L'Arlecchino di Soleri di Enrico Bernard Campese, il capocomico protagonista de "L'arte della commedia" di Eduardo De Filippo, in un'opera che fin dal titolo si richiama alla tradizione della Commedia dell'Arte e ad Arlecchino, lamenta che la sua professione di attore non viene riconosciuta ufficialmente dal catalogo dei mestieri e che lui pertanto si sente un <escluso> dalla società civile. Le parole di Campese mi sovvengono quando l'immenso Ferruccio Soleri, tra i più grandi Arlecchini d'ogni tempo, alla fine dello spettacolo alza la maschera per svelare un volto solcato dalla fatica: rivoli di sudore che gli colano dalla fronte, i capelli bianchi scompigliati, lo sguardo alllucinato di chi, a 83 anni, ha retto sulle proprie spalle con capriole, lazzi, scherzi, battute e invenzioni oltre tre ore di intenso spettacolo. Penso alle parole di Campese che trovano conferma nella fatica che si manifesta in tutta la sua umana umiltà sotto i riflettori per raccogliere, da bandolero stanco e non da maschera stilizzata, l'ovazione tributata all'eccezionale prestazione artistica che in decenni di repliche ovunque ha dato rinomanza e lustro mondiali al teatro italiano. Il sudore, ovvero il <sangue della fronte>, di Ferruccio Soleri è come il succo di secoli, anzi più di un millennio dalla comparsa dei giullari, di difficoltà e fatiche, di pericoli e bastonature che gli Arlecchini di tutti i tempi, - come dice il Campese di Eduardo "dev'esserci ancora la corda da qualche parte per impiccare qualche Arlecchino" - , hanno dovuto (e ahimé devono) sopportare. Salto dunque in piedi come spinto dall'entusiasmo e dalla commozione per la standing ovation: Ferruccio Soleri è, ormai da mezzo secolo, un mito insostituibile; e lo spettatore che non avesse ancora visto dal vivo il suo Arlecchino in una delle duemila e più repliche , beh si affretti, perché allora non ha ancora visto niente di teatro, di vero teatro. Di teatro umano, costruito col sudore della fronte, l'ingegno e l'esercizio, il morso della fame e l'angoscia della morte. Una grande serata dunque su cui però vale la pena di rimurginare perché Soleri, che rimette in auge il celeberrimo spettacolo strehleriano di cui ne è stato fin dall'inizio protagonista, affianca ora il grande regista scomparso apportando qualche piccola, ma non insignificante variante allo spettacolo originario. L'operazione drammaturgica di Soleri è del resto confermata dalla grafica della locandina che dà molto spazio al nome di Arlecchino mentre riserva una posizione marginalmente indicativa al titolo della commedia di Goldoni che è "Il servitore di due padroni". Come (quasi) tutti sanno la maschera protagonista del capolavoro goldoniano non è Arlecchino, bensì il suo predecessore Truffaldino: entrambi vestiti di pezze colorate, il francese Arlequin (la cui etimologia è traducibile con "diavoletto") e il bergamasco Truffaldino il cui nome invece sta per quella mirabile arte italica di arrangiarsi, finiscono per fondersi. Così nasce la maschera dello zoticone e furbastro contadino, scarpe grosse e cervello fino, che, nato regionalmente come "Zanni", si italianizza con nomi vari tra cui appunto quello di Truffaldino (ma anche Trappolino, Zaccagnino, Frittellino, Petrolino eccetera come elenca il Rasparini nei suoi versi), poi si "francesizza" (approssimativamente perché da un simile <carattere> non ci si possono aspettare le buone maniere) nei modi per andare a servire i "signori padroni" della nobiltà decaduta e sull'orlo del lastrico o della borghesia accumulatrice di capitali e ipocrisie (Pantalone). Ma anche se Truffaldino-Arlecchino ha fatto finta o ha comunque tentato di ingentilirsi, di qui la sua posizione sempre pronta al salamelecco e all'inchino per "magnare", egli non perde la burbera foga del contadino ribelle e pronto alla rivolta e a rispondere alle legnate (anche la sua maschera ha in dotazione una specie di randello) se gli viene negata la pagnotta dai "signori padroni". E Goldoni naturalmente sente, nella seconda metà del Settecento, che l'aria che tira sta montando in tempesta, come avrà modo di vedere lo stesso autore veneziano ormai ottantenne nella Parigi della rivoluzione del 1789. Ma già a metà del secolo, Goldoni percepisce che la storia si sta muovendo velocemente, e di questo processo storico se ne fa anche esplicitamente portavoce ideologico, sia pur con tutta la moderazione di un autore teatrale che deve comunque soddisfare un pubblico medio-alto. Quanto basta tuttavia ad ottenere il rispetto dei rivoluzionari: pur vivendo a Parigi a spese della corte di Versailles dove insegna italiano alla famiglia Reale e produce opere più o meno gradite al re Luigi XVII, a Goldoni non solo viene risparmiata la ghigliottina, ma riceve anche una pensione dal consiglio rivoluzionario, riconoscimento che ahimé gli giunge in punto di morte. L'edizione di Strehler, mi riferisco alla ripresa televisiva del 1993 recentemente uscita nella collana "Il teatro di Repubblica-Espresso", è in questo contesto un'operazione geniale perché riesce a far rivivere la tradizione della Commedia dell'Arte, che viene ripresa e resa esplicita col cambiamento del nome del protagonista che da Truffaldino diventa appunto Arlecchino, senza però impoverire l'impianto ideologico dell'opera. I lazzi della Commedia dell'Arte, per la verità poco amati da Goldoni, trovano così un contrappeso, - ad esempio nella essenzialità della scenografia. Al posto dei canovacci e dei fondali dei commedianti, vi è uno spazio astratto e senza tempo, in cui lo sghignazzo a buon mercato dei commedianti viene come "storicizzato". Così da non inficiare, il pericolo era un possibile oscuramento del significato profondo, politico, il contenuto della commedia goldoniana, che in tal modo diverte senza smettere di rappresentare criticamente e realisticamente un mondo che tra una risata e l'altra, tra un'abbuffata e uno sposalizio, tra una baruffa e un lazzo, va incontro alla catastrofe e, come abbiamo visto era nell'aria, alla ghigliottina. In questa versione Soleri da Strehler/Goldoni mi sembra di intuire invece un intento più "arlecchinesco" che va in direzione di un recupero totalizzante della struttura della Commedia dell'Arte. Lo spettacolo allora si "allunga" e un po' si dilunga, perché devono trovar posto una serie di lazzi, tipici appunto del teatro all'improvviso, che non coinvolgono solo Arlecchino, ma anche gli altri personaggi, in una serie di errori voluti, caratterizzazioni, baruffe da teatro-nel-teatro eccetera. Insomma, tutto un repertorio che non solo è assente nella commedia, ma che Goldoni aveva esplicitamente tentato di esorcizzare nell'avvertenza dell'autore (Goldoni non faceva mai mancare un introitus <L'autore a chi legge> nelle pubblicazioni delle sue opere). Scrive il Veneziano: "La presente commedia NON E' DI CARATTERE (maiuscolo mio, ndr.), se non se carattere si voglia considerare quello del Truffaldino". Ecco dunque come Goldoni rinnova la tradizione della Commedia dell'Arte nel momento in cui essa è in crisi perché noiosamente stereotipata (i lazzi ripetuti annoiavano alla lunga il pubblico). Goldoni insomma scrive commedie secondo la tradizione drammaturgica cinquecentesca (il suo modello è "La mandragola" di Machiavelli), aggiungendo, questo sì, tramite Truffaldino un elemento di "carattere", dove carattere sta per quel tipo di teatro comico buffonesco e distinguibile dalle "improvvisate" o dallo "andar a braccia" cioé strumentalizzando il copione ai fini della performance. Truffaldino (o Arlecchino che dir si voglia) può allora, ma solo nei limiti previsti da Goldoni e tutto sommato rispettati da Streheler, permettersi di far ridere e sghignazzare "a buon mercato", gli altri personaggi no. In questo senso Goldoni è ancora più esplicito, tanto per sgombrare il campo da ogni dubbio, qualche rigo dopo: "Ella [la commedia, ndr.] può chiamarsi Commedia giocosa, perché di essa il giuoco di Truffaldino forma la maggior parte. Rassomiglia moltissimo alle Commedie usuali degl'Istrioni, SE NON CHE SCEVRA MI PARE ELLA SIA DA TUTTE QUELLE IMPROPRIETA' GROSSOLANE, CHE NEL MIO <TEATRO COMICO> HO CONDANNATE, E CHE DAL MONDO SONO ORMAI GENERALMENTE ABORRITE" (maiuscolo mio, ndr., cfr. edizione Einaudi della collana di teatro, p. 11). Naturalmente Goldoni sentì il bisogno di questa presa di posizione perché capiva benissimo i rischi cui andava incontro la sua opera: di essere riassorbita nell'ambito della Commedia dell'Arte tra lazzi e capriole, piroette e battutacce all'antica italiana in un, dagli e dagli, alla lunga stancante repertorio di stereotipi di comicità: dalla battuta dimenticata, al Brighella balbuziente, dall'occhiolino al pubblico allo scherzo irriverente, calcio in culo compreso o deretano che finisce a scottarsi sulla brace. Certo che il pubblico vuole ridere e gradisce qualche scivolata nel grottesco e nel <carattere>, ma questa funzione è riservata solo a lui, ad Arlecchino, guai se anche gli altri personaggi, quelli più vicini alla realtà, cominciano a farsi beffe della stessa commedia che recitano: perché se non la prendono sul serio loro, perché dovremmo farlo noi del pubblico? Il problema è che i signori commedianti, gli Istrioni di cui parlava aspramente Goldoni, non si arrendono mai e cercano immancabilmente di sciorinare il loro bagaglio tecnico fatto di <trovate> ed <effettacci> (è un non-dispregiativo che uso alla maniera dei toscani) per stupire e far ridere il pubblico. Cosa che riesce all'inizio ma che, quando non si segue più il filone realistico e critico dell'opera teatrale, dopo una o due ore basta, abbiamo visto tutto, il lazzo si ripete, annacqua non solo la commedia ma fa perdere l'interesse per le stesse peripezie di Arlecchino che dovrebbero solo esse, fungere da valvola di sfogo della comicità. A Strehler ovviamente questi aspetti sono ben noti, perciò il grande regista riesce a convogliare e a miscelare sapientemente i contenuti goldoniani con la forma tipica della Commedia dell'Arte: è un equilibrista sul filo, spostare leggermente il peso troppo da una parte, significa una pesante e rovinosa caduta. Allora riesce a mantenersi spericolatamente in equilibrio usando i contrappesi di forma e contenuto, rimanendo nel campo del <Teatro Comico> teorizzato dallo stesso Goldoni. Prevale il compromesso tra le esigenze del divertimento più franco e spontaneo e il contenuto ideologico dell'opera che si rivela in alcune battute-chiave di Truffaldino che, per ora buono e remissivo finché "se magna", non ci metterebbe tanto a trasformarsi in un sedizioso ribelle, tanto più che è armato di un, al momento, innocuo randello. Nella prefazione all'edizione Utet del 1948 di alcuni lavori goldoniani Giuseppe Ortolani dimostra che la questione è peraltro di vecchia data: "Mi preme subito mettere in guardia il lettore contro alcuni errori sui quali insiste la critica più recente. E prima di tutto fissiamoci bene in mente: nessuna affinità tra le migliori commedie goldoniane e la commedia dell'arte." Nessuna affinità, forse è detto troppo. Abbiamo appena riferito come la pensa Goldoni a questo proposito. E Strehler si richiama a quello spiraglio aperto dallo stesso autore per agganciare alla forma del <Teatro Comico> goldoniano quel carrozzone della Commedia dell'Arte che sembrava tagliato fuori dalla storia e che invece (Strehler ribadirà il concetto nell'allestimento e soprattutto nell'aggiunta del finale dei "Giganti della montagna" di Pirandello) sono ancora in cammino col loro repertorio di "trovate" sempre utili al teatro che voglia instaurare un rapporto col pubblico. Di qui l'Arlecchino strehleriano interpretato, fin dall'origine del pèrogetto strehleriano da Soleri, incarna la parte gioiosa e di <carattere>, uso il termine in senso tecnico, di una commedia costruita non tanto sulle regole della Commedia dell'Arte, ma su quelle della drammaturgia tardorinascimentale (i travestimenti, l'equivoco sessuale, i matrimoni incrociati servi-padroni che compongono il tipico quadro politico della "Mandragola" machiavelliana). Lo spettacolo riallestito da Ferruccio Soleri mi sembra procedere invece in una direzione più apertamente, sfacciatamente e iconoclasticamente "istrionica". Viene sciorinato l'ampio repertorio della Commedia all'Improvviso che, ferma restando la grandiosità dell'Arlecchino di Soleri, a volte s'intasa i col testo goldoniano. Una problematica che peraltro l'edizione strehleriana, mi ripeto, con lo stesso Soleri evitava accuratamente grazie allo spiccato senso dell'equilibrio tra gli stili di Giorgio Strehler. Mi piacerebbe conoscere direttamente da Soleri se e quali cambiamenti rispetto al progetto di Strehler - che mi sembra comunque più essenziale, più asciutto rispetto alla riedizione ora in scena - egli abbia qui apportato e se questi cambiamenti sono in sintonia, oltre che con Goldoni, anche con le idee del Maestro. Ma a parte questa curiosità, la serata è di quelle da incorniciare e si trasforma con l'apoteosi finale in una vera e propria festa del teatro dedicata ad un Arlecchino, quello di Ferruccio Soleri, entrato a pieno diritto nella Storia.