Il sistema osseo Lo scheletro (fig. 1), o sistema osseo, è formato da

L’apparato locomotore
Capitolo I
L’apparato locomotore
Il sistema osseo
Lo scheletro (fig. 1), o sistema osseo, è formato da
organi che si chiamano ossa. Vi sono più di 200 ossa.
Lo scheletro ha varie funzioni:
1) costituisce il sostegno e l’impalcatura del corpo
2) offre i punti di inserzione dei muscoli
3) funge, in alcune parti, da protezione di organi
interni. Per esempio il cranio protegge l’ence­falo, la
gabbia toracica protegge il cuore e i polmoni, il bacino protegge gli organi della parte bassa addominale,
ovvero gli organi della riproduzione, i più importanti
1
cioè da scheletro esterno, con funzione ap­punto protettiva, simile alla corazza degli insetti.
Lo scheletro umano è diviso in due parti fondamentali: la parte assile o assiale, che comprende, dall’alto
in basso, il cranio, la gabbia toracica e la colonna
vertebrale. La parte ap­pendicolare, costituita dagli
arti superiori e inferiori. La parte assile è connessa a
quella appen­dicolare tramite due cinture:
a) la cintura, o cingolo scapolare, che unisce lo scheletro assile (in questo caso lo sterno, che fa parte della
gabbia toracica), agli arti superiori, tramite la scapola
e la clavicola.
b) la cintura, o cingolo pelvico, che unisce lo scheletro assile (in questo caso la colonna verte­brale sacrale) agli arti inferiori tramite le ossa del bacino.
Le ossa si suddividono in tre tipi (fig. 2): ossa lunghe,
nelle quali una dimensione, quella della lunghezza,
Fig. 1. Lo scheletro: vista anteriore e posteriore.
in assoluto per la specie. Riguardo a quest’ultimo punto, occorre dire che lo scheletro umano, pur essendo
considerato un endoscheletro, ovvero uno scheletro
interno (al tessuto muscolare) per quanto riguarda le
parti citate esso assume una struttura esoscheletrica,
prevale nettamente sulle altre due (per esempio tutte
le ossa degli arti; ossa piatte, nelle quali due dimensioni, lunghezza e larghezza, prevalgono nettamente
sulla rimanente, pro­fondità (per esempio le ossa del
bacino e quelle del cranio); ossa corte, nelle quali le
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Capitolo I
Fig. 2. Esempi di ossa lunghe (omero, in alto), piatte
(osso parietale del cranio, a destra) e corte (calcagno
del tarso, a sinistra).
tre dimen­sioni sono approssimativamente uguali (per
esempio le ossa del tarso e del carpo, rispettivamen­te
nel piede e nella mano).
Procedendo dall’alto in basso, queste sono le ossa
principali:
a) le ossa del cranio e della faccia
b) la colonna vertebrale
c) la scapola, posteriormente alla gabbia toracica e
alla clavicola, sopra la gabbia toracica
d) lo scheletro dell’arto superiore, suddiviso in ossa
del braccio (omero), ossa dell’avambraccio (radio e
ulna), ossa della mano (carpo, metacarpo e falangi)
e) le ossa del bacino: ileo, ischio e pube
f) lo scheletro dell’arto inferiore, suddiviso in osso
della coscia (femore), ossa della gamba (pe­rone e tibia), ossa del piede (tarso, metatarso e falangi).
Diamo di seguito dei cenni su due degli insiemi ossei
più importanti sotto il profilo del movimento.
La colonna vertebrale
La colonna vertebrale, o rachide, è costituita da 33
ossa corte chiamate vertebre (fig. 3). Ciascu­na vertebra è formata da un corpo vertebrale a forma di cilindro appiattito e da tre appendici sporgenti: quelle che
sporgono posteriormente si chiamano apofisi spinose
e sono all’origine, con la loro caratteristica prominenza, del nome di spina dorsale dato popolarmente
Fig. 3. La colonna vertebrale, vista in proiezione
posteriore e laterale.
al rachide (fig. 4).
La colonna vertebrale costituisce il mezzo di giunzione fra parte superiore e inferiore del­lo scheletro.
Superiormente la colonna è collegata al cingolo
scapolare tramite le costole, lo sterno, le scapole e le
clavicole, inferiormente essa si attacca direttamente
al cingolo pelvico, e­sattamente alle ossa iliache, tramite l’articolazione sacro-iliaca. Questa connessione
fra parte alta e parte bassa dello scheletro avviene
in modo dinamico, non statico: infatti la colonna è
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Fig. 4. Aspetto di una tipica vertebra
Fig. 5. I dischi intervertebrali.
note­volmente mobile e permette al busto un ampio
grado di movimento. Ciò è permesso dalla pre­senza,
fra corpo vertebrale e corpo vertebrale, dei dischi
intervertebrali (fig. 5), speciali cuscinetti di so­stanza
adiposa molle, che permettono piccoli movimenti di
spostamento laterale e antero-poste­riore fra vertebra e
vertebra. Moltiplicati per l’intero numero di vertebre
mobili, 24, questi picco­li movimenti si tramutano in
movimenti, come detto, di grande ampiezza.
La colonna vertebrale è suddivisa in cinque parti,
dall’alto in basso:
1) Colonna cervicale (dalla base del cranio alla base
del collo), formata da sette vertebre cervicali.
2) Colonna toracica o dorsale (dalla base del collo
fino circa a metà schiena), formata da 12 vertebre
toraciche o dorsali.
3) Colonna lombare (da metà fino alla fine della
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schiena, dove comincia la regione del bacino), formata da cinque vertebre lombari. Fin qui abbiamo vertebre mobili. Da qui in poi le vertebre sono ossificate
insieme e non sono suscettibili di movimento.
4) Osso sacro, formato da cinque vertebre sacrali, che
coincide grossomodo con la posizione del bacino.
5) Coccige, formato da quattro vertebre coccigee,
molto piccole, che occupano una posizione appena
superiore a quella dell’ano. Il coccige costituisce il
residuo evolutivo della coda possedu­ta dai nostri antenati primati.
Il rachide normale non presenta curvature sostanziali
in senso laterale. Se presenti, esse sono patologiche,
indice cioè di una malattia, chiamata scoliosi, che
colpisce soprattutto soggetti in età evolutiva e le cui
cause non sono ancora state ben individuate. Essa si
cura, in ordine di gravità crescente, con la ginnastica
correttiva, con il busto o con l’intervento chirurgico
(non praticato, però, in Italia).
Vi sono invece due curvature, assolutamente fisiologiche, presenti quindi in tutti i rachidi normali. Una
a livello dorsale, chiamata cifosi dorsale, con la convessità rivolta all’indietro, e una a livello lombare,
chiamata lordosi lombare, con la convessità rivolta in
avanti. Naturalmente, in caso di accentuazione delle
due curve, siamo in presenza di patologie: la “gobba”
in caso di i­percifosi, e la “pancia prominente”, in caso
di iperlordosi. Da notare anche che nelle femmine la
lordosi lombare è fisiologicamente più accentuata che
nei maschi.
La gabbia toracica
La gabbia toracica (fig. 6) è formata dallo sterno,
che è un osso piatto posto anteriormente e dalle 12
costole o coste che vi si articolano. Per la verità solo
le prime sette coste si articolano direttamente sullo
sterno; l’ottava, la nona e la decima si uniscono alla
settima; l’undicesima e la dodicesima sono anteriormente libere.
Le coste si articolano posteriormente sulle 12 vertebre
dorsali. In un certo senso, quindi, anche le vertebre
dorsali dovrebbero essere considerate funzionalmente parte, almeno parzial­mente, della gabbia toracica.
Anche la gabbia toracica è un insieme dinamico.
Oltre alla funzione, tipicamente statica, già citata, di
proteggere cuore e polmoni, il suo compito è di permettere, attraverso successive espansioni e contrazioni, la respirazione. Questi movimenti sono permessi
dai muscoli intercosta­li, che muovono leggermente
le coste, sulle articolazioni costo-vertebrali e costosternarie, le une rispetto alle altre. Il grosso del movimento però è a carico del muscolo diaframma, che ha
la forma di una grande cupola che divide, in pratica,
la cavità toracica da quella addominale.
Quando il diaframma si contrae esso si abbassa,
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Capitolo I
Fig. 6. La gabbia toracica.
facendo aumentare il volume della cavità toracica.
Poiché, per le ben note leggi dei gas, a un aumento
del volume consegue una diminu­zione di pressione,
allora la pressione all’interno della cavità toracica diminuisce, diventando mi­nore di quella dell’aria esterna. A causa di questa differenza di pressione, l’aria
penetra all’inter­no della cavità: si ha l’inspirazione.
Quando il diaframma si rilassa esso si risolleva, comprimendo la cavità toracica. Il volu­me allora diminuisce, la pressione aumenta e si crea una differenza opposta alla precedente; l’a­ria ora esce verso l’esterno:
si ha l’espirazione.
Il sistema articolare
Le ossa, ovviamente, non potrebbero muoversi le
une rispetto alle altre, se non fossero provviste di
cerniere, di giunture predisposte allo scopo. Queste
cerniere sono le articolazioni. In qualsiasi articolazione occorre contemperare due esigenze: quella
della solidità e quella della mobilità. In altre parole,
è necessario sì che l’articolazione consenta il movimento, ma è anche necessario che vengano conservati, in ogni momento, i rapporti articolari e l’integrità
dell’artico­lazione stessa. D’altra parte, spesso le due
esigenze sono presenti in modo molto diverso e asso­
lutamente non equilibrato da caso a caso. Per alcune
ossa, infatti, la richiesta di mobilità è al­quanto limita-
ta, per altre invece è assolutamente necessaria. Chiaramente, quando la solidità vie­ne al primo posto, la
mobilità è fortemente compromessa, quando invece è
primaria la necessità di ampie escursioni articolari la
solidità può essere così relativa che l’articolazione, se
fortemente impegnata, diventa suscettibile di perdita
di integrità e dei relativi rapporti articolari (va cioè
soggetta a lussazione, ovvero al distacco permanente
dei capi articolari).
A seconda dell’esigenza che viene di volta in volta
privilegiata, le articolazioni si suddivi­dono in tre
tipi: Fisse, semimobili e mobili. Nei primi due tipi,
ovviamente, si privilegia la solidità e queste articolazioni sono presenti soprattutto nello scheletro assile:
l’esempio più famoso di ar­ticolazioni fisse è quello
fra le ossa del cranio, mentre esempi di articolazioni
semimobili (che permettono solo piccoli movimenti
di scorrimento e traslocazione) si possono trovare fra
osso sacro e ossa iliache, o fra scapola e clavicola.
Nel terzo tipo si privilegia la mobilità e, ovviamen­te,
queste articolazioni saranno presenti nella parte scheletrica appendicolare, ovvero negli arti.
Un’articolazione è composta da varie parti (fig. 7):
a) la capsula articolare, una specie di manicotto formato da sostanza cartilaginea, che racchiude le estremità ossee, chiamate capi articolari, in una cavità,
chiamata cavità articolare, che si trova completamente sotto vuoto. La mancanza d’aria all’interno della
cavità articolare crea una diffe­renza di pressione con
l’esterno, che migliora la tenuta dell’articolazione.
Infatti, spesso, a favo­rire il distacco dei capi ossei, la
lussazione, contribuisce molto la rottura della capsula
articolare, con il conseguente ingresso di aria nella
capsula. Vi sono vari tipi di capsula articolare, dalle
più semplici alle più complesse. Queste ultime possono essere suddivise in più camere separate, do­tate
anche di uno o più diverticoli.
b) la membrana sinoviale, che secerne il cosiddetto liquido sinoviale, che costituisce una specie di
lubrificante per le ossa, favorendone il movimento
reciproco con il minimo di attriti. Ecco perché è così
importante il riscaldamento atletico per le articolazioni: l’aumento di temperatura all’interno della capsula
favorisce la secrezione del liquido sinoviale e una migliore funzionalità dell’articolazione. Questo liquido
può essere considerato l’analogo dell’olio lubrificante
per un motore. Le ossa perciò, quando l’articolazione
è riscaldata, sono immerse in una specie di bagno
d’olio. I capi articolari, all’interno della capsula, non
vengono mai a contatto, ma sono separati dal bagno
d’olio. Quindi, le ossa non sfregano l’una contro l’altra, anche perché a rivestirle c’è della cartilagine.
c) i legamenti, delle specie di cordoni, posti fuori
della capsula articolare, e tesi fra un osso e l’altro, a
diverse distanze. Essi hanno il compito di migliorare
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Fig. 7. Struttura di un’articolazione: il ginocchio.
la tenuta e la solidità delle artico­lazioni. Mediamente
vi possono essere una decina di legamenti per ciascuna delle articolazioni principali. Occorre dire,
comunque, che i muscoli stessi che si inseriscono
attorno all’articolazio­ne fungono, con la loro resistenza all’allungamento, da elementi di contenzione
dell’articolazio­ne. In effetti, quando si procede con
esercitazioni per il miglioramento della mobilità, è la
resi­stenza all’allungamento del muscolo che si oppo-
ne alla progressione in questo campo.
d) talvolta esistono i menischi, cuscinetti di sostanza
adiposa che sono posti fra osso e osso, con il compito
di migliorare la corrispondenza dei profili articolari.
Un esempio tipico è quello del ginocchio, dove esistono due di questi dispositivi (per ciascun ginocchio).
Le articolazioni mobili si dividono in sei tipi fondamentali, a seconda del grado di mobi­lità permesso.
Da ricordare quella che consente il massimo grado di
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Capitolo I
Fig. 8. L’articolazione della spalla.
escursione articolare, l’enar­trosi. L’enartrosi consente tutti i movimenti fondamentali:
1) la flessione, ovvero il passaggio di un segmento da
un atteggiamento lungo a un atteggia­mento corto.
2) l’estensione, o passaggio da un atteggiamento
corto a uno lungo.
3) l’adduzione, o avvicinamento di un segmento al
piano mediano del corpo.
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4) l’abduzione, o allontanamento dal piano mediano
del corpo.
5) la circumduzione, definita come la somma dei
precedenti quattro movimenti.
6) la torsione, ovvero il movimento di un segmento
attorno al proprio asse.
I due esempi più importanti di enartrosi sono costituiti dalle articolazioni della spalla e dell’anca.
L’articolazione della spalla (o scapolo-omerale, fig.
8) avviene fra l’osso del braccio, omero, e una cavità,
chiamata cavità glenoide, della scapola. Poiché la corrispondenza fra testa dell’omero (rotondeggiante) e cavità glenoide, è molto scarsa (la testa entra per un terzo
solo della propria circonferenza nella cavità), l’articolazione della spalla è la più mobile del corpo umano e
natu­ralmente però anche la più soggetta a lussazioni.
Pur essendo anche l’articolazione dell’anca un’enartrosi, in questo caso la corrispondenza fra la testa del
femore (l’osso della coscia) e la cavità corrispondente
del bacino, chiamata ace­tabolo, è molto migliore. Il
risultato è che l’articolazione è un po’ meno mobile
(alla coscia non sono permesse le escursioni del braccio) ma sicuramente meno soggetta alle lussazioni.
Altre articolazioni importanti sono il ginocchio (fig. 6)
e la caviglia. Il ginocchio si costituisce dal rapporto fra
le due sporgenze inferiori del femore (condili) e due
piccole fossette corri­spondenti nell’estremità superiore della tibia. Poiché, però, la corrispondenza non è fra
le mi­gliori, c’è bisogno, come detto, della presenza dei
due menischi intraarticolari. Da notare che l’osso della
rotula non entra direttamente a far parte dell’articolazione: il suo scopo è quello di migliorare l’angolo di
lavoro del muscolo quadricipite femorale, portandolo
da circa 180° a circa 150°, con positivi effetti sul miglioramento dell’efficienza meccanica.
L’articolazione della caviglia si stabilisce fra le
estremità inferiori del perone e della tibia, e quella
superiore dell’astragalo, grosso osso del tarso che
sta davanti al calcagno. Quest’articola­zione è molto
importante perché sorregge, in pratica, tutto il peso
del corpo in qualsiasi tipo di azione statica (il semplice stare in piedi) o dinamica (camminare, correre o
saltare). Per questo è dotata di un imponente corredo
di legamenti, che non le impediscono, tuttavia, vista
7
la peculiare posizione, di andare soggetta a frequenti
distorsioni (distacco temporaneo, non permanente,
dei capi articolari).
Il sistema muscolare
Tipi di muscoli
I muscoli sono degli organi che, inserendosi sulle
ossa, permettono loro di muoversi re­ciprocamente.
Qui parleremo essenzialmente dei muscoli scheletrici, o striati, ovvero di quelli che si inseriscono
direttamente sulle ossa. Esistono altri due tipi di
muscoli, quelli lisci e il mu­scolo cardiaco (fig. 9). I
muscoli lisci rivestono le pareti interne degli organi,
dei vasi sanguigni e del tubo digerente. Con la loro
contrazione, permettono, per esempio, l’avanzamento del sangue lungo le arterie o del cibo nell’esofago,
nello stomaco, nell’intestino. Hanno un’innervazione
in­volontaria, ovvero si contraggono autonomamente, senza bisogno dell’intervento cosciente. Il cuore
strutturalmente è un muscolo striato, ovvero presenta lo stesso aspetto dei muscoli schele­trici, mentre
funzionalmente è un muscolo liscio, ossia si contrae
indipendentemente dal control­lo nervoso volontario.
Alcuni muscoli striati, come quelli mimico-facciali
(responsabili delle e­spressioni facciali) o il diaframma, presentano una doppia innervazione, volontaria
e involontaria: infatti la respirazione e le espressioni
possono sia essere controllate coscientemente sia,
più spesso, lasciate alla gestione del sistema nervoso
autonomo.
Vi sono più di 500 muscoli scheletrici nel corpo umano. Essi, assieme, alle ossa e alle ar­ticolazioni, costituiscono un mirabile insieme di leve (fig. 10), dove la
resistenza è costituita dal peso dell’osso, la potenza
dal muscolo stesso, il fulcro dall’articolazione. Vi
sono esempi di leve di tutti i generi, vantaggiose, dove
la potenza è maggiore della resistenza, svantaggiose,
dove la re­sistenza è maggiore della potenza, neutre,
dove il fulcro è posizionato esattamente in mezzo alle
due. Paralle­lamente, a seconda della leva costituita,
sono presenti muscoli di diversa potenza, maggiore
se la leva è svantaggiosa (come per esempio nella
Fig. 9. Struttura miscroscopica, da sinistra, dei muscoli scheletrici, lisci, e del cuore.
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Capitolo I
Fig. 10. I vari tipi di leve presenti nel corpo umano;
dall’alto: di 1° genere, approssimativamente neutra,
e di 1° genere, svantaggiosa; di 2° genere, vantaggiosa; di 3° genere, svantaggiosa.
flessione del gomito esercitata dal bicipite omerale),
minore se è vantaggiosa (come nella flessione plantare del piede effettuata dal tricipite surale).
I nomi dei muscoli sono spesso dovuti alla loro forma: per esempio il muscolo deltoide è così detto perché visto dall’alto ricorda la lettera greca delta maiuscola; i muscoli fusiformi han­no proprio la forma di
un fuso: i muscoli pennati ricordano l’aspetto delle
penne degli uccelli. Inoltre ricordiamo che i prefissi
bi, tri o quadri, indicano che il muscolo è diviso in
due, tre o quattro componenti.
L’azione muscolare
L’azione del muscolo, come detto, è quella di muovere un osso rispetto ad un altro. Ciò avviene attraverso
una contrazione, cioè un accorciamento, del muscolo. Il muscolo, diventando più corto, richiama a sè, in
un certo senso, le ossa, le fa avvicinare fra loro.
Qualsiasi muscolo effettua, di norma, due azioni, a
seconda che si tenga come punto fis­so una o l’altra
delle due ossa su cui il muscolo si inserisce. Per
esempio, per quanto riguarda il muscolo quadricipite della coscia, se teniamo ferma la coscia esso fa
estendere la gamba sulla coscia, se teniamo ferma la
gamba esso estende la coscia sulla gamba.
Anche senza conoscere bene l’anatomia e ignorando
pure i precisi punti di inserzione del muscolo sulle
ossa, non è difficile comprendere qual è l’azione
esercitata dai muscoli principali e, viceversa, quali
sono i muscoli che esercitano una determinata azione. É sufficiente pensare a qual è l’angolo di lavoro
che si chiude. In altre parole, il muscolo che lavora è
quello interno all’angolo che si chiude. Per esempio,
pensando all’articolazione del gomito e partendo
con un angolo interno (ovvero sulla faccia superiore dell’arto superiore) fra braccio e avambraccio
di 180°, se flettiamo l’avambraccio sul braccio e
facciamo in modo che l’angolo interno diminuisca
fino a 90° e anche meno, è chiaro che i muscoli che
hanno effettuato l’azione sono quelli che si trovano
sul lato superiore dell’arto superiore, ovvero i flessori
dell’avambraccio, fra cui soprat­tutto il bicipite omerale. Viceversa, se partiamo con un angolo esterno fra
braccio e avambraccio (ovvero sulla faccia inferiore
dell’arto superiore) di 270° e anche più ed estendiamo l’avambrac­cio sul braccio in modo che l’angolo
esterno diminuisca fino a 180°, avremo adoperato i
muscoli estensori dell’avambraccio, ovvero principalmente il tricipite omerale, che si trova sulla faccia
in­feriore dell’arto superiore.
Questi due muscoli, bicipite e tricipite, sono fra loro
antagonisti (fig. 11), ovvero esercitano azioni opposte. Inoltre, quando si
contrae l’agonista (il
muscolo che compie il
movimento), l’antagonista deve rilassarsi, allungarsi, per per­mettere
il movimento. Se non lo
facesse, impedirebbe
l’azione del muscolo agonista. Quindi i
muscoli possono sia
Fig. 10. Il bicipite e il contrarsi che allungarsi.
tricipite brachiali sono Per compiere qualsiasi
muscoli fra di loro anta- tipo di movimento, angonisti.
che il più semplice, è
L’apparato locomotore
9
Fig. 11. Struttura microscopica del muscolo.
necessario il concorso di più muscoli, fra quelli che si
contraggono direttamente (gli agonisti), quelli che si
allungano (antagonisti) e quelli che partecipano solo
indirettamente all’azione, con contrazioni e allungamenti solo parziali (sinergici). Sinergismo è anche il
termine con cui si indica questo tipo di azione.
A livello microscopico (fig. 12) un muscolo è suddiviso in fibre muscolari, a loro volta divise in unità
più piccole chiamate miofibrille; entrambe queste
strutture sono poste in parallelo, ovvero una accanto
all’altra e sono estese per tutta la lunghezza del muscolo. Entrambe risultano suddi­vise in unità più corte, chiamate sarcomeri, disposte in serie (una dietro
l’altra) e comprese fra due linee scure chiamate linee
Z. Ciascun sarcomero è formato da una successione
di filamenti di proteine particolari, chiamate actina e
miosina. Fra i filamenti vi sono dei ponti, delle specie di uncini che normalmente, a muscolo rilassato,
non sono attivati. Quando viene fornita dell’e­nergia,
invece, i ponti si attivano e “arpionano” i filamenti
facendoli scorrere gli uni sugli altri. Ciò porta a un
accorciamento del sarcomero (infatti le linee Z si avvicinano) e del muscolo nel suo complesso.
Le fonti dell’energia muscolare
Ma che cos’è che fornisce l’energia per attivare i ponti fra actina e miosina, ovvero l’e­nergia ai muscoli
per la contrazione? É la scissione dell’ATP, o adenosintrifosfato, in ADP, o adenosindifosfato e acido
fosforico, Pi, secondo il seguente schema:
ATP D ADP + Pi + En
Tuttavia, nei muscoli umani ATP ce n’è in piccole
quantità, tale da consentire contrazio­ni continuate per
pochi secondi al massimo. Però, come si vede, questa
reazione è reversibile, e quindi l’ATP può essere resintetizzato a partire dall’ADP e dall’acido fosforico.
Questo, natu­ralmente, a patto di fornire energia sufficiente. L’energia viene data da tre processi accessori.
Il primo è la scissione del creatinfosfato (CP) che si
divide in creatina e acido fosforico:
CP D C + Pi + En
Questa reazione, tuttavia, fornisce energia in piccole
quantità, perché anche di CP ce n’è poco nei muscoli.
Diciamo che con queste due prime reazioni, in media,
l’organismo umano non può prolungare l’attività per
più di una ventina di secondi (al massimo, quindi,
consente per e­sempio l’effettuazione di corse fino ai
200 m).
Vi sono quindi due altre possibilità per procurare
energia, che serve sia per ricostituire l’ATP, che per
10
Capitolo I
la resintesi del CP. Una è la glicolisi anaerobica, l’altra è la glicolisi ae­robica. Nella prima il glicogeno,
uno zucchero complesso contenuto nei muscoli e nel
fegato, si scinde formando tutta una serie di prodotti
intermedi, fino ad arrivare all’acido lattico:
glicogeno D acido lattico + En
Nella seconda gli alimenti, carboidrati e lipidi, si combinano con l’ossigeno atmosferico, portando alla formazione di scorie quali acqua e anidride carbonica:
Fig. 12. I muscoli principali: vista anteriore.
alimenti + O2 g CO2 + H2O + En
La glicolisi anaerobica ha un’elevata potenza (consente la massima espressione in corse dai 400 ai 1500
m) ma una limitata capacità: questo è dovuto alla formazione dell’acido lattico, un prodotto che tende a
inibire la contrazione muscolare. Un muscolo che ha
accumulato acido lattico è un muscolo appesantito,
dolente, in un certo senso avvelenato. Inoltre, l’acido
lattico è molto difficile da smaltire.
D’altra parte, la glicolisi aerobica ha una potenza
limitata, ma una elevata
capacità (pre­siede alle
prove di lunga durata,
come quelle del mezzofondo e la maratona),
essenzialmente perché
non produce scorie
rilevanti o di difficile
eliminazione,
come
l’acido lattico. L’acqua
e l’anidride carbonica,
infatti, sono eliminate
attraverso la respirazione e la sudorazione.
In ogni momento dell’attività muscolare si
contrae un debito di
ossigeno, che può essere definito lattacido
o alattacido. Questo è
il motivo per il quale,
quando ci fermiamo,
abbiamo il fiato grosso. Quello che succede
è che l’ossigeno in
sovrappiù
introdotto
serve,
combinandosi
con gli alimenti (quindi
utilizzando la glicolisi
aerobica), a fornire
l’energia per resintetizzare l’ATP e il CP
(debito alattacido) o il
glicogeno (debito lattacido) scissi. Infatti,
anche la glicolisi anae­
robica è reversibile,
ovvero l’acido lattico,
fornendo energia, può
essere smaltito e ritrasformato in glicogeno.
Quindi, oltre che per la
ricarica dell’ATP e del
CP, la glicolisi aerobica
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è in grado di fornire l’energia anche per la ricostituzione del glicogeno.
Il debito di ossigeno alattacido è molto rapido da pagare, pochi minuti, poiché le scorte di ATP e CP da
ricostituire sono limitate. Il debito lattacido, invece,
si paga molto più lentamente, sia perché le scorte di
glicogeno da ricostruire sono molto più ingenti, sia
perché l’acido lattico è difficile da eliminare. Per pagare un debito di ossigeno lattacido ci vogliono come
minimo deci­ne di minuti, spesso ore, qualche volta
giorni: i dolori muscolari che si sentono per giorni
e giorni quando si è sostenuto uno sforzo superiore
alle nostre possibilità esprimono niente altro che la
Fig. 13. I muscoli principali: vista posteriore.
11
presenza di forti concentrazioni di acido lattico nei
muscoli e nel sangue.
Le azioni dei muscoli principali
Andando dall’alto in basso, queste sono le azioni dei
principali muscoli (figg. 12 e 13):
Nel collo, lo sterno-cleido-mastoideo produce principalmente l’estensione e la flessione della testa.
Nella spalla, il deltoide è diviso in tre fasci: i fasci anteriori flettono il braccio rispetto al busto, i fasci posteriori lo estendono, i fasci superiori lo abducono.
Nella parte posteriore del tronco, il trapezio porta
indietro la spalla ed estende la testa sulla colonna vertebrale; il grande dorsale è
adduttore ed estensore
del braccio. Nella parte ante­riore, il grande
pettorale è adduttore e
flessore del braccio.
Nel braccio, il bicipite
è il principale flessore
dell’avambraccio
sul
braccio, il tricipite è il
principale estensore.
I muscoli addominali
sono otto, quattro per
parte. Il retto dell’addome flette il busto sul­le
cosce, i due obliqui e il
trasverso flettono frontalmente e lateralmente
il busto e lo torcono.
Nel bacino, il grande
gluteo estende la coscia
rispetto al busto, il medio e il piccolo glu­teo
la abducono, l’ileopsoas
la flette, gli adduttori la
adducono.
Nell’arto inferiore il
quadricipite estende la
gamba sulla coscia, il bicipite, il semitendino­so
e il semimembranoso la
flettono. Il tricipite surale flette plantarmente il
piede, il peroniero anteriore e il tibiale anteriore
lo flettono dorsalmente.
I muscoli e la forza
Capitolo V
I muscoli e la forza
La forza come qualità fisica
Possiamo definire la forza, come qualità fisica dell’uomo, come la capacità di sollevare un peso o di
opporsi validamente ad esso.
La forza è direttamente proporzionale alla sezione
del muscolo. Ovvero, come si può facilmente intuire,
più grosso è un muscolo, più è in grado di esprimere
forza. Da questo punto di vista, non ha molto senso
affermare che un atleta, per esempio un culturista, è
solo “muscoloso”, è solo “pompato”, ma non ha forza: è dotato invece di entrambe le qualità.
Quindi, un atleta muscoloso è sicuramente un atleta
forte. Ma è vero anche il contrario? Ovvero, un atleta
forte è sempre muscoloso? Non sempre. Come vedremo, si può aumentare la forza anche senza aumentare
la massa muscolare.
L’allenamento della forza
In effetti, sono due i metodi principali per lo sviluppo
della forza, uno che consiste, appunto, nell’aumentare
la massa muscolare, ed è il metodo del body-building,
o degli sforzi ripetuti, ovvero di coloro che praticano la cultura fisica, o culturismo. L’altro è quello che
consiste nell’aumentare la quantità di unità motorie
che vengono reclutate all’interno di un muscolo,
ma senza andare ad aumentare la sezione di questo.
Questo è il metodo utilizzato dai sollevatori di pesi, o
metodo degli sforzi massimali.
Il metodo degli sforzi ripetuti
Il body-building si pratica secondo le seguenti modalità: per ciascun gruppo muscolare si scelgono alcuni
esercizi, per esempio tre per gli arti superiori (uno per
i deltoidi, uno per i trapezi, uno per i grandi pettorali),
tre per i muscoli dorsali (uno per i grandi dorsali, due
per i dorsali profondi), tre per gli addominali (uno
per i retti, due per gli obliqui e i trasversi), quattro
per gli arti inferiori (uno per i grandi glutei, uno per
i quadricipiti, uno per i flessori della gamba, uno per
i flessori dorsali e plantari del piede). Gli esercizi
vanno eseguiti lentamente, nel modo più lento possibile, effettuando all’inizio non più di otto ripetizioni.
Dopo una pausa di circa un minuto si effettueranno
altre otto ripetizioni. Dopo un’altra pausa della stessa
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durata una terza serie, sempre di otto ripetizioni. Poi
si passerà ad un altro esercizio. All’inizio dell’allenamento, per i principianti, conviene alternare i settori
muscolari che sono impegnati, per non affaticarsi
troppo. Ovvero, dopo aver effettuato un esercizio con
gli arti superiori, conviene passare per esempio agli
arti inferiori. Si è visto, però, con atleti evoluti, o comunque non più principianti, che i risultati migliori si
conseguono lavorando continuativamente sullo stesso
settore con esercizi diversi, passando poi ad un altro
settore muscolare dopo aver eseguito tutti gli esercizi
del primo settore. All’inizio, per chi è veramente alle
prime armi, è forse opportuno eseguire solo due serie,
e non tre, per ogni esercizio.
Come si stabilisce il carico di lavoro, cioè, brutalmente, la quantità di chili da sollevare, nel manubrio,
nel bilanciere, sulla macchina? Essa deve essere pari
al 70% del massimale. Il massimale è il peso massimo che si riesce a sollevare, ovviamente solo per una
volta, in un determinato esercizio. Per esempio, se uno
riesce a sollevare nello squat (flessione e successiva
estensione delle cosce dalla stazione eretta, con un
carico che grava sulle spalle) 100 chili, sceglierà 70
chili come carico di lavoro. Nella pratica, soprattutto
con soggetti giovani, è sconsigliabile stabilire sperimentalmente il carico massimale per ogni esercizio:
si potrebbero provocare danni più o meno permanenti
ad ossa, articolazioni e muscoli. Si procede in modo
empirico, adottando cautelativamente, soprattutto
nelle prime settimane di allenamento, dei carichi abbastanza blandi di cui è nota la tollerabilità in soggetti
di pari sesso, età, allenamento, conformazione fisica,
approssimando, ovviamente, per difetto.
La quantità di lavoro che si riesce a fare è, comunque,
come si può capire, veramente notevole. Lavorando
su 13 esercizi diversi, come abbiamo detto, alla fine
di una prima sessione avremo realizzato ben 312
ripetizioni, ovvero avremo alzato alcune migliaia di
chili. Tutto questo stimola la sintesi proteica, ovvero
stimola la produzione di sostanza muscolare a partire
dalle proteine, ovvero dagli aminoacidi, che introduciamo con la dieta. Ovviamente, chi mangia poche
proteine in assoluto, non importa se di origine animale o vegetale, difficilmente aumenterà molto di massa
muscolare. Per farlo, dovrà ricorrere a una dieta iperproteica, non iperproteica in assoluto, ma rispetto ai
propri abituali standard. Vale appena il caso di dire
che è proprio la sintesi proteica, l’aumento di massa,
che i cultori di questa pratica, appunto i culturisti,
perseguono, e non il parallelo, inevitabile, aumento
di forza. Con quali effetti estetici ciascuno è in grado
di giudicare, per quanto gli compete.
Tornando all’allenamento, dopo questa prima seduta,
le due successive (immaginando di lavorare su tre
sessioni settimanali, una frequenza tutto sommato
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Capitolo V
Fig. 25. La differenza di struttura fisica fra il campione olimpico 2008 di sollevamento pesi nella categoria pesi
massimi Andrei Aramnau e Mister Olympia (la più importante competizione internazionale di culturismo) 2011
Phillip Heath. I due atleti hanno quasi lo stesso peso e la stessa altezza: 172 cm per 105 kg e 175 cm per 110 kg.
sufficiente per ottenere buoni risultati) andranno
eseguite con le medesime modalità. Anche la seconda
settimana di allenamento ricalcherà le modalità della
prima, anche se, probabilmente, il soggetto capirà di
essere in grado di effettuare più di otto ripetizioni. Il
motivo principale di ciò va ricercato nel fatto, che
come si diceva, il carico iniziale scelto era già probabilmente un po’ troppo leggero.
Con la terza settimana si potrà arrivare ad esplorare
appieno la lettera e lo spirito del body-building, aumentando il numero delle ripetizioni, tenendo fisso
il carico, a 10. Si dovrà arrivare alla trentesima ripetizione, ovvero all’ultima delle tre serie, in modo
veramente forzato, tale da far comprendere chiaramente di non essere in grado di replicare ulteriormente l’alzata. Per altre due settimane si procederà
così. Poi, nelle due settimane successive, si porterà il
numero delle ripetizioni a 12 e, poi, nelle ulteriori due
successive, a 15. L’ultima delle ripetizioni effettuate
per ogni singolo esercizio dovrebbe avvenire con le
medesime modalità viste precedentemente, ovvero
fino all’esaurimento.
Poi, non si aumenterà ulteriormente il numero delle
ripetizioni: facendolo, non si allenerà più di tanto la
forza, quanto la resistenza muscolare, ovvero la capacità da parte del muscolo di compiere un lavoro più
o meno prolungato.
Invece, si aumenterà il carico di lavoro. Lo si aumen-
terà di quel tanto che ci consenta di non effettuare più
di otto ripetizioni per ogni esercizio. Si terranno le
otto ripetizioni per le prime due settimane, poi si passerà a 10, poi a 12, poi a 15. Poi si aumenterà di nuovo il carico e si tornerà alle otto ripetizioni, e così via
come si è visto prima. Così facendo la forza aumenta
in modo molto vistoso: in soli tre o quattro mesi di
allenamento si potrà scoprire di essere in grado di
sollevare per tutti gli esercizi pesi doppi di quanto si
faceva all’inizio.
Il metodo degli sforzi massimali
L’altro metodo, quello degli sforzi massimali, è però
sconsigliabile a degli atleti in giovane età, e viene
utilizzato solo da atleti evoluti. In particolare, appunto dai sollevatori di pesi oppure dai pugili o dai vari
tipi di lottatori, atleti cioè che hanno la necessità di
aumentare la forza senza però aumentare la massa
muscolare: infatti, aumentando di peso, si troverebbero nella indesiderata e indesiderabile situazione di
dover competere con atleti di stazza maggiore.
Questo metodo si basa sull’allenamento della volontà, ovvero sulla forte motivazione di questi atleti. Si
è visto che il muscolo, quando si contrae, non contrae
tutte le fibre di cui è dotato, ma solo una minoranza.
Ciò è logico, se si pensa che nelle azioni normali con-
I muscoli e la forza
tinuate, per esempio nella marcia e nella corsa, abbiamo la necessità di far riposare delle fibre che potranno
essere contratte in un’azione successiva: altrimenti,
giungeremmo in breve tempo all’esaurimento.
In condizioni maggiori di richiesta energetica, relativi
appunto a prestazioni di forza, l’uomo è in grado di
reclutare una quantità maggiore di fibre muscolari.
In particolari casi di richiesta energetica o di stress,
addirittura, per esempio in caso di pericolo, l’uomo
è in grado di ricorrere alla quasi totalità delle fibre
contraendo completamente il muscolo ed esibendo
una prestazione di forza di livello veramente superiore. Ora, come si è scoperto, questa capacità può essere allenata, con un metodo che viene anche definito
piramidale.
Questo consiste nel scegliere degli esercizi di partenza, simili in linea di principio a quelli del body-building, che utilizzano però carichi più elevati di quelli.
Nella pratica, carichi che possono essere sollevati al
massimo, per esempio, non più di sette volte (75%
del massimale). Poi, dopo una pausa, decisamente
più lunga di quella fra le serie del body-buliding, si
effettuerà un’altra serie dello stesso esercizio, con un
carico però più elevato, tale da poter essere sollevato
solo cinque volte (85% del massimale). Altra pausa,
più lunga della precedente, poi tre ripetizioni con
un carico ancora più elevato (90% del massimale).
Infine, una o due ripetizioni con un carico pressoché
massimale. Questa metodologia va ripetuta, ovviamente, per l’intera batteria di esercizi prescelta.
Dal punto di vista dell’efficacia, la pratica ha dimostrato che, per quanto riguarda l’incremento della
forza massimale, il metodo degli sforzi massimali è
più efficace del metodo degli sforzi ripetuti.
Nell’allenamento sportivo, in realtà, spesso si pratica
un misto di questi due sistemi. Molto spesso il bodybuilding viene praticato anche a livelli più bassi, con
esercizi più blandi, con 20-25 ripetizioni, proprio per
allenare la resistenza muscolare, e qualche volta atleti
non di forza usano il metodo piramidale almeno nei
suoi gradi inferiori.
Inoltre, va rimarcato il fatto che talvolta i due sistemi
si mescolano anche nei risultati empirici: chi pratica
il body-building, pur non aumentando molto di massa, o perché non assume molte proteine nella dieta
o perché possiede un metabolismo poco portato alla
“plasticità”, aumenta però la forza, grazie comunque all’aumento della coordinazione conseguente
all’esercizio. In questo senso, la coordinazione consiste proprio nell’utilizzo più massiccio ed efficace
del muscolo. Dall’altra parte, il sollevatore di pesi, il
pugile, il lottatore, non è che riesce proprio a non aumentare per niente di peso perché comunque anche il
sistema piramidale è suscettibile di apportare miglioramenti nell’utilizzo della quota proteica introdotta
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con la dieta. Del resto, basta guardare il profilo della
muscolatura di molti di questi atleti che, fra l’altro,
in diversi casi sono ben più consoni ai canoni della
bellezza estetica classica, di matrice greca, che non
nel caso degli “eccessivi” e sformati culturisti. In
conclusione, possiamo dire che il metodo in assoluto
più utile per l’incremento della forza assoluta è quello
che assicura un contemporaneo aumento della massa
e della forza muscolari. Questo consiste nell’esercitarsi con un carico di lavoro di entità intermedia fra i
due metodi riportati, ovvero che consenta 5-6 ripetizioni per ogni esercizio.
Forza assoluta e forza relativa
Una distinzione interessante è quella fra forza assoluta e forza relativa. La prima è la forza che sviluppa
un soggetto in un movimento qualsiasi, indipendentemente dal peso corporeo. La seconda è il valore della
forza corrispondente a un chilo della propria massa
corporea. La forza assoluta aumenta con il peso del
corpo, mentre la forza relativa diminuisce. Questo
avviene perché la massa del corpo è proporzionale
al volume del corpo, ovvero al prodotto delle sue
tre dimensioni lineari mentre la forza, come detto, è
proporzionale alla sezione, quindi al quadrato delle
dimensioni lineari. Di conseguenza, con l’aumentare
delle dimensioni corporee, la massa aumenta più rapidamente della forza.
È ovvio, per quanto detto, che atleti che hanno bisogno
di ottenere soprattutto forza assoluta, come i lanciatori
o i sollevatori di pesi che già militano nella categoria
dei massimi, devono privilegiare l’aumento della massa muscolare, ovvero utilizzare maggiormente il metodo del culturismo. Atleti, invece, che hanno l’esigenza
di aumentare la forza relativa, come gli altri sollevatori, i pugili, i lottatori, i ginnasti, utilizzeranno il metodo piramidale. Non solo, ma cercheranno utilmente,
tramite la dieta, di diminuire di peso diminuendo la
frazione della massa grassa presente nel loro corpo.
L’isometria
Per finire, un cenno al lavoro statico o isometrico,
ovvero al metodo di allenamento della forza che prevede il ricorso ad azioni che avvengono senza spostamento dei segmenti corporei, ovvero senza modificazioni della lunghezza del muscolo. Pur essendo
stati molto di moda vari anni fa, diversi lavori hanno
dimostrato che la loro efficacia è comunque inferiore
a quella degli esercizi dinamici e che, al massimo,
essi possono essere considerati complementari a questi nello sviluppo della forza.