Stéphanie Lanfranchi École Normale Supérieure di Lione Leopardi ottimista, un mito del Novecento Cerignola, Palazzo Coccia, 29 maggio 2010 1 Vorrei cominciare questa mia relazione in modo un poco umile, ovvero cercando di giustificarmi semplicemente di essere francese e di venire a parlare a voi di Leopardi. Leopardi di cui ricordate senz'altro che non aveva una grande stima dei francesi. E tra le molte cose che rimproverava loro, c'era il fatto di disprezzare le altre civiltà. Nello Zibaldone, scrive, l'11 Giugno 1820: « È osservabile come i francesi mentre sono la nazione più moderna del mondo per costumi ec. Abbiano tuttavia quella disposizione antica che tutte le nazioni civili hanno abbandonata, voglio dire il disprezzo e quasi odio degli stranieri ».1 Leopardi paragona questo disprezzo degli stranieri a quello della Grecia antica, ma mentre quest'ultimo era in parte giustificato dall'assenza di un'altra civiltà comparabile per valore e per cultura, nel caso della Francia ottocentesca, il suo senso di primato non appare affatto giustificato. Insomma, io vorrei riscattare un po' quest'immagine leopardiana della Francia. Vorrei dire oggi che anche i francesi amano l'italiano Leopardi, anche i francesi lo ammirano. E quando sono francesi che non leggono l'italiano, lo ammirano e lo leggono lo stesso, anche se la traduzione ci perde, proprio perché, al di là della sua importanza nella letteratura nazionale italiana, Leopardi è entrato a far parte del patrimonio letterario e culturale mondiale. E vi è entrato, in questo pantheon della cultura internazionale, in qualità di poeta e di pensatore. E vi è entrato, diciamocelo subito, in qualità di poeta e pensatore del pessimismo. Insomma, per giustificare la mia legittimità di oratrice su Leopardi mi fermerei a queste poche parole, sperando che siano bastate a convincervi. Penso invece di dover spender molte più parole per incrinare tutte quelle certezze e quelle abitudini di lettura che ci hanno sempre presentato un Leopardi totalmente pessimista. Vorrei parlarvi oggi di un'interpretazione critica diversa, opposta e parallela a quella diffusa e famosa del pessimismo leopardiano : la tesi di un ottimismo leopardiano. Vorrei farlo in due tempi e in due modi diversi. Dapprima cercando di capire gli elementi che, nell'opera di Leopardi, consentono di convalidare questa tesi, ovvero cercando di mostrare che vi è una tensione, in Leopardi, tra il discorso pessimistico sulla condizione umana e una certa sua aspirazione poetica, che si potrebbe anche definire ottimistica. Poi invece vorrei tracciare, in modo più storiografico, un panorama della fortuna critica di quest'interpretazione nell'Ottocento, e soprattutto nel Novecento. Vi vorrei dimostrare che, nel Novecento soprattutto, la critica letteraria si è costruita una specie di mito di Leopardi ottimista. E se l'è costruito perché ne aveva bisogno, per tutta una serie di ragioni, spesso politiche e molto lontane dalla letteratura. Ma procediamo con ordine: prima l'ottimismo nell'opera di Leopardi, poi l'ottimismo nella critica su Leopardi, che sono due cose ben diverse, come vedrete, benché naturalmente correlate. Comincerei con un paradosso : la tesi di un ottimismo di Leopardi, in realtà, non suppone necessariamente di contestare il suo pessimismo. In particolare, non contraddice quella famigerata evoluzione del pessimismo leopardiano, che penso s'insegni tutt'ora in tutte le scuole : il pessimismo individuale e soggettivo, che diventa storico, e infine cosmico. Il pensiero leopardiano ha percorso queste tappe, in modo doloroso ma anche razionale e logico, ed è approdato ad un discorso sconsolato e sconsolante sulla condizione umana. Questo discorso corrisponde, per usare la sua terminologia, ad un'espressione del vero. Il vero che è brutto, ma pur 1 G. Leopardi, Zibaldone, Roma, collezione Mammut, 2005, p. 57. 2 sempre vero. La dolorosa conoscenza del vero è frutto della ragione, e difatti Leopardi accusa la ragione di aver svelato il vero agli uomini, privandoli dello stato di ignoranza serena degli animali, per esempio, e rendendoli, perciò, ancora più infelici2. Ma Leopardi oppone a questo discorso raziocinante del vero la parola della poesia, la parola dell'illusione. Il ruolo dell'illusione nella poetica di Leopardi è essenziale. Non facciamoci ingannare dalle connotazioni negative della parola. L'illusione, per Leopardi, non rispecchia la verità ma offre un vero piacere, una vera consolazione, e anche di più : conduce ad azioni eroiche e morali. Scrive Leopardi nello Zibaldone : Il più solido piacere di questa vita è il piacer vano delle illusioni. Io considero le illusioni come cosa in certo modo reale stante ch'elle sono ingredienti essenziali del sistema della natura umana e date dalla natura a tutti quanti gli uomini, in maniera che non è lecito spregiarle come sogni di un solo, ma propri veramente dell'uomo e voluti dalla natura, e senza cui la vita nostra sarebbe la più misera e barbara cosa.3 L'amor patrio, la gloria, la virtù sono tutte illusioni per Leopardi, che però hanno cambiato il corso della storia, han fatto nascere civiltà splendide sin dall'Antichità. Per Leopardi, l'illusione è senz'altro quello per cui vale la pena vivere. L'illusione fa sperare, l'illusione fa agire. E la più bella, la più alta delle illusioni è senz'altro la poesia. Ora, io credo che è proprio alla luce di questa tensione complessa tra verità e illusione - alla quale io qui ho solo accennato, ma sono cose ben note4 - che possiamo capire meglio come, nel pensiero e nella poesia leopardiana, quasi paradossalmente, una certa forma di ottimismo e di pessimismo possano coesistere. Se cerchiamo una definizione generale dell'ottimismo, possiamo dire che l'ottimismo suppone una visione al contempo positiva e costruttiva delle cose, del mondo, della condizione umana. L'ottimismo non è però fondato su certezze, nel senso che poggia su una fiducia nell'avvenire, su una forma di speranza. Quindi l'ottimismo non è sapere, non è conoscenza, ma è basato, come la speranza, su una forma di ignoranza. Io non so come andranno le cose. Ma credo che andranno bene (o male), e lo spero (o lo temo). Se fossi certo che le cose andranno bene o male, non avrei bisogno di essere né ottimista né pessimista. Lo saprei e basta. Certo, rispetto alla speranza, l'ottimismo è, per cosi dire, più legittimo, perché basa la propria credenza positiva su uno studio anche razionale della realtà, che la giustifica. Pensate a Leibniz. Lo stesso si può dire del pessimismo. Pensate a... Leopardi! Ma, alla fin fine, rimane sempre che ottimismo e pessimismo sono vincolati da una forma di ignoranza. Ora, questa considerazione è importante nel caso di Leopardi perché è probabile che lui stesso ne fosse consapevole, benché non ne parli direttamente. E difatti, mentre la critica leopardiana, unanime, parla e sparla di pessimismo leopardiano, le occorrenze di questa parola sono poche, pochissime nell'opera di Leopardi. Nel suo immenso Zibaldone, per esempio, quante volte la usa? Una sola volta, e con grande cautela. A conclusione di quella celeberrima pagina dello Zibaldone 2 3 4 Vedi, in particolare, la prima delle Operette Morali, la Storia del genere umano, composta nel gennaio-febbraio del 1824. G. Leopardi, Zibaldone, p. 51 del manoscritto, Roma, collezione Mammut, 2005,p. 35. Tra le pubblicazioni recenti su questo tema, vedi L. Polato, Il sogno di un'ombra: Leopardi e la verità delle illusioni, Venezia, 2007. 3 scritta nell' aprile del 1826 e che comincia con queste durissime parole : « Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; l'esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell'universo è il male (...) » Leopardi scrive : «Questo sistema, benché urti le nostre idee, che credono che il fine non possa essere altro che il bene, sarebbe forse più sostenibile di quello del Leibnitz, del Pope ec. che tutto è bene. Non ardirei però estenderlo a dire che l'universo esistente è il peggiore degli universi possibili, sostituendo così all'ottimismo il pessimismo. Chi può conoscere i limiti della possibilità? ».5 Oltre all'ironia nera di quest'ultima frase, che suggerisce che nonostante la condizione miseranda del mondo, forse si sta ancora peggio in qualche altra parte dell'universo, si nota un'altra cosa. Magari anche voi sarete rimasti colpiti dal carattere categorico e radicale della prima parte del testo (“tutto è male”) e questa conclusione, piena di condizionali, di “forse”, di “non ardirei”. Questa cautela nasce dal fatto, io credo, che Leopardi sa che pessimismo e ottimismo sono oggetto di credenza, e non di un sapere fondato sulla verità. Ora, per lui questa distinzione tra credenza e sapere è fondamentale, ed è chiaro che aspira ad un discorso che rientri nella seconda categoria e non nella prima 6. Per Leopardi, quando dice “tutto è male”, non si tratta di pessimismo, si tratta di verità. In altre parole, noi diciamo, la critica dice che Leopardi è pessimista, ma lui non usa questa parola perché non si considera pessimista. Si considera realista. Questa differenza è notevole, perché la possiamo applicare anche all'ottimismo. Certo Leopardi non si considera neanche ottimista, ma chi lo legge ricava senz'altro elementi ottimistici. E questo perché? Perché l'opera di Leopardi contiene anche elementi positivi e costruttivi, ovvero i due aggettivi che abbiamo usato poc'anzi per definire la visione ottimistica del mondo. E, in particolare, se pensate alla poesia di Leopardi, a questa sublime illusione, come la definisce lui, allora è evidente che: positiva è la bellezza dei suoi versi, la moralità dei sentimenti che canta; e costruttivo è il fatto stesso di scrivere poesia; scrivere è agire, è costruire. Da questo punto di vista, Leopardi non cessa mai di agire, perché non cessa mai di scrivere. Anche per denunciare la condizione umana, anche per dire che gli italiani non valgono nulla, anche per dire che i francesi sono ancora peggio, che gli uomini sono tutti infelici e lo saranno sempre, anche per dire che tutto è male, anche sul letto di morte, scrive. Per uno scrittore, forse, la vera negazione dell'ottimismo, è il silenzio. Pensate a Verga, chiuso per decenni nel suo mutismo pessimistico prima di morire. Il paradosso leopardiano sta quindi nella tensione tra il discorso razionale – che dice il vero, e che lo fa sentire filosofo – e la sua volontà di restare fino all'ultimo poeta, coltivando l'illusione. E il paradosso è proprio questo “pensiero poetante”, per riprendere una bella formula del critico Antonio Prete 7, un pensiero razionale e pessimistico che diventa poesia, ovvero parola poetante che – anche secondo l'etimologia – costruisce e che porta in sé i germi ottimistici di una creazione. 5 6 7 G. Leopardi, Zibaldone, Roma, Mammut, 2005, p. 854 (p. 4174 del manoscritto). La consapevolezza di Leopardi, che in fin dei conti rifiuta la parola pessimismo per parlare del suo sistema, è particolarmente significativa quando si consideri che proprio sulla base del carattere sentimentale e soggettivo del pessimismo, Benedetto Croce rifiuta al pensiero leopardiano lo statuto filosofico. Vedi A. Prete, Il pensiero poetante: saggio su Leopardi, Milano, 2006. 4 In realtà poi, la poesia è azione non solo in quanto risultato di un'azione, la scrittura. Ma è azione positiva anche nel senso in cui spinge ad agire, e ad agire bene. Anche Leopardi riconosce questa funzione della poesia, pur riducendola quasi ironicamente. In un noto testo, l'operetta morale intitolata Dialogo di Timandro e Eleandro, Leopardi fa dire ad Eleandro: « Io fo poca stima di quella poesia che, letta e meditata, non lascia al lettore nell'animo un tal sentimento nobile, che per mezz'ora, gl'impedisca di ammettere un pensier vile, e di fare un'azione indegna. Ma se il lettore manca di fede al suo principale amico un'ora dopo la lettura, io non disprezzo perciò quella tal poesia: perché altrimenti mi converrebbe disprezzare le più belle, più calde e più nobili poesie del mondo ».8 Va bene, mezz'ora è poco. Ma intanto, Leopardi, a quest'azione benefica della poesia un poco ci crede, e questo spiegherebbe perché non abbia mai rinunciato a scrivere. È proprio da questa citazione di Leopardi che vorrei trarre spunto per trattare il secondo aspetto della nostra questione, ovvero l'ottimismo nella storia della critica leopardiana. C'è, in effetti, una vera e propria tradizione critica, sin dall'Ottocento, che ha insistito proprio su questo tipo di ottimismo leopardiano, che potremmo definire un ottimismo dell'effetto prodotto, un ottimismo della reazione. In altre parole : la poesia in senso lato di Leopardi (prose e poesie) è pessimistica nei suoi contenuti, ma il suo effetto sul lettore è, invece, positivo e costruttivo. Altro che “mezz'ora” di beneficio, per quei valenti critici ottocenteschi si tratta di una lettura che invoglia il lettore ad agire bene, anzi ad agire eroicamente. La più nota interpretazione di questo ottimismo della reazione, è quella che diede nell'Ottocento Francesco De Sanctis, paragonando Leopardi al filosofo tedesco (e pessimista) Schopenhauer. Scrive De Sanctis : Leopardi produce l'effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l'amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore; e non puoi accostartigli, che non cerchi innanzi di raccoglierti e purificarti, perché non abbi ad arrossire al suo cospetto. È scettico, e ti fa credente; e mentre non crede possibile un avvenire men tristo per la patria comune, ti desta in seno un vivo amore per quella e t'infiamma a nobili fatti. Ha così basso concetto dell'umanità, e la sua anima alta, gentile e pura l'onora e la nobilita. E se il destino gli avesse prolungata la vita infino al quarantotto, senti che te l'avresti trovato accanto, confortatore e combattitore.9 Siamo nel 1858. Quarant'anni dopo, l'Italia è fatta, e Carducci, che si presenta come il poeta vate dell'Italia unita, rende omaggio a Leopardi, in occasione del centenario della nascita. E racconta che, durante le varie battaglie del Risorgimento, i patrioti italiani urlavano sulle barricate: « Con Manzoni in chiesa, con Leopardi alla guerra »10. Queste testimonianze vi devono far capire che anche se Leopardi si mostra modesto sull'effetto 8 9 10 G. Leopardi, Dialogo di Timandro e Eleandro, in Operette Morali, vol. 2, Prose, Milano, Meridiani, 2006, pp. 173174. Francesco De Sanctis, Leopardi e Schopenhauer, 1858 (il testo integrale è accessibile on line). Nel suo discorso, Carducci attribuisce la paternità di quest'informazione a Marco Monnier. 5 benefico della poesia in generale, e della sua in particolare, la critica ottocentesca ha invece convalidato l'idea che il suo effetto sul popolo italiano fosse ottimo, e ottimistico. Che fosse uno sprone ad agire eroicamente. Proprio per questo motivo, la critica letteraria ottocentesca, molto spesso ispirata al patriottismo, lo ha contato, nonostante tutto il suo pessimismo, nel novero dei precursori del Risorgimento, dei poeti-vati italiani. Ora, come può questa critica dichiarare che Leopardi è al contempo precursore, vate, profeta ecc. e pessimistico? Un vero profeta, il profeta di un evento positivo come il Risorgimento, un poco ci deve credere alla sua profezia... La critica può farlo profeta solo accettando quest'ipotesi di un “ottimismo della reazione”, dell'azione prodotta dalla poesia, e che, in fin dei conti, è solo una “piccola” estensione della “mezz'ora” di cui parlava Eleandro nelle Operette. Un aspetto interessante della critica leopardiana, quando la si studia nell'evoluzione di un secolo e mezzo, è che sembra che vi sia una ricorrenza : come se i lettori italiani avessero bisogno, nei momenti più tragici, più impegnativi della loro storia nazionale, di una parola poetica forte, che dia voglia di agire, di lottare e di sperare. Come se, in fondo, avessero bisogno di mettere da parte il contenuto pessimistico di un'opera come quella di Leopardi, per trarne unicamente la forza, la carica positiva. Per trovare un po' di coraggio: durante il Risorgimento; poi durante e subito dopo la Prima Guerra mondiale; durante il Ventennio fascista; e infine subito dopo la Seconda Guerra Mondiale. Sono questi i quattro momenti chiave della lettura ottimistica di Leopardi, e io credo che non sia proprio un caso. In quei quattro momenti l'Italia aveva bisogno di un Leopardi ottimista. E forse un pochino se lo è anche inventato. La differenza, in effetti, tra la critica ottocentesca e la critica novecentesca sta proprio qui: nel fatto che nel Novecento non ci si accontenta di dire che leggere Leopardi fa bene, che paradossalmente leggere Leopardi rende ottimista, ma si afferma che vi è, nei contenuti stessi della poesia leopardiana, qualcosa di fondamentalmente ottimistica. C'è insomma, nel Novecento, una sorta di invenzione di un Leopardi ottimista, un'invenzione parallela e contemporanea al discorso dominante sulle diverse fasi del pessimismo leopardiano. Questo processo di invenzione comincia nel 1916, in piena guerra, per opera del filosofo idealista, che poi diventerà fascista, Giovanni Gentile. Gentile pubblica un saggio sulle Operette morali11 di grande importanza poiché consente di ribaltare il giudizio molto negativo che la critica, da De Sanctis ma fino a Croce, aveva sino ad allora dato di queste operette. Gentile riscontra in questo testo tre cicli, che gli consentono di classificare tutte quante le operette : un ciclo distruttivo che mostra la vanità di tutte le cose un ciclo ancora più distruttivo in quanto mette in scena personaggi che hanno perso ogni speranza e che sembrano totalmente rassegnati ma alla fine Gentile individua un ciclo costruttivo, costituito da cinque operette: l'operetta Il Parini, ovvero della gloria in cui Leopardi rende una sorta di omaggio alla gloria letteraria; l'operetta Detti memorabili di Filippo Ottonieri in cui Leopardi dà, secondo Gentile, un valore positivo alla filosofia, come volontà di liberarsi dalle illusioni; l'operetta Cristoforo Colombo, che sarebbe un omaggio all'eroismo, per lottare contro la noia della vita; le due operette "uccelline": L'elogio degli Uccelli e il Cantico del Gallo Silvestre, in cui riappare la speranza umana. Dice Gentile: «il dolce gusto della speranza mattutina e giovanile non è distrutto (…) : 11 Il saggio di G. Gentile fu dapprima pubblicato in Annali delle Università toscane, Pisa, 1916, poi nel volume Manzoni e Leopardi, Milano, 1928, pp. 113-172. 6 e la speranza risorge, e la vita rinasce di continuo»12. Per Gentile, dunque, le Operette morali sono costruite in fin dei conti sull'idea che lo spirito umano supera la condizione disperata del mondo, lo spirito supera la materia e ritrova una forma di speranza. Soffermiamoci un attimo su quest'idea di superamento. Di prim'acchito, sembra rimandare alla tensione di cui parlavamo poco fa, la tensione tra vero e illusione, che abbiamo detto molto cara a Leopardi. Da una parte la triste verità (primi due cicli), dall'altra le illusioni salvifiche dello spirito (la gloria letteraria, l'eroismo). Solo che avrete notato che Gentile introduce nel ciclo costruttivo l'operetta Detti memorabili di Filippo Ottonieri proprio per la funzione positiva che Leopardi dà, secondo lui, alla filosofia, proprio per liberarsi dalle illusioni. E quindi Gentile non parla di illusioni per qualificare questo terzo ciclo, quanto di un pensiero superiore, ovvero suppone l'esistenza di una sorta di filosofia leopardiana oltre la filosofia pessimistica. Se volessimo usare categorie e parole più leopardiane, potremmo dire che Gentile suppone un “vero” leopardiano, che va oltre il “triste vero”, ma anche oltre le illusioni. Il saggio di Gentile è anche importante, in verità, perché introduce un'altra idea (che poi svilupperà in un altro articolo del 1919, Prosa e poesia nel Leopardi13 ) e che avrà un grandissimo successo nei decenni successivi. È l'idea di una vera e propria dualità leopardiana: per Gentile, certo, Leopardi è un pessimista, e il suo è un pessimismo della ragione: dettato, cioè dalla sua filosofia materialista. Ma quando Leopardi ascolta il suo cuore, quando parla da poeta, allora, ci dice Gentile, ritrova la sua vera natura e diventa ottimista. Il “pensiero superiore” di Leopardi, per Gentile, è dunque questo ottimismo del cuore, questo slancio poetico che gli consente di superare la sua nera e materialistica filosofia, per approdare ad una verità più positiva e più spirituale. Scrive nel 1919: « Il Leopardi, pessimista di filosofia, e quasi alla superficie, fu invece ottimista di cuore, e nel profondo dell'animo ».14 Ora, questo ragionamento presuppone, in realtà, un postulato chiarissimo. Quale? Leopardi scrive poesie magnifiche, ma ragiona male. Leopardi è un poeta straordinario, ma è un filosofo mediocre e superficiale15. La cattiva reputazione filosofica di Leopardi è un fatto nuovo e importante. De Sanctis certo diceva che quando Leopardi era troppo filosofo, la sua poesia ci perdeva, ma non diceva pertanto che Leopardi ragionasse male. Invece Gentile sì, e subito dopo la sua posizione viene convalidata dall'altro grande filosofo idealista italiano di quel periodo, Benedetto Croce. In un testo - molto importante sebbene, a mio avviso, molto cattivo (in tutti i sensi) 16 – su Leopardi 12 13 14 15 16 G. Gentile, Manzoni e Leopardi, p. 152. Ibid, pp. 173-195 (Il testo Prosa e poesia nel Leopardi fu pubblicato prima nel Messaggero della domenica, febbraio e marzo 1919). Ibid, p. 177. I due aggettivi (mediocre e superficiale) sono proprio usati da Gentile per definire il pensiero filosofico di Leopardi, Ibid, pp. 177 e 178. Un critico degli anni Venti nota, a proposito del commento severo e ingiusto di Croce nei confronti di Leopardi, che questi dava « sui filosofici nervi » di Croce: « Croce non ama Leopardi. Non può amarlo. Gli dà forte sui filosofici nervi. Gli è d’impaccio al teorico passo, uso a scalciare stizzoso, ovunque lo trovi, quel terribile nemico della sua 7 pubblicato ne La Critica nel 192317, Croce s'interessa, tra le altre cose, alla questione dell'ottimismo e del pessimismo di Leopardi. Abbiamo già detto che questa questione appartiene in realtà alla critica leopardiana e non propriamente a Leopardi stesso, che non la pone in questi termini. Invece Croce trae spunto proprio da essa per affermare che « La filosofia in quanto pessimistica o ottimistica è sempre intrinsecamente pseudofilosofia, filosofia a uso privato. » In altre parole, Croce considera che il pensiero leopardiano non è abbastanza rigoroso e universale per poter aspirare al titolo di filosofia. È troppo soggettivo, intriso dal sentimento, anzi dal risentimento per la sua “vita strozzata” per essere un pensiero filosofico rigoroso. Quindi il pessimismo di Leopardi è per Croce il sintomo, l'indizio stesso della poca qualità concettuale e universale del suo pensiero. Se volessimo, quindi, tracciare le grandi linee della critica leopardiana durante e all'indomani della Prima Guerra Mondiale, dovremmo dire che da una parte, i due maggiori filosofi idealisti italiani hanno screditato il pensiero filosofico di Leopardi. Questo contribuisce à orientare la critica verso un'analisi che prediliga invece l'impeto irrazionale e sentimentale della sua poesia dall'altra il contesto storico stesso spiega il motivo della preferenza per una lettura ottimistica di Leopardi, o almeno di un “ottimismo della reazione” come già nell'Ottocento. In altre parole, l'idea di un pensiero superiore, colla sua funzione di emulazione spirituale e morale è senz'altro più efficace e più pregnante in tempi difficili, in tempi di guerra, senz'altro più di quanto non lo fosse l'immagine tradizionale di un poeta disperato e che fa disperare. E difatti nel periodo che va dal 1916 (data della pubblicazione del saggio sulle OM di Gentile) al 1925, sono pubblicati vari testi, incentrati proprio sulla tesi dell'ottimismo leopardiano. Per esempio: nel 1917, Giovanni Bertacchi scrive un libro intitolato Un maestro di vita : saggio leopardiano, in cui considera che i lettori ritroveranno l'amore di sé, della natura, l'amore per l'umanità e l'amore patrio nell'opera di Leopardi. Un'opera che giudica quindi positiva e ottimistica.18 Nel 1922, Giuseppe Piazza scrive un articolo intitolato L'ottimismo e la sanità di Giacomo Leopardi.19 Nel 1925, ancora, un libro dal semplice titolo Ottimismo di Leopardi pubblicato da Cirillo Berardi, in cui questi cerca di dimostrare, per 200 pagine, che la tesi del pessimismo leopardiano ormai è del tutto superata20. Tant'è che nel 1927, Giovanni Gentile organizza un ciclo di letture leopardiane a Macerata (sul modello della lectura Dantis a Firenze). E in quest'occasione, un critico, Ferdinando Pasini, interviene per descrivere questa piccola rivoluzione della critica leopardiana, operata da un decennio, dal pessimismo all'ottimismo. Dice : 17 18 19 20 teoria estetica” (V. Gerace, “Leopardiana” in La tradizione e la moderna barbarie. Prose critiche e filosofiche, Foligno,1929, p. 193-194). Poi in B. Croce, “Leopardi” in Poesia e non Poesia, pp. 103-119. Bari, 1923. G. Bertacchi, Un maestro di vita : saggio leopardiano, Bologna, 1917. Da notare che Gentile scrive una recensione positiva su questo testo, che si trova ora nel volume Manzoni e Leopardi, cit, pp. 74-84. G. Piazza, “L'ottimismo e la sanità di Giacomo Leopardi.” in Rassegna Nazionale XIX-XX (1922), pp. 93-116. C. Berardi, Ottimismo leopardiano, saggio critico, Treviso, 1925. 8 « La fama del Leopardi segna due fasi precipue. Sino a pochi anni fa, egli era considerato il poeta del pessimismo: lodato o combattuto da ciascuno a seconda delle proprie simpatie o antipatie, ma egli era per tutti “il poeta del pessimismo”. In questi ultimi anni, invece, si è verificato – nel campo della critica – un mutamento, che potremmo chiamare addirittura capovolgimento, del punto di vista quale si usava considerare il Leopardi. Egli è diventato il “poeta dell’ottimismo”. »21 Durante tutto il ventennio fascista, questa nuova tendenza della critica si conferma e si generalizza. Probabilmente per motivi ideologici. L'ideologia fascista è un'ideologia strutturalmente ottimistica, e siccome tenta di ricuperare Leopardi e di appropriarsene, definendolo addirittura come un precursore del fascismo, ha bisogno di presentare gli aspetti ottimistici del suo pensiero, oppure di inventarseli. Come fanno i critici pro-fascisti a trasformare Leopardi in un ottimista? Usano i soliti argomenti che oramai cominciate a conoscere: l'idea di un ottimismo della reazione : ovvero l'effetto prodotto sul lettore è positivo e costruttivo, anche se il contenuto di per sé è negativo l'idea di Gentile di un'opposizione tra ottimismo del cuore e pessimismo della ragione. Prediligono quindi una lettura irrazionale della poesia leopardiana Ma ci sono anche argomenti nuovi. E, in particolare, una spiegazione contestuale del pessimismo di Leopardi. In parole povere, ragionano in questo modo : Leopardi è pessimista perché ha vissuto in un periodo in cui la situazione dell'Italia, che non era neanche Italia, era miseranda, sia dal punto di vista politico che militare e civile. Questo spiega perché fosse tanto disperato. La sua disperazione, il suo pessimismo erano dunque di stampo essenzialmente patriottico. Siccome è morto nel 1837, non ha visto né gli albori del Risorgimento, né la Prima Guerra Mondiale, né la Marcia su Roma. Se invece avesse potuto vedere questi avvenimenti, se avesse vissuto cento anni dopo, allora sì che sarebbe stato soddisfatto. Certo non sarebbe stato pessimista. Per darvi un'idea – caricaturale ma significativa – c'è addirittura un testo del 1937, che si intitola Ho intervistato medianicamente Giacomo Leopardi22 in cui l'autore afferma molto seriamente che ha fatto una seduta spiritica e ha parlato con Leopardi, il quale, accompagnato dallo spirito di Silvia, col sorriso sulle labbra, gli avrebbe detto, alla fine della seduta tutta la sua ammirazione e la sua gioia per la magnifica sorte di Roma, ricostruita dal « Duce magnifico, ricostruttore delle fortune della Patria ». Questo stesso ragionamento, meno caricaturale per fortuna, lo trovate ripetuto centinaia di volte durante il Ventennio fascista, in particolare nei discorsi ufficiali, tipo commemorazioni. È un'argomentazione che ha molta efficacia retorica, ma, capite bene, poco valore scientifico : è usata senza ritegno, soprattutto, ahimè, nei discorsi ufficiali pronunciati nelle scuole e nei manuali scolastici. Per esempio io, in una situazione simile a quella di oggi ma 80 anni fa, vi avrei senz'altro fatto un discorso simile : se Leopardi avesse potuto vedere coi suoi occhi l'Italia degli anni Trenta, sarebbe stato senz'altro entusiasta e ottimista. E invece, capite bene che è un ragionamento infondato, anzi fondato su un anacronismo, su un'ipotesi fantasiosa e assolutamente inverificabile. Quest'ottimismo, che possiamo definire patriottico e anacronistico, sarà ovviamente contestato dopo la caduta del regime fascista. Tutta questa retorica sparisce dai manuali scolastici e dalle commemorazioni ufficiali. Ma non sparisce tutto. In effetti, dopo la guerra, l'Italia si trova di nuovo in un contesto in cui ha bisogno di un Leopardi 21 22 Ferdinando Pasini, Tutto il Pessimismo leopardiano, Parenzo, Coanna, 1928, p. 5 Angelo Perna, Ho intervistato Giacomo Leopardi medianicamente, Milano 1937. 9 ottimista. Ma di un ottimismo affatto diverso da quello “inventato” dai fascisti. Dal 1945, la critica leopardiana si trova in una situazione complessa, perché da una parte vuol rompere con l'interpretazione pro-fascista di Leopardi, ma dall'altra ha bisogno di un Leopardi ottimista, di una lettura costruttiva e positiva intorno a questo grande della letteratura italiana; e i critici, non lo dimenticate, nella stragrande maggioranza dei casi, hanno studiato e lavorato come critici sotto il fascismo, hanno imparato a leggere Leopardi in quel modo particolare, e quindi riproducono, involontariamente, certi schemi di quel periodo. L'esempio più palese di questo fenomeno complesso, al contempo di continuità e di rottura, è quello del testo molto noto e che forse ancora oggi si cita e si legge al liceo, il testo di Cesare Luporini, Leopardi progressivo.23 Questo testo, pubblicato nel 1947, viene considerato come il fondatore della lettura marxista di Leopardi. Avvalendosi in particolare della lettura dello Zibaldone, e infine de La Ginestra, Luporini insiste sul messaggio di quest'ultima poesia che chiama gli uomini ad una forma di solidarietà contro la natura, e che capovolge quindi il pessimismo passivo in reazione attiva, costruttiva e ottimistica. Un atteggiamento progressivo. Progressivo, e non ottimistico. Ma gli schemi sono gli stessi. Luporini riprende la tradizionale interpretazione di De Sanctis, dell'ottimismo della reazione, e del resto cita espressamente il testo che vi ho letto, in particolare nella pagina conclusiva del suo saggio. Ma soprattutto, Luporini considera che tutto il pessimismo di Leopardi deriva da una delusione storica : la delusione della Rivoluzione francese. Egli dà quindi una spiegazione contestuale, storica e politica al pessimismo di Leopardi, cosa che facevano in modo sistematico, lo abbiamo detto, anche i critici fascisti24. Luporini considera inoltre, come già la critica fascista, che nonostante questo pessimismo scaturito da una delusione storica, vi fosse comunque in Leopardi una “inconcussa e nascosta fede”25, qualcosa che lo faceva sperare comunque. E valorizza moltissimo quell'unica occorrenza del termine “ultrafilosofia” nello Zibaldone, perché, dice, in essa “sembra condensarsi la 'disperata speranza' dell'individuo Leopardi”26, ovvero la speranza di un vero oltre le illusioni. Infine, Luporini fa, come già i fascisti, di Leopardi un “anticipatore di ulteriori dottrine” 27, ovvero un precursore politico di un'ideologia del Novecento28. Solo che chiaramente, non si tratta 23 24 25 26 27 28 C. Luporini, Leopardi progressivo, Roma, 1996 (la prima edizione di questo testo, del 1947, si trova nel volume Filosofi vecchi e nuovi). Dice in particolare Luporini : « Alla radice di tutto l'atteggiamento di Leopardi verso la ragione e verso la filosofia sta questa delusione storica, in cui il momento politico è, naturalmente, decisivo » (C. Luporini, Leopardi progressivo, p. 49). Questo lo porta a considerare in modo contestuale e relativo il pessimismo e l'ottimismo leopardiani : « Pessimismo e razionalismo si congiungono così perfettamente in Leopardi in questa costruttiva spinta verso il futuro e ciò mostra quanto relative siano queste accentuazioni assiologiche che si chiamano appunto pessimismo e ottimismo: come esse cioè siano accentuazioni assiologiche che non vanno mai giudicate in se stesse, ma relativamente alle concrete situazioni storiche in rapporto alle quali si sono prodotte. » (C. Luporini, Leopardi progressivo, p. 97). Ibid, p. 50. Ibid, p. 60. Ibid, p. 38. Possiamo ricordare qui una frase del critico Mario Fubini, scritta durante il Ventennio fascista per contestare la pertinenza scientifica di tutta quella critica patriottica che, sin dall'Ottocento, aveva sempre voluto leggere alcuni dei suoi poeti come precursori di momenti storici e di ideologie di gran lunga posteriori. In tal modo, dice Fubini, la critica condanna il poeta ad una sorta di eterno anacronismo, facendone « un precursore dunque, destinato come tutti i precursori a restare a mezza via, al di qua della Terra Promessa » (M. Fubini, Ugo Foscolo, Torino, 1928, p. 8). La 10 più del fascismo, bensì del comunismo. Luporini fa infatti di Leopardi un democratico rivoluzionario, e dice che quello che « è peculiare e fondamentale il Leopardi è l'afflato eroico e quindi l'elemento di lotta, la combattività, l'appello all'universalità umana che non rimane generico, ma si concreta nel 'volgo' da liberarsi e illuminarsi (…) e insomma, ci sia permesso di dirlo, il nuovo germe rivoluzionario. »29 Vedete quindi che questo testo di Luporini, che è stato considerato come una svolta negli studi leopardiani, che ha inaugurato una nuova stagione degli studi su Leopardi, che è stato tra i più letti, più studiati, più commentati tra i testi del dopoguerra, in realtà, pur approdando ad una conclusione diversa, anzi ideologicamente opposta a quella della critica fascista, ne riproduce molti schemi mentali ed interpretativi. E in particolare rimane impigliato intorno alla solita articolazione ottimismo/pessimismo che è un'articolazione chiaramente ideologica. Proprio su questo vorrei concludere. Questo panorama della critica leopardiana ci ha mostrato che la questione del pessimismo o dell'ottimismo leopardiano è un'invenzione della critica leopardiana, non tanto di Leopardi stesso. E ci ha mostrato anche che è una questione che prende connotazioni ideologiche molto forti e molto invadenti nel corso della storia. È senz'altro significativo il fatto che negli ultimi anni – un periodo in cui le grandi ideologie (un certo patriottismo, il fascismo, il comunismo) che presuppongono una visione ottimistica della storia e della sorte dell'umanità stanno attraversando o hanno attraversato una crisi profonda – in questo periodo di crisi delle ideologie, è senz'altro significativo che la questione del pessimismo/ottimismo di Leopardi interessi meno i critici. Essi sono tornati ad esaminare la coppia più leopardiana vero/illusione, pur forse senza contestare come lo ho fatto io oggi in modo diretto la pertinenza della coppia pessimismo/ottimismo. In altre parole, la critica degli ultimi anni ha analizzato l'opera di Leopardi in chiave più filosofica e poetica, e meno ideologica, perché non le interessa di sapere se il pensiero di Leopardi concordasse con la visione ottimistica della storia propria delle grandi ideologie del Novecento. E di questo, io penso che ci si debba rallegrare. Perché non credo che neanche a Leopardi interessasse di sapere se ci fosse, o no, ottimismo nel suo pensiero. Se lo intervistassimo medianicamente pure noi, Leopardi, è probabile che non sarebbe molto convinto né molto contento di queste interpretazioni ottimistiche. Penso invece che si sia sempre chiesto, e con passione, perché, nonostante tutta la consapevolezza del triste vero, continuasse ad amare le illusioni. Ad amarle più di ogni altra cosa. E anche quando scrive, nella poesia A sé stesso, poesia che un critico ha chiamato “bestemmia contro il mondo”, anche quando scrive: “In noi di cari inganni/ nonché la speme, il desiderio è spento”, anche allora sentiamo la sua penna che vibra. Morto, il desiderio d'amore? Forse. Morto, il desiderio di poesia? Mai. 29 considerazione di Fubini riguarda la critica foscoliana degli anni Venti e precedenti, ma la si può facilmente applicare alla critica leopardiana del primo e del secondo Novecento. C. Luporini, Leopardi progressivo, cit, p. 97. 11