MAZZOTTA, F. Il culto dell’amore misericordioso: un nuovo modo di riproporre il culto al s. Cuore di Gesù nei tempi moderni? Dehoniana 2008, 69-89 Per la citazione: DEH2008-06-IT Il culto dell’amore misericordioso: un nuovo modo di riproporre il culto al s. Cuore di Gesù nei tempi odierni? Francesco Giuseppe Mazzotta, scj INTRODUZIONE 1 Nella lettera al Generale della Compagnia di Gesù, in occasione del 50° anniversario dell’enciclica Haurietis aquas di Pio XII sul culto al s. Cuore di Gesù, il papa Benedetto XVI afferma che il contenuto di ogni vera spiritualità e devozione cristiana, non soltanto il culto e la devozione al Sacro Cuore di Gesù, è l’amore di Dio per noi, per cui «il fondamento di questa devozione è antico come il cristianesimo stesso. Infatti, essere cristiano è possibile soltanto con lo sguardo rivolto alla Croce del nostro Redentore, “a Colui che hanno trafitto” (Gv 19,37; cfr Zc 12,10). A ragione – continua il Papa – l’Enciclica Haurietis aquas ricorda che la ferita del costato e quelle lasciate dai chiodi sono state per innumerevoli anime i segni di un amore che ha informato sempre più incisivamente la loro vita (cfr n. 52)»1. 2 Di fatto, però, se l’attuale Pontefice ha aperto il suo pontificato con un’enciclica sull’amore2 e conclude la lettera al Generale dei Gesuiti augurando «che la ricorrenza cinquantenaria [dell’Haurietis aquas] valga a stimolare in tanti cuori una risposta sempre più fervida all’amore del Cuore di Cristo»3, è innegabile che oggi si continui 1 BENEDETTO XVI, Lettera al Preposito generale della Compagnia di Gesù in occasione del 50° anniversario dell’enciclica Haurietis Aquas, Città del Vaticano 15/05/2006. 2 BENEDETTO XVI, Enciclica Deus caritas est, Città del Vaticano 25/12/2005. 3 BENEDETTO XVI, Lettera al Preposito generale della Compagnia di Gesù in occasione del 50° anniversario dell’enciclica Haurietis Aquas, op. cit. © Copyright riservato Centro Studi Dehoniani Roma – Sacerdoti Sacro Cuore di Gesù. Consentita la riproduzione integrale in fotocopia e libera circolazione senza fine di lucro. È vietato il plagio e la copiatura integrale o parziale di testi e disegni a firma degli autori – a qualunque fine – senza citare la fonte (Repubblica italiana, legge 18/08/2000 nº 248). Dehoniana a respirare una generale allergia verso il culto al Cuore di Gesù, come faceva notare già Carminati alla fine degli anni ’704, se non addirittura un diffuso disinteresse. 3 Invece, dalla pubblicazione della seconda enciclica del pontificato di Giovanni Paolo II, la Dives in misericordia dell’30/11/1980, a cui fece seguito prima la beatificazione il 18/04/1993 e poi la canonizzazione il 30/04/2000 della suora polacca Maria Faustina Kowalska, con l’estensione a tutta la chiesa della celebrazione della festa della divina misericordia la seconda domenica di Pasqua, il culto all’amore misericordioso ha avuto un’incredibile ripercussione sui fedeli e l’icona di Gesù con due raggi, uno rosso e l’altro pallido, che scaturiscono dal suo petto, secondo la visione avuta dalla Santa 5, ha avuto una notevole diffusione. 4 Si potrebbe pensare, dunque,che il culto dell’amore misericordioso stia oggi semplicemente prendendo il posto nel cuore dei fedeli del culto al s. Cuore di Gesù, sicuramente molto sentito fino almeno alla celebrazione del Concilio Vaticano II, e che fra i due ci sia una sostanziale equivalenza. 5 Per comprendere se questa equivalenza sia vera, occorre analizzare i fondamenti biblico-teologici dei due culti, esaminando alcuni segni e concetti che si trovano alla loro base. 1. IL COSTATO TRAFITTO 6 Il versetto di Giovanni sul costato trafitto di Gesù da cui «scaturì sangue e acqua» (Gv 19,34) ha sempre destato fin dall’antichità cristiana delle profonde risonanze nella Tradizione: all’inizio nei Padri della chiesa, poi più specialmente nella teologia e nella spiritualità del Cuore di Cristo dal Medioevo e ora in epoca contemporanea nella teologia e nella spiritualità dell’amore misericordioso. Procedere, dunque, dall’analisi di questo versetto appare fondamentale e indispensabile, sebbene in esso non appaia né la parola cuore, né la parola misericordia. D’altra parte, l’immagine del Gesù di Maria Faustina Kowalska lo evoca in maniera inequivocabile, mentre la spiritualità del cuore di Cristo insiste sull’«apertura» del costato che carica di poesia e di simbolismo, sebbene non si possa dimenticare che questo tema risale ad Agostino6, il quale si appoggiava sulla traduzione imprecisa della Volgata, che usa aperuit, aprì, mentre secondo il greco, bisogna dire che il soldato con la sua lancia énuxen, colpì, il costato di Gesù7. 4 Cf A. CARMINATI, È venuto nell’acqua e nel sangue. Riflessione biblico-patristica, Bologna 1979, pp. 11-17; Cf pure I. DE LA POTTERIE, Studi di cristologia giovannea, Genova 1992, p. 170. 5 Cf M. F. KOWALSKA, Diario. La misericordia divina nella mia anima, Città del Vaticano 2006, pp. 74-75. 6 Cf AGOSTINO, In Iohannis evangelium tractatus, in CLCLT cl. 0278, tract 120, par. 2, linea 2; par. 3, linea 18. 7 Rendono correttamente l’idea varie traduzioni della Vetus latina: percussit, perfodit, pupugit. 2 Dehoniana 7 Il versetto di Gv 19,34, però, solleva innanzitutto problemi di ordine esegetico e teologico. Circa i problemi esegetici, occorre richiamare la problematica sollevata da Bultmann, secondo il quale, nella teologia di Giovanni, la morte di Gesù non ha più il senso che aveva nella prima tradizione cristiana. Precedentemente, si interpretava la sua morte come un sacrificio espiatorio per i nostri peccati (cf Rm 3,25; Eb 7,27), mentre, secondo gli scritti giovannei, invece, Gesù nella sua morte è il rivelatore. Di conseguenza, Gv 19,34 e gli altri passi in cui si parla del sangue di Cristo, vittima di espiazione per i nostri peccati, devono essere considerati come delle interpolazioni posteriori, perché l’idea di sacrificio espiatorio è estranea al pensiero di Giovanni 8. Questa posizione, sebbene inaccettabile, mette però in evidenza che la teologia giovannea è fondamentalmente una teologia di rivelazione anche durante il racconto della Passione. La questione reale allora è quella di sapere se una teologia della rivelazione e una teologia del sacrificio necessariamente debbano escludersi. 8 Fra gli esegeti contemporanei, sembra poi esserci smarrimento nell’interpretazione del sangue e dell’acqua. Schnackenburg dice che il passo deve essere interpretato alla luce di quello di Gv 7,37-39, ma in esso si parla soltanto dell’acqua viva che sgorga dal seno di Gesù. Se però si vuole distinguere di più, egli suggerisce che sia lecito pensare che il sangue sia segno della morte salvifica di Gesù (cf 1Gv 1,7) e l’acqua un simbolo dello Spirito e della vita 9. 9 Anche ai giorni nostri si ritrova l’esegesi sacramentale che era corrente all’epoca patristica: l’acqua e il sangue simboleggiano il battesimo e l’eucaristia, ma l’ordine inverso delle parole, «sangue e acqua», è una seria difficoltà contro questa interpretazione che richiederebbe piuttosto che si leggesse «acqua e sangue», come alcuni testimoni propongono10. 10 Alcuni autori si sforzano di precisare ulteriormente il simbolismo del sangue. Viene proposto di vedere nel sangue del costato trafitto un’allusione al sangue dell’agnello pasquale11, ma questa spiegazione potrebbe non essere del tutto convincente, perché il riferimento all’agnello pasquale è sicuro per le gambe non spezzate di Gesù, ma, per il sangue che esce dal costato, l’immagine nel caso dell’agnello pasquale è del tutto differente, giacché, secondo Es 12,13, gli Israeliti dovevano prendere il sangue dell’agnello e metterlo sugli stipiti delle porte per sfuggire all’angelo sterminatore: e qui apparentemente non si fa cenno al sangue che esce dall’agnello. 8 Cf R. BULTMANN, Teologia del Nuovo Testamento, Brescia 1985, 391-400. Cf R. SCHNACKENBURG, Das Johannesevangelium, III, Freiburg 1975, pp. 344-345. 10 Nella nota relativa al versetto di Gv 19,34, la Bibbia di Gerusalemme dice: «Non senza fondamento, molti padri hanno visto nell’acqua il simbolo del battesimo, nel sangue quello dell’eucaristia e in questi due sacramenti il segno della chiesa, nuova Eva che nasce dal nuovo Adamo (cf Ef 5,23-32). 11 Cf S. CIPRIANI, Il sangue di Cristo in S. Giovanni, in AA.VV., Sangue e antropologia biblica, I/2, Roma 1981, pp. 721-737; S. LYONNET, Il sangue della trafittura di Gesù: Gv 19,34ss., in Ibidem, pp. 739-743. 9 3 Dehoniana 11 Un’altra interpretazione, infine, afferma che «il sangue che esce dal costato di Gesù figura la sua morte che egli accetta per salvare l’umanità»12, quindi il sangue sarebbe segno della morte accettata dal Gesù morto quando era ancora in vita. 12 Dal punto di vista teologico, c’è, invece, da considerare il problema del disconoscimento della nozione di sacrificio espiatorio, che porta a vedere la morte di Gesù non in questa chiave13. 13 Per quanto si possa dire, però, è innegabile che per l’evangelista Giovanni la visione del costato trafitto costituisce una delle sue visioni supreme, a cui egli dà un grandissimo risalto: «Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera ed egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate» (Gv 19,35). 14 Una insistenza così marcata sulla verità della propria testimonianza e il richiamo a quella di Cristo risorto14 non avrebbero senso, se per Giovanni il fuoriuscire dell’acqua e del sangue dal costato di Cristo non rappresentassero uno dei più grandi prodigi, se non il più grande, del mistero della salvezza, un prodigio rimarcato dall’adempimento di due scritture15: «Non gli sarà spezzato alcun osso» (Es 12,46) e «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Zc 12, 10). Questo indica che la trafittura del costato non fu dovuta a circostanze fortuite, ma che essa era stata progettata da Dio con cura e preannunziata nell’AT. 15 Con la prima citazione, Giovanni richiama il rituale relativo alla consumazione dell’agnello pasquale che si deve mangiare in una sola casa, senza portarne fuori la carne. Un divieto “strano”, ma che ci ricorda quanto veniva fatto in alcuni paesi, almeno dell’Italia meridionale, fino a qualche decennio fa: si uccideva il maiale 16, ci si confezionavano i vari salumi e poi, perché non venisse sprecato nulla, le parti meno nobili, che non si potevano conservare, venivano suddivise fra parenti e amici, perché ognuno le potesse consumare a casa propria. In questo modo, ognuno mangiava dell’unico animale, ma per conto proprio. Il divieto di portare fuori casa la carne dell’unico agnello, allora, intende evitare che succeda qualcosa di simile, perché quell’agnello ha un significato particolare: è l’agnello della comunione, una comunione che deve unire strettamente i membri della stessa famiglia. Richiamando Es 12,46, Giovanni vuole evidenziare, dunque, il carattere pasquale della trasfissione e la sua funzione di garantire l’unità dei partecipanti 17. 12 J. MATEOS-J. BARRETO, Il vangelo di Giovanni. Analisi linguistica e commento esegetico, Assisi (PG) 1982, p. 778. 13 Cf le opere di R. GIRARD, La violence et le Sacré, Paris 1972; Des choses cache depuis la fondation du monde, Paris 1978. 14 Cf Bibbia TOB, nota p. 15 Per una lettura scientifica dell’avvenimento, cf L. COPPINI – F. CAVAZZUTI (a cura di), La Sindone, scienza e fede, Bologna 1983, pp. 251-252. 16 Cf F. SANSALONE, L’uccisione del maiale nella tradizione paesana. Una vera e propria cerimonia accompagnava questo rito che avveniva una volta l’anno in quasi tutte le famiglie calabresi, in La voce del Savuto, Febbraio 2000. 17 Cf A. CARMINATI, È venuto nell’acqua e nel sangue. Riflessione biblico-patristica, op. cit., pp. 20-21. 4 Dehoniana 16 Questo intento può essere confermato, ricordando innanzitutto che, all’inizio del suo Vangelo, Giovanni fa dire a Giovanni Battista che vede venire Gesù verso di lui «Ecco l’agnello di Dio» (Gv 1,29) e sempre Giovanni vede morire Gesù in croce, mentre nel tempio di Gerusalemme venivano sacrificati gli agnelli da mangiare durante la celebrazione della pasqua, giacché «era il giorno della Parasceve» (Gv 19,31). Questo significa che Gesù in croce è da considerare il vero agnello, segno e strumento, cioè sacramento vero, di unità18. E anche il simbolismo dell’acqua, che è segno dello Spirito Santo (cf Gv 7,37-39), ci spinge a rafforzare la convinzione che, nel simbolismo della trasfissione, Giovanni veda innanzitutto l’intento di garantire l’unità. 17 La seconda citazione, «volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Zc 12,10), ci porta a ritenere che Giovanni non si stupisca per il mancato spezzamento delle gambe, come potrebbe far pensare il precedente richiamo a Es 12,46, ma per la trasfissione vera e propria dell’unigenito e del primogenito annunciata da Zaccaria circa verso il 315 a.C. per i tempi futuri. Giovanni ravvisa in Gesù il Trafitto unigenito (Gv 1,18) e primogenito (Col 1,15) annunziato dal profeta (Zc 12,10). E la trasfissione dell’Inviato di Dio è il punto di partenza della conversione (cf Zc 12,10; Is 53,11), perché fa zampillare una sorgente per la casa di Davide, per lavare il peccato e l’impurità (cf Zc 13,1; Is 53,10-12; Ez 36,25-27). 2. IL SANGUE 18 L’acqua e il sangue che scaturiscono dal costato di Cristo sono da sempre al centro della riflessione teologica sul s. Cuore di Gesù19 e sono il costitutivo inequivocabile dei raggi rappresentati nell’immagine del Gesù di suor Faustina Kowalska. 19 Il sangue che sgorga dal costato trafitto di Cristo è innanzitutto il sangue della nuova alleanza (cf Lc 22,20; 1Cor 11,25; Eb 12,24), compimento di quella antica stabilita al Sinai, proposta da Dio al popolo di Israele (Es 19,5) e ideata come comunione di vita che trova il suo più adeguato termine di confronto nel fidanzamento e nelle nozze (cf Es 16,8.60; Ger 2,2), nel rapporto padre-figlio (Es 4,22ss.; Os 11,1; Dt 1,31; 14,1; 32,6; Is 63,16; Ger 31,9; Mal 2,10; Sap 18,13), nel vincolo che unisce un sacerdote al suo Dio (Es 19,6; Dt 7,6; 14,2; Is 62,12). 20 Ora questa alleanza antica fu siglata tra Dio e il suo popolo, attraverso Mosé, con la consegna di un codice (cf Es 19-23) e con un’aspersione nel sangue (Es 24, 1-11), che, secondo il libro del Levitico, è il segno della vita (cf Lv 17,11.14). Questo significa che nell’alleanza Dio invita Isarele a divenire il suo popolo. Perché ciò avvenga, però, Israele deve impegnarsi a vivere secondo le norme dettate nel codice della legge e questo impegno è vincolante perché viene sigillato nel sangue. Mosè fa infatti costruire un altare, segno della presenza di Dio e lo fa poggiare su 12 stele, 18 19 Cf Ibidem, pp. 32-35. Cf PIO XII, Enciclica Haurietis aquas, n. 80. 5 Dehoniana segno delle dodici tribù di Israele. Poi fa sacrificare dei giovenchi, ne prende il sangue e lo versa sull’altare e, dopo aver letto il libro dell’alleanza e atteso il consenso da parte degli Israeliti, asperge il popolo con lo stesso sangue versato sull’altare (Es 24,1-8). Così Mosè, intermediario tra Dio e il popolo, li unisce simbolicamente spargendo sull’altare, che rappresenta Dio, e poi sul popolo il sangue di una stessa vittima. In tal modo, il patto è ratificato nel sangue (cf Lv 1,5ss.), come la nuova alleanza lo è nel sangue di Cristo (Gv 19,34; Mt 26,28ss; Eb 9,12-26ss.)20. 21 Aspergendo con il sangue l’altare e il popolo, Mosè pronuncia, infatti, queste parole: «Ecco il sangue dell’alleanza» (Es 24,8). Sono le stesse parole che troviamo sulle labbra di Gesù, quando innalza il calice nell’ultima cena: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati» (Mt 26,28). Versando il suo sangue, Cristo inizia verso di noi una diaconia di liberazione21 che culmina nella nostra acquisizione sacerdotale a Dio Padre, mediante l’alleanza (cf Ap 1,5-6; 5,9-10; 1Pt 2,9; At 20,28; 26,18). Si tratta anche di una diaconia di consacrazione a beneficio nostro, che si prolunga nell’eucaristia (Gv 17,19; Eb 13,12). 22 L’aggettivo possessivo «mio» di Mt 26,28 sottolinea l’abissale differenza che c’è tra il sangue dell’alleanza mosaica, sangue di giovenchi (Es 24,5), e il sangue versato sulla croce, che è il sangue del Figlio di Dio (cf Eb 9,12). L’alleanza siglata con il sangue di animali nell’AT trova compimento nell’alleanza siglata sulla croce con il sangue di Cristo, l’unico che ha il potere di rimettere in circolazione nelle vene dell’uomo il sangue stesso di Dio, la sua vita. L’alleanza siglata nel sangue di Cristo ci rende, infatti, membra della famiglia di Dio, perché pone nelle nostre vene lo stesso sangue che scorre nelle vene di Dio. Questa cosa non poteva avvenire davvero nell’antica alleanza, siglata nel sangue di giovenchi. 23 Se il sangue di Cristo pone in circolazione nelle nostre vene il sangue stesso di Dio, esso ha anche il potere di cancellare il peccato. Il peccato, infatti, nella sua essenza è «una rottura dell’alleanza»22. Esso appare come una rottura totale di rapporti da parte dell’uomo. Dopo il peccato, l’uomo scopre di essere nudo e ha bisogno di coprirsi (Gen 3,7), cioè rompe con se stesso, non si trova più a proprio agio nel suo corpo; l’uomo ode i passi di Dio nel giardino, ha paura e si nasconde (Gen 3,8), cioè rompe con Dio, ne ha timore; quando Dio interroga Adamo, egli se la prende con Eva (Gen 3,12), cioè rompe con la sua donna e quindi si ha una rottura fra di loro; infine, quando Dio interroga Eva, ella se la prende con il serpente (Gen 13), cioè rompe con il creato. 20 Cf La Bibbia di Gerusalemme, nota Es 24,8. In Mc 10,45 Gesù dice: «Il Figlio dell’uomo, infatti, non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti». E Ap 1,5 si rivolge: «A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue». Questi passi ci portano a dire che Cristo è venuto a svolgere un servizio, che è un servizio di liberazione e che questa liberazione si attua mediante il suo sangue versato nell’atto di dare la propria vita. 22 GIOVANNI PAOLO II, Reconciliatio et pænitentia, 29/06/1983, B.1.2 (EV 9/313). 21 6 Dehoniana 24 Il sangue di Gesù, «versato per molti, in remissione dei peccati» (Mt 26,28), è il sangue che rimette in circolazione nelle nostre vene la vita stessa di Dio e cancella la rottura del peccato, portando a compimento anche i riti di espiazione del Kippur (Lv 16), in virtù dei quali Dio offriva la pace al suo popolo, condonandogli le infedeltà all’alleanza. 25 Cristo ha versato il proprio sangue, divenendo la nostra riconciliazione con il Padre dopo l’infedeltà all’alleanza. Il rituale del Kippur trova così compimento in Cristo, Figlio di Dio fatto uomo «per espiare i peccati del popolo» (Eb 2,17), vero tempio (Gv 2,21), vero strumento di espiazione (Rm 3,25), vero altare (Eb 13,10), vero sangue dell’aspersione (Eb 12,24), vero sommo sacerdote (cf Eb 9,11-14), vera dimora della divinità (Col 2,9), in cui il Padre si è reso presente per riconciliare a sé il mondo (cf 2Cor 5,19)23. 26 Dall’apertura del costato, dopo la morte di Gesù, scaturisce una sorgente che lava il peccato e l’impurità (Zc 13,1), manifestando tutta la buona volontà di Dio a venire incontro agli uomini e a volersi riconciliare con loro (cf Rm 8,32; Gv 3,16). Si tratta della misura del proprio intenerimento verso il figlio che ritorna, a cui egli, senza far dire una parola, gli si getta al collo e lo bacia (cf Lc 15,20). «Attraverso il velo, cioè la sua carne» (Eb 10, 20), Gesù inaugura per noi una via vivente e nuova, attraverso la quale, grazie al suo sangue, possiamo entrare nel santuario (Eb 10,19) alla presenza di Dio. L’ilastèrion, il propiziatorio collocato sull’arca (Es 25,17.22) era, per volontà di Dio una sacramentalizzazione della sua presenza. Ora, il vero sacramento dell’incontro con Dio è il Cristo in croce, il vero ilastèrion posto dinnanzi agli occhi di tutti (cf Rm 3,25), asperso non con sangue di capri o di vitelli, ma col suo stesso sangue (Eb 9,12), cui Dio presta ascolto più che al sangue di Abele (Eb 12,24). 27 Al momento della morte di Gesù, infatti, il velo del tempio che nascondeva l’ilastèrion si squarcia (Mc 15,38) per significare che d’ora in poi tutti, non soltanto il sommo sacerdote, potranno accedere a questo sacramento di incontro e di riconciliazione con Dio (cf Ef 2,18; Col 1,20-22)24. 3. L’ACQUA 28 Nel suo vangelo, Giovanni sembra mettere in risalto particolare il segno dell’acqua: essa diventa il vino buono alle nozze di Cana (cf Gv 2,1-12); il simbolo dello Spirito rigenerante, nel dialogo tra Gesù e Nicodemo (cf Gv 3,1-21); il segno del «dono di Dio», nel dialogo tra Gesù e la Samaritana (cf Gv 4,10); il simbolo del vero tempio da cui il profeta Ezechiele aveva visto sgorgare acque risananti (cf Ez 47,8-9.12); segno di colui che risuscita i morti e li fa rivivere e simbolo di vita eterna, nella catechesi sulle opere del Padre e del Figlio susseguente alla guarigione di un 23 Sui titoli cristologici si può vedere lo studio F. MAZZOTTA, I titoli cristologici nella cristologia cattolica contemporanea: uno studio delle aree: italiana, francofona, ispanolatinoamericana, Roma 1998. 24 Cf G. BARBAGLIO – R. FABRIS – B. MAGGIONI, I vangeli, Assisi (PG) 1978, p. 902. 7 Dehoniana infermo alla piscina di Betzaetà (cf Gv 5,21.24-25); dono di Cristo ai credenti in lui, nel grido espresso da Gesù durante la festa delle capanne (cf Gv 7,37-39); annuncio dell’inviato di Dio, nella catechesi battesimale sulla illuminazione e sulla fede di Gv 925; annuncio, infine, della necessità del battesimo per aver parte con Gesù nell’eucaristia, durante la lavanda dei piedi (cf Gv 13,8b). 29 Questa veloce carrellata ci lascia intuire il perché l’acqua che sgorga dal costato trafitto di Cristo (Gv 19,34) sia per Giovanni un segno particolare, uno dei più carichi di mistero e di salvezza. 30 Per metterlo meglio in evidenza, è necessario analizzare in particolare il passo di Gv 7,37-39. Siamo durante la festa delle capanne; durante le sue celebrazioni, alcuni sacerdoti scendevano ad attingere acqua alla piscina di Siloe per offrire sacrifici presso l’altare degli olocausti nel Tempio, al fine di implorare da Dio il dono delle piogge autunnali al termine dell’estate 26. 31 Gesù, prendendo lo spunto da quel rito, si presenta pubblicamente come una sorgente d’acqua: «Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me» (Gv 7,37-38). Lo fa, richiamandosi alla Scrittura: «Come dice la Scrittura: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno» (Gv 7,38). A quale passo della Scrittura Gesù fa qui riferimento? Il seno da cui scaturiranno fiumi d’acqua viva è del Cristo o del credente in lui?27. 32 È probabile che, citando la Scrittura, Gesù faccia riferimento principalmente a tre testi: Ez 47,1-2.9, in cui il Profeta vede sgorgare delle acque dal lato destro del tempio, acque che, dovunque passano, risanano; il secondo potrebbe essere Zc 13,1, in cui si parla di una sorgente zampillante capace di lavare il peccato e l’impurità; l’ultimo potrebbe essere Zc 14,8-9, in cui si promettono acque vive sgorgare da Gerusalemme28. La spiegazione della citazione del seno, invece, potrebbe essere ricercata nel Sal 78,16, per cui lo si potrebbe identificare con la rupe di cui vi si parla29. 33 Di fatto, è Giovanni stesso che fornisce l’interpretazione teologica di quanto Gesù grida: «Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non c’era ancora lo Spirito, perché Gesù non era stato ancora glorificato» (Gv 7,39). L’effusione dello Spirito di Gesù è dunque legata alla sua glorificazione 25 Le acque di Siloe, che significa l’Inviato, già simbolo delle benedizioni di Dio (cf Is 8,6), annunciano con il loro stesso nome l’Inviato di Dio che le rende sacramento della luce per gli occhi del corpo e dello Spirito (Gv 9, 35-39). (cf La Bibbia di Gerusalemme, nota Gv 9,7). 26 Cf Mishnah 4,9; Tosephta Sukka 3,18. 27 Sulle questioni cf M. COSTA, Simbolismo battesimale in Gv 7,37-39; 19,31-37;3,5, in Rivista Biblica (XIII, 1965) 355-359; R. SCHNACKENBURG, Il Vangelo di Giovanni, Brescia 1977, II, pp. 288ss. 28 Si tratta di un testo utilizzato dalla liturgia della festa dei Tabernacoli (cf Bibbia TOB, nota k). Altri testi biblici utilizzati nella liturgia dell’acqua potevano essere Is 12,3 (da cui il titolo dell’enciclica di Pio XII) e Is 44,3. 29 Cf M. E. BOISMARD, De son ventre couleront des fleuves d’eau (Jo. 7,38), in Reveue Biblique (1958) 544ss. 8 Dehoniana (cf Gv 16,7; 20,22; At 2,33), glorificazione che per Giovanni è già iniziata nell’esaltazione di Cristo in croce (cf Gv 3,14; 8,28; 12,32). Giovanni anticipa la glorificazione di Gesù al momento della sua passione e morte: è nell’innalzamento di Gesù sulla croce e nell’apertura del suo costato che egli vede l’esaltazione gloriosa del Signore e l’irrompere della Pentecoste nel mondo. Per Giovanni, infatti, l’ora della croce è proprio l’ora della gloria (cf Gv 12,23-24; 17,1)30. 34 Questo ci porta ad affermare che la trasfissione del costato deve essere letta alla luce della pentecoste e il testo di Gv 7,38 diventa molto esemplificativo: l’acqua che prorompe dal costato trafitto è il segno dello Spirito che Cristo effonde sulla sua chiesa, rappresentata ai piedi della croce da Maria e Giovanni (cf SC 5). Sotto la croce, Giovanni ci invita ad assistere allo scaturire del fiume di acqua viva intravisto da Ezechiele (Ez 47,1-12) e da Zaccaria (Zc 13,1; 14,8-9). Cristo è, infatti, il vero tempio-sorgente mostrato in visione a Ezechiele (cf Gv 2,21); è l’inviato di Dio di cui parla Zaccaria, trafitto dal suo popolo e divenuto sorgente zampillante per la casa di Davide, al fine di lavarne il peccato e l’impurità (cf Gv 19,37). Sotto gli occhi di Maria e di Giovanni si realizza un antico progetto di Dio, delineato nella figura veterotestamentaria della roccia percossa da Mosè e divenuta fonte di acqua viva per il popolo in cammino verso il monte di Dio (cf 1Cor 10,4). 4. IL CUORE 35 Al centro della devozione al s. Cuore di Gesù, però, vi è da sempre il simbolo stesso del cuore, che diviene in tutta la letteratura cristiana religiosa il simbolismo più naturale e più efficace di tutto l’amore di Gesù31. Da tale reciprocità tra cuore e amore, questo simbolo si estende quanto l’amore stesso di Cristo, l’unigenito del Padre, che si è fatto uomo per amore degli uomini. 36 L’amore di Gesù, che si manifesta nell’apertura del suo cuore, diventa segno della donazione totale di se stesso, di quello che la lettera agli Ebrei, specie nei capitoli 710, chiama il sacerdozio di Cristo32. In quei capitoli, l’Autore, dopo aver affermato la superiorità del sacerdozio di Cristo sul sacerdozio aaronitico sulla triplice base dell’origine, del santuario e dell’efficacia del sacrificio, parla dell’offerta sacrificale con cui il sacerdozio di Cristo si pone in atto. 37 I sacrifici antichi mancavano di un valore proprio per piacere a Dio e soprattutto non avevano potere di rimettere i peccati. Allora, Cristo «entrando nel mondo» fa sue le parole del Sal 40: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà» (Eb 10,5-7). E l’Autore aggiunge a compimento: «Con ciò stesso egli abolisce il primo sacrificio per stabilirne uno nuovo» (Eb 10,9). 30 Cf H. V. D. BUSSCHE, Giovanni, Assisi (PG) 1974, pp. 164-166. 418ss. Cf PIO XII, Enciclica Haurietis aquas, n. 42. 32 Cf R. FABRIS, Le lettere di Paolo, Roma 1990, vol. 3, pp. 640ss. 31 9 Dehoniana 38 Non è qui nostra intenzione approfondire il tema del sacerdozio di Cristo. Annotiamo soltanto che l’offerta di cui parla la lettera agli Ebrei, che rimanda in particolare alla croce, è innegabilmente un’offerta sacrificale; è un’offerta unica; abbraccia in modo unitario e unificante l’intera vita di Gesù, fino alla morte di Croce e all’apertura del suo cuore; anzi, proprio con questa apertura sarà completamente realizzata, come fa notare Giovanni nello stupore che il fatto gli suscita. 39 Quest’offerta ha anche avuto come scopo immediato e manifesto quello della remissione dei peccati e della nostra santificazione: «Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre» (Eb 10,10). La finalità redentiva a favore degli uomini del sacerdozio di Cristo è la nota fondamentale e caratterizzante del messaggio cristiano. Il Verbo è entrato nel mondo come un dono dell’amore di Dio, perché abbiano la vita eterna coloro che credono in lui (cf Gv 17,12). 40 Sarebbe, però, riduttivo restringere il sacerdozio di Cristo al compimento di certe funzioni nel culto divino. Gesù vive l’intera sua esistenza nella consapevolezza costante di compiere la volontà del Padre che l’ha mandato a compiere una missione di salvezza a favore degli uomini (cf Gv 4,34; 5,30; 6,38-39; 8,29; 10,18). Senza soluzione di continuità, con lo stesso atteggiamento di amorosa obbedienza al Padre, egli va incontro al suo atto supremo e conclusivo: «Bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato. Alzatevi, andiamo via di qui» (Gv 14,31). Trova così ultimo compimento l’offerta iniziale del Verbo: «Ecco io vengo… o Dio, per fare la tua volontà» (Eb 10,7). 41 Nell’ubbidienza offerta al Padre, Gesù ha espresso e offerto il suo amore adorante, costitutivo essenziale di ogni offerta sacrificale. L’amore offerto per gli uomini è stato anche espiatorio e redentivo. In vista di questa offerta, la sua capacità umana di amare era stata ripiena di una somma partecipazione dell’amore misericordioso di Dio. Perciò, il cuore di Gesù fu aperto a ogni miseria umana, prima fra tutte la miseria del peccato (cf At 10,38). 42 Nella preghiera sacerdotale, Gesù ha la serena coscienza di poter dire al Padre: «Io ti ho glorificato sopra la terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare» (Gv 17,4). Tutta la sua vita è stata vissuta con l’unico scopo di glorificare il Padre, compiendo la sua volontà a cui si era offerto, entrando nel mondo. Mediante l’offerta dell’obbedienza fedele di Gesù fino alla morte, sale a Dio l’espressione di un amore purissimo, derivante dalla persona divina di Gesù e anche della sua natura umana, di cui il suo cuore aperto diventa il simbolo più espressivo 33. 5. LA MISERICORDIA 43 Se al centro della devozione al s. cuore di Gesù c’è proprio il simbolo del cuore, la misericordia è però il perno della devozione al culto dell’amore misericordioso. 33 Sull’argomento, cf AA.VV., Il cuore di cristo e il sacerdozio comune e ministeriale, Roma 1986. 10 Dehoniana Santa Maria Faustina Kowalska sente, infatti, con chiarezza queste parole: «Io desidero che vi sia una festa della Misericordia. Voglio che l’immagine, che dipingerai con il pennello, venga solennemente benedetta nella prima domenica dopo Pasqua; questa domenica deve essere la festa della misericordia»34. Non possiamo, dunque, esimerci dall’analizzare il senso del suo significato. 44 La parola misericordia è la traduzione di tre sostantivi greci piuttosto differenti nel loro senso originario: éleos, che indica prevalentemente il sentimento dell’intima commozione; oiktirmós, che rimanda all’espressione dell’atteggiamento compassionevole di fronte alle disavventure del prossimo; splánchna, che pone l’accento sulla sede dei sentimenti e potrebbe essere tradotto con viscere, cuore35. 45 Éleos è il sentimento della commozione che suscita la vista di un qualche male che ha colpito altre persone ed è quindi la misericordia, la compassione, la pietà. Si tratta di un sentimento opposto all’invidia. Il suo equivalente ebraico prevalente è khesed, che indica, preso alla lettera, l’atteggiamento conforme all’alleanza 36, cioè una forma di solidarietà alla quale si sono obbligate le parti che hanno stipulato il patto. Siccome la solidarietà può assumere la forma del soccorso per la parte in difficoltà, allora il concetto di khesed può estendersi al significato di bontà, grazia, misericordia, quest’ultimo soprattutto in combinazione con oiktirmós che traduce rakhamim37. Essendo Dio, pur nella sua superiorità, il partner che rimane sempre fedele all’alleanza, il suo éleos viene inteso per lo più come atteggiamento benevolo e misericordioso verso il partner inferiore. Stringendo l’alleanza, egli ha promesso di attenersi a quest’atteggiamento e ha rinnovato a più riprese la promessa. Perciò, Israele può invocare da lui éleos, anche come grazia del perdono, quando ha violato l’alleanza38. 34 M. F. KOWALSKA, Diario. La misericordia divina nella mia anima, op. cit., p. 75. Cf H.-H. ESSER, Misericordia, in L. COENEN – E. BEYREUTHER – H. BIETENHARD, Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento, Bologna 1976, p. 1013. 36 Ib., p. 1014. 37 «[Il Signore] ci trattò secondo il suo amore, secondo la grandezza della sua misericordia» (Is 63,7); «Sarà stabilito un trono sulla mansuetudine, vi siederà con tutta fedeltà, nella tenda di Davide, un giudice sollecito del diritto e pronto alla giustizia» (Is 16,5); «Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore» (Os 2,21); «Ecco ciò che dice il Signore degli eserciti: Praticate la giustizia e la fedeltà; esercitate la pietà e la misericordia ciascuno verso il suo prossimo» (Ez 7,9); «Ricordati, Signore, del tuo amore, della tua fedeltà che è da sempre» (Sal 25,6); «Non rifiutarmi, Signore, la tua misericordia, la tua fedeltà e la tua grazia mi proteggano sempre» (Sal 40,12); «Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia; nella tua grande bontà cancella il mio peccato» (Sal 51,3); «Rispondimi, Signore, benefica è la tua grazia; volgiti a me nella tua grande tenerezza» (sal 69,17). 38 «Il Signore passò davanti a lui proclamando: “Il Signore, Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà…» (Es 34,6); «Perdona l’iniquità di questo popolo, secondo la grandezza della tua bontà, così come hai perdonato a questo popolo dall’Egitto fino a qui» (Nm 14,19); «Ritorna, Israele ribelle, dice il Signore. Non ti mostrerò la faccia sdegnata, perché io sono pietoso, dice il Signore» (Ger 3,12). 35 11 Dehoniana 46 Il concetto di khesed è particolarmente presente nei testi di Qumran. Con esso, la comunità degli Esseni intende celebrare la fedeltà di Dio, sperimentata nell’istituzione della nuova alleanza escatologica 39. 47 Nel NT éleos e derivati indicano l’irruzione della misericordia divina nella realtà della miseria umana, attraverso la potente azione liberatrice e risanatrice di Gesù di Nazaret. Nei discorsi di Matteo, eleéo o elêmon sono impiegati in 5,7 e 18,33 per indicare l’atteggiamento di misericordia dell’uomo verso il suo prossimo, il cui fondamento è la misericordia di Dio. Gesù testimonia la misericordia sovrana di Dio che esige una risposta adeguata nell’attiva solidarietà con i più umili. Paolo vuole essere considerato come uno che ha ottenuto misericordia da Dio (cf 1Tm 1,13.16), in vista dell’apostolato, e che è stato graziato (cf 1 Cor 7,25) dalla bontà del Signore, in vista di un’altra responsabilità, sicché la libera misericordia di Dio non è in contrasto con la sua fedeltà all’alleanza. La lettera agli Ebrei testimonia la solidarietà di Gesù, vero sommo sacerdote, con i suoi fratelli, solidarietà che garantisce una comprensione illimitata e misericordiosa delle loro condizioni (cf Eb 2,17; 4,15) e offre, a una comunità scoraggiata, la fiducia di potersi avvicinare «al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno» (Eb 4,16). 48 La parola originaria che per noi può essere, però, fra le più interessanti è spláncha, che all’inizio indica le interiora della vittima animale e in particolare le parti nobili come il cuore, i polmoni, la milza e i reni. Si tratta di parti che venivano usate come antipasto nei banchetti sacrificali, per cui la parola venne anche a indicare presto l’intero pasto sacrificale. Dal V sec. a.C., la parola spláncha viene usata anche per indicare le viscere dell’uomo, soprattutto l’organo del sesso maschile e il ventre materno, come sede della facoltà di concepire e partorire40. 49 L’immagine della misericordia come l’utero materno è suggestiva, perché ci aiuta a comprendere il senso profondo della parola stessa. L’utero è il luogo in cui nasce e si sviluppa la vita. Così, la misericordia è l’atteggiamento che rende possibile la nascita e lo sviluppo della vita umana, una vita che ha bisogno della giusta protezione per potersi sviluppare. L’immagine che viene in mente è quella di una candela che deve essere accesa e la cui fiamma deve essere mantenuta in vita. La fiamma della candela si può spegnere o per eccesso di ossigeno (le si soffia vicino troppo forte), oppure per carenza di esso (vi si pone sopra un bicchiere e la si fa soffocare). Perché la fiamma della candela possa mantenersi accesa al di là di qualsiasi difficoltà, occorre che la si immetta in un ambiente protetto che impedisca all’ossigeno di venire a mancare o di esservi presente in maniera eccessiva. Un modo per realizzare questo ambiente è quello di mettere la candela all’interno di una lanterna, che fornisce l’ambiente ideale a che la candela possa ardere anche in situazioni esterne 39 Cf H.-H. Esser, Misericordia, in L. Coenen – E. Beyreuther – H. Bietenhard, op. cit., p. 1015. 40 Talvolta, anche i figli vengono chiamati spláncha: ek splánchon viene a significare «della propria carne e del proprio sangue» (Ib., p. 1019). 12 Dehoniana molto difficoltose. L’utero è per la vita quello che la lanterna è per la candela. E se la parola misericordia ha a che fare con la parola utero, significa che essa è la condizione necessaria perché la vita possa svilupparsi; significa che essa sola fornisce alla vita quell’ambiente protetto, ma non soffocante, perché essa possa dare il meglio di se stessa. La misericordia non è, dunque, un qualcosa di sdolcinato o di pietistico, ma la lanterna, l’ambiente idoneo che permette alla luce della vita di accendersi e di continuare ad ardere, in una condizione protetta 41. 50 Il sostantivo spláncha si trova nella LXX 15 volte e il verbo 2. Il sostantivo trova però equivalenti ebraici soltanto in 2 passi: In Pr 12,10 si dice che «il giusto ha cura del suo bestiame, ma i sentimenti degli empi sono spietati» (rakhamim=misericordia); in Pr 26,22 si afferma che «le parole del sussurrone sono come ghiotti bocconi, esse scendono in fondo alle viscere» (beten=viscere). Gli altri passi sono privi di equivalente ebraico, essendo in prevalenza scritti in greco. 51 Nel NT il termine prevalentemente acquista il significato di misericordia. Nella parabola del Servo spietato di Mt 18,23-35 e in quella del Figliol Prodigo di Lc 15,11-20, il verbo splanchnízomai esprime il sentimento che suscita un atteggiamento di misericordia (Mt 18,27) e di amore (Lc 15,20), che imprime una svolta a tutta la vicenda. A ciò fa da contrasto, in entrambe le parabole, il forte sentimento di collera che provoca un atteggiamento di ripulsa (cf Mt 18,34; Lc 15,28). Nelle due parabole, l’uso di splanchnízomai serve a far trasparire l’illimitata misericordia di Dio e, nella prima, anche la sua collera definitiva e mortale contro colui che aveva sperimentato la sua grazia, ma l’ha rinnegata, mostrandosi egli stesso spietato. 52 In Paolo, il sostantivo indica l’uomo intero nella sua capacità di amare o nell’atto stesso di amare e lo si può sostituire generalmente con il nome o il corrispettivo pronome personale. Si può anche tradurre con cuore, purché per cuore si intenda il centro dal quale scaturisce l’atto di amore 42. 53 Anche in 1Gv 3,17 il termine equivale a cuore, ma qui come sorgente da cui scaturisce l’azione di soccorrere il fratello che si trova nella necessità. 6. IL CULTO AL S. CUORE DI GESÙ E ALL’AMORE MISERICORDIOSO 54 Sia il culto al s. Cuore di Gesù che quello all’amore misericordioso trovano innanzitutto nella Scrittura il loro fondamento. Pio XII nell’enciclica Haurietis aquas lo aveva esplicitamente auspicato per il culto al s. Cuore, dicendo: «È nei testi della sacra Scrittura, della tradizione e della sacra liturgia che i fedeli devono cercare di scoprire le sorgenti limpide e profonde del culto al Cuore sacratissimo di Gesù» 43. 41 Cf Ib. Cf Ib., pp. 1020-1021. 43 PIO XII, Enciclica Haurietis aquas, 30. 42 13 Dehoniana 55 La Scrittura parla molto del cuore e qualche volta del cuore di Cristo, parla, anche, come abbiamo visto di misericordia e dell’amore di Dio, ma mai accenna al culto all’amore di Dio o alla sua misericordia, attraverso il simbolismo del cuore o attraverso qualsiasi altro simbolo. 56 Se il culto al s. Cuore di Gesù si può poggiare sostanzialmente sull’immenso scenario di citazioni che si apre attorno al simbolo del costato aperto di Cristo, come si è avuto modo di vedere, cui si deve aggiungere il simbolismo dello stesso cuore di Gesù44, quando si vanno ad analizzare i fondamenti biblici dell’amore misericordioso, così come li presenta l’enciclica di Giovanni Paolo II Dives in misericordia, ci si rende conto che essi, pur sfociando chiaramente nel mistero Pasquale, risiedono da un’altra parte, sebbene poi l’icona dell’amore misericordioso sia il Cristo, dal cui costato fuoriescono i raggi bicolore, che richiamano inequivocabilmente il sangue e l’acqua che scaturiscono dal costato di Cristo morto in croce (Gv 19,34). 57 La Dives in misericordia, nel suo momento teologico45, ci dice che la misericordia da un lato ci fa conoscere che Dio è fedele, anche quando l’uomo è infedele, debole, oppresso, sfiduciato; dall’altro lato, essa non tende a perpetuare la disuguaglianza tra chi la offre e chi la riceve, bensì si fonda sulla comune esperienza della dignità dell’uomo, che, per essere pienamente se stesso, ne ha bisogno. 58 Il punto di partenza è che Gesù il Cristo, il Messia, ci rivela il Padre. Egli è «un segno particolarmente leggibile di Dio che è amore», e «in tale segno visibile, al pari degli uomini di allora, anche gli uomini dei nostri tempi possono vedere il Padre»46. Gesù, dunque, è la rivelazione che nel mondo è presente l’amore. Non un amore teorico e astratto, ma che abbraccia l’uomo concreto, con tutto ciò che fa parte della sua umanità. Questo amore si manifesta, perciò, in modo particolare «nel contatto con la sofferenza, l’ingiustizia, la povertà, a contatto con tutta la “condizione umana” storica, che in vari modi manifesta la limitatezza e fragilità dell’uomo sia fisica, sia morale»47. Ora, appunto questo manifestarsi dell’amore di Dio per l’uomo, nell’ambito soprattutto delle sue difficoltà e della sua povertà, viene chiamato «misericordia» nel linguaggio biblico della Tradizione cristiana. 59 Tutto l’AT è una «peculiare esperienza della misericordia di Dio», cioè della «speciale potenza dell’amore che prevale sul peccato e sull’infedeltà del popolo eletto»48. Così, fin dall’inizio della rivelazione, la misericordia viene in qualche modo contrapposta alla giustizia divina, e si rivela più grande di essa. Non si tratta, 44 Nello sviluppo del culto del s. Cuore di Gesù deve essere, invero, tenuto anche presente il simbolismo del riposo di Giovanni sul petto del Signore (Gv 13,25) (Sull’argomento e sullo sviluppo del culto del s. Cuore in generale, cf A. TESSAROLO, Il culto del s. Cuore, TorinoBologna 1957). 45 GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Dives in misericordia, nn. 3-9. 46 Ib., n. 3. 47 Ib. 48 Ib., n. 4. 14 Dehoniana però, di un vero e proprio contrasto, perché «l’amore […] condiziona la giustizia e, in definitiva, la giustizia serve la carità»49. In questa rivelazione dell’intimo rapporto di complementarietà tra giustizia e amore sta il concetto veterotestamentario di misericordia, secondo l’enciclica. La misericordia diviene, così, una speciale potenza dell’amore che prevale sul peccato e sull’infedeltà del popolo eletto. 60 Il perno, però, su cui deve fondarsi il culto all’amore misericordioso sembra divenire il passo della parabola del Figliol Prodigo (Lc 15,11-32), di cui essa riporta un’esegesi profonda, in cui diviene ancor più palese che «l’amore si trasforma in misericordia, quando occorre oltrepassare la precisa norma della giustizia: precisa e troppo stretta»50. Questa correzione della giustizia con l’amore, che è la misericordia, fa sì che «colui che è oggetto della misericordia non si sente umiliato, ma come ritrovato e “rivalutato”», poiché «un figlio, anche se prodigo, non cessa di essere figlio reale di suo padre»51. La misericordia, dunque, fa ritornare l’uomo «alla verità su se stesso»52. Infatti, il significato della misericordia è questo: un uomo va perdonato e merita giustizia e amore anche quando ha sbagliato, proprio perché, pur sbagliando, non cessa di essere un uomo reale, con tutta la sua dignità. I pregiudizi che inducono a vedere nella misericordia un rapporto di disuguaglianza tra colui che la offre e colui che la riceve si devono abbandonare. Non solo la misericordia non umilia chi la riceve e non ne offende la dignità, ma essa, al contrario, rivaluta l’uomo per quello che è, perché la misericordia si fonda «sulla comune esperienza di quel bene che è l’uomo, sulla comune esperienza della dignità che gli è propria»53. 61 Come per l’amore di Dio, anche la rivelazione biblica della misericordia raggiunge, in ogni modo, la sua pienezza nel mistero pasquale. Nella passione, infatti, il «Cristo sofferente parla in modo particolare all’uomo, e non soltanto al credente. Anche l’uomo non credente saprà scoprire in lui l’eloquenza della solidarietà con la sorte umana, come pure l’armoniosa pienezza di una disinteressata dedizione alla causa dell’uomo, alla verità e all’amore»54. Nella morte, il Cristo crocifisso mostra l’amore presente nel mondo, svela che l’amore misericordioso del Padre è più potente di ogni specie di male, in cui sono coinvolti l’uomo, l’umanità, il mondo: «La croce è il più profondo chinarsi della divinità sull’uomo e su ciò che l’uomo – specialmente nei momenti difficili e dolorosi – chiama il suo felice destino. La croce è come un tocco dell’eterno amore sulle ferite più dolorose dell’esistenza terrena dell’uomo»55. 62 Nella risurrezione, infine, l’amore misericordioso che nella passione e nella croce si rivela più forte del male, si manifesta più potente della morte. La gloria del Risorto 49 Ib. Ib., n. 5. 51 Ib. 52 Ib. 53 Ib. 54 Ib., n. 7. 55 Ib., n. 8. 50 15 Dehoniana ci fa conoscere che la misericordia sarà puro amore nel compimento escatologico; intanto, «nella storia umana, che è insieme storia di peccato e di morte, l’amore deve rivelarsi soprattutto come misericordia e anche attuarsi come tale»56. CONCLUSIONE 63 Siamo partiti con il chiederci se esista una sostanziale equivalenza tra il culto del s. Cuore di Gesù e il culto alla divina misericordia, che oggi sembra sostituire il primo sempre più nel cuore dei credenti. 64 Da quanto abbiamo avuto modo di vedere, però, se fra i due culti sembrerebbe esserci un’apparente sostanziale equivalenza, giacché anche l’immagine del s. Cuore di Gesù e del Gesù dell’amore misericordioso sembrerebbero entrambi richiamarsi allo stesso evento fondamentale descritto in Gv 19,34 della trasfissione del costato di Cristo, l’analisi dei fondamenti biblici di entrambi mette in risalto non poche differenze. 65 Se, infatti, il culto del s. Cuore di Gesù si poggia sostanzialmente sull’immenso scenario di citazioni che si apre attorno al simbolo del costato aperto di Cristo, il culto della divina misericordia si fonda su una serie di citazioni, con al centro la parabola del Figliol Prodigo, che mettono in evidenza come essa sia da intendere sostanzialmente nel senso di una speciale potenza dell’amore, che prevale sul peccato e sull’infedeltà del popolo eletto. 66 Non che il discorso del perdono del peccato sia estraneo al culto del s. Cuore, dove anzi la dimensione dell’offerta sacrificale di Gesù in remissione dei peccati dell’umanità ne costituisce un aspetto importante, ma ci pare che esso sia soltanto uno degli aspetti, mentre quello che prevale è la dimensione dell’iniziativa gratuita di Dio, che ha effuso tutto il suo amore sull’umanità, tramite lo squarcio del costato del proprio Figlio. 67 L’accento biblico della misericordia, così come viene messo in evidenza soprattutto nell’enciclica di Giovanni Paolo II Dives in misericordia, svelando che l’amore misericordioso del Padre è più potente di ogni specie di male, invita invece l’uomo, più che all’offerta di sé sull’imitazione del Figlio, alla richiesta per se stesso del perdono, nella fiducia di poter essere riammesso, nonostante tutto, nel rapporto di amicizia con Dio. 56 Ib. 16