Una visita a …
C’è una particolare forma di testimonianza nei luoghi della memoria essi
rappresentano una speciale rilevanza educativa e danno spessore alla
conoscenza storica per il valore che assumono e la possibilità di immergersi,
per così dire, in un passato che è ancora in grado di parlare alle nuove
generazioni.
L’uso del termine stesso, luoghi della memoria, richiede un primo chiarimento
questi possono definirsi non solo simboli materiali ma anche permettere una
visione più astratta, simbolica, spaziano per esempio dal romanzo, alla
poesia, al cinema, all’arte in generale e non solo.
Spesso i luoghi della memoria sono anche i numerosi monumenti ai caduti o
alla resistenza che sorgono nelle piazze dei centri abitati del nostro paese,
anche di quelli più piccoli.
Dobbiamo sempre tenere presente che parlare di ricordo significa introdurre
il tema dell’oblio, poiché ricordare è, di per sé, dal punto di vista psicologico,
un atto di selezione e la condizione attuale dei luoghi, tanto più se si tratta di
luoghi monumentalizzati è un modo per dare forma al ricordo, a quello che si
decide debba essere “selezionato”.
Luoghi della memoria sono le testimonianze dirette dei protagonisti che
“hanno” vissuto l’accadimento, hanno “visto” con i loro occhi, hanno “udito”
con le loro orecchie hanno “sentito” con il loro animo e così si è andata
diffondendo l’abitudine di affidare alla voce dei protagonisti del nostro
recente passato, uomini e donne, il compito di trasmettere la loro esperienza.
Tornando ai siti più “materiali” possiamo notare che nessun luogo ci viene
“intatto” dal passato. Anche se l’abbandono è il segno che lo caratterizza ciò
significa che sono stati l’incuria e il disinteresse, in ultima istanza l’oblio, che
ne hanno determinato la condizione presente, forse una volontà precisa è
intervenuta a cancellare le tracce di quello che vi è accaduto.
Ma, accanto a ciò, probabilmente anche per chi insegna c’è un obbligo morale
derivante dalla stessa attività.
Prendendo spunto dal Giorno della Memoria la classe nelle settimane
precedenti l’anniversario ha affrontato e sviluppato le tematiche relative agli
accadimenti della Seconda Guerra Mondiale e a mano a mano che si
raccoglievano notizie e informazioni sulla seconda guerra mondiale a Milano
ecco la comparsa dei primi luoghi della memoria.
Gli alunni hanno potuto scoprire che tutto ciò che li circondava aveva una
memoria, persino la scuola che frequentavano aveva una “sua” memoria
palazzi, vie, case e addirittura un binario della Stazione Centrale avevano una
storia, una propria storia, così come una via, un palazzo, una casa ormai
cancellati avevano avuto un passato, una memoria :“…Qui sorgeva… ora vi è
un palazzo.. uffici… giardini…” e rivedere sotto altri occhi, luoghi conosciuti
come il carcere di S. Vittore o la Stazione Centrale, ha permesso di rivisitare il
tutto come in un giro turistico ma che all’epoca della Guerra era un abbrivio
verso la disperazione, l’annullamento, la morte.
Si è iniziato con la visione di film che tracciassero il periodo e le condizioni
sociali alle quali erano sottoposti coloro che erano considerati “impuri”, non
ariani nella terminologia della società forzata di allora, film quali :
IL GRANDE DITTATORE (The Great Dictator)
Regia : Charlie Chaplin USA, 1940 Durata 126 ‘ (b/n)
JONA CHE VISSE NELLA BALENA
Regia: Roberto Faenza Italia, 1993 Durata: 110 '.
Come introduzione alle attività sull’argomento della Shoah, leggiamo
l’articolo di Elena Loewenthal :
“DUE minuti di sirena sono un tempo maledettamente lungo, quasi
insopportabile. Un affronto alle orecchie e al petto, che lacera sensi e
coscienza. Due minuti ininterrotti di sirena segnano in Israele la memoria
della Shoah ogni anno qualche giorno prima appena del giorno
dell’Indipendenza, festa nazionale di una storia ancora tanto travagliata.
E’ un modo strano per commemorare una tragedia, quasi originale se non
fosse che l’aggettivo non calza affatto. Calza invece quella specie di senso
dell’offesa che il suono produce, eco dell’ineffabile sopruso a tutta l’umanità
che è stata l’impresa letale di sterminare un popolo soltanto per il gusto di
negarne l’esistenza.”
L’approfondimento è iniziato con la lettura del Regio Decreto del 1938 e la
lettura della prima parte della testimonianza di Liliana Segre.
Lettura del regio decreto di espulsione degli ebrei
L’espulsione degli ebrei dalle scuole (1938)
REGIO DECRETO LEGGE
5 settembre 1938 - XVI, n. 1390
Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista
VITTORIO EMANUELE III PER GRAZIA DI DIO E PER LA VOLONTÀ DELLA
NAZIONE RE D’ITALIA IMPERATORE D’ETIOPIA
Visto l’art. 3, n. 2, della legge 31 gennaio 1926-IV, n.100;
Ritenuta la necessità assoluta ed urgente di dettare disposizioni
per la difesa della razza nella scuola italiana;
Udito il Consiglio dei Ministri;
Sulla proposta del Nostro Ministro Segretario di Stato per
l’educazione nazionale, di concerto con quello
per le finanze;
Abbiamo decretato e decretiamo;
Art. 1. All’ufficio di insegnante nelle scuole statali o
parastatali di qualsiasi ordine e grado e nelle scuole
non governative, ai cui studi sia riconosciuto effetto legale, non
potranno essere ammesse persone di
razza ebraica, anche se siano state comprese in graduatorie di
concorso anteriormente al presente decreto;
nè potranno essere ammesse all’assistentato universitario, né al
conseguimento dell’abilitazione alla
libera docenza.
Art. 2. Alle scuole di qualsiasi ordine e grado, ai cui studi sia
riconosciuto effetto legale, non potranno
essere iscritti alunni di razza ebraica.
Art. 3. A datare dal 16 ottobre 1938-XVI tutti gli insegnanti di
razza ebraica che appartengano ai ruoli
per le scuole di cui al precedente art. 1, saranno sospesi dal
servizio; sono a tal fine equiparati al personale
insegnante i presidi e direttori delle scuole anzidette, gli aiuti e
assistenti universitari, il personale
di vigilanza delle scuole elementari. Analogamente i liberi docenti
di razza ebraica saranno sospesidall’esercizio della libera
docenza.
Art. 4. I membri di razza ebraica delle Accademie, degli Istituti e
delle Associazioni di scienze, lettere
ed arti, cesseranno di far parte delle dette istituzioni a datare
dal 16 ottobre 1938-XVI.
Art. 5. In deroga al precedente art. 2 potranno in via transitoria
essere ammessi a proseguire gli studi
universitari studenti di razza ebraica, già iscritti a istituti di
istruzione superiore nei passati anni accademici.
Art. 6. Agli effetti del presente decreto-legge è considerato di
razza ebraica colui che è nato da genitori
entrambi di razza ebraica, anche se egli professi religione diversa
da quella ebraica.
Art. 7. Il presente decreto-legge, che entrerà in vigore alla data
della sua pubblicazione nella Gazzetta
Ufficiale del Regno, sarà presentato al Parlamento per la sua
conversione in legge. Il Ministro per l’educazione
nazionale è autorizzato a presentare il relativo disegno di legge.
Ordiniamo
che il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sia
inserito nella raccolta delle leggi e dei decreti
del Regno d’Italia, mandando a chiunque spetti di osservarlo e di
farlo osservare.
Dato a San Rossore, addì 5 settembre 1938 - Anno XVI
Vittorio Emanuele,
Mussolini, Di Revel, Ciano, Solmi, Lantini
La testimonianza
Avevo 13 anni nel 1943 e conoscevo da cinque la persecuzione, perché
una sera di fine estate del 1938, cinque anni prima, mio papà mi spiegò con
dolcezza che non avrei più potuto andare a scuola, in via Ruffini, poiché
ero una bambina ebrea e c’erano delle nuove leggi che mi impedivano di
continuare la mia vita come prima.
Eravamo diventati cittadini “di serie B”.
Comincio’ una nuova vita, una nuova scuola; sentivo crescere le preoccupazioni,
vedevo i visi dei miei familiari intristiti, a volte umiliati da situazioni
che non mi venivano spiegate, ma che io intuivo dolorosamente.
Dopo l’8 settembre 1943, con l’occupazione tedesca dell’Italia
settentrionale,furono le leggi di Norimberga a condannarci.
Mio papa’ decise di mettermi in salvo: mi procuro’ documenti falsi e mi affido’
ad amici eroici che rischiarono la vita per nascondermi.
Allora lasciai per sempre la mia casa e i miei nonni.
Dopo qualche tempo mio papa’ ed io cercammo di fuggire in Svizzera. Eravamo
in balìa di contrabbandieri esosi e senza scrupoli. Con grande fatica
passammo il confine sulle montagne dietro a Viggiu’ e arrivammo in Svizzera.
Il sogno duro’ poco: pochi passi in un bosco e ci imbattemmo in una sentinella
che ci accompagno’ al vicino comando. La’ un ufficiale svizzero-tedesco
non volle sentire ne’ ragioni, ne’ suppliche e ci rimando’ indietro.
Con la continua raccolta di informazioni si è giunti alla data più importante
30 gennaio 1944 giorno della deportazione dove dal binario 21 della Stazione
Centrale sono partiti con destinazione Auschwitz ed è da qui che è partito il
nostro viaggio a ritroso nei luoghi della memoria.
IL RICORDO DEI LUOGHI: UN ALTRO MODO PER NON
DIMENTICARE
Dal binario 21 della stazione Centrale di Milano, dal dicembre 1943,
cominciarono a partire i treni carichi di ebrei e di oppositori politici verso
Auschwitz e altri campi di sterminio. I vagoni piombati, con il loro carico
umano, venivano agganciati due piani sotto, nei sotterranei dove correva una
rete di binari adibita allo smistamento del servizio postale, poi ripristinata nel
dopoguerra e funzionante fino a non molti anni fa. I convogli, nascosti alla
vista dei normali viaggiatori, si formavano nei cunicoli bui, spingendo a calci
e bastonate i deportati sui vagoni, poi spostati in superficie tramite elevatori.
Furono oltre 1500 le persone caricate a forza dai “repubblichini” al servizio
dei nazisti. Gran parte di loro non tornò più.
Prima ancora, questo agghiacciante trasporto era stato assicurato da
un’azienda di autolinee di Pavia che faceva la spola con il campo di
concentramento di Bolzano e l’Austria. Una foto del tempo ritrae il
conducente sorridente davanti la corriera. Per i suoi “meriti” sotto il fascismo
fu anche insignito di una “benemerenza”. In origine il binario 21, prima
dell’inversione numerica, era il binario 1, appositamente riservato
all’accoglienza dei Savoia a Milano. Fu anche allestita un’ampia ed elegante
sala “Regia”, decorata durante il ventennio con una svastica ancora oggi
visibile tra i mosaici. Un viaggio tra i luoghi di Milano, al tempo
dell’occupazione nazista, non poteva che partire da qui. Non a caso, solo
pochi giorni fa il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha
presenziato all’inaugurazione del progetto di un memoriale sulla Shoa che
sorgerà nelle viscere della stazione.
La lunga notte di Milano iniziò con l’ingresso, il 10 settembre 1943, dei primi
granatieri della divisione corazzata delle Waffen-Ss “Leibstandarte Adolf
Hitler”. Un corpo d’élite che solo pochi mesi prima, a Geigova, nella ritirata
di Russia, si era macchiato dello sterminio di quattro mila prigionieri russi
per rappresaglia, e nel volgere di pochi giorni, dopo aver varcato il confine
italiano, aveva compiuto il massacro di Boves in provincia di Cuneo, 32 le
vittime inermi. Gli stessi che, di lì a qualche giorno, tra il 15 e il 23 settembre,
trucideranno per odio razziale oltre che per rapinare i loro beni, 54 ebrei
sfollati sul lago Maggiore, tra Stresa, Baveno, Meina e Arona. Alcuni di loro
erano addirittura giunti in Italia da Salonicco, per scampare alla ferocia
tedesca. La strage del Verbano fu il primo eccidio di ebrei compiuto in Italia
L’HOTEL REGINA
Già a partire dal 13 settembre a Milano entrò in funzione la struttura delle Ss,
guidata dal capitano Theodore Saeweche, direttamente dipendente dal
colonnello Rauff, capo del supercomando interregionale della “polizia e
servizio di sicurezza”, la cosiddetta Sipo-Sd, che comprendeva Piemonte,
Liguria e Lombardia. Walter Rauff era stato l’inventore dei camion della
morte in Polonia e Russia, 90.000 le sue vittime. La sede del comando
interregionale e milanese fu installata in pieno centro, a pochi passi da piazza
Duomo, all’Hotel Regina, un edificio con due ingressi, in via Santa
Margherita e in via Silvio Pellico. Oggi l’albergo non esiste più. Al suo posto
gli uffici di alcune società finanziarie.
SAN VITTORE
San Vittore passò sotto la gestione delle Ss e la prima richiesta al Questore di
Milano, Domenico Coglitore, fu di consegnare gli elenchi degli antifascisti e
degli ebrei. Il carcere, sorto sull’antico convento dei Cappuccini, si riempì
rapidamente, Due dei suoi sei bracci, il IV, il V, furono destinati ai detenuti
politici, il VI agli ebrei. A dirigerlo inizialmente il maresciallo Helmuth
Klemm, poi il caporalmaggiore Franz Staltmayer, detto “la belva”, sempre
con il frustino e un’inseparabile cane lupo. Tra il settembre 1943 e il 12 aprile
1945 su un totale di 18828 arrestati, 4982 furono deportati in Germania. A
ricordare orrori e sofferenze una targa murata sull’ingresso di via Filangieri 2,
ormai quasi illeggibile, posta il 25 aprile 1965 dall’allora sindaco Pietro
Bucalossi.
VIA ROVELLO E VIA TIVOLI
Ma non erano solo le Ss ad arrestare. Almeno nella metà dei casi, come risultò
dagli stessi registri, furono le organizzazioni fasciste e le molte polizie
politiche a consegnare i prigionieri ai tedeschi, tra loro la Legione Muti, la X
Mas, le Brigate nere e la banda Kock. Almeno otto furono i corpi investigativi
che operarono indipendentemente l’uno dall’altro con proprie carceri. In Via
Rovello 2, attuale sede del Piccolo Teatro, un tempo cinema Fossati, la
Legione Muti istituì la propria caserma comando. In quelli che sono oggi i
camerini, un tempo si infieriva sui prigionieri. Nell’odierno ufficio del
direttore stazionava, in quegli anni, la scrivania di Francesco Colombo, un
pregiudicato per reati comuni nominato vicequestore dal ministro degli
Interni. In via Tivoli si trovava invece la caserma “Salinas”. A dirigerla il
capitano Pasquale Cardella, lo stesso che guidò il plotone d’esecuzione in
piazzale Loreto, il 10 agosto 1944, per fucilare 15 patrioti.
Al posto dell’edificio in via Tivoli, trasformato nel dopoguerra nell’istituto
scolastico Schiapparelli, si trova ora solo un giardino, davanti al teatro
dedicato a Giorgio Strehler.
“VILLA TRISTE”
Tutta Milano era disseminata di comandi e caserme. Alcune piazze e vie
hanno poi cambiato nome. Il “servizio sicurezza“ delle Ss si trovava in corso
Littorio 10. Divenne corso Matteotti. L’ufficio stampa e propaganda della X
Mas, era alloggiato all’albergo Nord, accanto al comando della Wermacht, in
piazza Fiume, ribattezzata dopo la Liberazione piazza della Repubblica.
Ma è lontano dal centro che bisognava andare per rintracciare il covo della
banda Koch, a “Villa Triste”, così soprannominata per le torture che vi si
infliggevano, in via Paolo Uccello, dalle parti di San Siro. Una villa storica.
Qui nel 1821 il conte Giuseppe Pecchio organizzò una riunione per richiedere
l’intervento di Carlo Alberto contro gli austriaci. Un confidente della polizia li
denunciò. Federico Confalonieri e altri patrioti finirono nel carcere dello
Spielberg. La proprietà passò a Temistocle Fossati e la villa fu considerata
monumento nazionale. Nel giugno del 1944 vi si installò Pietro Koch,
proveniente da Roma, dove aveva gestito un “reparto speciale della polizia
repubblicana”, con sede prima in via Tasso, poi alla pensione Jaccarino in via
Romagna, ma soprattutto aveva fornito un elenco di nomi ai nazisti per la
strage alle Fosse Ardeatine.
Sul cornicione della costruzione furono installati 24 riflettori e nei sotterranei
allestite cinque celle. In qualche periodo vi furono stipate fino a un centinaio
di persone. Le urla dei seviziati si sentivano fin dalla strada. Ci furono
proteste da parte della popolazione. Intervenne lo stesso cardinal Schuster.
Alla fine, il 24 settembre 1944, quasi solo per ragioni di lotta intestina fra le
diverse bande fasciste, “Villa Triste” fu chiusa. La famiglia Fossati, saputo
dello scempio avvenuto, decise di non abitarla più e lasciarla in eredità ad un
istituto missionario, che a sua volta lo donò ad una congregazione di suore.
Fino a pochi anni fa ospitava un asilo infantile.
La testimonianza
II parte
… A 13 anni entrai da sola nel carcere di Varese, piangendo disperatamente. Poi
fui a Como; poi a Milano, a San Vittore. Qui ero con mio papa’. Il quinto raggio
era destinato ai prigionieri ebrei: tutti ammassati in attesa della deportazione
annunciata.
Guardavo piazza Aquileia dietro i finestroni schermati.
Alla fine di gennaio un implacabile appello scandi’ anche i nostri nomi.
Caricati su un camion, attraversammo Milano e fummo portati alla Stazione
Centrale, dove nel sotterraneo era pronto per noi un treno merci. Fummo
fatti salire a calci e pugni e piombati nei vagoni. Il viaggio duro’ una
settimana.
Eravamo ammassati l’uno sull’altro;un secchio per gli escrementi e
un po’ di paglia per terra, senza ne’ luce, ne’ acqua.
All’alba del 6 febbraio il treno si fermo’ ad Auschwitz. Ricordo il rumore
osceno e assordante degli assassini intorno a noi, i fischi, i latrati; ricordo
i comandi e ricordo quando fui separata per sempre da mio papà.
Liliana Segre
“Milano Centrale, binario 21”
Destinazione Auschwitz
Come testimonia Liliana Segre, deportata il 30 gennaio 1944, all’età di 13
anni: “… Arrivati alla Stazione Centrale, la fila dei camion infilò i sotterranei
enormi passando dal sottopassaggio di via Ferrante Aporti; fummo scaricati proprio
davanti ai binari di manovra che sono ancora oggi nel ventre dell’edificio. Il passaggio
fu velocissimo: SS e repubblichini non persero tempo, in fretta, a calci, pugni e
bastonate, ci caricarono sui vagoni bestiame. Non appena un vagone era pieno,
veniva sprangato e portato con un elevatore alla banchina di partenza. Fino a quando
le vetture furono agganciate, nessuno di noi si rese conto della realtà. Tutto si era
svolto nel buio del sotterraneo della Stazione, illuminato da fari potenti nei punti
strategici, tra grida, latrati, fischi e violenze terrorizzanti. Nel vagone al buio, c’era
un po’ di paglia per terra e un secchio per i nostri bisogni. Il treno si mosse …”
«Nessuno si oppose al viaggio del treno, nessuno bombardò le ferrovie per impedirne
l'arrivo. Ad Auschwitz ho lasciato la mia famiglia, i mie sogni di ragazzina e sono
diventata vecchia».
La deportazione
“Il treno si mosse e sembrò puntare verso Sud. Andava molto piano, fermandosi
a volte per ore. Dalle grate vedevamo la campagna emiliana nelle brume
dell’inverno e stazioni deserte dai nomi familiari.
Gli adulti dimostravano un certo sollievo, visto che il treno non era diretto al confine,
ma alla sera ci fu un’inversione di marcia e quella notte nessuno dormì.
Tutti piangevano, nessuno si rassegnava al fatto che stavamo andando verso Nord,
verso l’Austria. Era un coro di singhiozzi che copriva il rumore delle ruote.
All’alba il treno si fermò e con sgomento vedemmo scendere i ferrovieri italiani e
salire i sostituti, forse austriaci, forse tedeschi…
A conclusione presentazione di uno stralcio del libro di Primo Levi
SE QUESTO E’ UN UOMO
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
Primo Levi
Analisi.
x Qual è il messaggio della poesia?
x Chi sono i destinatari del messaggio?
x Chi sono i protagonisti della poesia?
x Dove si trovano?
x Perché l’uomo non conosce pace?
x Perché muore per un sì o per un no?
x Perché la donna della poesia è senza capelli e senza nome?
VISIONE di alcuni spezzoni del film LA VITA E’ BELLA
Vita nei lager.
ARBEIT MACHT FREI : il lavoro rende liberi. Questa è la scritta all’ingresso dei
Lager nazisti.
Riflettiamo con gli alunni:
x qual è il messaggio della scritta?
x quale significato assume posta all’ingresso di un lager?
x di che tipo di lavoro si parla e soprattutto a quale libertà si fa riferimento?
Leggiamo alcuni documenti sulla vita (o sarebbe meglio dire non-vita) all’interno dei
lager: a dispetto della scritta “ARBEIT MACHT FREI”, è proprio della libertà che
l’uomo viene subito privato. E non si parla solo della libertà fisica, ma di quella
morale, spirituale, mentale, fino al totale annientamento della dignità umana.
IL VALORE
DELLA MEMORIA
La memoria della memoria, questa espressione sembrerebbe una “battuta” assurda o
uno slogan pubblicitario. E sarebbe davvero tale, se la memoria consistesse
nell’apertura di un nostro archivio segreto (individuale o collettivo, poco importa) per
riportarne alla luce informazioni preziose che la trascuratezza o, peggio, la volontà di
dimenticare, avrebbero tentato di occultare.
Ma non è necessariamente così.
La memoria è un possente strumento per capire e per rispondere alle sollecitazioni del
presente. La guerra nei Balcani, il Medio Oriente in fiamme, il minacciato “scontro di
civiltà” dimostrano che l’odio fra le genti e le stragi degli innocenti non sono una
pura e semplice eredità di un passato sogno di incubi.
E allora, alle nostre menti si affaccia la domanda angosciata: ma sarà sempre così,
anzi, sempre più così?
La risposta implicita che abbiamo dato a questa domanda fino a questo momento era
di concludere che la Shoah fosse stata a tal punto mostruosa da risultare
incomprensibile con i comuni strumenti della mente umana, che fosse stata, in una
parola, “follia”, sia pure follia criminale: follia degli uomini, follia di un intero
popolo, follia di Hitler. E, come tale, almeno per coloro che credono nella razionalità
di fondo dello spirito umano, irripetibile.
Tanto da giustificare l’autentico giuramento con il quale si concludevano tutte le
nostre manifestazioni:“Mai più”.
Sentiamo però che questo modo di affrontare la memoria non è più sufficiente.
Perché la nostra premessa non è scevra da critiche; la memoria non è, infatti, un
supporto magnetico cui attingere dati ma è una funzione attiva della nostra mente,
che sa in partenza a quale tipo di dati rivolgere la propria attenzione e quali, invece,
trascurare; che sa in partenza quali sono i problemi che deve affrontare e, spesso, ha
già formulato, se non proprio un giudizio definitivo, almeno delle ipotesi di risposta; e
cerca “nella memorie” quei dati che possono confermare o respingere il
giudizio stesso.
Possiamo dunque indicare dei cosiddetti “valori” che sono in realtà giudizi dei quali
siamo già forniti a priori e che orientano il nostro modo di scavare in profondità nella
memoria? Certamente, sì.
Il primo dei nostri valori si chiama civiltà ed esso significa il procedere del consorzio
umano dalla legge del trionfo del più forte a quella del supporto per i più deboli, dalla
soppressione del rivale o di quello che si ritiene possa soltanto chiedere alla società
senza nulla dare, al principio della solidarietà.
Il secondo valore significa valorizzare la varietà umana, la ricchezza delle “altre”
culture, delle altre lingue, delle altre Fedi. Esso significa la libera circolazione delle
idee, senza opporvi ostacoli, neppure economici.
Il terzo valore, infine, indica il dialogo, il confronto, la trattativa, come unici
strumenti che possono risolvere i contenziosi umani, proibendo, come reato, qualsiasi
ricorso alla violenza.
“Memoria” significa allora scavare nel passato in modo selettivo, per cercarvi non
tanto le gesta degli eroi sui campi di battaglia quanto gli esempi di solidarietà e di
cooperazione; esempi forse rimasti nell’ombra ma non per questo meno rilevanti, forse
al contrario. E’ questa infine quella Memoria che può diventare uno strumento di
fiducia nel domani. E’ questa che ci accingiamo a celebrare.
Prof. Amos Luzzatto
Ricordare queste vicende significa accettare di assumerci una responsabilità
nei confronti del nostro passato, da una parte, del futuro, dall’altra, futuro
che è rappresentato dai giovani studenti. Si tratta infatti di accogliere l’eredità
che ci viene consegnata nella convinzione che non dimenticare sia un passo
necessario da compiere perché quel passato non si ripeta, perché è
l’accompagnare i nostri studenti nel loro percorso di formazione.
Il nostro sforzo infatti è indirizzato a fare in modo che la memoria di quanto è
accaduto venga accolta dai giovani, in modo che entri a far parte della loro
medesima memoria, che si trasformi in esperienza loro.
P.S.
All'interno della Stazione Centrale di Milano è stato aperto un
ambulatorio
della
ASL
all'altezza
del
binario
21.
L'ambulatorio è aperto dalle ore 8 alle ore 20 tutti i giorni della
settimana.