L’eredità di Aḥmad Sirhindī
nell’opera
di Mīrzā Maẓhar Ğān-i Ğānān
Demetrio Giordani
Mīrzā Maẓhar Ǧān-i Ǧānān (1699–1781) is one of the outstanding
personalities of Indian Sufism in the Eighteenth century, and he distinguished himself as a noteworthy inheritor of the naqšbandī-muğaddidī
tradition. His religious and spiritual doctrines contain features that
may appear innovative, for instance, his peculiar approach towards
Hinduism. From his letters, however, it is clearly understood that his
main effort was to reaffirm the basic system of belief of the orthodox
sunni tradition and, in particular, to pursue the doctrinal viewpoints of the naqšbandī reformer Šayḫ Aḥmad Sirhindī (d. 1624).
N
el centro della città vecchia di Delhi, quella che era un tempo
Šāhǧahānābād, nella rete di viuzze intorno al bazar di Citlī Qabr, si
apre il cortile d’una ḫānqāh, o convento sufi, con una piccola moschea a
tre cupole in tipico stile moghūl; qui, insieme ai suoi successori, è sepolto
Mīrzā Maẓhar Ǧān-i Ǧānān (1699–1781), un illustre santo indiano dell’ordine sufi Naqšbandiyya. Il luogo è ancora oggi un importante centro di
pellegrinaggio ed attrae non solo musulmani, ma anche sikh, cristiani e
indù. Da uno dei discendenti spirituali di Mīrzā Maẓhar Ğān-i Ğānān si
è sviluppato un ramo secondario dell’ordine che si è inserito all’interno di
una delle correnti della spiritualità dell’Induismo. Verso la fine del 1800 Šāh
Faḍl Aḥmad Ḫān (m. 1907), maestro naqšbandī-muǧaddidī del distretto di
Farruḫābād, accolse tra i propri discepoli alcuni indù, e conferì nel 1896 la
ḫilāfat naqšbandī a Rāmcandra Saksenā, un indù di stirpe Kāyasth, che
attualmente figura come primo anello della catena di trasmissione della
. Sulla storia della ḫānqāh cf. Fusfeld, The Shaping, 1981.
. Facoltà d’iniziare altri discepoli all’ordine e di impartire l’istruzione spirituale.
Rivista di Studi Sudasiatici iI, 2007, 159–179
ISSN 1970-9501 (online), ISSN 1970-951X (print)
ISBN 978-88-8453-600-6 (print), © 2007 Firenze University Press
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branca dell’ordine con il nome di Mahātmā Rāmcandrajī Mahārāj (m. 1931).
La tradizione dei maestri indù del ramo secondario naqšbandī-maẓharī si
è mantenuta per alcune generazioni; di essa ha dato testimonianza anche
Abū-l-Ḥasan Zayd Fārūqī (m. 1993), il penultimo dei custodi della ḫānqāh
di Delhi:
Quattro anni fa (verso il 1972) un asceta indù (sādhū) proveniente dalla
regione di Kanpur si accampò su questa sponda del Jamuna con circa
cento dei suoi discepoli. Inviò due messaggeri con la richiesta di poter
visitare la tomba del venerabile Mīrzā Maẓhar Ğān-i Ğānān. Dissi loro che
potevano venire in qualsiasi ora del giorno. Essi ritornarono con tutto il
loro gruppo subito dopo la preghiera del pomeriggio e fino a poco prima
del tramonto rimasero in meditazione (murāqaba) di fronte alla tomba
secondo il metodo noto ai maestri venerabili della Naqšbandiyya. Mi
fecero sapere che il quinto dei loro maestri spirituali era stato un ḫalīfa di
Mīrzā Maẓhar Ğān-i Ğānān. Mi dissero inoltre che praticavano la memorazione (ḏikr) del Nome dell’Essenza divina; attivando i loro centri sottili
(laṭā’if ), praticavano la meditazione e ne traevano benefici spirituali.
La vita, i maestri
Šams al-Dīn Ḥabīb Allāh Mīrzā Maẓhar Ğān-i Ǧanān fu uno dei grandi
protagonisti della vita spirituale della Delhi del xviii secolo, nel pieno del
declino dell’impero moghūl. Da Mīrzā Maẓhar derivò un ramo dell’ordine
naqšbandī-muǧaddidī che venne in seguito chiamato šamsiyya-maẓhariyya.
Mīrzā Maẓhar fu anche un poeta raffinato, ma fu soprattutto un conoscitore e interprete della dottrina metafisica di Šayḫ Aḥmad Sirhindī (m.
1624, Sirhind), la figura più autorevole della Naqšbandiyya indiana, detto
anche Muǧaddid-i alf-i ṯānī, “Rinnovatore del secondo millennio” (dell’ègira), l’appellativo dal quale l’ordine aveva preso il nome Naqšbandiyyamuǧaddidiyya. La biografia più conosciuta di Mīrzā Maẓhar sono le
Maqāmāt-i Maẓhariyya, ovvero “Le stazioni di Maẓhar”, in cui sono ri. Cf. Danhardt, Change, 2003, 71–97.
. Su Abū-l-Ḥasan Zayd Fārūqī e le sue opere cf. Gaborieau, “Les protestations”, 1990,
237–265.
. Fārūqī, Hazrat Mujaddid, 1982, 282–283.
. Sulla vita e l’opera di Aḥmad Sirhindī, cf. Sirhindī, L’inizio, 2003 e Ventura,
Profezia, 1990.
giordani ∙ L’eredità di Aḥmad Sirhindī
161
portate le tappe della sua ascesi spirituale, le personalità dei suoi maestri, le
sue visioni, e nell’appendice una raccolta di alcune delle lettere scritte da
Maẓhar sui principali temi dottrinali della Naqšbandiyya-muǧaddidiyya.
L’autore di questa biografia fu Šāh Ġulām ‘Alī (m. 1823), il più importante
ḫalīfa (successore spirituale) di Maẓhar Ğān-i Ğanān, che è sepolto accanto
a lui nel mausoleo di Delhi. Così all’inizio della sua opera Šāh Ġulām ‘Alī
descrive il suo maestro:
Epifania (maẓhar) delle luci divine, fonte dei segni della presenza e della
consapevolezza, custode della ṭarīqa-yi aḥmadiyya, vivificatore della
sunna profetica, unico senza pari nell’epoca e nell’era, sole della religione (šams al-dīn), l’amato da Dio (ḥabīb Allāh), ḥaḍrat Mīrzā Ğān-i
Ğānān.
Maẓhar era un discendente di ‘Alī ibn Abī Ṭālib (m. 661), cugino e genero
del profeta Muḥammad. I suoi antenati appartenevano alla tribù afgana
dei Qāqšāl, che per lungo tempo avevano servito la dinastia dei Moghūl,
a partire da quando avevano accompagnato l’imperatore Humāyūn alla
riconquista del trono di Delhi, caduto nelle mani degli afgani della tribù
Sūrī. Uno di questi suoi antenati, l’emiro ‘Abd al-Subḥān, ottenne un alto
incarico (manṣab) nell’armata imperiale al tempo di Akbar. Anche a Mīrzā
Ğān, padre di Mīrzā Maẓhar, era stato concesso un manṣab nell’esercito
di Awrangzeb (1658–1707); egli aveva dunque accompagnato l’imperatore
durante la spedizione militare nel Deccan, ma nel corso della campagna
rinunciò al grado, abbandonò il campo e si diresse verso Akbarabad, la sua
città natale. Sulla via del ritorno, nel giugno del 1699, nacque Maẓhar, al
quale fu imposto l’appellativo di Ğān-i Ğān, per desiderio esplicito dell’imperatore, poi divenuto Ğān-i Ğānān.
Mīrzā Ğān provvide personalmente e fino alla sua morte, che avvenne
quando il figlio aveva sedici anni, all’educazione del giovane Maẓhar.
Durante questo periodo il giovane Maẓhar s’impadronì a fondo dell’arte
marziale e continuò i suoi studi religiosi, approfondendo lo studio del
ḥadīṯ (tradizione profetica) e del tafsīr (esegesi coranica), sotto la direzione
di importanti maestri delhiti. Si racconta che dopo la morte del padre,
all’epoca in cui aveva diciotto anni, Maẓhar si recasse alla corte dell’impe. Ovvero di Aḥmad Sirhindī; è un altro nome per indicare la Naqšbandiyya­ muǧaddidiyya.
. Ġulām ‘Alī, Maqāmāt, 1993, 20.
. Bahraīchī, Ma‘mūlāt, 1275/1841, 6.
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ratore Farruḫsiyar (r. 1713–1719) per chiedere la restaurazione del manṣab
paterno. Tuttavia l’imperatore, a causa di un’indisposizione, mancò all’appuntamento e Maẓhar tornò a casa contrariato. Quella stessa notte ebbe in
sogno la visione del grande santo di Delhi Quṭb al-Dīn Baḫtiyār Kākī (m.
1235 d. C. ), che uscendo dalla tomba gli metteva sul capo il suo berretto
(kolāh). L’esperienza visionaria lo convinse a cambiare strada e a intraprendere il cammino sufi.10
In Mīrzā Maẓhar confluirono le due principali linee dell’eredità spirituale di Aḥmad Sirhindī, risalenti alle figure dei suoi due figli Šayḫ
Muḥammad Ma‘ṣūm e Šayḫ Muḥammad Sa‘īd. Il primo dei grandi maestri
di Mīrzā Maẓhar fu Nūr Muḥammad Badāyūnī (m. 1722). Quest’ultimo
era un discepolo di Šayḫ Ṣayf al-Dīn, il figlio e successore (ḫalīfa) di Šayḫ
Muḥammad Ma‘ṣūm (m. 1668). Mīrzā Maẓhar seguì l’insegnamento di
Nūr Muḥammad Badāyūnī per quattro anni, fino alla morte del maestro,
ricevendo da questo la nomina a ḫalīfa della Naqšbandiyya-muǧaddidiyya
e l’autorizzazione (iǧāzat, ḫilāfat) ad iniziare e istruire discepoli. Per i
successivi trent’anni Maẓhar fu discepolo di altri eminenti maestri
naqšbandī di Delhi, fra i quali Ḥāfiz Sa‘d Allāh (m. 1739) e Muḥammad
‘Ābid Sunnāmī (m. 1747), quest’ultimo un discepolo, di Šayḫ ‘Abd al-Aḥad,
a sua volta un ḫalīfa dell’altro figlio di Sirhindī, Šayḫ Muḥammad Sa‘īd (m.
1659). Mīrzā Maẓhar rimase per sette anni al servizio di Muḥammad ‘Ābid
Sunnāmī, il quale gli conferì la ḫilāfat di altri ordini sufi: la Qādiriyya, la
Cištiyya e la Suhrawardiyya.
Dopo la morte di Šayḫ Muḥammad ‘Ābid Sunnāmī, Maẓhar fu per trentacinque anni la guida della ḫānqāh centrale della Naqšbandiyya a Delhi.
Grazie a Maẓhar il centro d’attività dell’ordine si spostò da Sirhind, la città
natale di Aḥmad Sirhindī, che subiva la costante minaccia dell’ascesa dei
sikh, e si stabilì definitivamente nel centro di Delhi. Un biografo racconta
che non passava giorno senza che rivolgesse la sua attenzione spirituale
(tawaǧǧuh) a più di cento ricercatori del vero (ṭālibān-i ḥaqq).11 La sfera
di influenza della ḫānqāh comprendeva, oltre Delhi, Rampur, Muradabad, Badayun, arrivando fino al Panǧab e al Deccan. Maẓhar rivolse, poi,
una particolare attenzione alla tribù afġana dei Rohillā che abitavano una
regione nel nord-est della piana gangetica.
Šāh Walī Allāh, l’eminente teologo sufi della Delhi del xviii secolo, così
descriveva la figura di Maẓhar:
10. Ġulām ‘Alī, Maqāmāt, 1993, 25.
11. Bahraīchī, Ma‘mūlāt, 1275/1841, 17.
giordani ∙ L’eredità di Aḥmad Sirhindī
163
Iddio l’Altissimo ci ha fatto dono di uno svelamento intuitivo così chiaro,
che nessuno degli stati spirituali sulla faccia della terra ci è celato; essi
sono evidenti come le linee del palmo della mano. In quest’epoca non vi
è nessuno come Mīrzā Ğān-i Ğānān in nessun paese o città. Chiunque
aspiri a percorrere il sentiero delle stazioni spirituali, vada da lui.12
Mīrzā Maẓhar trascorreva la maggior parte del giorno dedicandosi all’istruzione dei discepoli e gran parte della notte in meditazione; viveva in povertà
e la sua diffidenza nei confronti dei nobili e dei potenti era proverbiale.13 Si
dice che verso la fine della sua vita nutrisse il desiderio di perire martire. In
effetti, il 7 del mese di muḥarram del 1195/1781 fu assassinato da un fanatico
sciita, in risposta alle critiche che Maẓhar aveva rivolto alle processioni scite
di muḥarram.14
Il custode della ṭarīqa-yi aḥmadiyya
Un giorno, una persona disse a mio padre che gli antichi sufi credevano nella Waḥdat al-wuǧūd, mentre, a differenza di loro, il venerabile
Muǧaddid [Aḥmad Sirhindī] preferiva la dottrina della Waḥdat al-šūhūd.
In quel momento vidi risplendere una luce simile a quella del sole e in
quel fulgore mi apparve il venerabile Muǧaddid, che mi faceva segno di
12. Ġulām ‘Alī, Maqāmāt, 1993, 40–41.
13. Racconta il suo biografo Ġulām ‘Alī che un giorno il Nawāb Niẓām al-Mulk gli
offrì tremila rupie in contanti; egli non le accettò e il Nawāb gli chiese di dividerle per grazia di Dio tra chi ne aveva bisogno. Maẓhar gli rispose: «Non siamo il vostro maggiordomo;
una volta che sarete uscito di qui incominciate a distribuirle, e vedrete che quando sarete
arrivato a casa vostra avrete finito» (Ġulām ‘Alī, Maqāmāt, 1993, 46).
14. Ġulām ‘Alī, Maqāmāt, 1993, 87–91; Bahraīchī, Ma‘mūlāt, 1275/1841, 139. La ragione
dell’assassinio di Maẓhar risiedono nel seguente episodio. «In quei giorni gli sciiti stavano
celebrando il martirio dell’imām Ḥusayn portando in processione simboli religiosi e stendardi; quando la processione passò di fronte alla terrazza della sua casa, Maẓhar non si
alzò in piedi in segno di rispetto. Osservò anzi che era una follia celebrare in quel modo
un fatto storico avvenuto mille anni prima. L’osservazione fu udita da uno degli astanti e
la sera stessa tre sicari si presentarono alla porta del vecchio maestro chiedendo di essere
ricevuti; uno dei tre gli sparò un colpo di pistola che colpì Maẓhar vicino al cuore. La sua
agonia durò tre giorni. Quando l’imperatore Šāh ‘Âlam venne informato dell’accaduto, fece
una rapida indagine e mandò a dire a Maẓhar: “Non riusciamo a rintracciare l’assassino.
Dateci una sua descrizione, in modo che possiamo punirlo”. Mīrzā Sāḥib rispose: “I dervisci si annientano sulla via di Allāh: non è omicidio uccidere un uomo morto. Se catturate
l’assassino, vi prego, non punitelo e mandatelo da me”». Azad, Ab-e Hayat, 2001, 145 della
traduzione inglese; pag. 137 dell’originale urdu. Sull’episodio si veda anche ‘Umar, “Mīrzā
Maẓhar Jānjanān”, 1969.
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levarmi da lì. Riferii la visione (wāqi‘a) a mio padre, che mi disse: «In voi
predomina la tendenza ad ottenere i favori della sua ṭarīqa».15
L’azione riformatrice di Mīrzā Maẓhar Ğān-i Ğānān si colloca all’interno di
un periodo storico di marcata decadenza politica determinata dalla caduta
dell’impero moghūl e dal disfacimento dell’ordine sociale e politico che ne
seguì. Fu un’epoca segnata da cospirazioni e guerre di successione, dall’ascesa di potenze non musulmane — sikh, ǧat e maratha — dall’emergere di stati
indipendenti e infine dalla crescente influenza coloniale britannica. Dopo il
saccheggio di Nādir Šāh (1739), Delhi subì l’invasione di Šāh Aḥmad Durrānī
(1761) e fu teatro di eventi drammatici, massacri e nuovi saccheggi. I musulmani si divisero al loro interno a causa di violenze settarie e del conflitto
politico tra Irani sciiti e Turani sunniti. Secondo influenti autori musulmani
dell’epoca, anche la vita religiosa e le pratiche rituali decaddero in seguito a
questo clima di crescente insicurezza. Anche negli scritti di Šāh Walī Allāh
(m. 1762) di Delhi traspare un grande senso di inquietudine per il grado di
irreligiosità e anarchia che andava diffondendosi in tutti i settori della società
musulmana del tempo. Il grande teologo ne attribuiva la colpa all’allontanamento dalla via tracciata dal Corano e dalla sunna e alle deviazioni dottrinali.
Egli denunciava la ricerca del lusso e del piacere, l’allentamento del rigore morale, l’adozione di abitudini stravaganti e stigmatizzava soprattutto l’adozione
da parte dei musulmani in generale, e delle donne in particolare, di pratiche
rituali eterodosse o addirittura estranee all’Islam. Walī Allāh attaccava la
partecipazione dei musulmani sunniti alle processioni sciite di muḥarram
e alle celebrazioni indù della diwālī, e anche l’esagerata devozione popolare
dedicata ai santuari di santi sufi come Šāh Madār o Sālār Maṣ‘ūd.16
Anche secondo Mīrzā Maẓhar lo sforzo principale doveva consistere
proprio nel riaffermare il modello ed i principi della sunna profetica nel
contesto della società islamica del tempo.17 Questo sforzo coincideva anche
15. Ġulām ‘Alī, Maqāmāt, 1993, 22. Sulle correnti dottrinali della Waḥdat al-wuǧūd
e della Waḥdat al-šūhūd cf. nota 25.
16. Cf. Rizvi, Shāh Walī Allāh, 1980, 287–316.
17. Il senso spirituale della sua scrupolosa osservanza della sunna traspare dal
seguente racconto. Mīrzā Maẓhar era profondamente convinto che il cibo illecito fosse
dannoso per la vita spirituale: «Una volta, al momento della rottura del digiuno, divise con
gli amici del pane offerto da estranei e lui stesso ne mangiò un pezzo. Dopo la preghiera del
tarāwīḥ, chiese ai compagni di parlare del loro stato spirituale e di descrivere l’effetto che
quel cibo aveva avuto sul loro legame interiore (niṣbat-i bāṭin). L’umile servo (Šāh Ġulām
‘Alī) osservò che siccome aveva mangiato quel pane anche sua eccellenza, avrebbe dovuto
esser lui a parlarne per primo ai suoi discepoli. Il maestro disse: “La realtà interiore (bāṭin)
giordani ∙ L’eredità di Aḥmad Sirhindī
165
con la difesa del rigore e dell’ortodossia della tradizione spirituale, secondo
la linea dettata da Aḥmad Sirhindī, il quale aveva già denunciato i pericoli
che potevano degradare il sufismo a una sorta di superstizione popolare.
Maẓhar affermava che in quel tempo la responsabilità dei maestri e l’impegno dei discepoli, degenerando, erano divenuti pura formalità. Per questo
Maẓhar era solito vagliare la sincerità dell’intenzione di chi gli si rivolgeva e
non mancava di mettere alla prova gli aspiranti descrivendo loro le difficoltà
e la severità della disciplina cui andavano incontro.
[…] Mullā Ġulām Yaḥyā, uomo di grande erudizione che aveva scritto
un commentario sullo Zāhid di Mīr [Dard], su ispirazione dell’Invisibile
giunse a Delhi per diventare discepolo di Mīrzā [Maẓhar] Sāḥib. Il mullā
aveva la barba lunga e folta. Il venerdì incontrò Mīrzā Sāḥib alla Ğāmi‘
Masǧid e gli comunicò il suo proposito. Mīrzā lo fissò attentamente e
disse: «Se volete ricevere l’iniziazione da me, prima aggiustatevi la barba,
e cercate di sembrare una persona civile; poi venite pure. “Dio è bello e
ama il bello”: se quell’aspetto da orso non piace a me, come può piacere
ad Allāh?» Il mullā osservava scrupolosamente la šarī‘a. Si chiuse in casa
per tre giorni di fila, turbato, e alla fine una voce gli disse in sogno: «Senza
Mīrzā Sāḥib il nodo del tuo cuore non si scioglierà mai». Alla fine il malcapitato affidò la barba alle cure di un barbiere; dopo averla tagliata assai
corta, com’era l’uso di Mīrzā Sāḥib, fu accettato fra i suoi discepoli.18
Maẓhar si dedicò assiduamente alla difesa delle dottrine di Aḥmad Sirhindī,
così come altri prima di lui.19 Nelle sue lettere Maẓhar cercò in specie di
di questo faqīr s’è corrotta e oscurata, ma grazie alla benedizione della preghiera e dell’ascolto del Corano si è ristabilita”. Dissi: “Se ogni volta per l’intorbidamento del cibo
sospetto si produce un’alterazione nella vostra interiorità benedetta e in quel mare di luci,
che dire della rovina dei nostri stati spirituali, in ricettacoli interiori così angusti (tang-i
bāṭinān)?”. Disse: “Quel che si porta alla bocca determina il favore dell’Amico e accresce la
luce dell’obbedienza”» (Ġulām ‘Alī, Maqāmāt, 1993, 46–47).
18. Azad, Ab-e Hayat, 2001, 143 trad. ingl., 134–35 urdu.
19. Le critiche alle tesi di Sirhindī erano iniziate già durante il corso della sua vita ed
erano continuate anche in seguito con toni sempre più aspri. Tra i più importanti oppositori di Aḥmad Sirhindī vi fu ‘Abd al-Ḥaqq Muḥaddiṯ Dihlawī, autorevole contemporaneo
del Muǧaddid, che scrisse una lunga lettera in cui confutava alcune sue affermazioni giudicandole contrarie alla šarī‘a e al sufismo. Nel 1679, dopo la morte di Sirhindī, l’imperatore
Awrangzeb emanò un preciso ordine al Qāḍī di Awrangābād di punire chiunque avesse
divulgato il contenuto delle sue Maktūbāt (lettere) poiché in alcune parti erano state giudicate contrarie alle credenze dei sunniti. Nel 1682 alcuni ‘ulamā’ e sufi di Mecca e Medina
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contrastare gli avversari di Sirhindī; si sforzò inoltre di dimostrare la conformità delle sue dottrine con il Corano e la sunna e di chiarire il senso di
alcuni termini, talora fraintesi, che appaiono nelle sue opere. Così Maẓhar
si esprime al riguardo in una lettera:
Riguardo alla risposta alle obiezioni che degli ignoranti hanno sollevato nei confronti delle affermazioni e dei segni prodigiosi del Qayyūm-i
Rabbānī Muǧaddid-i alf-i ṯānī [Aḥmad Sirhindī], dopo un’attenta indagine si comprende che queste obiezioni sono basate sia sull’ignoranza
sia sull’invidia. Questo genere di rifiuto è una vecchia abitudine di
gente intollerante (ahl-i ta‘aṣṣub) che ha scritto trattati per accusare
Šayḫ-i Akbar [Ibn ‘Arabī] ed altri grandi maestri di essere degli infedeli (takfīr). Il nobile Muǧaddid nelle sue lettere ha dato risposte tali da
respingere ogni dubbio [ …]. Tra i suoi devoti, mawlānā Muḥammad
Beg Turkī, divenuto poi al-Makkī, ha redatto uno scritto intitolato:
‘Aṭīyat al-Wahhāb al-fāṣila bayna al-ḫaṭā’ wa-l-ṣawāb, che comprende
un’esposizione dettagliata dei principi e delle risposte atte a smentire
il trattato di Muḥammad Barzanǧī,20 allievo di Šayḫ Kurdī, poi confermato e approvato con i sigilli degli ‘ulamā’ dei quattro maḏhab del
paese degli Arabi. Il motivo dell’invidia è il manifestarsi in lui di conoscenze inusuali, che erano diffuse durante la prime due generazioni [di
musulmani], ma che dopo l’apparizione della terza furono celate dal velo
dell’occultamento per il bene degli uomini. Esse sono riapparse alla luce
del giorno a causa della pura argilla [della natura di Sirhindī], che era il
resto dell’argilla santa usata nella creazione del Signore della Missione
profetica [Muḥammad].21
Alla figura e alla funzione di Maẓhar quale custode e continuatore della
ṭarīqa (via, ordine) di Sirhindī, la ṭarīqa-yi aḥmadiyya, si fa anche diretto
riferimento nella seguente descrizione data dal coevo Šāh Walī Allāh nelle
sue lettere:
confermarono il giudizio degli ‘ulamā’ indiani e proibirono lo studio delle opere di Sirhindī.
Cf. sull’argomento Friedmann, Shaykh Aḥmad Sirhindī, 1971, 97; Rizvi, A History of Sufism,
1983, vol. ii, 340 e Shāh Walī Allāh, 1980, 323–324.
20. ‘Abd al-Rasūl Al-Barzanǧī (m. 1691) personalità di spicco del gruppo di sufi e
‘ulamā’ di Medina ostili a Aḥmad Sirhindī, scrisse un trattato di condanna delle tesi del
Muǧaddid intitolato Qadḥ al-zand wa qadaḥ al-rand fī radd ǧahālāt ahl al-Sirhind, in cui
venivano riconfermate le accuse degli ‘ulamā’ indiani.
21. Ġulām ‘Alī, Maqāmāt, 1993, 127–128.
giordani ∙ L’eredità di Aḥmad Sirhindī
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Soddisfazione dei musulmani in virtù delle sue benedizioni, custode
(qayyim) della ṭarīqa-yi aḥmadiyya, colui che ha irrigato il giardino della
via spirituale con l’attenzione spirituale (tawaǧǧuh) della sua anima pura,
amīn! Iddio potente ed eccelso, facendone a lungo il custode della ṭarīqa
e il nunzio della sunna profetica, ha riversato sui musulmani ogni sorta
di vantaggi e benefici. Iddio potente ed eccelso, preservando a lungo il
custode della ṭarīqa-yi aḥmadiyya in particolare, e della via sufi in generale, e manifestando in lui ogni genere di virtù e favori, ha aperto le porte
delle benedizioni all’umanità intera.22
Con queste parole lo stesso Mīrzā Maẓhar descrive simbolicamente il proprio rapporto con l’impronta dottrinale lasciata da Sirhindī:
Dove il Profeta di Dio ha posto il piede, là Ḥaḍrat-i Ṣiddīq-i Akbar23 ha
posto la testa, dove Ḥaḍrat-i Ṣiddīq-i Akbar ha posto il piede, là Ḥaḍrat-i
Muǧaddid [Aḥmad Sirhindī] ha posto la testa e dove Ḥaḍrat-i Muǧaddid
ha posto il piede, là ha posto la testa questo faqīr, ossia in questa ṭarīqa
questo faqīr non ha introdotto alcun mutamento, tranne che per due
aspetti.24
Nelle sue lettere Maẓhar si dimostrò un deciso difensore della dottrina sirhindiana dell’Unicità della visione (Waḥdat al-šuhūd) dalle critiche dei
sostenitori della dottrina dell’Unicità dell’essere (Waḥdat al-wuǧūd), l’altra
grande corrente di pensiero sufi ispirata all’opera di Ibn ‘Arabī (m. 1240,
Damasco). La differenza tra i due punti di vista risiede nel diverso modo di
vedere il rapporto tra il mondo divino e il mondo creato, tra la vera realtà dell’Essere Necessario e il valore attribuito all’essere contingente. Per i
sostenitori della Waḥdat al-wuǧūd esiste un unico Essere, e il Creato non
è altro che una manifestazione di questo unico Essere. Secondo Sirhindī
invece il rapporto è differente, in quanto tra i due mondi non c’è continui-
22. Ġulām ‘Alī, Maqāmāt, 1993, 40–41.
23. Abū Bakr al-Ṣiddīq (m. 634) intimo amico di Muḥammad e primo califfo dell’Islam. Abū Bakr è una figura particolarmente importante per i naqšbandī poiché
cosntituisce il primo anello di trasmissione della silsila, la catena della successione spirituale naqšbandī, che origina da Muḥammad e alla quale si ricollegano i maestri dell’ordine.
Sirhindī reclamerà per sé in varie occasioni il grado spirituale della Ṣiddīqiyya, quale grado
massimo di perfezione spirituale, il più prossimo al rango della Profezia.
24. Ġulām ‘Alī, Maqāmāt, 1993, 86. I due aspetti a cui Mīrzā Maẓhar fa riferimento
riguardano due semplici dettagli della pratica rituale del tawaǧǧuh.
168 riss iI, 2007 ∙ articoli
tà: il mondo contingente non è altro che non-essere sul quale sono caduti i
riflessi dei Nomi e degli Attributi divini, e può essere rappresentato come
un’esistenza riflessa, un’ombra del Vero (wuǧūd-i ẓill). Le tesi di Sirhindī
diedero adito ad una serie di critiche provenienti dagli ambienti stessi del
sufismo.25 Così Maẓhar descrive ancora l’assai dibattuta questione delle critiche mosse contro Sirhindī:
La causa principale che ha fatto sorgere questa sedizione (fiṭna) [contro
Aḥmad Sirhindī] è l’aver negato il tawḥīd-i wuǧūdī ed aver affermato il
tawḥīd-i šuhūdī, perché da quattrocento anni, cioè dall’epoca di Ibn ‘Arabī
fino all’epoca benedetta del Muǧaddid [Aḥmad Sirhindī], le orecchie e le
menti della gente erano occupate dal problema della Waḥdat-i wuǧūd. Ma
la critica di Ḥaḍrat-i Muǧaddid del tawḥīd-i wuǧūdī non è come quella dei
sapienti dell’esteriore, anzi egli accetta e riconosce l’autenticità del grado
spirituale (maqām) di cui parlano i sufi wuǧūdiyya, al punto da affermare,
poi, che il fine vero da ricercare è oltre questo maqām.26
In un passo sul significato che ha presso i sufi la parola nisbat, Mīrzā Maẓhar
descrive le differenze sostanziali tra le dottrine della Waḥdat al-wuǧūd e
della Waḥdat al-šuhūd:
Avete domandato quale sia il significato della parola nisbat nell’accezione dei
sufi. Sappiate che, nella lingua degli Arabi, nisbat esprime la connessione tra
due parti, e nel linguaggio particolare degli iniziati (iṣṭilāḥ), si deve intendere il rapporto che esiste tra il Vero — grande è la Sua Magnificenza — e il
creato. Nel caso dei teologi, essi interpretano tale rapporto come quello che
intercorre tra l’artefice e l’opera creata, come nella relazione del vasaio con
il vasellame, ed è proprio questo il senso che si deduce in modo chiaro dal
Libro sacro e dalla Sunna. Quanto ai sufi, se sono wuǧūdiyya, il significato
che danno alla nisbat è il manifestarsi dell’Unità nella molteplicità, che è
simile al manifestarsi dell’acqua in forma di onde e schiuma, e dicono che
questa molteplicità non è da considerarsi distinta dall’insieme della vera
unità dell’acqua. Il risultato di tale interpretazione è l’affermare l’identità del
mondo creato (ḥalq) con il Vero (ḥaqq) ed essi elaborano questo significato
25. Sulla questione della differenza tra i due punti di vista dottrinali cf. Sirhindī,
Maktūbāt, 1977, in particolare lettera n. 1, vol. ii; Friedmann, Shaykh Aḥmad Sirhindī, 1971,
59–68; Ansari, Sufism, 1986, 101–119, Ter Haar, Follower, 1992, 119 e sgg.
26. Ġulām ‘Alī, Maqāmāt, 1993, 128–129.
giordani ∙ L’eredità di Aḥmad Sirhindī
169
in base ad interpretazioni esoteriche (ta’wīlāt) e similitudini (consentite)
dalla legge e dalla ragione. Se invece sono šuhūdiyya, affermano che la nisbat
è la relazione del Principio con l’ombra, che è come la relazione che intercorre tra le luci irradiate dal sole e il sole stesso. In questo caso l’ombra ha il
senso della manifestazione (taǧallī), cioè l’apparire di una cosa al secondo
grado. Ma questa molteplicità d’ombra non può esistere nel luogo stesso
della vera unità del sole, talmente grande è la differenza tra loro. Il rapporto tra la prima e la seconda delle spiegazioni è che, non avendo l’ombra
altra realtà diversa dal suo Principio, è il Principio stesso che, manifestandosi al secondo grado, appare come ombra; ma non è esatto vedervi una
continuità (muwāṭāt) tra l’uno e l’altra, come lo è invece per le onde ed il
mare. Quindi gli šuhūdiyya in questa interpretazione affermano l’aspetto
dell’alterità (ġayriyyat), in modo da non ledere l’Unicità dell’Essere Vero
(tawḥīd-i wuǧūd-i ḥaqīqī). Questo significato si può dedurre facilmente dal
Libro sacro e dalla Sunna, mentre l’illustrazione del senso della nisbat del
primo caso si deve cercare nei libri dei sufi wuǧūdiyya.27
Mīrzā Maẓhar fu anche erede e difensore dell’insegnamento di Sirhindī
concernente la legge religiosa. È a proposito di un dettaglio del rituale della
preghiera canonica che si rivela la fedeltà di Maẓhar alle tesi del maestro di
Sirhind. Maẓhar dedica una lettera importante, la quindicesima, alla difesa
della tesi di Sirhindī secondo la quale alzare per un istante il dito indice
nella recitazione delle taḥiyyāt durante il ǧulūs, la fase conclusiva della preghiera canonica, nell’istante in cui si pronuncia la formula di attestazione
dell’Unicità divina (ašhadu an lā ilāha illā Allāh), era un atto non confermato dalla tradizione profetica (sunna), per cui tale consuetudine non doveva
essere considerata valida. L’opinione di Sirhindī si opponeva a lettere e trattati scritti in sostegno di tale pratica e al parere prevalente tra i dotti giuristi
della scuola ḥanafita, la stessa scuola di Sirhindī, Maẓhar e dei Naqšbandī in
generale. Tuttavia l’opinione espressa da Sirhindī era frutto di un personale
sforzo interpretativo delle fonti (iǧtihād) ed egli, in quanto muǧtahid (ovvero colui che opera l’iǧtihād), aveva espresso un parere contrario a quello
di un muǧtahid precedente.28 Si trattava dunque di un giudizio legale e non
27. Ġulām ‘Alī, Maqāmāt, 1993, 124–125.
28. Ġulām ‘Alī, Maqāmāt, 1993, 140. La lettera in cui Sirhindī espone questa opinione
legale è la n. 312 del volume i, inviata a Mīr Muḥammad Nu‘mān. Il parere di Sirhindī
è motivato anche dai numerosi pareri discordanti su tale questione; sull’indecisione dei
giuristi egli fa prevalere il principio giuridico secondo cui nella preghiera canonica è fondamentale l’immobilità e la solennità; cf. Sirhindī, Maktūbāt, 1977, vol. i, 658–662.
170 riss iI, 2007 ∙ articoli
del risultato di un “svelamento intuitivo” (kašf ) proprio della conoscenza
sufi. Scrive Maẓhar al termine della lettera:
Se si dicesse che l’insoddisfazione del Signore della Missione profetica
(Muḥammad) — la benedizione sia su di lui — si era manifestata durante
uno svelamento intuitivo (kašf) in cui aveva ordinato di abbandonare questa pratica, rispondo che lo svelamento intuitivo riguarda le questioni della
via spirituale (ṭarīqa), ma che per i decreti della legge religiosa (šarī‘a) non
costituisce alcuna prova. Nonostante ciò, in quella lettera, il Muǧaddid
[Sirhindī] non aveva basato la sua argomentazione su alcuno svelamento
intuitivo.29
Mīrzā Maẓhar e l’Induismo
Come altri sufi indiani di diverse epoche, Maẓhar è noto per il suo atteggiamento di rispetto verso i credenti delle altre religioni e nei confronti delle
dottrine esoteriche dell’Induismo. A Delhi visse per quasi tutta la sua vita
all’ultimo piano di una casa vicino alla Ǧāmi‘ Masǧid di proprietà di un
negoziante indù. Un giorno qualcuno gli domandò se la religione degli indù
era da considerarsi come quella degli infedeli dell’Arabia preislamica, e se
questa religione avesse un origine divina o se fosse stata abrogata (mansūḫ),
e quale dovesse essere l’atteggiamento dei musulmani nei confronti degli
antichi saggi indù. La risposta a queste domande è contenuta nella lettera n.
14, riportata in appendice alla biografia di Ġulām ‘Alī, di cui si dà di seguito
la traduzione integrale.
Sappiate che da quel che si apprende dai libri antichi degli indù, la
Misericordia divina, all’epoca della genesi della specie umana, per guidarla nella perfezione della vita di questo mondo e dell’altro, ha inviato
un Libro chiamato Veda (bīd), composto di quattro parti, che contiene
prescrizioni e proibizioni, notizie sul passato e sul futuro, per mezzo di
un angelo chiamato Brahma, che è anche strumento della creazione del
mondo.
I saggi antichi degli indù hanno fatto derivare da questo libro sei
sistemi (maḏhab) su cui hanno edificato i principi della loro fede. Essi
chiamano Dharma Śāstra (dahram šāyastar) la disciplina delle credenze
29. Ġulām ‘Alī, Maqāmāt, 1993, 140.
giordani ∙ L’eredità di Aḥmad Sirhindī
171
religiose (fann-i imāniyyāt) che è la scienza del “discorso teologico” (‘ilmi kalām). Gli esseri umani sono stati divisi in quattro gruppi e gli antichi
saggi hanno fatto derivare da quel libro quattro vie diverse (maslak),
hanno fissato per ogni gruppo una di queste vie come base per le loro
azioni e come regola di condotta, e questa scienza viene chiamata Karma
Śāstra (karma šāyastar), ovvero l’arte delle opere (fann-i ‘amaliyyāt), che
corrisponde al sapere giuridico (‘ilm-i fiqh).
Poiché i saggi antichi degli indù negano l’abrogazione delle leggi
divine (ma secondo il giudizio della ragione, per adeguarsi alla natura
delle genti di ogni tempo ed epoca, è necessario che le prescrizioni cambino), hanno diviso la durata del mondo in quattro parti — ognuna di esse
è chiamata Yuga (ǧug) — , e hanno stabilito per la gente di ogni Yuga un
codice di comportamento derivato dai Veda. Tutte le interpolazioni che
i successori di quei saggi hanno tentato di operare sono del tutto prive di
attendibilità.
Tutte queste sette di indù sono concordi nel proclamare l’Unicità del
Creatore (tawḥīd-i Bārī) — sia esaltato! — , considerano il mondo creato
e credono nel suo annientamento finale, nella retribuzione degli atti
buoni o cattivi, nella Resurrezione e nel Giudizio finale (ḥašr wa ḥisāb).
I loro sapienti sono molto versati nelle scienze razionali e tradizionali,
nelle pratiche dell’ascesi, nello studio della gnosi e nelle conoscenze che
si ottengono mediante lo svelamento intuitivo (mukāšafāt). Essi hanno
diviso la durata della vita dell’uomo in quattro periodi: nel primo si dedicano ad acquisire le scienze, nel secondo a procurarsi i beni mondani e a
allevare i figli, nel terzo a perfezionare le opere e a conseguire il dominio
di sé, e nel quarto si esercitano al distacco e all’isolamento dal mondo, che
rappresentano il culmine della perfezione umana, dalla quale dipende la
salvezza massima […].
Le norme e le regole dell’Induismo sono state disposte in un ordine
preciso; da questo si comprende che esso era una religione perfezionata e
che poi è stata abrogata. Nella šarī‘a oltre all’abrogazione delle religioni
ebraica e cristiana, non si fa menzione dell’abrogazione di altre religioni,
sebbene nel corso del tempo ne siano state abrogate molte altre. Sappiate che i nobili versetti: «E non v’è nazione in cui non sia stato già un
Ammonitore in antico» (Corano xxxv:24), «Per ogni comunità vi è un
messaggero divino» (Corano x:47) e altri versetti simili, stanno a dimostrare che anche in India sono stati mandati Profeti e Inviati — su di loro
la Pace. Nei libri degli antichi saggi indù ci sono notizie che li riguardano
e dalle loro tradizioni sembra chiaro che detenessero un grado di perfezione elevato.
172 riss iI, 2007 ∙ articoli
La Misericordia divina universale non trascurò di provvedere al benessere degli uomini in un regno così vasto. Prima dell’arrivo del Sigillo degli
Inviati — Iddio lo benedica e gli dia la Pace — a ogni nazione fu inviato un
messaggero e ogni popolo era tenuto a seguire e sottomettersi a quel messaggero, e a non seguire il profeta di un’altra comunità. Ma dopo la comparsa
del nostro Profeta, che è il Sigillo degli Inviati — Iddio lo benedica e gli dia
la Pace — che è stato inviato a tutto il genere umano, la sua religione ha
abrogato tutte le altre, da Oriente a Occidente. Fino alla fine dei tempi a
nessuno rimane altra possibilità che quella di ubbidirgli. Perciò dall’inizio
della sua missione fino a oggi, l’anno 1180 dell’ègira, chi non ha creduto in
lui è un miscredente (kāfir), mentre non lo sono coloro che vissero prima di
lui. Poiché la Legge, in virtù del nobile versetto: «E già prima di te inviammo
Messaggeri: di alcuni narrammo a te la storia, di altri nulla narrammo»
(Corano xl:78), tace riguardo alla condizione della maggior parte dei profeti, sui profeti dell’India è preferibile rimanere in silenzio. Non dovremmo
giudicarli definitivamente accusandoli di miscredenza, né condannare i loro
seguaci alla perdizione, né avere la certezza della loro salvezza, ma mantenere una “buona opinione” (ḥusn-i ẓann) secondo una pratica assodata, a
condizione che non ci sia di mezzo l’intolleranza (ta‘aṣṣob). È questo l’atteggiamento migliore anche nei riguardi dei persiani e nei riguardi delle genti
di tutti i paesi, vissute prima dell’avvento del Sigillo degli Inviati, al riguardo
delle quali la Legge non parla. Le loro prescrizioni legali e le loro tradizioni
sono conformi e in accordo con la via della moderazione. Senza nessuna
prova sicura nessuno dovrebbe essere facilmente chiamato miscredente.
La verità profonda (ḥaqīqat) dell’adorazione degli idoli degli indù
è questa: vi sono alcuni angeli che per ordine divino hanno facoltà di
governare il mondo della generazione e della corruzione (ālam-i kawn
wa fasād); o degli spiriti perfetti che, dopo aver abbandonato i loro corpi,
continuano a esercitare la loro influenza su questo piano dell’essere; o
esseri viventi che, secondo le loro convinzioni, hanno vita eterna, proprio
come Ḥaḍrat-i Ḫiḍr.30
Gli indù realizzano immagini di questi esseri e concentrano su di esse
la loro attenzione spirituale. Grazie a questa concentrazione (tawaǧǧuh),
30. Nel sufismo al-Ḫiḍr è considerato il detentore di una sapienza segreta proveniente direttamente da Dio e svolge la funzione di guida e di iniziatore spirituale. Nel
Corano, nel racconto della sura della Caverna (xviii: 59–81), è l’istruttore spirituale del
profeta Mosè. Su al-Ḫiḍr e la tradizione indiana cf. Coomaraswami, “Khwāja Khādir”, 1970,
vol. iv, n. 4. Sul rapporto e le analogie simboliche fra al-Ḫiḍr e Gorakhnath, e tra Al-Ḫiḍr
e Matsyendranath, cf. Grossato, “Elia/Al-Khidr”, 2004, 155–173.
giordani ∙ L’eredità di Aḥmad Sirhindī
173
dopo un certo periodo, stabiliscono una relazione (munāsabat) con la
realtà dell’essere rappresentato da quella forma esteriore (be-ṣāḥib-i
ān ṣūrat); sulla base di questa relazione essi vedono esaudite le necessità della vita in questo mondo e nell’Altro. Ciò è simile alla tecnica del
ḏikr-i rābiṭa, abitualmente praticata dai sufi musulmani, che consiste
nel raffigurare (taṣawwur) mentalmente l’immagine del maestro, al fine
di ottenere l’effusione spirituale (fayḍhā) che promana da lui.31 L’unica
differenza è che i sufi non costruiscono alcuna immagine esteriore dello
Šayḫ.
Il significato di tale pratica non ha nulla a che fare con la credenza dei
miscredenti arabi, i quali dicevano che gli idoli erano potenti ed efficienti
di per sé, e non gli strumenti dell’agire divino. Gli arabi consideravano il
loro idolo il dio della terra, mentre dicevano che Iddio l’Altissimo (Ḫudāyi ta‘ālā) era il Dio dei cieli, e questo è politeismo (širk). Il costume indù
di prosternarsi dinanzi a queste immagini è una forma di saluto, che
non va inteso come un’adorazione, poiché essi sono soliti prosternarsi
in segno di saluto di fronte alla madre, al padre, alla guida spirituale e
al maestro, un’usanza che essi chiamano dandwat. Infine credere nella
trasmigrazione dell’anima non comporta la miscredenza.32
Mīrzā Maẓhar aveva manifestato lo stesso tipo di atteggiamento nei confronti dell’Induismo in un’occasione precedente, quando ancora faceva
parte della cerchia di Ḥaǧǧī Muḥammad Afḍal, uno dei suoi maestri più
importanti. Un giorno uno dei discepoli del maestro presenti nella ḥalqa (la
cerchia dei discepoli) raccontò ai presenti un sogno nel quale aveva avuto
la visione di un deserto pieno di fuoco; in mezzo alle fiamme disse di aver
visto Kṛṣṇa, mentre al bordo del fuoco c’era Rāma. Uno degli astanti disse
che ovviamente Kṛṣṇa e Rāma erano stati due miscredenti e per questo
erano tormentati nel fuoco dell’inferno. Maẓhar però diede un’altra interpretazione del sogno, approvata poi da Muḥammad Afḍal, e disse che non
era lecito chiamare miscredente qualcuno dei saggi antichi, senza che la
sua miscredenza fosse provata dalla Legge. Infatti, secondo il versetto: «E
non v’è nazione in cui già non sia stato un ammonitore in antico» (Corano
31. La via naqšbandī si fonda sul legame (nisba) maestro-discepolo creato dal
tawaǧǧuh, «l’orientazione del cuore del maestro verso il discepolo», alla quale corrisponde
simmetricamente «l’orientazione del cuore del discepolo verso il maestro», chiamata rābiṭa
al-šayḫ, il legame con lo šayḫ. Cf. sull’argomento Chodkiewicz, “Qualche aspetto delle tecniche spirituali”, 1996, 93.
32. Ġulām ‘Alī, Maqāmāt, 1993, 138–139.
174 riss iI, 2007 ∙ articoli
xxxv:24), non poteva essere escluso che essi fossero stati santi oppure addirittura profeti.
Rāma visse all’inizio della creazione dei ǧinn, in un’epoca in cui la vita
era lunga e la forza degli uomini era molta; egli insegnò alla gente di quel
periodo la via del cammino spirituale (nisbat-i sulūkī). Kṛṣṇa fu l’ultimo
di quei grandi santi. Rispetto al periodo precedente, la vita si era accorciata e le forze indebolite, quindi Kṛṣṇa guidò i suoi contemporanei lungo
la via dell’attrazione (nisbat-i ğaḏbī). L’eccessiva indulgenza nel canto e
nel samā‘ che si tramandano di lui, indicano il gusto (ḏawq) e il desiderio ardente (šawq) (che in lui erano predominanti) causati dall’attrazione
divina. Per questo, il calore della relazione del desiderio appassionato
(‘išq) e dell’amore (maḥabbat) è apparso nel sogno con l’immagine del
deserto di fuoco. Kṛṣṇa, che era sprofondato nella condizione dell’amore,
è apparso all’interno del fuoco, mentre Rāma che seguiva la via del sulūk,
è apparso ai bordi del fuoco. Ma Iddio è più sapiente.33
L’apertura di Mīrzā Maẓhar nei confronti degli indù non parrebbe un
tratto accostabile all’eredità sirhindiana. L’ammissione di Maẓhar dell’esistenza di profeti nella tradizione brahmanica e della natura divina
dei Veda, si presenta come un opinione giuridica (istiftā) chiara in cui la
condizione degli indù è distinta da quella degli idolatri (mušrikūn) dell’Arabia preislamica. Tale opinione parrebbe varcare il limite della rigida
ortodossia tracciato da Sirhindī, ed è forse l’indice di un atteggiamento
diverso, dovuto, secondo alcuni, alle mutate condizioni sociali del tempo
in cui Maẓhar visse.
È ben noto l’atteggiamento severo di Aḥmad Sirhindī verso i non
musulmani. Nelle sue lettere Sirhindī esortava i regnanti moghūl ad
adottare provvedimenti drastici nei confronti degli indù, incoraggiava il
sacrificio delle vacche e l’imposizione della tassa pro-capite (ǧizya), disposizioni abrogate durante il regno dell’imperatore Akbar (r. 1556–1601).
Valga come esempio di questa severità la risposta che Sirhindī scrisse a
33. Ġulām ‘Alī, Maqāmāt, 1993, 32. Sulūk e ǧaḏba sono due aspetti distinti, ma complementari della via naqšbandī. Il primo è il cammino del viandante (sālik) verso Dio, sulla
base di uno sforzo ascetico, attraverso le singole tappe del percorso iniziatico, e comporta
un atteggiamento attivo. Il secondo è l’attrazione divina dovuta a un puro favore divino, che
fa raggiungere immediatamente la meta finale del viaggio a colui che è attratto (maǧḏūb)
in modo passivo. Nella via naqšbandī, al contrario di molte delle vie iniziatiche islamiche,
la ǧaḏba precede il sulūk.
giordani ∙ L’eredità di Aḥmad Sirhindī
175
Hriday Rām, un dignitario indù che gli aveva inviato due lettere chiedendogli di essere iniziato all’ordine naqšbandī. In risposta Sirhindī aveva
riaffermato l’Unicità e la trascendenza del Dio unico, negando categoricamente la divinità di Kṛṣṇa e Rāma, che aveva definito umili creature
nati da esseri creati; ma soprattutto aveva rifiutato l’identificazione tra
Rāma e al-Raḥmān (il Misericordioso), proposta da Hriday Rām nelle sue
lettere, sostenendo, senza concedere nulla al dialogo interreligioso, che
il solo pensare ciò era follia pura, poiché il Creatore non è associabile in
alcun modo alla creatura.34
C’è tuttavia chi ha fatto notare come Sirhindī fosse più moderato negli
ultimi anni di vita, e che certi toni ostili sono contenuti principalmente
in alcune lettere del primo volume, inviate ai nobili della corte moghūl. È
probabile che Sirhindī in queste lettere intendesse mettere in cattiva luce
gli indù all’interno dell’amministrazione moghūl, piuttosto che combattere l’Induismo in quanto tale. Come già osservato da Friedmann, Sirhindī
contestava agli indù soprattutto la partecipazione al governo, e perciò egli
espresse la sua ostilità nelle lettere indirizzate a funzionari governativi che
avrebbero potuto liberare l’amministrazione dall’influenza di costoro. Al
contrario, i pochi riferimenti agli indù contenuti in lettere indirizzate ad
altri sufi sono relativamente equilibrati.35
Secondo il già menzionato Abū-l-Ḥasan Zayd Fārūqī, erede spirituale di
Maẓhar, figura ed autore di spicco della Naqšbandiyya–muǧaddidiyya della
seconda metà del secolo scorso, la posizione di Sirhindī si rifà alla distinzione legale vigente fra gli indù secondo la legge islamica. Secondo la legge
islamica i non musulmani che vivono sotto l’autorità dei musulmani sono
una categoria protetta (ḏimmī); quelli che si ribellano o che non aderiscono
in maniera completa alla condizione di sottomissione sono considerati
nemici (ḥarbī) da combattere.
La collera e la severità del venerabile Muǧaddid [Aḥmad Sirhindī] erano
rivolte verso gli indù che non avevano lo statuto di ḏimmī, ovvero che
non vivevano nello stato islamico e sotto la sua protezione, e che sono
indicati nel lessico tecnico dei giuristi con il termine ḥarbī […]. Che
problema c’è se il Muǧaddid ha dato prova di severità verso gli indù
che erano ḥarbī? Esiste uno Stato che non si mostri inflessibile verso
i suoi avversari, che lo combattono o che lo tradiscono? Il venerabile
34. Sirhindī, Maktūbāt, 1977, vol. i, lettera n. 167.
35. Friedmann, Shaykh Aḥmad Sirhindī, 1971, 75.
176 riss iI, 2007 ∙ articoli
Muǧaddid non ha mostrato odio verso tutti gli indù, né ha insegnato un
tale odio.36
Sirhindī descrive più precisamente la propria opinione riguardo alla spiritualità degli indù in una lettera del terzo volume indirizzata a Mīrzā
Ḥusāmuddīn Aḥmad:
Ho visto molti indù e miscredenti venire colti dall’attrazione divina
(ǧaḏba), ma non essendo adorni dell’essere seguaci del Signore della Legge
divina (Muḥammad), tutto quello che ottenevano non era altro che la
forma dell’attrazione, e la loro condizione spirituale era rovinata e incompiuta. Se qualcuno dicesse: «Il conseguimento dell’attrazione richiede in
un certo qual modo la condizione dell’essere amati (da Dio, maḥbūbiyyat);
com’è dunque possibile, nel caso dei miscredenti (kuffār), che sono i nemici
di Dio, che esista un’opportunità per l’attrazione?», risponderei che nelle
realtà interiori dei miscredenti vi può essere qualcosa che assomiglia alla
condizione dell’essere amato (da Dio), che può essere causa del raggiungimento dell’attrazione divina; ma non essendo adorni dell’essere seguaci del
Signore della Legge divina [il profeta Muḥammad] essi restano smarriti e
abbandonati. Questa attrazione è semplicemente una prova che li avverte
delle loro vere capacità, che per l’ignoranza e l’ostinazione di costoro non
usciranno mai dalla potenzialità all’atto. «Non è stato Iddio a causar loro
del male, sono loro a far del male a se stessi» (Corano iii:117).37
Non sarebbe improbabile ritrovare lo stesso tipo di affermazioni negli scritti
di Maẓhar. In un passaggio della sua biografia in cui esprime il suo pensiero
sulla legittimità dell’audizione mistica (samā‘) e sulle tecniche dell’estasi,
afferma infatti che la fedeltà al Corano e alla sunna è infinitamente superiore, dal punto di vista della realizzazione spirituale, al manifestarsi di stati
mistici, ai quali hanno accesso anche gli indù:
Stati ed eventi spirituali provocati da mezzi non precisati dalla Legge
per questo faqīr sono una trappola dell’astuzia divina (istidrāǧ ); anche
gli sviati conoscono estasi e assaporano gusti iniziatici, anche i sapienti
greci (ḥukamā-yi yūnān) e i bramani indù hanno accesso ai misteri del
36. Fārūqī, Hazrat Mujaddid, 1982, 311–312; cf. anche Gaborieau, “Les Protestations”,
1990, 260–261.
37. Sirhindī, Maktūbāt, 1977, vol. iii, lettera n. 121, tomo ii, 559.
giordani ∙ L’eredità di Aḥmad Sirhindī
177
tawḥīd, all’intuizione e alla visione diretta, che si manifestano negli
specchi delle forme del mondo, ma il segno dell’autenticità è il conformarsi agli insegnamenti della šarī‘at, evitando ciò che è proibito e
dubbio.38
Per Maẓhar, come per Sirhindī, la via spirituale (ṭarīqa) è l’ancella della
Legge rivelata (šarī‘a); come scrive quest’ultimo: «Gli uomini perfetti ricercano la Verità tenendosi fermi nella Legge».39 Lo stretto rapporto della via
spirituale con la šarī‘at costituisce un principio cardine dell’insegnamento
naqšbandī ed è sulla base di questo stesso principio che i due sufi concordano nel valutare gli stati mistici degli indù. In conclusione e in vista di studi
futuri diremo pertanto che, al fine di giungere a un’approfondita comprensione delle tesi sull’induismo di Mīrzā Maẓhar Ğān-i Ǧanān, è opportuno
tenere conto anche dell’innegabile continuità tra il suo pensiero e quello di
Aḥmad Sirhindī.
38. Ġulām ‘Alī, Maqāmāt, 1993, 64–65.
39. Sirhindī, Maktūbāt, 1977, vol. i, lettera n. 43, 114.
178 riss iI, 2007 ∙ articoli
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