fogli di acetato venduti dalla Edmund
Scientific, (circa 10 euro per foglio da 30x30 cm).
TAB. 1: Lunghezza L dello spettro nella finestra del visibile (da 3800Ǻ a 7800Ǻ)
Focale
dell’obiettivo
Reticolo 1200 tr./
mm
f = 200mm
Reticolo
Prisma
100mm
600 tr./mm
50mm
16mm
f = 100mm
50mm
25mm
8mm
f = 50mm
25mm
12mm
4mm
ASTRONOMIA NOVA
n. 3, luglio 2011
Si fissa con del nastro adesivo il reticolo, così recuperato, sul corpo macchina di una reflex (analogica o digitale, non ha importanza) al posto dell’obiettivo, e si monta
il tutto sul focheggiatore del telescopio, con l’avvertenza
di tenere gli assi X e Y del fotogramma paralleli rispettivamente ai movimenti di Declinazione e di A.R. del telescopio. Si punta una stella, si mette a fuoco, e lo spettroscopio è pronto. Come si deduce dallo schema di fig. 6,
trovata una stella abbastanza luminosa, si regola il puntamento in modo che nel campo inquadrato dal mirino
si veda, lo spettro di ordine zero (l’immagine puntiforme
della stella), con accanto, uno dei due spettri del 1° ordine. Lo spettro si presenta come un sottile, tremolante
filo colorato che corre parallelo all’asse X e nel quale è
assai arduo percepire la presenza di righe spettrali, per il
semplice motivo che le righe, ammesso che ci siano, sono ridotte a semplici puntini, per di più disturbati dalla
turbolenza atmosferica. Per evidenziare le righe, occorre
che durante la ripresa si faccia scorrere il fotogramma
secondo l’asse Y, per esempio rallentando o arrestando
temporaneamente il moto orario. Lo spettro viene così
pian piano “spalmato” trasversalmente e le righe compaiono come per incanto. Questo procedimento vale
sempre, ma trova assoluta indicazione nel caso di registrazione su di un sensore digitale (CCD o CMOS).
l’allargamento può essere eseguito via software, dopo
l’acquisizione dello spettro grezzo, con uno dei tanti programmi disponibili per l’elaborazione delle immagini.
Dalla stessa Fig. 6, quei pochi o tanti lettori che non si
ritraggono inorriditi di fronte a formule matematiche,
possono ricavare tutti gli elementi necessari per dimensionare da se stessi questo semplicissimo ed economico
Pagina 9
spettroscopio, giocando su distanze, frequenza del reticolo, lunghezza dello spettro, dimensione del sensore,
ecc.
Non solo, ma dallo spettro così ottenuto è anche possibile determinare le lunghezze d’onda delle righe spettrali
dalla loro distanza rispetto all’immagine della stella
(spettro di ordine zero), presa come punto di riferimento. Si può notare, infatti, che queste distanze dipendono
univocamente, per un dato reticolo, dalla lunghezza
d’onda delle righe medesime.
Per inciso, non c’è neppure bisogno di scervellarsi più di
tanto, perché queste determinazioni possono essere fatte in automatico con il programma Visual Spec, disponibile su internet.
Esercitarsi con questo “quasi giocattolo”, dal taglio squisitamente didattico, potrebbe costituisce una buona base di partenza per i principianti.
Ma è arrivato il momento di parlare di apparecchiature
un po’ più ”impegnative”, degne a tutti gli effetti di essere chiamate Spettroscopi astronomici.
2) - Criteri di progettazione
Una volta presa la decisione, è necessario partire da un
progetto. Quest’assioma ha validità universale. Se la
“cosa” funziona sulla carta, ci sono moltissime probabilità che funzioni anche nella realtà.
Magari ci sarà bisogno di qualche ritocco in corso
d’opera o nella fase finale, ma il successo è assicurato.
Disporre di un buon progetto è sempre importante, ma
lo è particolarmente nel caso della spettroscopia, materia che non tutti masticano con l’auspicata disinvoltura.
Fig. 6: Uno spettroscopio semplice ed economico
Pagina 10
ASTRONOMIA NOVA
n. 3, luglio 2011
Benché non sia possibile, in questa sede, esporre le teorie e i calcoli che stanno alla base della progettazione
degli spettroscopi qui illustrati, si ritiene tuttavia opportuno esporre almeno i principali aspetti da considerare
nella stesura di un progetto che risponda alle esigenze
richieste dalle varie situazioni che si presentano nella
pratica:
Lo spettroscopio deve interfacciarsi, meccanicamente e otticamente, con due realtà preesistenti non
modificabili, e cioè: il telescopio da un lato, e il dispositivo di registrazione, dall’altro. Questa semplice considerazione diventa un fattore dominante nella progettazione, e influisce pesantemente sullo
schema ottico/meccanico da adottare, sulla scelta e
dimensionamento delle ottiche (lenti o specchi),
degli elementi disperdenti (prismi o reticoli), degli
attacchi verso il telescopio e il dispositivo di ripresa.
Tanto per citare le voci più ovvie.
Dato che la costruzione assume necessariamente
carattere artigianale, il progetto deve essere semplice, realizzabile con mezzi semplici e minimo ricorso
all’uso di macchine utensili; richiedere l’impiego di
materiali e componenti facilmente reperibili
(pescando soprattutto nel ricchissimo mercato del
surplus). Ultimo, ma non meno importante, è il contenimento dei pesi e degli ingombri.
Si dovranno prevedere comandi esterni per tutte le
regolazioni richieste dal funzionamento dello spettroscopio (messa a fuoco, esplorazione dello spettro,
apertura della fenditura)
Per le applicazioni più raffinate, può essere necessario prevedere una sorgente luminosa di confronto,
integrata nello spettroscopio.
2.1) - Perché fare da sé
Mi auguro vivamente di sbagliarmi, ma esiste una benemerita categoria di astrofili, che purtroppo si sta sempre
più assottigliando, tanto da temere per la sua sopravvivenza. E’ composta da coloro che, rubando tempo prezioso al meritato riposo o allo svago, amano dedicarsi
con passione, professionalità e successo, alla costruzione
in proprio di strumenti per astronomia, come ad esempio telescopi, ma spesso anche qualcosa di più particolare e impegnativo.
Ma i tempi cambiano e con loro anche i punti di vista e
le leggi dell’economia. Oggi il mercato offre, come si sa,
prodotti per astronomia sempre migliori e meno costosi
e, allora, perché sudare le famose sette camicie su un
progetto impegnativo, che comporta lunghi tempi di
realizzazione e magari qualche insuccesso, quando con
una spesa relativamente modesta (si pensi all’usato, che
spesso lo è solo di nome) si può avere, da subito, lo strumento a lungo sognato? Chi ancora resiste a questa tentazione lo fa perché, di là da ogni altra considerazione, si
sente gratificato nel praticare l’attività che lo appassiona. Null’altro.
Ebbene, a costoro dico che, se già sono riusciti a costruire per proprio conto il tanto sospirato telescopio casalingo, sarebbero senz’altro in grado di cavarsela anche con
uno spettroscopio, perché questa costruzione presenta
difficoltà sicuramente minori, e tempi di esecuzione
molto più brevi.
Vorrei sbagliarmi, ma da troppo tempo la spettroscopia
astronomica amatoriale, e segnatamente, quella stellare,
parla soprattutto lingue straniere, mentre in Italia appena balbetta. Sarebbe ora che anche gli astrofili nostrani
si unissero al coro generale facendo sentire, finalmente
alta e forte, anche la loro voce.
Il fatto è che, comunque stiano le cose, chiunque voglia
dedicarsi seriamente a coltivare questa importante
branca dell’astronomia, i “ferri del mestiere”, ossia gli
spettroscopi, se li deve fabbricare da sé (o farseli costruire), perché il mercato in questo settore è molto avaro,
costoso, e difficilmente vi si potrebbe trovare qualcosa
di adatto al proprio telescopio.
Temo proprio che vi siano ben poche altre possibilità di
scelta.
Gli strumenti che ci accingiamo a descrivere sono tutti
di progettazione e costruzione amatoriale.
3) - Alcuni esempi di spettroscopi stellari per impiego amatoriale
A) – Spettroscopi a prisma a visione diretta (Figg.
7 ,8, 9)
Si cita un paio di esempi. Il primo si riferisce alla costruzione pionieristica che risale al 1990, già ricordata in
apertura. Realizzata dallo scrivente e da Alberto Villa,
utilizzava un prisma a visione diretta e una fenditura
regolabile, entrambi di recupero. I vari elementi furono
montati, come mostra la fig. 7, sul dorso di un telescopio
newtoniano da 140 mm f/8, allestito per l’occasione.
ASTRONOMIA NOVA
n. 3, luglio 2011
Come collimatore fu usato l’obiettivo da 70 mm, f/2,8 di
una vecchia macchina fotografica in disuso, mentre come dispositivo di registrazione era impiegata una reflex
35 mm con obiettivo zoom e pellicole TP 2415 ipersensibilizzate.
Una più dettagliata descrizione sia della costruzione, sia
del funzionamento e dei risultati conseguiti, si può trovare nell’articolo pubblicato sul fascicolo di Maggio 1992
de “l’Astronomia”.
Pagina 11
le (da surplus).
La ridotta lunghezza dello spettro ottenibile, cui corrisponde una maggiore luminosità, rende questo spettroscopio, contrariamente alle apparenze, particolarmente
adatto a registrare spettri di oggetti celesti molti lontani
ma ancora percettibili (si pensi ai Quasar), dotati di redshift particolarmente elevati e pertanto non difficili da
rilevare anche a livello amatoriale.
Fig. 9
Fig. 7
Fig. 9a
Fig. 8: Da questo schema è possibile comprendere il funzionamento del sistema nel suo insieme.
Anni dopo, traendo ispirazione da un’idea suggerita
dall’esperto inglese Maurice Gavin, fu realizzato uno
spettroscopio stellare che, impiegando ancora una volta
un prisma a visione diretta (fornitura Jeulin, Francia)
utilizzava una lente di Barlow come collimatore: un sistema prettamente afocale, fig. 9. E’ uno strumento veramente facile da costruire, leggero, e con poche parti
tornite, se non si riesce a ricavarle da tubo (fig. 9a).
L’obiettivo è un doppietto acromatico da 80 mm di foca-
Il “prisma di Littrow” è un prisma con angolo rifrangente di 30° e superficie posteriore riflettente, sicché la luce, compiendo un doppio percorso all’interno del prisma
medesimo, viene rifratta due volte. Ciò equivale a un
prisma unidirezionale con angolo di 60°, ma con il vantaggio che il fascio rifratto può essere orientato in modo
da rimanere sensibilmente in asse con lo strumento.
Con ciò si risolvono i problemi riconducibili alla deviazione del fascio luminoso prodotto dallo schema classico. E’ apprezzabile la semplificazione della parte meccanica, il minor peso e la maggior compattezza dello strumento.
Pagina 12
ASTRONOMIA NOVA
n. 3, luglio 2011
Una più dettagliata descrizione dello strumento e del
suo funzionamento si può trovare nell’articolo pubblicato sul numero di Aprile 2008 della rivista Nuovo Orione, a firma dello scrivente.
Fig. 10: Spettroscopio a prisma di Littrow
Fig. 11
B) – Spettroscopio a prisma di Littrow, ad autocollimazione,
focale 220 mm con doppietto acromatico
Il “prisma di Littrow” è un prisma con angolo rifrangente di 30° e superficie posteriore riflettente, sicché la luce, compiendo un doppio percorso all’interno del prisma
medesimo, viene rifratta due volte. Ciò equivale a un
prisma unidirezionale con angolo di 60°, ma con il vantaggio che il fascio rifratto può essere orientato in modo
da rimanere sensibilmente in asse con lo strumento.
Con ciò si risolvono i problemi riconducibili alla deviazione del fascio luminoso prodotto dallo schema classico. E’ apprezzabile la semplificazione della parte meccanica, il minor peso e la maggior compattezza dello strumento.
Con riferimento allo schema di fig. 11 il fascio luminoso
che entra nello strumento dalla fenditura è collimato da
un doppietto acromatico da 50 mm e focale di 220 mm
(da surplus). Si ricorda che, per qualunque spettroscopio, l’apertura relativa f/ del collimatore deve sempre
essere maggiore o, al più, uguale a quella del telescopio.
Ciò premesso, il fascio collimato che attraversa il prisma, subisce doppia dispersione e ritorna al collimatore
che ora funziona da obiettivo per il dispositivo di ripresa, (una videocamera CCD). Lo spettro che si ottiene
copre un ampio campo di lunghezze d’onda che, dal vicino infrarosso, si estende fino al violetto estremo, ben di
là della riga K del Ca II; in totale 17 mm circa. l due fasci
luminosi di andata e ritorno non si disturbano vicendevolmente, né incontrano ostacoli perché sono fatti viaggiare su due piani diversi, leggermente divergenti. La
struttura meccanica dello spettroscopio è stata concepita per rendere possibile il fissaggio sul dorso del telescopio Newton da 200 mm, f/5 dello scrivente fig. 12, una
soluzione che si ispira alla similare e collaudata costruzione del 1990, già citata.
Fig. 12
Vittorio Lovato, ingegnere, è Presidente Onorario
della A.A.T. – Ass.ne Astrofili Tethys di Voghera (PV)
e socio onorario della A.A.A.V. di Peccioli (PI). I suoi
principali interessi astronomici sono rivolti alla progettazione costruzione di sofisticati dispositivi spettrografici.
ASTRONOMIA NOVA
n. 3, luglio 2011
Pagina 13
Come ottenere i principali parametri planetari
dall’osservazione di un transito extrasolare
Daniele Gasparri
[email protected]
Attraverso considerazioni geometriche di base sviluppiamo un apparato
di formule utili per calcolare alcuni importanti parametri planetari letti
nelle curve di luce: raggio, durata massima del transito, inclinazione
dell’orbita, massa e densità media.
Nel seguito di questo articolo mostrerò come si possono
ricavare importanti informazioni dallo studio della curva di luce ottenuta durante il transito di un pianeta extrasolare. Le formule che ricaverò partono da concetti
semplici e, per semplificare i calcoli, farò uso di qualche
approssimazione. Le dimostrazioni delle relazioni richiedono conoscenze di trigonometria e di algebra; capirle fino in fondo non è importante, piuttosto spero
serva a far capire come si ricavano dati astronomici e
come lavora un astronomo, professionista o dilettante,
con un buon background scientifico. Lo scopo
dell’articolo è arrivare a determinare alcuni importanti
parametri del pianeta dalla sola analisi della curva di
luce ottenuta durante il transito.
La curva di luce è caratterizzata da tre dati principali:
profondità, e durata del transito e periodo di rivoluzione
del pianeta. E’ importante che la profondità sia espressa
in termini di flusso piuttosto che in magnitudini. La
conversione è semplice una volta trovato il punto di zero, che si ottiene studiando la luce stellare fuori dal transito (OOT).
Da altre osservazioni conosciamo un limite inferiore alla
M sin i
massa (
) attraverso le misure di velocità radiale, e il raggio della stella, determinabile, almeno in pri-
ma approssimazione, attraverso lo studio fotometrico in
due diversi indici di colore.
Le informazioni che possiamo determinare sul pianeta
sono:
1) Raggio
2) Inclinazione dell’orbita
3) Massa esatta
4) densità media.
Queste 4 grandezze si ricavano solamente osservando
un transito. E’ per questo motivo che questo genere di
osservazione, se eseguita con la dovuta precisione, è
un’attività così importante, da consigliare a tutti gli astrofili.
In primo luogo, enunciamo le approssimazioni che faremo:
- Stella a simmetria sferica; lo schiacciamento polare
è trascurabile
- La velocità orbitale del pianeta (e della stella) è
costante durante l’intera durata del transito
- La curvature dell’orbita planetaria è trascurabile
durante il transito
- Problema dei due corpi: nel nostro modello considererò solamente il sistema stella/pianeta, escludendo dall’analisi la presenza di altri eventuali corpi.
Il dato più facile da ricavare è il raggio del pianeta, supponendo di conoscere quello della stella. Il raggio stellare, come vedremo più avanti, è abbastanza facile da stimare a partire dall’analisi fotometrica in due lunghezze
d’onda diverse (indici di colore) utilizzando i modelli
stellari finora noti (e abbastanza corretti, vedi diagramma HR).
E’ facile intuire che il raggio del pianeta è influenzato
dalle dimensioni reciproche stella/pianeta e dal calo di
luminosità. Supponiamo, per assurdo, che il raggio planetario sia uguale a quello stellare. Se il transito è centrale, la caduta di luce è infinita, ovvero la luce della
ASTRONOMIA NOVA
n. 3, luglio 2011
Pagina 14
stella viene completamente nascosta dal disco del pianeta. Man mano che diminuiscono le dimensioni del pianeta, diminuirà pure il calo di luminosità che esso produce quando passa davanti alla stella. da questa semplice analisi abbiamo già ricavato la formula per il calcolo
del raggio:
Raggio del pianeta:
RP = R*
con
Fout
∆F
F
Fout − Ftransit
∆F
Fout
F =
dove
= flusso stellare fuori dal transito, general-
Ftransit
mente normalizzato al valore 1,
= profondità
del transito, in termini di flusso; R*, raggio della stella.
E’ importante notare come non si usano le magnitudini,
bensì i flussi stellari. Quando si effettuano operazioni
bisogna sempre trasformare le magnitudini in flussi,
attraverso la formula di Pogson. Vediamo un esempio
concreto.
Supponiamo di misurare il transito di un pianeta extrasolare. Dall’analisi dei dati provenienti dalla stella prima
(o dopo) il transito, determiniamo il cosiddetto plateau,
ovvero il punto di zero. Questo rappresenta la luminosità della stella fuori dal transito, alla quale assegniamo il
valore arbitrario pari ad 1. Durante il transito, la luce
stellare diminuisce di una certa quantità rispetto al flusso totale, generalmente compresa tra 2 centesimi e 5
millesimi rispetto al flusso totale. Supponiamo che il
calo è di 1 centesimo; se la parte fuori transito avrà un
flusso pari ad 1, la profondità raggiunta avrà un valore
pari a 0,99. Possiamo a questo punto calcolare il rapporto tra il raggio stellare e quello planetario:
RP
=
R*
∆F
F
Diagramma H-R. In ascissa sono riportati i doppi valori
dell’indice di colore B-V e la classe spettrale. In ordinata: la
luminosità (Sole = 1) e la magnitudine assoluta.
Le precisioni attuali della strumentazione amatoriale
permettono di scoprire transiti con profondità di 5 millesimi di magnitudine, circa pari a 5 millesimi in termini
di flusso; questo significa identificate pianeti di raggio
circa 15 volte inferiore a quello della propria stella.
Se consideriamo che esistono stelle di classe M, con raggi pari ad 1/3 di quello solare, arriviamo a diametri dei
pianeti transitanti di circa 15000 Km, solamente due
volte più grandi della Terra.
, se F = flusso fuori transito = 1, allora:
RP
= ∆F = 1 − Fmin
R*
F
min
dove
= flusso minimo
misurato, ovvero profondità massima del transito.
Nel nostro caso si ha
Fmin
= 0,99, quindi:
RP
= 1 − 099 = 0,01 = 0,1
R*
; il raggio del pianeta è
10 volte inferiore a quello della stella. Se la stella ha
le dimensioni del Sole, ovvero
RP ≈ 70000Km
R* ≈ 7 ⋅ 10 5 Km
, allora
ovvero le dimensioni di Giove.
Calcolo del raggio planetario
ASTRONOMIA NOVA
n. 3, luglio 2011
Per calcolare questo dato fondamentale per affinare la
conoscenza dell’orbita planetaria, occorre prima di tutto, stimare la durata massima del transito, ovvero la durata di un transito centrale, che si verifica solamente
quando l’inclinazione dell’orbita del pianeta è esatta-
DMax
mente di 90° dispetto all’osservatore (
i =
90°).
Generalmente la durata misurata del transito è minore
della massima durata teorica, in quando avviene lungo
una corda della circonferenza stellare e non lungo il diametro. Determinare la massima durata del transito è
importante per scoprire dati importanti, quali
l’inclinazione esatta dell’orbita.
Dalla figura possiamo vedere come la durata del transito
sarà uguale a due volte il raggio totale (stella + pianeta)
divisa la componente della velocità orbitale totale per-
DMax =
2 RTot
vTot ⊥
pendicolare all’osservatore:
. Di questa
formula ci manca sostanzialmente proprio la compo-
vTot ⊥
nente della velocità
, poiché i raggi li conosciamo
già. Cerchiamo, allora, di scrivere il dato che ci manca
rispetto ad altri che conosciamo. Facendo uso della trigonometria, possiamo scomporre
vTot ⊥ = vTot sin ϕ
vTot ⊥
come:
Attraverso teoremi trigonometrici (teorema di Carnot e
teorema
dei
seni)
possiamo
scrivere:
sin ϕ =
(rP + s P ) 2 − d 2
4rP s P
Le quantità contenute sono
però sconosciute, meglio modificare la relazione e scriverla in termini di una quantità semplice e conosciuta,
come l’eccentricità orbitale del pianeta, che si ricava da
studi sulla velocità radiale. Consideriamo, allora, le equazioni che regolano il problema dei due corpi sottoposti alla mutua interazione gravitazionale:

a P (1 − e 2 )
r
=
r
(
=
0
)
=
φ
0
1+ e



 (1 − e 2 ) 
a P (1 − e 2 ) 




d
=
2
a
−
2
r
=
2
a
−
=
2
a

P
0
P 1 −
 P
1 + e 
1 + e 




2
rP = a P (1 − e )

1 + e cos φ

 s P + rP = const = s0 + r0 = 2a P ⇒ s P = 2a P − rP
Inserendo le relazioni trovate nella formula del
abbiamo:
sin ϕ =
sin ϕ
1 − e2
1 
1
(1 + e cos φ ) −
2
2 
(1 + e)
 2 1− e 
ϕ
dove
è l’angolo compreso tra
l’orbita (la tangente nel punto di transito) ed r, ovvero la
linea congiungente la stella, il pianeta e l’osservatore.
sin ϕ
Pagina 15
1) Ricaviamo
attraverso quantità conosciute:
Consideriamo la seguente configurazione:
Calcoliamo
2)
vTot
:
vTot
La velocità orbitale totale è la combinazione delle velocità orbitali della stella e del pianeta. Per ricavare il suo
valore attraverso quantità che conosciamo, consideriamo l’orbita stellare e planetaria e le relative velocità angolari, che naturalmente devono essere le stesse:
ωS = ωP
vP vS
=
rP
rS
vS =
rS
vP
rP
Utilizzando la relazione per il calcolo del centro di massa del sistema:
vS =
mP
vP
mS
.
La
m P rP = m S rS
velocità
possiamo scrivere:
totale
allora
è:
ASTRONOMIA NOVA
n. 3, luglio 2011
Pagina 16

m 
vTot = v P 1 + P 
mS 

è
ancora
v
P
Il valore
sconosciuto. Utilizzando la relazione per la velocità orbitale
2
1 

v P = GM  −
 rP a P 
per orbite ellittiche, si ha:
r
elimi-
a
P
P
nando
e
attraverso la definizione
dell’equazione dell’ellisse (scritta in coordinate polari):
a P (1 − e 2 )
rP =
1 + e cos φ
 GP 2 M
a P = 
2
 4π



e la terza legge di Keplero
1/ 3
:
 mP 
1 +
 = Α
 mS 
1/ 2
 1 − e2
1 
1


(1 + e cos φ ) −
2
2 
 2 1− e 
 (1 + e)
2/3
 2(1 + e cos φ

− 1

2
 1− e

=Β
possiamo considerare A e B come dei valori di correzione che tengono conto del moto orbitale della stella attor-
DMax =
 2πGM 
vP = 

 P 
2 RTot
 2πGM   2(1 + e cos φ 
− 1
 

2
 P   1− e

1/ 3
1/ 2
1
D
= 0
ΑΒ ΑΒ
no al centro di massa e della geometria del transito.
Finalmente possiamo calcolare l’inclinazione
orbitale.
 m   2πGM  2(1+ e cosφ 
vTot = 1+ P  
−1
 
2

 mS   P   1− e
2/ 3
Dopo tanti calcoli (!), troviamo che la durata di
un transito centrale può essere scritta nel seguente modo:
DMax =
Esso si inserisce nella formula appena trovata, che darà
un valore più preciso della durata massima e quindi
dell’inclinazione. Il procedimento converge molto rapidamente e già dopo 2-3 interazioni si ha un risultato che
non si discosta più da quello reale.
Per semplificare la relazione, possiamo definire delle
costanti:
Prima, però, dobbiamo fare una considerazione sulla
geometria del sistema e ricordare che entrambi gli oggetti (stella e pianeta) ruotano attorno al comune centro
di massa. Esaminiamo la seguente configurazione:
2RTot
 2πGM  2(1+ecosφ 
−1

 
2
 P   1−e

1/ 3
1/ 2
1/ 2
 1−e2
 1 1 

(1+ecosφ) − 2 
2
(
1
+
e
)
 2 1−e 

 mP 
1+ 
 mS 
Vi sono quantità non conosciute a priori, come M, ovvero la somma delle masse (pianeta + stella). Fortunatamente queste quantità sono sotto radice cubica o sotto
mP
mS
rapporti molto piccoli (
), per questo gli errori che si
commettono sono generalmente modesti.
Inoltre, il metodo si può applicare in sequenza: inizialmente non conosciamo con precisione la massa del pia-
msin i
neta ma solo il prodotto
. Si inserisce questo
valore, si calcola la durata massima e poi l’inclinazione.
Da essa si ottiene un primo valore per la massa del pianeta. A questo punto possiamo usare questo nuovo valo-
Poiché la stella generalmente non si trova nel fuoco
dell’ellisse, per calcolare l’inclinazione, che è funzione
C CM
della corda C, dobbiamo inserire il valore
, ovvero la corda teorica, come se la stella fosse nel fuoco
dell’ellisse.
Questo si calcola facilmente attraverso qualche relazio-
re per replicare i passaggi.
d
ne trigonometrica:
eff
= rP cos i
ASTRONOMIA NOVA
n. 3, luglio 2011
Pagina 17
Densità media: Se supponiamo il pianeta a simmetria sferica (abbastanza esatto per gli errori che abbiamo),
dalla conoscenza della massa e del raggio ci possiamo
ricavare subito la densità media:
< ρ >=
MP
4 3
πR P
3
Questa grandezza ci fornisce importanti dati sulla struttura e composizione del corpo celeste. Una densità minore di quella dell’acqua suggerisce un corpo gassoso,
simile a Saturno o Giove; una densità superiore a
2
C CM = 2 RTot
− d eff2
2
= 2 RTot
− rP2 cos 2 i
2 g / cm 3
Considerando la durata del transito per i = 90° e quella
misurata dalla curva di luce, abbiamo:
C

 D1 = v

 D = 2 RTot
 Max
v
DMax 2 RTot
=
=
D1
C
RTot
è invece indice di un corpo in parte roccio-
so.
Attraverso dei modelli di formazione ed evoluzione,
siamo in grado di prevedere anche una rozza struttura
interna dalla semplice conoscenza della densità.
2
RTot
− rP2 cos 2 i
UN ESEMPIO DI CALCOLO:
rP
Risolvendo per i ed eliminando
i = arccos






R
 GP 2 M

4π 2

D
Tot



1 / 3
2
Max
avremo:
− D
L’analisi del transito di HD17156b
2
1

1 − e 2

 1 + e cos φ

 D

Max






Da questa formula possiamo calcolare l’inclinazione
esatta dell’orbita planetaria, a partire dalla conoscenza
di parametri noti. Questa, come già detto, può essere
iterata con la formula per la durata teorica e la massa,
per ottenere valori via via più precisi.
Massa: Le misure di velocità radiale, necessarie per
confermare che il corpo transitante sia effettivamente
un pianeta, consentono di ricavare solamente una stima
della massa. Attraverso queste osservazioni è impossibile ricavare l’inclinazione, quindi la massa, poiché le
due grandezze sono collegate da una relazione matematica che deriva dalla trattazione fisica del problema dei
due corpi. Attraverso le misure di velocità radiale, ab-
msin i
biamo solamente il prodotto
; ora che conosciamo l’inclinazione, possiamo trovare la massa esatta
mP =
del pianeta:
m sin i
sin i
Applicando le relazioni che abbiamo ricavato, attraverso
semplici
considerazioni
geometriche,
dall’analisi dell’orbita planetaria e del transito, possiamo ottenere in modo preciso dati di grande importanza sul pianeta. E’ giunto il momento di utilizzare
l’apparato di formule di cui sopra per analizzare il
transito di un pianeta extrasolare scoperto
dall’autore nella notte tra il 9 ed il 10 settembre 2007:
HD17156b.
La notte tra il 9 e il 10 settembre 2007, l’astronomo
Mauro Barbieri, specializzato nello studio dei pianeti
extrasolari, allerta un gruppo di astrofili esperti nelle
riprese fotometriche ad altissima precisione, avvertendoli che il pianeta HD17156b, scoperto con la tecnica
delle velocità radiali, aveva una probabilità di circa il
12% di effettuare un transito durante quella notte.
L’occasione era ghiotta: si sarebbe potuto scoprire, per
la prima volta con strumentazione amatoriale, il transito di un pianeta, per di più estremamente peculiare,
con un periodo di 21 giorni e con un’orbita fortemente
eccentrica, molto simile a quella delle comete del nostro
sistema solare.
Da notare che tutti i pianeti in transito, scoperti fino a
quel momento, avevano orbite pressoché circolari e
periodi di rotazione al massimo di 5 giorni.
Pagina 18
ASTRONOMIA NOVA
n. 3, luglio 2011
Data la bassa probabilità di transito, quasi nessun telescopio professionale si sarebbe concentrato sul pianeta quella
sera, per problemi di tempo e risorse, per questo
l’occasione offerta agli astrofili era davvero ghiotta.
Non sto qui a farvi il resoconto di quella notte fantastica,
fatta di speranze e problemi, di illusioni svanite e di adrenalina crescente quando sembrava esserci una piccola speranza di aver ripreso il transito.
Quella notte il pianeta passò davanti alla stella e i nostri
telescopi riuscirono a mettere in evidenza il debolissimo
calo di luce: avevamo scoperto un pianeta, un pianeta tutto
nostro, visto da noi per la prima volta!
Dopo le prime concitate ed emozionanti fasi, piene di
scambi di mail e controlli incrociati dei dati, giunse il momento di fare le cose sul serio e di cominciare ad estrapolare le informazioni quantitative raccolte.
Il metodo seguito, almeno da me, fu semplice e razionale;
quando i dati fotometrici sono stati puliti ed estrapolati, si
è passato all’interpretazione e a ricavare le informazioni
quantitative sul pianeta.
La costruzione della curva di luce ha seguito le seguenti
fasi:
• Calibrazione e selezione delle immagini: quelle vistosamente rovinate dalle nubi sono state eliminate.
• Media delle immagini a gruppi di 13, per ottenere la
massima precisione. Questo metodo è ora sconsigliato
dai professionisti, che preferiscono avere singole immagini piuttosto che la media a posteriori (binning). Nel
caso di HD17156 le singole esposizioni, di 30 secondi,
non possedevano la necessaria precisione e la tecnica
della sfocatura non poteva essere applicata in quanto
presentava problemi con l’autoguida. In questo caso, e
solo in questo caso, si è preferito, quindi, fare esposizioni a fuoco (o quasi) e mediarle in fase di elaborazione
per aumentare la precisione. E’ stato creato un altro set,
composto da immagini mediate a gruppi di 6, per un
controllo e per evidenziale meglio gli istanti di inizio e
fine transito.
• Con le 25 osservazioni ad alta precisione, si è effettuata
l’analisi in fotometria d’apertura con IRIS, che ha fornito in uscita il file testuale con riportate le intensità della
stella da studiare e delle 3 stelle di paragone utilizzate.
• Si sono importati i dati in un foglio di calcolo, nel caso
specifico in Gnumeric, gratuito e funzionante sia con
Windows che con Linux. In Gnumeric si è costruita una
curva di luce di controllo delle stelle di paragone, per
vedere se esse possedevano la giusta precisione e scongiurare eventuali variabilità fisiche. In pratica, si sceglie
una delle stelle di paragone e si costruisce la curva di
luce dividendo la sua intensità per la somma delle altre
due stelle di paragone, trascurando, in questa fase, la
stella da studiare. Il grafico risultante ha mostrato un
andamento lineare, con poca dispersione dei dati: le
stelle scelte sono tutte adatte. Dopo questo controllo si è
costruita la curva di luce di HD17156, sempre a partire
dalle intensità e secondo la relazione già vista:
LC =
ADU HD17156
ADU 2 + ADU 3 + ADU 4
.
• Si è costruito un grafico preliminare per un controllo
sulla bontà dei dati. Dal grafico è emerso un dato fotometrico con un errore oltre 3 volte quello medio, che si
è quindi scartato.
• Stima degli errori dovuti alla scintillazione e al rapporto
S/N; somma quadratica per le incertezze totali.
• Controllo della stima delle incertezze, utilizzando la
funzione deviazione standard di Gnumeric (Excel ne ha
una identica). La deviazione standard, calcolata su dati
che non presentano variazioni dovute al transito, mostra un valore molto simile all’errore medio calcolato: la
stima è stata corretta!
• Normalizzazione: per ricavare dati quantitativi e mostrare le incertezze, si deve normalizzare la curva. Dobbiamo ricavare il valore più probabile per il flusso stellare fuori dal transito e dividere ogni dato per il valore
trovato. Il valore si ricava osservando i punti fuori transito (OOT) e facendo la media. Per la teoria di propagazione degli errori, se la distribuzione delle misure, quindi delle incertezze, è gaussiana, la media di N valori ha
un errore minore del singolo dato; in particolare si ha
σ=
σ
N
che:
. Nel nostro caso, quindi, la deviazione
standard della media, con 7 misurazioni fuori transito,
si riduce di 2,64 volte. Considerato che la deviazione
standard calcolata dei punti è inferiore ad 1 millesimo
di magnitudine, l’errore commesso nell’identificazione
del “pianerottolo” o punto di zero, è trascurabile rispetto alle incertezze stimate. La curva di luce è pronta per
essere visualizzata e analizzata.
Il grafico, che riporto nel seguito, è utile solamente per
avere un’idea e per dare informazioni qualitative immediate agli altri astrofili e astronomi. I dati si ricavano sui valori numerici che compongono la curva di luce, non certo sul
grafico.
Ai dati, che originariamente, erano la data giuliana e le
intensità delle stelle usate per la fotometria, ora si sono
aggiunte almeno altre 5 colonne, ovvero: la curva di luce,
la curva di luce normalizzata, gli errori causati dalla scintillazione, quelli dal rapporto S/N, la stima totale.
ASTRONOMIA NOVA
n. 3, luglio 2011
Pagina 19
Curva di luce di HD 17156 durante il transito
In questo modo la curva di luce può dirsi completa e
possiamo cominciare a ricavare i dati che ci servono,
ovvero la deviazione standard fuori dal transito, quella
dei punti in transito, la profondità e la durata del transito. Questo ultimo dato non è facile da determinare,
soprattutto per profondità piccole, che richiedono elevate precisioni, a scapito, generalmente, del campionamento temporale.
La deviazione standard, che coincide, se la stima è fatta
bene, con l’incertezza calcolata, serve per la propagazione delle incertezze. Minore è questo valore, minore sarà
l’incertezza dei dati ricavati. L’unico modo per ridurre
la deviazione standard in fase di analisi è di mediare i
dati. E’ utile costruire la tabella 1 con i dati che ho ricavato dall’osservazione.
Per estrapolare le informazioni in merito al pianeta e
all’orbita, ci servono altri dati, che non possiamo ricavare direttamente, ma che sono disponibili negli articoli
di scoperta del pianeta e che sono forniti attraverso
l’applicazione dl metodo delle velocità radiali.
Dall’articolo degli autori della scoperta del pianeta HD
17156b, ricaviamo i seguenti dati stella-pianeta, raccolti
nella tabella 2.
Il dato che si potrebbe migliorare è la conoscenza del
raggio stellare, attraverso l’analisi in fotometria assoluta tramite gli indici di colore, preferibilmente U-B.
Con i dati che abbiamo appena ricavato, e con quelli di
cui disponiamo dalle analisi eseguite da altri osservatori, possiamo stimare le grandezze relative al pianeta.
TABELLA 1
Numero dati utili = 25
Sigma dei 7 punti fuori transito = 0,001
Sigma dei 13 punti in transito = 0,0009
Sigma della media dei 7 punti fuori transito =
0,0004
Flusso medio dei 13 punti in transito:
Sigma della media dei 13 punti in transito = 0,0003
Ftransit = 0,9933 ± 0,0003
Profondità:
∆F = 1 − Ftransit
=
0,0065 ± 0,0005
Durata stimata:
TABELLA 2
M * = (1.2 ± 0.1) M Sun
e = 0.67 ± 0.08
R* = (1.47 + 0.13 − 0.17) RSun
φ = (329 ± 11)°
a = 0.15 AU
D = (9000 ± 600) s
ASTRONOMIA NOVA
n. 3, luglio 2011
Pagina 20
Utilizzando le relazioni che abbiamo ricavato nelle pagine precedenti, ricaviamoci alcuni dati fondamentali:
1) Raggio
Il calcolo del raggio è semplicissimo, se conosciamo il
raggio della stella. Nel nostro caso si ha:
R P = R* ∆F
(1.226 + 0.130 − 0.155) R j
=
.
L’errore totale deriva dalla propagazione degli errori
della relazione, ma, come si può ben vedere, è molto
simile all’incertezza nella stima del raggio stellare, molto maggiore dell’incertezza con cui è conosciuto il flusso. Per aumentare la precisione è necessario prima di
tutto effettuare osservazioni fotometriche di alta precisione della stella e ridurre l’incertezza sul raggio, ma
come primo dato non possiamo di certo lamentarci.
2) Durata massima del transito (i=90°)
Questo dato è fondamentale per ricavare l’inclinazione.
Se supponiamo che il disco stellare abbia forma sferica
e che sia trascurabile l’oscuramento del bordo (limb
darkening), la formula per la durata massima del transito è quella già vista, che non vi sto a riscrivere. Avremo allora che:
DMax = (9.905 + 1.693 − 1.822)h
3) Inclinazione
L’inclinazione orbitale si può calcolare dalla durata del
transito e dalla durata massima appena ricavata. Essa è
estremamente importante per determinare in modo
univoco la massa, altrimenti conosciuta come il prodotto
mo:
M sin i . In questo caso, inserendo i dati, otteniai = (87.881 + 0.685 − 0.702)°
4) Massa
La massa esatta si può ricavare semplicemente dalla
relazione:
MP =
M sin i
= (3.12213 + 0.00138 − 0.00141) M j
sin i
4) Densità media
A questo punto, supponendo il pianeta sferico, possiamo calcolare la densità media:
< ρ >=
MP
= (2.144 + 0.68 − 0.83) g / cm 3
4 3
πR P
3
In questo caso, il valore trovato indica un corpo sostanzialmente gassoso, senza escludere, però, la presenza di
elementi pesanti, che tendono a rialzare la densità media ad un valore maggiore di quello dei pianeti gassosi
come Giove o Saturno.
L’analisi è finalmente completata: ho calibrato le immagini ed ho estratto la curva di luce. La successiva analisi
dei dati fotometrici mi ha consentito di caratterizzare il
pianeta appena scoperto.
Per affinare i dati, si dovrà seguire il pianeta per diversi
transiti, magari con strumenti e tecniche più potenti.
Gli astronomi professionisti hanno un approccio per
l’estrapolazione dei dati leggermente diverso: invece di
calcolare le grandezze quali raggio, inclinazione e massa e i relativi errori manualmente, le utilizzano come
parametri di fit.
In altre parole, invece di applicare le relazioni, gli astronomi costruiscono dei programmi in grado di analizzare la curva di luce e di sovrapporvi la curva matematica
teorica che meglio descrive l’andamento sperimentale
trovato. La curva trovata è unica per una determinata
scelta dei parametri fondamentali, quali la durata, il
raggio, l’inclinazione orbitale, e quindi, quando si sovrappone, sono univocamente determinati, con le relative incertezze, i dati che caratterizzano il pianeta e la
sua orbita.
Per gli astrofili, costruire un programma che consente
di fittare i dati sperimentali è molto difficile. Sfortunatamente, al contrario delle stelle variabili, non esistono
in commercio programmi già pronti che possono svolgere questa funzione e l’analisi attraverso il fit del dati è
generalmente oltre le possibilità dell’astrofilo medio.
Questo non è troppo limitativo, poiché i dati che si possono ricavare manualmente sono assolutamente confrontabili con quelli che si ottengono, sebbene in modo
molto più veloce, dalla curva di fit.
ASTRONOMIA NOVA
n. 3, luglio 2011
Daniele Gasparri con la sua strumentazione
Pagina 21
Per Daniele Gasparri, l’astronomia è, contemporaneamente, una passione e una professione. Studia astronomia a Bologna ma, allo stesso tempo, cerca, con la
propria strumentazione amatoriale, di condurre progetti di ricerca, ottenendo spesso risultati di alta qualità,
come la scoperta di un pianeta extrasolare in transito
nel settembre 2007, di qualche nuova stella variabile e
lo studio in alta risoluzione dei corpi del sistema solare.
Accanto allo studio del cielo vi è la passione, nata da
poco, di comunicare, in un linguaggio nuovo e coinvolgente, tutte le meraviglie che esso contiene, che non
necessariamente devono coinvolgere solo la vista ma,
anzi, devono afferrare il lettore ad un lato superiore, più
profondo, e proiettarlo nel vero mondo che ci circonda,
che spesso non è come lo vogliamo vedere.
BELLA SEQUENZA FOTOGRAFICA DELL’ECLISSE DI LUNA DEL 15 GIUGNO 2011
STRUMENTO DI RIPRESA: Newton Skywatcher BlackDiamond 10”
MONTATURA: EQ6-PRO
SENSORE DI RIPRESA: Canon 550d
POSE: 9 pose per ogni immagine, per un totale di 162 foto
DATA: 15-06-2011 da Loreto (AN)
FOTO DI: LORENZO CAPPELLA E MICHELE GUZZINI
Pagina 22
ASTRONOMIA NOVA
n. 3, luglio 2011
Nel quarto centenario della nascita di Johannes Hevelius
Grande osservatore del cielo e fondatore della topografia lunare
Rodolfo Calanca
[email protected]
Fig. 1: Ritratto di Johannes Hevelius; è molto accurato il disegno del globo celeste sul quale è perfettamente riconoscibile l’Orsa Maggiore (fig. 2), disegnata dallo stesso Hevelius per la sua opera
Firmamentum Sobiescianum, uno splendido atlante composto da 56 carte celesti.
Johann Hewelke (latinizzato in Johannes Hevelius, fig.
1) è una delle figure più rappresentative dell’astronomia
secentesca. Nato il 28 gennaio del 1611 a Danzica, ricco
borghese, rampollo di una famiglia di birrai di origine
ceche, negli anni giovanili studiò in diverse città europee, a Leyden, Parigi e Londra, stringendo preziose amicizie con alcuni degli scienziati più famosi del tempo,
quali il padre Marin Mersenne, Pierre Gassendi, Ismael
Boulliaud. Dotato di una non comune abilità manuale
dedicò buona parte del suo tempo allo sviluppo della
tecnologia degli strumenti di precisione, perfezionandosi contemporaneamente nel disegno e nell’arte
dell’incisione. Realizzò, con la collaborazione dell’ottico
italiano Tito Livio Burattini (1617-1681), il gigantesco
cannocchiale noto come maximus tubus, e numerosi
quadranti e sestanti in dotazione alla specola, chiamata
Stellaeburgum, che si era costruito nel 1641 su un ampio terrazzo sovrastante la propria abitazione, nel pieno
centro mercantile di Danzica.
La Selenographia (1647)
In quegli anni fu affascinato dal grandioso progetto del
filosofo Pierre Gassendi (1592-1655) e del ricco aristocratico provenzale Fabri de Peiresc (1580-1637) che
avevano elaborato un sofisticato metodo per trovare le
differenze di longitudine in mare, basato
sull’osservazione delle eclissi di Luna.
L’eclisse lunare del 27 agosto 1635 costituì l’occasione
per attivare la prima rete d’osservazione astronomica
simultanea a fini geografici. Grazie alle influenti conoscenze politiche di Peiresc, alcuni gesuiti, al Cairo, Aleppo, Cartagine, Malta e Italia, opportunamente addestrati nell’uso dei sestanti astronomici, eseguirono accurate osservazioni dell’eclisse.
Il loro compito era di rilevare, con la massima precisione possibile, l’ora locale dell’inizio: la differenza dei
tempi avrebbe fornito la differenza di longitudine tra le
diverse località.
Le osservazioni raccolte, esaminate e confrontate, diedero un risultato che li lasciò allibiti: il Mediterraneo si
estendeva in longitudine 20° in meno di quanto creduto
da Tolomeo, le cui carte geografiche erano ancora ampiamente in uso. Con questa misurazione, il Mar Nostrum si restringeva di ben 1000 chilometri e si scoprì
poi che l’errore tolemaico era nella lunghezza della sua
parte più orientale, da Cartagine ad Alessandria, ampiamente sovrastimata.
Per una miglior precisione, il metodo delle eclissi richiedeva però la disponibilità di una cartografia detta-
ASTRONOMIA NOVA
n. 3, luglio 2011
gliata del nostro satellite. Le osservazioni della superficie lunare, a causa delle difficoltà nell’apprezzare il momento d’inizio dell’eclisse, avevano mostrato che era
preferibile che due osservatori seguissero il procedere
dell’ombra della Terra su mari e crateri sicuramente
individuati e che, contemporaneamente, rilevassero il
tempo locale di tali accadimenti; la differenza dei tempi
d’occultazione faceva conoscere la differenza nella longitudine degli osservatori.
Il progetto di Peiresc e Gassendi, rimasto largamente
incompiuto per la morte del nobile provenzale, prevedeva la preparazione di numerosi disegni delle fasi della
Luna, e di una nomenclatura utile per riconoscere le
diverse formazioni.
Esso condusse, nel 1636, alla pubblicazione di tre soli
disegni eseguiti dall’incisore Claude Mellan (15981688) su precise indicazioni di Peiresc: una Luna piena,
un primo ed un ultimo quarto.
Hevelius, affascinato dall’idea di cartografare la Luna,
decise di realizzare una vasta raccolta di disegni, sottoponendosi a lunghe veglie al telescopio.
Dal novembre 1643 all’aprile 1645 lavorò intensamente
nella sua specola, poi si dedicò all’incisione delle tavole
e, infine, alla redazione di un testo molto corposo, autentica summa delle conoscenze selenografiche del
tempo. Al termine del lavoro, la sua accurata cartografia lunare, che non temeva il confronto con alcun altro
lavoro precedente, fu pubblicata nel 1647 in uno splendido volume, Selenographia (fig. 3), subito considerato
uno dei grandi monumenti della scienza secentesca.
Pagina 23
Il successo dell’opera fu immediato e clamoroso: a Roma Niccolò Zucchi la mostrò al Papa, nascondendogli
però che si trattava dell’opera di un protestante.
Nella Selenographia, Hevelius realizzò quattro cartografie generali e una splendida rassegna di ben quaranta aspetti delle fasi, ciascuna con la Luna di 16.5 cm di
diametro, quattordici sono del 1643, ventidue del 1644,
due del 1645, mentre altre due non portano indicazione
di data. Le quattro carte generali, indicate con le lettere
O, P, Q e R hanno invece dimensioni diverse: la prima
un diametro di 16.5 cm, le altre 28 cm.
Le figure O e P (fig. 4) presentano l’aspetto della Luna
piena vista al cannocchiale. La carta topografica R mostra anche le zone intorno al bordo, visibili grazie
all’effetto di librazione, e con le ombre tutte orientate
nella stessa direzione come se la luce provenisse
dall’ovest lunare.
La selenografia moderna, pur rappresentando la Luna
convenzionalmente con l’illuminazione unica, ha invece
adottato la convenzione della luce proveniente dall’est
lunare. Nella carta R, la quantità di configurazioni che
in realtà non esistono è consistente.
Spesso, anche i crateri realmente esistenti hanno dimensioni e disposizioni errate.
Esempi di scarso rispetto della topografia si riscontrano
nel Mar Imbrium, nei pressi di Archimede, Aristillo e
Autolico: Thimocharis è raffigurato molto più grande
del vero, come pure la miriade di piccoli crateri a nord
di Copernico che crateri non sono, bensì massicce strutture montuose.
Fig. 3: Il frontespizio dell’opera di Hevelius, Selenographia, pubblicata a Danzica nel 1647, la prima interamente dedicata all’iconografia lunare. Le due figure
sono, a sinistra, l’arabo Alhazen, che rappresenta la
Ragione e, a destra, un improbabile Galileo che regge un
cannocchiale (con un abito ed un copricapo di foggia
araba che certamente mai indossò), che raffigura il Senso della Vista.
Pagina 24
ASTRONOMIA NOVA
n. 3, luglio 2011
D’altra parte, sono improbabili e assai fantasiosi anche
gli strani raggi intorno a Stevinus A e Furnerius A, con
la loro forma a “orecchie di coniglio”.
Analizzando la carta R, si ha la viva impressione che
Hevelius, quando la tracciò, fosse suggestionato dalla
particolare rilevanza fotometrica di alcune strutture
lunari che spesso non è però direttamente proporzionale alle loro reali dimensioni. Nella mappa indicata con
Q, disegnata con la fantasiosa tecnica cartografica del
tempo, è riportata la sua toponomastica, con una lista
che comprende ben 274 formazioni. Inizialmente aveva
deciso di usare i nomi di astronomi antichi e moderni,
quali: Mar Kepplerianum, Lacum Galilei, Oceanum Coperniceum, ma vi rinunciò per timore di farsi dei nemici tra i contemporanei a causa di sempre possibili dimenticanze. La scelta cadde quindi su innocui soggetti
geografici, come Appennini, Alpi, Carpazi, che, tra
l’altro sono tra i pochissimi tuttora conservati.
Il Maximus Tubus di Hevelius
Hevelius aveva un particolare interesse per la tecnologia costruttiva dei telescopi ed era sempre alla ricerca di
metodi che gli consentissero la realizzazione di telescopi sempre più potenti.
A quel tempo però, i cannocchiali a lenti singole, sia di
tipo galileiano che kepleriano, subivano gli effetti nefasti delle aberrazioni sferica e cromatica, che potevano
essere ridotte solo usando obbiettivi di grande distanza
focale e di piccola apertura. Già si sapeva che utilizzando lenti di diametro relativamente piccolo si escludevano
i
raggi
extra-assiali,
principale
causa
Fig. 5: particolare della carta R della Selenographia nella quale sono indicati, con frecce, i crateri Stevinus A e
Furnerius A e le strane “orecchie di coniglio”.
Fig. 6: bellissima
immagine della Luna crescente disegnata da Hevelius il
17 febbraio 1647.
dell’aberrazione
sferica,
mentre,
ingrandendo
l’immagine, si riducevano gli effetti dell’aberrazione
cromatica.
Gli ottici avevano proposto delle regole empiriche per
dimensionare opportunamente il diametro e la focale
dei cannocchiali. Ad esempio, l’olandese Nicolas Hartsoeker (1656-1725) consigliava di adottare la regola
della focale dell’oculare uguale al diametro
dell’obbiettivo e un rapporto focale (cioè il rapporto tra
la focale e il diametro obbiettivo) compreso tra 50 e
500. Nei rifrattori moderni tale rapporto è generalmente compreso tra 8 e 15.
Così, un cannocchiale di 4 centimetri di diametro doveva avere una focale di 2.7 metri, un oculare di 4 centimetri di fuoco ed un ingrandimento di 63 volte. Il costruttore napoletano Francesco Fontana (1585 circa –
1656) osservava i pianeti con un cannocchiale di circa 11
metri di focale, mentre Eustachio Divini (1610-1685),
nel 1649, aveva disegnato la sua carta lunare con un
obbiettivo di 10 metri circa.
La lunghissima focale dei cannocchiali produceva, però,
dei gravi problemi di tipo strutturale a livello di flessioni e torsioni della struttura. Inoltre, per poterli puntare,
spesso si ricorreva alla forza di molti uomini e risultava
sommamente difficile tenere centrato l’oggetto celeste
nel campo di vista.
I tubi che congiungevano l’ottica principale all’oculare
erano realizzati in carta, latta o legno, e la loro sezione
poteva essere circolare, quadrata od ottagonale. In tutti
i casi, per evitare che la struttura si incurvasse, avevano
bisogno di un sostegno che corresse per tutta la loro
lunghezza.
Il sostegno e la manovra dei lunghi tubi fu studiato da
alcuni dei maggiori astronomi e costruttori ottici del
Seicento. Christiaan Huygens (1629-1695), nel 1659,
osservò Saturno con un telescopio di latta lungo 7.2
metri, sostenuto da pertiche congiunte in cima. Il tubo,
ASTRONOMIA NOVA
n. 3, luglio 2011
sorretto da una fune che scorreva in una carrucola posta al vertice del treppiede, poggiava, dalla parte
dell’oculare, su di un piede portatile regolabile in altezza.
Fig. 7: Cannocchiale ottagonale a sette tiraggi, realizzato
dall’ottico marchigiano Eustachio Divini nel 1674.
L’obiettivo è pianoconvesso e l’ingrandimento originale 55x
(Firenze, Istituto e Museo di Storia della Scienza).
La mancanza di soluzioni meccaniche adeguate, capaci
di garantire saldezza e rigidità ai lunghi cannocchiali
della metà del Seicento, indusse Leopoldo de’ Medici ad
indire una gara tra gli accademici del Cimento per la
miglior soluzione del problema. Il progetto di Candido
Del Buono (1618-1676, presentata all’Accademia dal
fratello Anton Maria, vinse la gara. Questo gigantesco
cannocchiale, noto come l’Arcicanna, non fu però mai
realizzato.
Leopoldo inviò a studiosi di tutta Europa il progetto di
del Buono, e tra questi Huygens, che l’approvò pienamente: sono ammirato dall’ingegno dell’autore che ha
risolto con rara abilità un problema così complesso.
L’arcicanna costituì uno dei primi tentativi per eliminare la canna telescopica, ma la sua struttura, ancora
troppo pesante e sostenuta in modo precario da una
semplice fune, non costituiva certamente una soluzione
efficace contro le flessioni e le torsioni della struttura e
non eliminava la sorgente delle vibrazioni che produceva il fastidioso tremolio dell’immagine.
All’arcicanna si ispirarono anche Hevelius e l’italiano
Tito Livio Burattini (1617-1681). Quest’ultimo soggiornò a lungo in Polonia, dove ricoprì l’incarico di architetto reale e ricevette in appalto le miniere d’argento di
Olkusz. Annoverava tra i suoi migliori amici, Paolo, uno
dei fratelli del Buono, morto prematuramente nel 1659.
I gravosi incarichi istituzionali, non impedirono a Burattini di occuparsi con successo, della costruzione di
Pagina 25
lenti e di supporti per i grandi cannocchiali. Nel 1665
realizzò uno strumento, chiaramente derivato
dall’arcicanna, lungo 20 metri e 750 chilogrammi, lo
ponevano tra i più massicci cannocchiali mai realizzati.
E’ nota la sua collaborazione con Hevelius, tanto che il
maximus tubus, lo strumento di maggiori dimensioni
costruito dall’astronomo di Danzica, fu realizzato su
suo progetto. Questo straordinario cannocchiale, lungo
46 metri (fig. 9), eretto da Hevelius sulla spiaggia di
fronte alla città, dovette dare notevoli grattacapi di natura tecnica ed operativa se, dopo molti mesi dalla sua
realizzazione l’astronomo non era ancora riuscito a provarlo. La soluzione costruttiva inventata da Burattini
era particolarmente ingegnosa: egli aveva utilizzato delle lunghe assi congiunte per una costola ad angolo retto, formando una sezione ad “L”; in questo modo riduceva la flessione delle tavole.
La lunghezza di questo enorme cannocchiale non è ancora stata superata e forse non lo sarà mai: le moderne
tecnologie ottico-meccaniche consentono, infatti, di
ridurre la distanza tra l’obbiettivo ed il piano focale entro dimensioni meccaniche contenute ma con prestazioni ottiche enormemente superiori a quelle dei giganteschi e traballanti strumenti in uso nel Seicento.
Fig. 8: Una ricostruzione della “arcicanna”, il grande
cannocchiale progettato da Candido Del Buono
(Firenze, Istituto e Museo di Storia della Scienza).
Pagina 26
ASTRONOMIA NOVA
n. 3, luglio 2011
Fig. 9: Il maximus tubus, costruito da
Hevelius su progetto di Tito Livio Burattini. Fu eretto sulla spiaggia di Danzica
ma, non fu però mai utilizzato dal suo
costruttore a causa delle difficoltà di
movimentazione della gigantesca struttura.
Le opere di Hevelius
Nel 1656 Hevelius scrisse una dissertazione sulla forma
di Saturno e delle sue “strane protuberanze”, la Dissertatio de Nativa Saturni facie, nella quale sosteneva che
il pianeta era composto da un corpo centrale ovoidale
da cui sporgevano due oggetti in forma di luna. La rotazione di questa figura attorno ad un asse longitudinale
spiegava, a parere di Hevelius, il succedersi delle apparenze osservate al telescopio (fig. 10). Christiaan Huygens, uno dei maggiori scienziati del Seicento, confutò
le idee di Hevelius, proponendo un nuovo modello di
Saturno, a grandi linee tuttora accettato: Saturno è un
globo circondato da un anello di forma ellittica, solido
(!) e di spessore consistente, inclinato sul piano
dell’eclittica. Secondo Huygens, l’apparenza tricorporea
di Saturno era dovuta ad osservazioni al limite della
risoluzione strumentale. Un suo cannocchiale, di ottima
qualità, svelò il mistero di Saturno.
Il transito di Mercurio del 3 maggio 1661 trovò ben preparato Hevelius che, da Danzica, seguì le fasi del fenomeno, in seguito descritte nell’opera Mercurius in Sole
visus (Mercurio visto sul Sole). Egli vide l’ingresso di
Mercurio sul Sole ma non l’uscita, perché i due astri si
trovavano ormai sotto l’orizzonte. Il diametro apparente di Mercurio, ricavato da Hevelius tramite
l’osservazione del transito, fu una delle più accurate
determinazioni del Seicento: differiva dal valore vero a
meno di 0”.5.
La variabilità della stella Mira Ceti fu scoperta, dopo
una serie di osservazioni, da David Fabricius a partire
dal 3 agosto 1596. Durante le sue osservazioni di Mercurio, Fabricius ebbe bisogno di una stella di riferimento per misurarne la posizione, e scelse una vicina stella
anonima di terza magnitudine. Quando la riosservò il
21 agosto di quell’anno, si accorse che la stella era diventata di prima magnitudine mentre in ottobre era
così debole da scomparire alla vista. La rivide il 16 febbraio 1609. Hevelius la osservò decenni dopo, e la chiamò Mira (che significa "meravigliosa") nel suo lavoro Historiola Mirae Stellae del 1662, perché si comportava come nessun'altra stella. Il periodo di Mira fu perfezionato da Ismail Bouillaud che lo ritenne pari a 333
giorni, sbagliando di meno di un giorno rispetto al valore moderno di 332.
Fig. 10: Due disegni di Saturno eseguiti
intorno alla metà del Seicento. A sinistra
in un’opera di Christiaan Huygens, che
lo raffigurò in modo esatto. A destra,
nella Selenographia di Hevelius, che invece non riuscì a raffigurare correttamente gli anelli.
ASTRONOMIA NOVA
n. 3, luglio 2011
Pagina 27
Fig. 11: Alcuni modelli di strumenti che furono realizzati da Hevelius nel suo osservatorio di Danzica.
La dotazione di strumenti comprendeva cannocchiali di tipo kepleriano e quadranti, sestanti e ottanti a visione diretta (ovvero, senza cannocchiale
di mira).
Fig. 12: Le tavole A e B del Prodromus
Cometicus raccolgono le osservazioni
di Hevelius della cometa dal 14 dicembre 1664 al 18 febbraio 1665.
Nel 1665 esce il Prodromus Cometicus, opera composta
dall’astronomo polacco per raccogliere le sue osservazioni sulla grande cometa (fig. 12) apparsa nei cieli europei nell’inverno 1664-1665. Due tavole della stessa
opera, contrassegnate con le lettere a e b, raccolgono 28
disegni della cometa vista al telescopio dall’inizio della
sua apparizione il 14 dicembre 1664 fino alla sua scomparsa il 18 febbraio 1665. In queste due tavole è interessante notare, oltre all’evoluzione della coda cometaria,
anche l’evolversi del suo nucleo e della sua chioma.
La comparsa di questa cometa luminosa nei cieli Europa è stato uno degli eventi astronomici più studiati del periodo. In Inghilterra, Christoher Wren, John
Wallis e Robert Hooke osservarono la cometa. In Italia,
gli osservatori furono numerosi, da Giovanni Domenico
Cassini a Geminiano Montanari. Fu anche la prima
cometa ad ispirare Isaac Newton, che ne annotò sul suo
taccuino l’osservazione, il 23 dicembre 1664.
Nel 1668 pubblicò la Cometographia, nella quale, per
analogia con il moto dei proiettili sulla Terra, teorizzava
per le comete traiettorie paraboliche. In quest’opera
descrive e commenta con dovizia di particolare le comete del 1652, 1661, 1664 e 1665.
Il primo volume della Machinae coelestis, uscito nel
1679, descrive l'apparato osservatorio astronomico di
Hevelius presso Danzica, che era, fino all'incendio di
quello stesso anno, tra i più attrezzati in Europa.
I disegni contenuti nella Machinae - in particolare quelle per i telescopi - sono di grande interesse. Il secondo
volume dell’opera, diviso in due parti, conteneva una
notevole collezione di dati osservativi e riduzioni di ogni genere, un’autentica miniera di informazioni illustrate con mappe stellari e diagrammi.
Questo secondo volume è una delle opere astronomiche
più rare, a causa di un incendio che il 26 settembre
1679 distrusse l'osservatorio, la stamperia, la casa di
Hevelius, e la maggior parte delle copie delle opere contenute nella biblioteca.
Qualcuno afferma che meno di 100 copie del secondo
volume sopravvissero all’incendio.
Pagina 28
ASTRONOMIA NOVA
n. 3, luglio 2011
Nell’opera Annus Climactericus (1685), Hevelius descrive l'incendio del 1679, e include le osservazioni fatte
sulla stella variabile Mira nonché un catalogo di 1564
stelle. Il fatto che egli preferisse utilizzare i grandi strumenti di misura astrometrica (quadranti, sestanti, ecc.,
vedi fig. 11) privi di cannocchiale innescò una vivace
polemica con Robert Hooke.
Hevelius continuava ad usare i metodi tradizionali di
osservazione ad occhio nudo con strumenti come quadranti, sestanti e sfere armillari. Edmund Halley gli fece
visita a Danzica e lavorò per circa sei mesi con lui, al
suo rientro scrisse una relazione alla Royal Society, sostenendo che i metodi di Hevelius erano così accurati
che egli avrebbe difficilmente potuto far di meglio.
Il Firmamentum Sobiescianum (1690), è l’ultima opera
di Hevelius, pubblicata postuma dalla seconda moglie.
Si tratta di uno splendido atlante di 56 fogli, corrispondente al suo catalogo stellare, che contiene nuove costellazione alcune ancora in uso.
Hevelius è stato un grande osservatore, anche se non
ancora pienamente convinto delle potenzialità del telescopio nelle misure astrometriche degli astri.
Al tempo circolavano i primi rozzi, e non certo affidabili, micrometri che solo dagli inizi del Settecento furono
impiegati per migliorare le misure di posizione delle
stelle. I suoi pazienti lavori ed accuratissimi lavori sulla
Luna, il Sole, ed i pianeti gli valsero una meritata fama
tra i suoi contemporanei e l’ammirazione incondizionata dei posteri.
Fig. 13: A sinistra: Una delle due copie esistenti del frontespizio meravigliosamente acquerellato dallo stesso Hevelius, della prima parte della Machinae Coelestis. A destra:
il ricco frontespizio del Firmamentum Sobiescianum, dove
sono raffigurati, intorno ad un tavolo, molti personaggi
dell’astronomia del passato e del presente, a partire da
Hevelius stesso (il prima a sinistra), mentre l’ultimo a
destra è padre Riccioli, il gesuita ferrarese notissimo alla
metà del Seicento per la sua monumentale opera, Almagestum Novum (Bologna, 1651).
Rodolfo Calanca è direttore editoriale di EANweb. Notizie
biografiche alla pagina: http://win.eanweb.com/autore.htm
ASTRONOMIA NOVA
n. 3, luglio 2011
Pagina 29
4° CONVEGNO EAN, 27-28-29 maggio 2011,
L’astronomia in Italia nel 150° dell’Unità, problemi e prospettive
Concordia sulla Secchia, Modena
Teatro del Popolo
ALBUM FOTOGRAFICO DEL CONVEGNO
Il Teatro del Popolo di Concordia sulla Secchia; a destra: preparativi per la serata inaugurale, da sinistra: R. Calanca (di
spalle), Angelo Angeletti, Nicolò Conte (al PC), Mauro Dolci, un tecnico video (di spalle), Arnaldo Gaudenzi, tecnico audiovideo.
La Filarmonica di Concordia mentre esegue l’inno nazionale , al centro, Rodolfo Calanca presenta la serata, a destra,
Roberto Casari, presidente della CPL Concordia, saluta i convenuti.
Pagina 30
ASTRONOMIA NOVA
n. 3, luglio 2011
A sinistra: il sindaco di Concordia sulla Secchia, Carlo Marchini, saluta i convenuti. Al centro, Gemma Messori recita l’inno
nazionale. A destra, Angelo Angeletti presenta gli ospiti.
Consegna dei premi Marsden 2011: a sinistra, Nico Cappelluti riceve la targa dalle mani di Roberto Casari, presidente CPL
Concordia, a destra, è premiato Vittorio Goretti.
A sinistra, il pubblico in piedi durante l’esecuzione dell’inno nazionale. Teatro del Popolo di Concordia s/S, 27 maggio: un
momento del seguitissimo dibattito sul tema: “Viaggi spaziali, pianeti extrasolari e vita nel cosmo”: da sinistra (in piedi):
dott. Mauro Dolci (astronomo all’Osservatorio INAF di Teramo). Seduti, da sinistra: prof. Cesare Barbieri (ordinario di astronomia all’Università di Padova, responsabile scientifico della sonda spaziale ESA, ROSETTA); il prof. Corrado Bartolini
(ordinario di astronomia all’Università di Bologna); con il microfono: dott. Umberto Guidoni (astronauta, ex europarlamentare); dott.ssa Stefania Varano (Osservatorio Radioastronomico di Medicina, Bologna); prof. Flavio Fusi Pecci (direttore
dell’Osservatorio INAF di Bologna); infine: Jacopo Fo, scrittore, regista, attore.
ASTRONOMIA NOVA
n. 3, luglio 2011
Pagina 31
Jacopo Fo autografa un suo libro. A destra: Nico Cappelluti, vincitore del premio “B.G. Marsden” 2011 insieme all’astronauta
Umberto Guidoni.
Da sinistra: il prof. Cesare Barbieri, dr. Corrado Lamberti e dr. Francesco Poppi
Da sinistra: dr. Francesco Rea, prof. Giovanni Bignami e Jacopo Fo
Pagina 32
ASTRONOMIA NOVA
n. 3, luglio 2011
Da sinistra: dr. Mario Di Martino e dr. Nico Cappelluti
Da sinistra: dr. Umberto Guidoni e prof.ssa Angela Misiano
Da sinistra: dr. Mauro Dolci, a destra: prof. Flavio Fusi Pecci
ASTRONOMIA NOVA
n. 3, luglio 2011
Pagina 33
Da sinistra Massimo Mazzoni, a destra dr. Alberto Ombres
9 luglio 2011, dalle ore 10:
Planetario di S. Giovanni Persiceto (BO), incontro EAN
per discutere le idee e i progetti futuri,
PARTECIPATE, ANCHE ATTRAVERSO LA DIRETTA WEB
http://www.eanweb.com/dirette/
per sabato 9 luglio, a partire dalle ore 10:00, abbiamo organizzato un incontro (fisico e virtuale sul web) al planetario di
S. Giovanni Persiceto nel corso del quale discuteremo dei progetti EAN. Chi non potesse essere fisicamente presente potrebbe ugualmente assistere ai lavori in diretta sul sito EAN e interagire con gli altri.
Ecco gli argomenti in discussione:
1) Stato attuale di EAN: risultati e problemi.
Durante questo incontro faremo il punto di oltre tre anni di attività. Ricordo, infatti, che EAN è stata fondata
(informalmente) a S. Giovanni P. il 15 marzo 2008.
2) esame di uno statuto per trasformare EAN in associazione culturale.
EAN ha la necessità di darsi una struttura organizzata per poter affrontare nuovi importanti progetti. Riteniamo finito il tempo della sperimentazione. I risultati fin qui conseguito in questo periodo di "rodaggio" (durato circa tre anni) sono stati di
grande interesse sia a livello culturale che scientifico.
3) Programma di massima delle attività EAN per il biennio 2012-2013.
Se EAN si costituirà in associazione culturale, sarà possibile programmare iniziative estremamente importanti a livello nazionale ed internazionale.
4) Ampia discussione sugli obiettivi scientifici/culturali/organizzativi di EAN
Gli argomenti in esame sono di grandissima importanza, pertanto preghiamo tutti di partecipare, fisicamente o
virtualmente (seguendo la diretta web).
Per informazioni: 348-3687842