I seguenti brani sono tratti dal capitolo “L’industria culturale. Quando l’illuminismo diventa mistificazione di massa” della Dialettica dell’illuminismo (Torino, Einaudi 1966). (...) = parte omessa; [txt] = chiarimento a cura del docente «L’amusement [sinonimo di divertimento, loisir] è il prolungamento del lavoro nell’epoca del tardo capitalismo. Esso è cercato da chi aspira a sottrarsi al processo lavorativo meccanizzato per essere poi di nuovo in grado di affrontarlo e di essere alla sua altezza (...) Il piacere del divertimento si irrigidisce in noia, poiché, per potere restare piacere, non deve costare altri sforzi, e deve quindi muoversi strettamente nei binari delle associazioni consuete. Lo spettatore non deve lavorare di testa propria; il prodotto gli prescrive ogni reazione: non in virtù del suo contesto oggettivo (che si squaglia, appena si rivolge alla facoltà pensante), ma attraverso una successione di segnali. Ogni connessione logica, che richieda, per essere afferrata, un certo respiro intellettuale, è scrupolosamente evitata. Gli sviluppi devono scaturire, ovunque possibile, dalla situazione immediatamente precedente, e non già dall’idea del tutto. (...) Nei film polizieschi e di avventura che si proiettano oggi non è più consentito, allo spettatore, di assistere allo svolgimento e alla chiarificazione graduale della vicenda. Egli deve accontentarsi, anche nelle produzioni del genere che non si prendono in giro da sé, del brivido delle situazioni isolate, che ci si prende appena la briga di collegare debolmente tra loro» (pp. 145-146). «Divertirsi [per divertimento qui si intende la fruizione di prodotti dell’industria culturale: film, canzonette, rotocalchi, ecc.] significa essere d’accordo. L’amusement è possibile solo in quanto si isola e si ottunde rispetto alla totalità del processo sociale [a tutto quel che accade nella società], e abbandona assurdamente, fin dall’inizio, la pretesa irrinunciabile di ogni opera [d’arte], per quanto insignificante possa essere: quella di riflettere, nella propria limitazione, il tutto. Divertirsi significa ogni volta: non doverci pensare, dimenticare la sofferenza anche là dove viene esposta e messa in mostra. Alla base del divertimento c’è un sentimento di impotenza. Esso è, effettivamente, una fuga, ma non già, come pretende di essere, una fuga dalla cattiva realtà, ma dall’ultima velleità [ambizione inconsistente, irrealizzabile] di resistenza che essa può avere ancora lasciato sopravvivere negli individui (...) L’impudenza della domanda retorica, “Ma guarda un po’ che cosa vuole il pubblico!”, consiste nel fatto che ci si appella, come a soggetti pensanti, a quelle stesse persone che l’industria culturale ha il compito specifico di disavvezzare [disabituare] dalla soggettività» (pp. 154-155). «Più importante ancora (...) è il finanziamento dei mezzi di comunicazione ideologici. Dal momento che, sotto la pressione del sistema, ogni prodotto adopera la tecnica pubblicitaria, questa è penetrata trionfalmente nell’idioma [=nel linguaggio], nello “stile” dell’industria culturale. La sua vittoria è così completa che essa, nei punti decisivi, non ha più nemmeno bisogno di diventare esplicita: i palazzi monumentali dei giganti, pubblicità pietrificata sotto la luce dei riflettori, sono privi di réclame, e tutt’al più si limitano ad esporre, sui merli delle loro torri, fulgide e lapidarie, senza bisogno di elogi e di autoincensamenti superflui, le iniziali della ditta. Mentre le vecchie case sopravvissute dal secolo scorso, sulla cui architettura si scorgono ancora i segni umilianti della loro destinazione utilitaria di beni di consumo, e cioè lo scopo dell’abitazione, vengono sistematicamente lardellate, dal piano terreno fino sopra il tetto, di manifesti e di striscioni pubblicitari; e il paesaggio si riduce a fungere da sfondo di cartelli e di insegne. La pubblicità diventa l’arte per eccellenza (...). Nei settimanali americani [negli anni trenta-quaranta del secolo scorso i settimanali in Europa non erano diffusi come oggi] più influenti e più diffusi come “Life” o “Fortune”, uno sguardo superficiale non è già più in grado di distinguere le immagini e i testi pubblicitari da quelli della parte redazionale, A quest’ultima appartiene il reportage illustrato, scritto in tono entusiastico, e non pagato, sulle abitudini di vita e sull’igiene personale della celebrità, che le procura nuovi fans, mentre le pagine riservate alla pubblicità si basano su fotografie e su testi così oggettivi e così realistici da rappresentare addirittura l’ideale dell’informazione a cui la parte redazionale non fa che cercare di avvicinarsi» (p. 176). «Tutti sono liberi di ballare e di divertirsi, come, a partire dalla neutralizzazione storica della religione, sono liberi di entrare in una delle innumerevoli sette. Ma la libertà (...) si rivela in tutti i settori come la libertà del sempre uguale. Il modo in cui una ragazza accetta e assolve il suo date [appuntamento] obbligatorio, il tono della voce al telefono e nella situazione più familiare, la scelta delle parole nella conversazione e l’intera vita privata, ordinata secondo i concetti della psicoanalisi volgarizzata, attestano lo sforzo di fare di se stessi l’apparecchio adatto al successo, conforme, fino ai moti piú istintivi, al modello presentato dall’industria culturale. Le reazioni piú intime degli uomini sono così perfettamente reificate [trasformate in cosa, private di ogni tratto di umanità] ai loro stessi occhi che l’idea di ciò che è proprio e peculiare a ciascuno di essi sopravvive solo nella forma più astratta: personality non ha praticamente altro senso, per loro, che quello di denti bianchi, bocca fresca e libertà dal sudore e dalle emozioni. È il trionfo della pubblicità nell’industria culturale, l’imitazione coatta [non libera, soggetta a vincoli restrittivi e soffocanti], da parte dei consumatori, delle merci culturali pur scrutate nel loro significato» (p. 181). nomefile: LSS_4C_Appunti_Adorno_industriaculturale.doc