Scoperta una nuova proteina nelle piante, potrebbe aprire
nuove frontiere per le energie rinnovabili
E’ stata scoperta da un team di ricercatori italiani e tedeschi la proteina che fa utilizzare al
meglio alle piante l’energia solare. L’importanza di questa scoperta, pubblicata dalla rivista
scientifica “Plos Biology”, è che la proteina identificata fa variare l’apparato fotosintetico
delle piante in maniera funzionale rispetto alle condizioni ambientali e climatiche.
Realizzata da un gruppo di ricercatori delle Università degli studi di Milano, del Piemonte
Orientale e Ludwig Maximilian Universitaet di Monaco, questa scoperta, sottolineano i
ricercatori, può portare importanti ricadute sia sul fronte agricolo, per la produzione delle
piante coltivate, sia nelle tecnologie legate anche alle energie rinnovabili.
Le foglie delle piante, infatti, possono essere considerate, spiegano i ricercatori, “del tutto
simili a dei pannelli solari che assorbono e accumulano, l’energia luminosa”. Per questo,
“conoscere i meccanismi molecolari utilizzati dalle piante per ottimizzare l’assorbimento
della luce potrà essere utile anche per sviluppare, in futuro, tecnologie più efficienti
nell’assorbimento e accumulo della radiazione solare”, aggiungono i ricercatori nel cui
team ha lavorato anche Paolo Pesaresi, del dipartimento di Scienze biomolecolari e
biotecnologiche dell’Università di Milano, che da 15 anni studia i meccanismi molecolari
responsabili della regolazione della fotosintesi in mais, orzo e nelle specie modello
Arabidopsis thaliana, la pianta su cui è stata realizzata la ricerca.
“Attraverso la fotosintesi -spiega - le piante assorbono l’energia luminosa e la convertono
in sostanza organica, essenziale per l’alimentazione di molti organismi che popolano il
nostro pianeta. La radiazione luminosa che raggiunge le foglie, però, è soggetta a
cambiamenti continui della propria intensità e composizione spettrale, conseguenza di
molteplici e naturalissimi fattori come le nuvole, il movimento delle foglie indotto dal vento,
l’alternarsi del giorno e della notte. Così, per fronteggiare al meglio queste situazioni, le
piante hanno sviluppato meccanismi molecolari che consentono loro di adattare
rapidamente l’apparato fotosintetico alle diverse condizioni luminose e quindi ottimizzare
l’attività foto sintetica”.
E la storia della scoperta di oggi parte da lontano.
Numerosi studi realizzati in passato, infatti, hanno dimostrato che, a seconda delle
condizioni luminose, l’apparato fotosintetico può assumere due diverse modalità
funzionali, definite come stato 1 e stato 2. Nel 2005, lo stesso gruppo di ricerca che ha
condotto questo studio aveva identificato l’enzima chinasi STN7 responsabile della
transizione dall’apparato fotosintetico dallo stato funzionale 1 allo stato 2, attraverso
l’aggiunta di gruppi fosfato a una proteina dell’apparato fotosintetico deputata
all’assorbimento della luce. Uno studio che allora fu pubblicato dalla rivista Nature. Poi è
arrivata la ricerca attuale che ha fatto fare ai ricercatori un ulteriore passo in avanti nella
conoscenza di questi processi.
I tre gruppi di ricerca hanno, infatti, identificato una nuova proteina, l’enzima fosfatasi
TAP38, responsabile di rimuovere i gruppi fosfato e quindi di riportare l’apparato
fotosintetico allo stato funzionale 1.
“Il gene codificante la fosfatasi TAP38 - spiegano i ricercatori - è stato isolato nella pianta
modello Arabidopsis thaliana attraverso un approccio di genomica funzionale. Dieci geni
nucleari, codificanti fosfatasi predette o sperimentalmente verificate essere localizzate nel
cloroplasto, sono stati silenziati e le corrispondenti linee mutanti di Arabidopsis analizzate
per la capacità del loro apparato fotosintetico di passare dallo stato funzionale 1 allo stato
2 e viceversa in funzione delle condizioni luminose ambientali”.
In questo modo si è potuto osservare che la linea mutante di Arabidopsis, priva della
fosfatasi TAP38, rimaneva bloccata allo stato funzionale 2 indipendentemente dalle
condizioni luminose, conseguenza del fatto che i gruppi fosfato aggiunti dalla chinasi
STN7 all’apparato fotosintetico non erano rimossi. E non è tutto.
“Nello stesso tempo - affermano ancora i ricercatori - si è anche potuto verificare che altre
piante, ugualmente private della fosfatasi TAP38 ma coltivate in serra, e quindi in
condizioni di luminosità per le quali la permanenza della pianta nello stato 2 risulta
particolarmente funzionale, beneficiavano di un’attività fotosintetica addirittura migliore
rispetto alle piante selvatiche di controllo, come dimostrato anche dalla maggior
produzione di biomassa”.
Un’osservazione, quest’ultima, particolarmente interessante “per le ricadute che la
conoscenza di questo meccanismo molecolare potrà avere nel controllo della produttività
delle coltivazioni in serra”.
Enrico Leporati