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Catasto Intellettuale Mediterraneo
Inventario dei Saperi Mediterranei
Catastro Intelectual Mediterráneo
Inventario de los Saberes Mediterráneos
Cadastre Intellectuel Méditerranéen
Inventaire des Savoirs Méditerranéens
Mediterranean Intellectual Inventory
Inventory of Mediterranean Knowledge
4
Prospettive sacre d’Oriente e d’Occidente
1
In copertina: Testa di Buddha: perfetta illuminazione - Arte Gandhara
Machina Philosophorum
Testi e studi dalle culture euromediterranee
26
Ai fini dell’attribuzione, Patrizia Spallino ha curato la redazione del volume e l’indice dei nomi; Paolo Urizzi ha curato l’organizzazione scientifica
del Seminario.
Il fine ultimo dell’uomo : prospettive sacre d’Oriente e d’Occidente : Atti del 1.
Seminario di studi : Palermo 21-22 maggio 2005 / a cura di Patrizia Spallino e
Paolo Urizzi. – Palermo : Officina di Studi Medievali, 2012.
(Machina Philosophorum : testi e studi dalle culture euromediterranee ; 26)
(Catasto Intellettuale Mediterraneo : inventario dei saperi mediterranei ; 4)
(Prospettive sacre d’Oriente e d’Occidente ; 1)
1. Teologia dogmatica – Gnosticismo – Soggetto <filosofia> - Seminari –
Palermo
I. Spallino, Patrizia
II. Urizzi, Paolo
211 CDD-21
ISBN 978-88-6485-036-8
ISBN 978-88-6485-039-9 (e-book .pdf)
CIP: Biblioteca dell’Officina di Studi Medievali
Collana coordinata da:
Maria Bettetini, Diego Ciccarelli, Alessandro Musco (direttore).
Copyright © 2012 by Officina di Studi Medievali
Via del Parlamento, 32 – 90133 Palermo
e-mail: [email protected]
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ISBN 978-88-6485-036-8
ISBN 978-88-6485-039-9 (e-book .pdf)
Ogni diritto di copyright di questa edizione e di adattamento, totale o parziale, con
qualsiasi mezzo è riservato per tutti i Paesi del mondo. È vietata la riproduzione,
anche parziale, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata dall’editore.
Prima edizione, Palermo, febbraio 2012
Stampa: Fotograf s.n.c.
Editing: Alberto Musco
IL FINE ULTIMO DELL’UOMO
Prospettive sacre d’Oriente e d’Occidente
Atti del 1° Seminario di studi
Palermo 21-22 maggio 2005
a cura di
Patrizia Spallino e Paolo Urizzi
2012
Tutte le collane editoriali dell’Officina di Studi Medievali sono sottoposte
a valutazione da parte di revisori anonimi. Il contenuto di ogni volume è
approvato da componenti del Comitato Scientifico ed editoriale dell’Officina o da altri specialisti che vengono scelti e periodicamente resi noti.
All the editorial series of the Officina di Studi Medievali are peer-reviewed
series. The content of the each volume is assessed by members of Advisory
Board of the Officina or by other specialists who are chosen and whose
names are periodically made know.
Indice
Patrizia Spallino - Paolo Urizzi, Introduzione
Ananda K. Coomaraswamy, La dottrina indiana del fine
ultimo dell’uomo
IX
1
Prolusione
Massimo Jevolella, Talìtha cumi! (Mc 5, 41)
9
Le luci dell’Oriente
Veronica Lombardi, «Io e i diecimila esseri siamo una sola
cosa». L’idea di soggetto nel Zhuangzi e nel Laozi
Francesco Sferra, Il concetto di atammayatā nei Nikāya pāli
Giulia Sfameni Gasparro, Diventare dio nello Gnosticismo
23
37
51
La spiritualità delle religioni abramiche
Arnaldo Petterlini, I Padri greci verso la nozione di θέωσις 89
Marta Cristiani, Negati adfirmatio: via negativa e via positiva
alla conoscenza del divino da Dionigi l’Areopagita a Ugo
di San Vittore
103
Rosanna Gambino, La divinoumanità nell’Oriente Cristiano 125
151
Paolo Urizzi, L’Uomo teomorfico secondo Ibn ‘Arab†
Indice dei nomi
189
VII
Introduzione
I seminari di studi che abbiamo intitolato Prospettive sacre d’Oriente e d’Occidente, di cui presentiamo gli Atti del primo incontro
palermitano, nascono dal matrimonio di due animi: quello prettamente accademico dell’Officina di Studi Medievali, aperto allo studio delle diverse espressioni religiose e filosofiche, con alle spalle
un’ampia esperienza di ricerca in campo internazionale, e quello,
proprio di Perennia Verba, rivolto a investigare la Philosophia Perennis che in qualche modo soggiace, in forma più o meno evidente,
dietro le grandi espressioni del sacro. Lo scopo di tale unione, cementato dal comune criterio di rigore scientifico, è quello di proporre un milieu intellettuale che aiuti a illuminare e soprattutto a meglio
focalizzare gli spazi del sacro nelle sue molteplici declinazioni.
La nostra è un’epoca in cui non ci si può più permettere d’ignorare l’«altro»: chi proviene da una cultura diversa dalla nostra e da
mondi dove tradizioni millenarie fanno comunque da sfondo anche
ai più svariati e spinti processi rivoluzionari indotti dalla globalizzazione. La diversità non dev’essere vista come possibile causa di
conflittualità, né portarci a paventare lo scontro di civiltà teorizzato
da Samuel Huntington. Essa dev’essere piuttosto uno stimolo all’arricchimento delle nostre rispettive culture di appartenenza, grazie a
una comprensione più profonda ed universale indotta dallo studio
del sacro e delle tradizioni arcaiche dell’umanità. Solo una visione
capace di osservare la Verità nei suoi molteplici aspetti, analoga a
quella di colui che, ponendosi in cima alla montagna, è in grado di
percepire le molteplici vie che portano alla sua vetta, sa apprezzare
le differenze e coglierne l’unità essenziale.
Continuiamo, spesso inutilmente, a parlare di dialogo… dialogo
di civiltà, dialogo interculturale, dialogo interreligioso. Il risultato
è nella maggior parte dei casi deludente e non possiamo non chiedercene la ragione. Dobbiamo guardare indietro, lungo il percorso
intrapreso, e cercare di valutare onestamente le ragioni dei fallimenti. Il primo passo sarà quello di porci nei confronti degli altri,
non come gli unici depositari della Verità, bensì come i depositari
di un’espressione della Verità, la quale, di per sé, non può essere
limitata da alcuna forma. Riferendosi alla natura della rivelazione,
IX
›unayd, maestro vissuto a Baghdad nel III secolo dell’égira, disse
che «l’acqua assume sempre il colore del recipiente che la contiene», volendo significare con ciò che la Verità in se stessa non ha
alcuna «tinta» che la caratterizzi, quest’ultima procedendo sempre
e soltanto dal ricettacolo umano che la riceve ed è eventualmente
destinato a veicolarla.
La Verità, già per S. Agostino, è una Sapienza increata sic est, ut
fuit, et sic erit semper, e ancor prima di lui, Clemente Alessandrino
scriveva che la stessa identica Verità si trova espressa, rivestita in
molteplici forme, sia dai Brahmani sulle rive del Gange, che dai
Caldei, che nei misteri dei sacerdoti Egizi, poiché sempre ispirata
da uno stesso – per dirla in termini cristiani – Verbo eterno. Questo
è anche lo spirito universale cantato da ðall…º, da Rūm† e da Ibn
‘Arab†, uomini per i quali la Vera Religione, dal tempo primordiale
fino al Giorno della Resurrezione, è una e identica presso tutte le
religioni rivelate quanto alla sua realtà essenziale, poiché la differenza non concerne che la forma e si tratta d’una differenza di linguaggio che non sopprime l’identità originale e l’unità metafisica.
S. Ambrogio, citato da S. Tommaso d’Aquino, affermava che, «ogni
verità, non importa dov’essa si trovi, ha sempre per autore lo Spirito
Santo». Secondo A. K. Coomaraswamy, uno dei maggiori testimoni
del nostro tempo della Philosophia Perennis, «la filosofia metafisica
è chiamata perenne a causa della sua eternità, universalità e immutabilità... Ciò che è stato rivelato all’origine contiene implicitamente
l’intera Verità... la dottrina non ha storia».1
Investigare nelle tradizioni sacre dell’antichità, nel patrimonio
dimenticato, è quindi la premessa indispensabile per comprendere
le ragioni dell’altro, e qualora non saremo arroccati nelle specificità
della nostra «forma», forse saremo in grado di capire che le differenze di linguaggio non preludono necessariamente a differenze di
significato. Questa ricerca, all’epoca attuale, può ben servirsi degli strumenti scientifici tipici della cultura accademica, senza per
questo snaturare il messaggio sapienziale che le culture metafisiche
del passato ci hanno lasciato in eredità. Sicuramente rischieremo
di scoprire percorsi che vanno in una direzione diversa da quella
1
X
Metaphysics, R. Lipsey (a cura di), Princeton University Press, 1977, p. 7.
del mondo moderno, ma forse questa è l’unica porta rimasta aperta
all’uomo contemporaneo per riscoprire principi dimenticati e sentieri che portano ad una conoscenza di Dio che è soprattutto conoscenza di noi stessi. Percorsi scevri dalle intemperanze dell’intolleranza
che deriva dall’ignoranza e dalla paura di perdere la propria identità
culturale. Secondo coloro che scrivono, non è di questa paura che
dobbiamo preoccuparci, bensì di quella di non riuscire a ritrovare la
nostra vera identità a motivo dell’eccessivo attaccamento alla nostra
individualità, puramente contingente e priva di alcuna consistenza metafisica. L’Uomo interiore non s’identifica a quello esteriore, che non
ne è che un simulacro. È per questo che nel Vangelo è detto che «chi
ama la sua anima la perderà» e che tutte le dottrine metafisiche c’insegnano a «morire prima di morire» al fine di rinascere nuovamente.
Ci è sembrato giusto esordire questa serie di studi col tema del
Fine ultimo dell’uomo, poiché è solo dopo che avremo compreso la
raison d’être della nostra esistenza, che potremo orientare le nostre
aspirazioni e facendo questo abbiamo preso spunto dal testo di A.K.
Coomaraswamy, The indian doctrine of man’s last end,2 di cui presentiamo anche in questo volume, unitamente agli Atti, una traduzione italiana curata da Franco Galletti.
Patrizia Spallino
Paolo Urizzi
2
Asia n. 37 (1937), pp. 380-381.
XI
Ananda K. Coomaraswamy
La dottrina indiana del fine ultimo dell’uomo1
La religione dell’India è conosciuta come Induismo o Brahmanesimo. Di questa religione, il Buddhismo fu una variante, in rapporto
con l’Induismo allo stesso modo in cui il Protestantesimo lo fu col
Cattolicesimo.
Quando la religione dell’India fu inizialmente esaminata dagli
Europei, e principalmente dai missionari cristiani, non poterono esser viste altro che delle differenze fra Cristianesimo2 e Induismo; perché nessuno desiderava riconoscervi altro che differenze. Sappiamo
ora che i paralleli fra Cristianesimo e Induismo sono così tanti, così
stringenti e perfino così verbalmente esatti da poter solo ritenere che
entrambi siano dialetti dello stesso e unico linguaggio spirituale; rimanendo soltanto questa distinzione, che nel Cristianesimo la maggior
enfasi è devozionale ed etica, nell’Induismo metafisica e intellettuale.
Se consideriamo solo il Cristianesimo medievale, o la dottrina Cattolica, perfino questa distinzione parzialmente scompare.
Persistono ancora moltissime concezioni erronee sulla religione
indiana, perfino nelle cerchie degli studiosi. L’Induismo, ad esempio, viene descritto come un politeismo, ma non è più politeista del
Cristianesimo, in rapporto al quale potreste essere sorpresi di apprendere che nientemeno che un’autorità come S. Tommaso d’Aqui-
The indian doctrine of man’s last end, in «Asia» 37 (1937), pp. 380-381. L’espressione last end corrisponde sia a «fine ultimo» che a «fine ultima» ed entrambi
i sensi compaiono nell’articolo. Per i riferimenti bibliografici delle numerose citazioni nel testo, alcuni dei quali sono stati da noi trascritti nelle note seguenti, cfr.
l’antologia di saggi dello stesso A. K. Coomaraswamy, Selected Papers, vol. II,
Metaphysics, R. Lipsey (a cura di), Priceton University Press, 1977, e in particolare
lo studio Ᾱkiṃcañña: Self-Naughting (pp. 88-106). [N.d.T.]
2
Abbiamo reso sempre Cristianity con «Cristianesimo» perché l’A. si riferisce
alla dottrina cristiana piuttosto che alla collettività cui rimanda il termine italiano
«Cristianità». [N.d.T.]
1
1
no afferma: «Non possiamo dire l’unico Dio, perché la deità è comune a più d’uno».3 E proprio come i musulmani4 hanno erroneamente
guardato al Cristianesimo come a un politeismo, così i cristiani sono
stati in errore nel chiamare l’Induismo un politeismo, perché il fatto
è che né il Cristianesimo né l’Induismo sono politeisti, sebbene entrambi siano polinominalisti; essendo difatti inevitabile un’infinità
di designazioni del Primo Principio, precisamente a causa della Sua
infinita varietà e onnimodalità se considerato dal nostro punto di
vista, per quanto perfettamente semplice e unico e lo stesso possa
esser Esso in Se stesso.
Allo stesso modo l’Induismo è stato spesso chiamato una fede
panteistica, essendo il panteismo la dottrina per la quale tutte le cose
sono Dio e Dio è identico a tutte le cose e non è al tempo stesso infinitamente più grande di tutte le cose. Difatti, però, questa dottrina
viene ripudiata ripetutamente e con enfasi nell’Induismo mediante ripetute affermazioni sia dell’immanenza che della trascendenza
della Deità, e con la reiterata distinzione degli aspetti finiti e intellegibili da quelli infiniti e inintellegibili della Deità stessa.
Contemporaneamente ci imbattiamo in ripetute affermazioni
dell’identità con l’Essenza Divina, non certo dell’ego empirico, bensì dell’intimo e spirituale sé dell’uomo, in logoi egualmente famosi
come «Quello sei tu» ed «È solo col diventare Dio che si può veramente adorarLo». Questo ci porta faccia a faccia col problema di cosa
realmente significhi la dottrina indù della deificazione, e alla domanda se la «deificazione» indù differisca dalla «deificazione» cristiana
come è intesa, ad esempio, da S. Bernardo o da Meister Eckhart.
Dal punto di vista indù non può esservi altra questione se non che
il fine ultimo e la beatitudine dell’uomo sono realizzati solo quando egli non sappia più nulla di una distinzione tra «se stesso» e lo
Spirito di Dio; proprio come, per usare una similitudine comune a
Ruisbroek e alle Upaniṣad, quando i fiumi raggiungono il mare, la
Sum. Theol., prima pars, Qu. 31, A. 2: Neque tamen dicimus unicum Deum:
quia pluribus deitas est communis; la deità è cioè comune alle tre Persone della
SS. Trinità. Ed è proprio alla dottrina trinitaria che è stata mossa da parte islamica
l’accusa di politeismo riferita subito dopo da A.K.C. [N.d.T.]
4
Ci siamo permessi di emendare Mohammedans; lo stesso A. K. C. in opere
successive ha preferito termini come muslim e islamic. [N.d.T.]
3
2
loro individualità si confonde con quella del mare e possiamo solo
parlare di «mare».5
Se d’altro lato il Cristianesimo sembra sostenere un’eterna distinzione della creatura dal Creatore, dobbiamo chiederci se l’apparente
disaccordo sia reale o meno, e se la «deificazione» indù e quella dei
mistici cristiani (che pure sono stati accusati di panteismo), con l’insistenza sul totale abbandono di sé quale condizione indispensabile,
non implichino precisamente quella vera distinzione della creatura dal Creatore, e del finito dall’Infinito, che non è semplicemente
una dottrina ortodossa cristiana, ma è anche la sola metafisicamente
inattaccabile e universalmente valida.6 È dell’immortalità dell’anima che ci stiamo occupando; se tale immortalità sia possibile e,
ciò che è più importante, se l’immortalità dell’anima, posto che sia
possibile, possa essere considerata compatibile o meno, sotto ogni
aspetto, col fine ultimo dell’uomo della deificazione e della perfetta
beatitudine.
La dottrina indù e quella cristiana concordano nel fare del Messia
e dell’Avatāra, Uomo universale e Sole degli Uomini, l’unica porta
attraverso la quale si può essere espansi da questo mondo creato,
di nascita e morte, di mutamento e corruzione, dentro quel mondo
increato, di luce e immortalità; dalla nostra presente esperienza di
passato e futuro, dentro quell’eterno ora senza durata. È con riferimento a questo grande transito che Cristo dice: «Chi volesse salvare
la sua vita, che la perda»;7 e davvero, come esclama Eckhart, «L’anima deve mettersi a morte … Tutte le scritture gridano a gran voce
la libertà da se stessi». Questa «libertà da se stessi» significa tantissimo di più del nostro «altruismo» etico; significa una totale liberazione dall’idea di «io e mio», da ogni attaccamento alla nozione di
Cfr. Udāna, 55. [N.d.T.]
Metafisicamente inattaccabile e universalmente valida è insomma solo l’affermazione di un’ineliminabile distinzione della creatura dal Creatore, benché possa
essere sperimentata l’ebbrezza dell’indistinzione quando la coscienza individuale,
della quale le scritture indiane sottolineano l’illusorietà, rifluisce nell’Essenza divina. [N.d.T.]
7
Let him lose it nel testo: più che una traduzione, un’interpretazione dei passi
evangelici nei quali Cristo dice che perderà (perdet, apolevsei) l’anima/vita (animam,
yuchn) chi vorrà salvarla (cfr. Mt 10, 39 e 16, 25; Mc 8, 35; Lc 9, 24 e 17, 33). [N.d.T.]
5
6
3
un’indipendente essenza privata sia dell’anima che del corpo; e una
liberazione da ogni attaccamento a qualsiasi «sopravvivenza di personalità» nel modo in cui è stata confusa dagli spiritualisti con l’«immortalità» nel senso ortodosso e strettamente spirituale della parola.
Questa porta solare e messianica attraverso la quale si trapassa
da questo mondo imperfetto nello stato di gloria che, come dice S.
Tommaso d’Aquino, «non è sotto il sole», è un varco stretto, e finanche una porta chiusa per coloro che non sono qualificati a passarvi
attraverso; la via è cioè impercorribile per coloro nei quali rimanga la
più piccola traccia di individualità, sia fisica che psichica. Per «giungere al di là del Sole» si deve aver abbandonato ogni possesso, sia
del corpo che dell’anima; quelli che sono qualificati a entrarvi sono
descritti come «unificati», a differenza di tutti coloro che rimangono
al di fuori, nella molteplicità. Le porte del Paradiso sono custodite
dall’Angelo con la Spada Fiammeggiante, ed è precisamente allo
stesso modo che nelle scritture indiane l’ingresso è descritto come
ricoperto, celato e difeso da raggi di luce; da tali manifestazioni esteriori la via è sbarrata contro coloro che sono agnostici di Dio.
È solo per uno che sia trasformato dalla Gnosi di Dio che i raggi
vengono ritirati, e si vede una strada aperta, coincidente con ciò che
nell’Induismo è chiamato «Raggio Preminente», e nel Cristianesimo
«Raggio Oscuro», perché non è visibile esternamente, ma penetra
nell’Oscurità Divina dove non splende alcun Sole, ma solo lo Spirito che è chiamato ugualmente, nell’Induismo e nel Cristianesimo, la
«Luce delle luci».
Nelle scritture indiane le qualificazioni di chi sia abilitato a passare attraverso il Sole e ad entrare nella Divinità «come latte potrebbe essere versato nel latte» sono in primo luogo quelle della Verità
e dell’Anonimato. È come «uno la cui natura è la Verità» che ci si
accosta al Sole, che «è la Verità»; essendo della stessa qualità, non
si può essere respinti. Oppure è come chi in risposta alla domanda
«Chi sei?» può dire «Colui che sono, cioè la Luce, Tu stesso» ed è
allora invitato: «Entra, tu, perché ciò che Io sono, tu sei, e ciò che tu
sei, Io sono».8 Ma se rispondesse col nome proprio o con un cogno-
Jaiminīya Upaniṣad Brāhmaṇa III, 14.3-4. Come si vedrà anche più avanti,
sono implicite in questa conversazione alcune varianti di un Nome divino (Colui
8
4
me, il pretendente all’ammissione sarebbe trascinato via dagli agenti
del Tempo.9 Perché, come espone un altro testo, «Dio non è venuto
da alcun luogo, né è divenuto alcuno»: e ne segue inevitabilmente la
conclusione che nessuno può tornare a Dio come simile a simile se
è ancora qualcuno.
Allo stesso modo chi raggiunge la fine della strada ed entra in
Dio deve lasciare dietro di sé l’intero fardello delle sue azioni, buone o malvagie che siano. Perché queste sono le basi del «carattere»,
e nulla di caratteristico può entrare nella non-caratterizzata Deità,
«della Quale la sola idiosincrasia10 è l’essere». Là, come dice Meister Eckhart, «Né vizio né virtù sono mai entrati», o come dicono
le Upaniṣad, «Né vizio né virtù possono passare sopra quel Ponte
dello Spirito che è l’unico collegamento tra questo e quel mondo».
Secondo le parole del Damasceno, «Colui Che È, è il principale dei
nomi che si applicano a Dio»;11 e nelle Upaniṣad, «Egli È, solo per
questo Egli può essere afferrato».12 Non è quindi grazie a opere o
merito che si viene qualificati a conseguire la perfezione della felicità, ma solo per un’assoluta Conoscenza e Amore di Dio; un’assoluta
conoscenza o amore di qualsiasi cosa implicando, ovviamente, una
perfetta identicità di conoscitore e conosciuto, di amante e amato.
Siamo ora in una posizione tale da riconciliare i concetti mistici
cristiani e metafisici indiani di «deificazione» con la dottrina, vera
per comune ammissione, che nulla di finito può entrare nell’Infinito come simile nel simile. Egualmente, dal punto di vista cristiano
e indù la costituzione dell’uomo è triplice, una costituzione, cioè,
di corpo, anima e spirito; in sanscrito rūpa, nāma, ātman. L’aniChe Sono, Io Sono) del quale A. K. C. vuole sottolineare l’identicità con i due
Nomi che Dio ha rivelato a Mosè (cfr. Es 3, 14). Il primo è ‫חיחא אׁשד אחיח‬, cioè «Io
Sono Colui Che Sono» oppure «Io Sono Colui Che È», con altre traduzioni possibili come «L’Essere Che È L’Essere», etc.; A. K. C. indica come più corretta la
traduzione «Io divengo ciò ch’Io divengo» (cfr. The common wisdom of the world,
«Bharatiya Vidya» n. 9, 1948, pp. 120-124). Il secondo Nome è parte del precedente, corrispondendo solamente a ‫«( חיחא‬Io Sono», «L’Essere», etc.). [N.d.T.]
9
Cfr. Jaiminīya Upaniṣad Brāhmaṇa, III, 14.1-2. [N.d.T.]
10
Idiosugkrasiva è un termine medico greco che indica una costituzione o un
temperamento particolare. [N.d.T.]
11
S. Giovanni Damasceno (VII-VIII sec. d.C.), De fide orhtodoxa, IX. [N.d.T.]
12
Kaṭha Upaniṣad 6, 13. [N.d.T.]
5
ma cristiana (anima, psyché) è non meno del corpo una cosa creata
e mutevole, e perciò, secondo le parole di S. Tommaso d’Aquino,
«Dire che l’anima sia di Sostanza Divina implica una manifesta
inammissibilità».13 Se poi, nondimeno, si dice talvolta che l’anima
diviene immortale benché abbia avuto inizio nel tempo, ed essendo
solo una tra altre, non dobbiamo trascurare che questa trasformazione viene compiuta solo con la sua «ultima morte», né che è solo
come «nulla» e «nessuno» che essa può entrare in Dio, il Quale sicuramente non è alcunché, né alcuno tra gli altri.
La coscienza di un uomo può essere centrata nel suo corpo, e
questo è l’uomo animale; o nell’anima, e questo è l’uomo psichico;
o nello spirito, ed è l’uomo spirituale o pneumatico. E’ solo quest’ultimo che può «ritornare» a Dio in somiglianza di natura. Né questa
fine ultima dell’uomo è meramente materia di destino post mor­
tem; perché «Il Regno dei Cieli è dentro di voi»,14 o come dicono
le Upaniṣad,
L’inconcepibile forma della Deità, più lontana del lontanissimo ma anche
qui dentro di voi, benché non possa essere vista con la facoltà intrinseca
dell’occhio, può essere afferrata mediante la Verità e può essere vista dallo
Gnostico illuminato, nel quale Essa inabita la segreta camera del cuore.
Così né la «deificazione» indiana né quella cristiana, fine ultimo
dell’uomo, implicano una dottrina tale che l’individualità umana limitata e variabile possa assumere l’essere infinito e immutabile di
Dio. La deificazione è una riunione, spesso descritta come un matrimonio, dell’immanente col trascendente Spirito. Non che questi due
siano mai stati divisi altrimenti che nei termini della logica umana, dalla quale sono sostenute le nostre stesse limitate individualità;
giacché lo Spirito è indivisibile. Essere deificato è «werden was du
13
Sum. Theol., prima pars, Qu. 90, A. 1: […] dicere animam esse de substantia
Dei, manifestam improbabilitatem continet, dove improbabilitas (improbability nel
testo di A. K. C.) non vuol dire «improbabilità» nel corrente senso odierno del termine
bensì, letteralmente, «impossibilità di essere provato» (in quanto assurdo). [N.d.T.]
14
Lc 17, 21; «dentro di voi» è l’interpretazione preferita da molti mistici dell’espressione evangelica intra vos, che altri interpretano «fra di voi», riferendosi in
questo caso alla presenza di Cristo e/o della Chiesa. [N.d.T.]
6
bist»15: è solo quando l’Identità viene considerata una condizione da
realizzarsi «un giorno», e solo parlando in termini troppo-umani,16
che chiamiamo la Gnosi una ri-unione, e parliamo di coloro che la
realizzano come di «Perfezioni», quasi essi fossero mai esistiti in
qualche luogo e fossero mai stati men che perfetti. Di fatto, come
dice Eckhart, «Quando io entrerò là, nessuno mi chiederà donde io
sia venuto o dove sia andato». Giacché il principio individuale «non
ancora» si è rialzato, «non ancora» è a casa, solo nella misura in cui
concepisce se stesso nel tempo e come un figliol prodigo; dato che
esso è in Dio non è mai caduto, non è stato mai estraniato. Giacché
in Dio non può esservi alcuna distinzione delle idee dall’intelletto
che le concepisce; è solo «come se» che si può parlare dell’imago
imaginata che «torna a» o «diviene» l’imago imaginans, nella quale
già esiste «più eminentemente».
Quindi la «deificazione» indù è precisamente quel che viene significato quando ci viene comandato «Siate perciò perfetti, come
è perfetto il Padre vostro nei Cieli»,17 e quel che viene significato
da San Paolo quando dice che «Chiunque sia unito al Signore è un
solo Spirito».18 Così una distinzione fondamentale tra Induismo e
Cristianesimo è impossibile; tracciare una distinzione sarebbe come
dividere la Verità da se stessa.
(trad. a cura di Franco Galletti)
«Diventare ciò che tu sei». [N.d.T.]
All-too-human nel testo. È la seconda parte della celebre espressione Human,
all too human (Menschliches, Allzumenschliches, «Umano, troppo umano»), con la
quale Friedrich Nietzsche ha intitolato una sua raccolta di aforismi. [N.d.T.]
17
Mt 5, 48. [N.d.T.]
18
I Cor 6, 17. [N.d.T.]
15
16
7
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