IL MESSAGGERO SARDO Cultura 32 Lungo i corsi d’arte e di letteratura a cura di Adriano Vargiu Bicentenario della nascita di Mario De Candia Uno dei maggiori tenori dell’Ottocento, patriota e mecenate di Mazzini e Garibaldi icorrono i duecento anni dalla nascita di Mario, colosso dell’opera romantica, un tenore per il quale un orso come Giuseppe Verdi – che non componeva mai «né pel tale né pel tal altro» – si scomodò a scrivere la bellissima cabaletta dei Due Foscari, piazzandoci due mi bemolle sovracuti. Non solo, ma si stanno organizzando anche i festeggiamenti per i centocinquant’anni dell’Unità d’Italia. E Mario fu un patriota, un mecenate (oggi si direbbe sponsor) di Mazzini, di Garibaldi e di quei numerosi esuli che a Parigi e a Londra «vissero, soffrendo nella preparazione del grande moto insurrezionale per la libertà e unità d’Italia». Nacque a Cagliari il 17 ottobre del 1810, nella via Dritta, l’attuale via Lamarmora. Al fonte battesimale della Cattedrale gli furono messi i nomi di Giovanni Matteo De Candia. Genitori nobili: cavaliere e marchese il padre, don Stefano De Candia, contessa la madre, Catterina Grixoni (Catterina con due t, secondo la grafia del tempo). I loro ritratti sono giunti fino a noi, su due tele a olio conservate nel palazzo comunale di Ozieri, città natale della madre. Stefano De Candia era un ufficiale di carriera dei Granatieri di Sardegna, nato e morto a Cagliari (17681842). Combatté contro i francesi, quando nel 1792, per effetto della Rivoluzione Francese, invasero il Piemonte. Aiutante militare e uno dei più fidati collaboratori di Carlo Felice, profondamente reazionario, con la Restaurazione si trasferì a Torino. Nominato generale e comandante della piazza di Nizza, successivamente comandante della divisione Novara. È chiaro che un alto ufficiale fedele ai Savoia, qual era, non poteva condividere le idee e le scelte mazziniane del figlio. E proprio a causa delle avventurose vicende del figlio, soprattutto dopo i moti del 1831, si ritirò a vita privata. Storicamente il primo De Candia, Serafino, arrivò ad Alghero nel Settecento. Era un corallaro originario di Torre del Greco. Accumulò in breve tempo una notevole fortuna, arrivando a controllare la maggior flottiglia di navi coralline operanti lungo le coste algheresi. Nel 1779 ottenne il privilegio del cavalierato ereditario e il titolo di marchese. Agli inizi dell’Ottocento, le famiglie dei suoi figli, Gennaro e Stefano, si divisero in due rami: Gennaro rimase ad Alghero, continuando l’attività di corallaro, e Stefano si stabilì a Cagliari, intraprendendo la carriera militare. Le radici della madre, Grixoni, erano napoletane, messe a dimora nel XVI sec. in Sardegna. I suoi antenati, due patrizi, coinvolti a Napoli in un’oscura vicenda legata all’uccisione d’un cardinale, fuggirono in Corsica e in seguito approdarono in Sardegna, stabilendosi a Ozieri. Adolescente, nel 1822, Giovanni Matteo lasciò la Sardegna per Torino, entrando nel Collegio Militare, dove ebbe per compagni Cavour e Alfonso Lamarmora. Studente modello, memoria prodigiosa, un debole per la storia, e naturalmente goliardia e donne. Uscito dal collegio con i gradi di ufficiale, cominciarono per lui i primi incarichi. Destinato a Genova, vi conobbe Mazzini e si entusiasmò per le idee liberali e per la Giovane Italia, alla quale segretamente aderivano alcuni suoi colleghi ufficiali. L’esilio di Mazzini e l’incarcerazione di Cavour, suscitarono in lui profonda indignazione, che non nascose al padre. Ormai coinvolto nei moti mazziniani, fu punito e ricevette l’ordine di raggiungere immediatamente Cagliari (Sardegna, terra di punizione!). Rassegnò le dimissioni, ma non furono accettate. Non gli restò che fuggire. Secondo una leggenda, sarebbe scappato per salvarsi dalle ire d’un marito tradito o per liberarsi d’una donna R possessiva e gelosa. Fantasie. Ricercato, perché traditore in quanto mazziniano, si salvò grazie a una dama di corte, che per un mese lo tenne nascosto nella propria camera da letto. S’imbarcò su un peschereccio diretto a Marsiglia, da dove raggiunse Parigi. Nella capitale francese frequentò i salotti cosmopoliti della principessa Belgioioso e della contessa Jarruco, aperti a scrittori, poeti, musicisti, artisti, cantanti, attori, politici. Siccome doveva pur campare, cominciò a dare lezioni di equitazione e di scherma. Aveva la passione del canto, ereditata dalla madre, e nel salotto della Belgioioso si cantava. Il compositore Giacomo Meyerbeer – ospite fisso della principessa – rimase colpito dalla sua voce e gli consigliò di studiare canto, anzi prese a dargli lezioni, fu il suo primo maestro. Dai grandi attori del tempo, andò a lezione di recitazione. Arrivò il momento del debutto. Per non dispiacere al padre (quale disonore per un nobile, un figlio cantante!), scelse di calcare le scene con il nome d’arte di Mario (solo Mario), in onore del generale e uomo politico romano di cui ammirava tanto la vita. Quando al padre giunse la notizia del debutto, si rivolse a Carlo Alberto per impedirlo. Il re, tramite il console sardo a Parigi, propose a Giovanni Matteo la reintegrazione del grado. Niente da fare. Il 5 dicembre 1838, all’Opéra di Parigi, Mario debuttò nel Roberto il Diavolo di Meyerbeer, dove nel secondo atto, il compositore aveva aggiunto un’aria scritta apposta per lui. Un trionfo. Subito gli altri teatri parigini se lo contesero, il Teatro degli Italiani, sempre nel 1838, gli affidò L’elisir d’amore. L’itinerario artistico lo portò in mezza Europa e persino in America, estasiando e meravigliando, con la sua voce pura, dolce, affascinante nelle modulazioni e nelle fioriture, i pubblici di tre generazioni. Quante e quali le opere in repertorio? Una cinquantina, da Donizetti (Lucrezia Borgia, Elisir d’amore, Marin Faliero, La Favorita, Lucia di Lammermoor, Anna Bolena, Don Pasquale che il compositore scrisse per lui), a Bellini (Norma, La Straniera, La Sonnambula, I Puritani), da Cimarosa a Mercadante, a Costa, a Flotow, a Gounod, da Rossini (La donna del lago, Il barbiere di Siviglia, La gazza ladra, La Cenerentola) a Mozart (Il flauto magico, Don Giovanni prima nel ruolo di Ottavio, poi in quello titolare), da Meyerbeer (Roberto il Diavolo, Gli Ugonotti, Il Profeta) a Verdi (Traviata, Trovatore, Rigoletto, I due Foscari). James Joyce, nell’Ulisse (pubblicato a Parigi nel 1922, quando il tenore era morto già da trentanove anni), paragona il suo viso ovale e incorniciato dalla barba, a quello del Salvatore. E lo ricorda interprete di Lionello, nella Marta di Flotow. Per Arrigo Boito puzzava di sigaro: Mario era in effetti un accanito fumatore di sigari. «Un buon sigaro – diceva – è tanto raro quanto un buon tenore e costa così caro, e nella sua corta durata, così come il tenore, il soffio del petto lo fa vivere e lo uccide e dei due non ne resta che un po’ di fumo e forse un buon ricordo». A Londra nel 1845 sposò Giulia Grisi e insieme cantarono in tante opere, formando una delle coppie più belle del teatro lirico. Ebbero sei figlie, alla terzultima, Cecilia, si deve la loro biografia, alquanto edulcorata e piena zeppa di errori. Quella di Mario fu una grande carriera, conclusasi dopo una tournée negli Stati Uniti con il soprano Adelina Patti. Una delle più grandi carriere dell’Ottocento. Non cantò mai in Italia, dove tornò solo dopo la realizzazione dell’Unità. Acquistò a Firenze la Villa Salviati, oggi sede degli Archivi Storici dell’Unione Europea, inaugurati nel 2009 dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Villa finita nell’inchiesta sui grandi appalti, che sta facendo tremare l’Italia. Morta la moglie, Giulia Grisi, nel 1869, visse i suoi ultimi anni a Roma, diventata finalmente capitale. Coltivò l’archeologia ed ebbe l’onore più volte di essere ricevuto a corte. Morì l’11 dicembre del 1883, in ristrettezze economiche per aver dato sempre tutto. Chiedevano e lui dava. Persino la banda musicale di Cagliari gli chiese soldi, per acquistare gli strumenti, e lui prontamente inviò un assegno! I suoi quadri, i suoi libri e i mobili li lasciò alle figlie, tutti i vestiti ai domestici. La sua biblioteca di migliaia di volumi è stata in parte recuperata dall’Accademia di Santa Cecilia, che ne ha curato il catalogo. Volle essere sepolto a Cagliari, dove nel 1844 aveva fatto costruire una cappella per sé e per i suoi. Il governo italiano provvide ai funerali, mettendo a disposizione una corazzata per il trasporto in mare della salma. «Mario scese nella tomba con un appellativo che in vita gli sarebbe suonato più caro dei suoi trionfi: quello di patriota». Su di lui continuano a uscire libri, specie in Inghilterra (il suo nome compare addirittura nei dépliant turistici del Covent Garden, il teatro di Londra dove trionfò per anni) e negli Stati Uniti. Nella sua città purtroppo si è fatto e si fa poco per conservarne la memoria. La sua cappella, nel cimitero di Bonaria, è completamente in rovina, cadente. Spezzata la croce, a pezzi lo stemma di famiglia. È stata messa all’asta. L’avviso affisso dal Comune: «A seguito dei ripetuti sopralluoghi effettuati presso la presente cappella funeraria è emerso lo stato di abbandono della stessa con correlati rischi per l’incolumità pubblica; si è rivelato impossibile risalire ai discendenti dei fondatori e degli altri aventi diritto sulla cappella stessa; ai sensi dell’art. 23 del vigente regolamento comunale di Polizia Mortuaria viene avviato il procedimento di decadenza della concessione...». Siamo un popolo senza memoria. www.ilmessaggerosardo.com