Romania-Italia, Italia-Romania. Le molteplici e inattese vie
dell’interscambio economico e culturale
Gustavo De Santis e Andrea Ciarini, Fondazione Giulio Pastore
Convegno INAS- CISL
“100 anni di emigrazione italiana in Romania: dalle arti e dai mestieri alla
moderna imprenditorialità”
Palazzo del Parlamento
Bucarest, 19 ottobre 2011
Introduzione
I cittadini romeni, per numero di presenze e flussi, rappresentano ad oggi la collettività straniera più
numerosa in Italia. E’ un flusso quello dalla Romania verso l’Italia iniziato in un tempo
relativamente recente. Altre collettività hanno raggiunto il nostro Paese prima di quella rumena,
anche da aree limitrofe dell’Est-Europa. Quest’ultima tuttavia ha raggiunto in poco tempo
dimensioni notevoli. Oggi un quinto di tutte le presenza straniere in Italia è costituito di cittadini
romeni.
D’altra parte va detto che non si tratta più di immigrazione extra-comunitaria, ma di cittadini
europei che dalla messa a regime del sistema Schengen e dall’allargamento verso Est, possono
liberamente muoversi nello spazio europeo.
Come noto la Romania diviene stato membro nel 2007 e questo certamente ha contribuito a
consolidare i flussi in entrata in Italia. Non si è trattato tuttavia, come alcuni organi di stampa hanno
rappresentato, di una invasione di massa o di un movimento incontrollato di persone. A guardare
bene i dati, come mostra uno studio della Caritas italiana [AaVv, 2008], si nota piuttosto un
consolidamento delle presenze, nel quadro però di una presenza già stabile da alcuni anni, avviata
prima dell’allargamento, ancorché in costante crescita.
E’ dunque opportuno riflettere alla ricerca di cause e ragioni alla base dello stretto rapporto tra Italia
e Romania, così come ci appare oggi non solo guardando alla immigrazione romena in Italia ma
anche alla presenza degli italiani in Romania.
Insieme alla Spagna, l’Italia è il Paese d’Europa che più ha assorbito immigrazione romena negli
ultimi anni. Nel 2009 l’Istat ha registrato 887.763 romeni in Italia, l’11,5% in più rispetto al 2008, il
21% del totale degli stranieri in Italia.
A livello territoriale la presenza romena si distribuisce soprattutto nelle regioni del Centro e del
Nord. Subito dopo il valore più alto registrato nel Lazio (il 36,0% del totale degli stranieri residenti,
pari a circa 179 mila individui), la maggior quota di romeni residenti si trova in Piemonte (130 mila
unità pari al 34,%% degli stranieri residenti), in Veneto (20,2%, circa 97 mila residenti) in
Lombardia (13,1%, pari a circa 129 mila residenti) [Istat 2010a].
Già da questi dati emergono legami tra Italia e Romania assai consolidati. Oltre al dato quantitativo,
però, c’è un amalgama che è costituito da imprenditorialità e auto-imprenditorialità - dall’Italia
1
verso la Romania e in anni più recenti anche viceversa - da legami economici, culturali e storici
come si vedrà più avanti.
Vi sono anche relazioni - e questo non sempre è noto - di lunga durata che affondano le radici nella
storia dei due Paesi e che per molti versi invertono i termini dei rapporti tra flussi migratori in
entrata e uscita dall’Italia. C’è stato infatti un periodo, prima che l’unificazione avvenisse, in cui
dall’Italia, soprattutto dalle aree dell’attuale Centro-Nord-Est, si andava alla ricerca di migliori
condizioni di vita e di lavoro in Romania, allora parte (insieme a molte di queste stesse zone, in
particolare il Friuli-Venezia Giulia e il Veneto) dell’impero austroungarico. All’epoca la Romania
come riportano alcune cronache storiche era una delle mete di immigrazione italiana privilegiate,
favorita dalle stesse autorità per via delle risorse naturali e della richiesta di manodopera
specializzata.
Che cosa è rimasto di tutto ciò oggi?
Non molto, a giudicare dalla scarsa conoscenza che si ha di questo fenomeno, come se fosse stato
rimosso. Ma così non è: ancora oggi è presente e attiva una comunità italiana in Romania che ha
radici antiche e che si confronta con i flussi migratori dall’Italia più recenti che hanno interessato
questo Paese, sebbene secondo altre direzioni e motivazioni alla partenza: non più la ricerca del
lavoro, ma lo spostamento al seguito degli investimenti produttivi da quegli stessi territori, un
tempo terra d’emigrazione, oggi nel novero delle aree più industrializzate d’Europa.
2. I romeni in Italia. Mercato del lavoro e struttura delle occupazioni
L’ampiezza della presenza rumena in Italia è stata in breve tracciata nell’introduzione.
Vediamo adesso i termini del radicamento di tale presenza, con particolare riferimento al mercato
del lavoro e alla struttura delle occupazioni.
Già nel 2006, come riporta Nanni [2008], i lavoratori di origine rumena rappresentavano il 12% del
totale di tutti i lavoratori immigrati, una percentuale superiore di circa cinque punti percentuali
rispetto alla presenza complessiva dei lavoratori stranieri nel mercato del lavoro italiano.
Al fine di chiarire meglio alcuni aspetti è necessario soffermarsi su alcune tendenze che riguardano
l’occupazione straniera in generale.
Negli ultimi anni molti dei posti di lavori creati, in particolare nei settori a più basso tasso di valore
aggiunto e meno qualificati, sono stati assorbiti da lavoratori stranieri. Questo trend, come segnala
l’indagine sulla forze di lavoro Istat [2010b], è andato avanti anche nel 2008 e nel 2009, nonostante
gli effetti della crisi. Certo con l’acuirsi dei fattori di rallentamento dell’economia le condizioni di
lavoro sono andate deteriorandosi anche per gli stranieri. I tassi di attività e di occupazione
straniera che – secondo i dati Istat [ivi], nel 2009, è scesa di 2,6 punti percentuali - rimangono
tuttavia più alti rispetto alla popolazione italiana in età da lavoro. Specularmente, è aumenta la
disoccupazione straniera. Ciò nonostante, in valore assoluto, il numero dei nuovi posti di lavoro è
stato occupato in misura maggiore da manodopera straniera.
Dietro questi dati si celano alcune delle principali caratteristiche dell’occupazione straniera in Italia,
che con buona approssimazione valgono anche per le persone di nazionalità romena. Gli stranieri
sembrano risentire meno degli effetti della crisi per il fatto di essere largamente concentrati in
impieghi a bassa qualifica, per i quali la domanda non si è contratta così come nelle qualifiche più
elevate.
2
E’ un fenomeno, questo, tipico del mercato del lavoro italiano che rimanda alla sua dualità interna.
Va detto inoltre che nonostante abbia tenuto, l’occupazione straniera continua a essere interessata
da sottoinquadramento e sottoccupazione, quando da non vero e proprio lavoro sommerso, come nel
caso del lavoro irregolare diffuso nei servizi di cura alle famiglie.
Il fenomeno del badantato, in cui peraltro la componente femminile è largamente maggioritaria,
testimonia bene di questo scivolamento nel sommerso che spesso diventa la condizione di
permanenza nel mercato del lavoro, senza tutele. Ma non troppo diversa è la situazione in edilizia e
in alcuni settori e aree territoriali dell’economia agricola.
Certo non mancano forme di ingresso e transito nel lavoro scevre dall’influenza della
sottoccupazione o del lavoro nero, anche nei settori prima citati. E le iscrizioni alle organizzazioni
sindacali in costante aumento stanno a indicare questo fenomeno di tentata fuoriuscita dalle
condizioni di supersfruttamento che spesso si ritrovano in certi impieghi. Dei circa 2 milioni di
lavoratori stranieri presenti in Italia, la metà, 1 milione circa , è iscritta ad un sindacato, un numero
certamente significativo. Per dare una idea sintetica, si tratta grosso modo delle stesso numero di
donne immigrate implicate nelle attività domestiche e di cura in famiglia.
Resta il fatto che gli stranieri lavorano in ambiti periferici dell’economia i quali, avendo risentito
meno della crisi, hanno consentito una più lieve diminuzione dell’occupazione straniera. Anzi nei
settori chiave essa è andata aumentando, a fronte di un calo della componente italiana. Ciò è
avvenuto nel commercio (-104.000 italiani e + 10.000 stranieri), nelle costruzioni (- 52.000 italiani
e + 6.000 stranieri), nell’agricoltura (- 38.000 italiani e + 17.000 stranieri).
Si conferma, in breve, un trend che vede le componenti straniere rafforzare la propria presenza nei
settori di tradizionale radicamento. Peraltro il dato attesta la maggiore disponibilità dei lavoratori
stranieri ad accettare condizioni di sottoccupazione, soprattutto quando le occasioni di lavoro
iniziano a contrarsi. Nel 2009, l’incidenza dei sottoccupati in base alle ore lavorate sul totale degli
occupati è risultato pari al 4,1% per gli italiani e al 10,7% per gli stranieri. Questo tasso cambia poi
a seconda delle occupazioni, passando dal 6% per gli immigrati che hanno un lavoro qualificato al
12,1% per coloro che ne hanno uno poco qualificato (soprattutto nei servizi alle famiglie in
edilizia). Per gli italiani questo stesso tasso è rispettivamente del 2,8% e del 6,8%. Infine va
ricordato che mentre per gli italiani questo fenomeno riguarda soprattutto le fasi di ingresso nel
mercato del lavoro, per gli stranieri (come già sottolineato) le possibilità di ascesa sono di minore
portata.
Ma non solo di lavoro dipendente è composto il mercato del lavoro italiano per gli stranieri. Vi è
infatti anche una quota non irrilevante di lavoro autonomo, non alle dipendenze, con caratteristiche
sue proprie. Tra le collettività che si segnalano per l’alta incidenza in questo ambito vi è proprio
quella rumena (insieme all’ albanese ed alla marocchina). La collettività cinese peraltro si presenta
come quella più propensa al lavoro indipendente, con percentuali superiori al 10%. Il recente
rapporto dell’European Migration Network [2010] evidenzia come dopo la comunità cinese (con la
quota di lavoro autonomo più alta, ben il 52,1%) e quella albanese (14,2), i rumeni siano i più
presenti in questa fattispecie lavorativa (12,7%).
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Tab. 1, La struttura dell’occupazione straniera per tipo di contratto, Val. %, Anno 2009
Dipendenti a tempo
indet.
71,8
Albania
71,7
Marocco
94,5
Filippine
83,3
Ucraina
41,7
Cina
86,3
Ecuador
86,4
Perù
77,6
Moldavia
72,2
Romania
74,9
Polonia
73,7
Totale
Fonte: European Migration Network 2010
Dipendenti a temp. Indipendenti
determinato
14
14,2
11,2
17,1
3,9
1,6
11,5
5,2
6,2
52,1
9,4
4,2
9,4
4,2
15,1
12,7
15,1
12,7
16,4
8,7
12,2
14,1
Su questa articolazione incidono sia fattori culturali (come nel caso dei cinesi) che di struttura
dell’occupazione. Quest’ultima peraltro spiega molto del tipo di partecipazione al mercato del
lavoro (vedi tab. 2). Non a caso il lavoro autonomo è più diffuso in edilizia rispetto alla cura delle
persone e all’assistenza familiare. Ma qui entra in gioco anche la struttura delle occupazioni per
settore produttivo (vedi tab. 2)
Tab. 2, La struttura dell’occupazione straniera per settore produttivo, Val. %, Anno 2009
Agricoltura
6,4
Albania
5,3
Marocco
Filippine
4,1
Ucraina
1,9
Cina
1,6
Ecuador
Perù
1,8
Moldavia
4,6
Romania
3,7
Polonia
4
Totale
Fonte: European Migration Network 2010
Edilizia-costruzioni
35,9
19,6
0,4
5,7
6,5
2,9
15
26,6
20,4
18,1
Servizi alle famiglie
8,5
4,0
64,6
59
1,7
39,1
41,6
44
23
32,6
21,5
Come si può notare dalla tabella n.2 tra i lavoratori romeni la gran parte dell’occupazione è
concentrata in edilizia (il 26,6%). Seguono i servizi alle famiglie con il 23%. Diversamente, per
l’Albania è soprattutto il settore edile a trainare l’occupazione, con il 35,9% dell’occupazione,
4
mentre di minore importanza è il settore della cura (8,5%) e l’agricoltura, la cui percentuale è bassa
(6,4%) ma sempre la più alta tra i Paesi considerati (a fronte di una media del 4%).
Analogo raffronto con la Romania, anche se a parti invertite, può essere fatto per la Polonia.
L’immigrazione da questo Paese va infatti a concentrarsi soprattutto nei servizi alle famiglie
(32,6%), di molto superiore alla costruzioni (20,4%) e all’agricoltura (3,7%). Lo stesso vale per
l’Ucraina, dove la componente dominante è costituita da lavoro alle dipendenze in famiglia, mentre
residuale è il lavoro nelle costruzioni.
I flussi migratori seguono specifici flussi produttivi e, come si può notare, l’appartenenza etnica o
più semplicemente la nazionalità sono spesso correlate al tipo di inserimento lavorativo. Su questo
influisce senza dubbio la catena migratoria e il flusso che, all’arrivo, accompagna i lavoratori
all’inserimento professionale attraverso i canali informali della cerchia familiare e etnica, verso
alcuni settori piuttosto che altri, verso il lavoro dipendente o il lavoro autonomo. Questo vale per
tutte le collettività e vale ovviamente anche per i rumeni, concentrati in alcuni settori produttivi,
come detto soprattutto l’edilizia, con una quota rilevante di lavoro autonomo, e i servizi di cura,
questi ultimi con una forte componente femminile.
Rimane il fatto, come evidenzia l’ultimo Dossier immigrazione della Caritas [2010], che le nicchie
occupazionali sono molto diverse a seconda del tipo di collettività straniera. Di fatto l’88% di tutta
l’occupazione non alle dipendenze straniera è rappresentata da marocchini, da cinesi, da romeni, da
albanesi. Fatta eccezione per questi le quote rimanenti sono residuali. E’ interessante inoltre notare
che, contrariamente alle dinamiche rinvenute per il lavoro dipendente, il trend di crescita del lavoro
autonomo continua a essere positivo, anche di fronte alla crisi: +15,1% per il Marocco, +15,5% per
la Romania, +21,5% per la Cina, +12% per l’Albania [ivi].
In questa paragrafo sono stati analizzati i flussi in entrata.
Tuttavia, rispetto alla Romania, non meno interessanti sono i flussi in uscita, ovvero dall’Italia
verso la Romania, e questo non solo per le rimesse degli immigrati o per via dei ritorni. C’è da
qualche anno a questo parte un movimento migratorio che coinvolge gruppi di italiani in Romania.
A ben vedere quello tra questi due Paesi è un doppi interscambio migratorio, in cui una parte non
meno rilevante (non in termini assoluti, bensì dal punto di vista dell’impatto economico) è costituita
dagli spostamenti di italiani al seguito di investimenti e delocalizzazioni dalle zone della piccola e
media impresa.
3. Gli investimenti italiani in Romania.
I processi di delocalizzazione delle imprese italiane verso la Romania sono stati fatti oggetto di
diverse analisi negli ultimi anni.
La Romania è stata in questo periodo il Paese che maggiormente ha attirato investimenti dai sistemi
di piccola e media impresa italiani. Da oltre dieci anni l’Italia è d’altra parte il principale Paese
investitore in Romania per numero di aziende registrate e, in termini assoluti, il secondo partner
commerciale dopo la Germania. Secondo i dati del Ministero degli Esteri [2010] sono registrate in
Romania 29.536 imprese italiane, di cui attive 19.659 con un capitale di circa 994 milioni di euro.
Sempre secondo questi dati, nel primo semestre del 2010 risultano registrate 1.386 nuove aziende a
partecipazione italiana, circa il 43 % del totale delle 3.150 nuove aziende a partecipazione estera
registrate in Romania.
5
Si tratta di investimenti provenienti per lo più dai distretti industriali riposizionatosi in nuovi circuiti
di produzione e fornitura transnazionali. Questo se da un lato è alla base dell’alto numero di
imprese attivate, dall’altro spiega il più basso volume degli investimenti in termini complessivi,
legato com’è alle strategie di internazionalizzazione di aziende di piccole dimensioni.
Si tratta da questo punto di vista di investimenti non ingenti quanto a livello complessivo del flusso
finanziario, ma determinanti ai fini dello sviluppo dei territori, sia quelli da cui provengono gli
investimenti italiani sia quelli in cui questi vengono diretti che, è interessante da notare, sono
localizzati in una particolare zona della Romania, nell’area nord-occidentale, di Timisoara e
dintorni.
Inizialmente l’interscambio commerciale e produttivo tra i due Paesi ha riguardato flussi di materie
prime e semilavorati in un quadro di delocalizzazione tesa a spostare fuori dei confini classici dei
distretti italiani alcune parti delle lavorazioni manifatturiere a più basso valore aggiunto. Si può
datare l’avvio di questi investimenti all’inizio degli anni Novanta in contemporanea all’apertura
economico-commerciale della Romania e la fine dell’economia collettivistica. Sotto l’egida delle
grandi istituzioni finanziarie internazionali, la Romania avvia i primi programmi di riforme
strutturali che in ultima istanza puntano a favorire la privatizzazione delle strutture produttive e
l’inserimento del Paese nei circuiti del commercio internazionale. Sulla stessa falsariga gli accordi
con l’Unione Europea puntano a stabilizzare l’economia in via di transizione verso il mercato e a
favorire la libera circolazione dei capitali.
Così ben presto, grazie soprattutto al basso costo della manodopera, verso la Romania iniziano a
dirigersi importanti flussi d’investimento, dalla Germania in primis e dall’Italia che, per contiguità
geografica e non solo, diventa in questo stesso periodo il primo partner commerciale per flusso di
esportazioni e numero di imprese localizzate.
La presenza delle aziende italiane in Romania ha caratteristiche peculiari rispetto alle modalità
tipiche degli investimenti praticati dalle grandi multinazionali. Sin dall’inizio non si tratta di grandi
flussi di capitali tesi a impiantare fabbriche e avviare produzioni per l’esportazione a basso costo. E’
piuttosto un processo graduale che passa per fasi e soprattutto per la ricerca di quelle stesse
condizioni, sociali prima ancora che strettamente economiche, alla base del modello di sviluppo per
piccola impresa italiano.
In questa ottica possiamo spiegare per esempio il perché della localizzazione in una particolare area
geografica della Romania. Non è solo una questione geografica. Il fatto è che in questa parte del
Paese già da tempo erano attivi siti produttivi specializzati nella produzione manifatturiera:
fabbriche di calzature, pellami, tessile, gestite dallo Stato, i cui saperi taciti e specializzazioni della
manodopera vengono riutilizzati una volta avviata la privatizzazione. Nella provincia di Timisoara
si è negli anni costituito un vero e proprio sistema distrettuale, sul modello di quelli tipici della
piccola e media impresa italiana.
In tal senso va segnalato che quando i primi investimenti italiani iniziano a muoversi, non prendono
la forma della gestione diretta. Più spesso ci si orienta per la produzione di semilavorati, prima
importati tramite accordi con aziende locali e poi sottoposti a lavorazione per essere re-immessi
nella catena della fornitura distrettuale. Per caratteristiche intrinseche questa modalità di
investimento bene si è attagliata alle strategie delle piccole e medie impresa italiane, per via
soprattutto della minore incidenza dei costi totali e del rischio d’impresa. In questo rapporto di subfornitura tra imprese italiane che forniscono la materia prima in conto lavorazione e l’impresa locale
cui si appalta (in genere con una quota di partecipazione a carico dell’azienda italiana) il
committente ha avuto la possibilità di controllare la qualità della produzione, ridurre i costi delle
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produzioni a più basso tasso di valore aggiunto ma al tempo stesso mantenere entro il territorio di
appartenenza tutte le fasi non labour-intensive quali l’ideazione, la progettazione, la
commercializzazione e la rifinitura del prodotto.
In questa strategia di internazionalizzazione è stata coinvolta così l’intera catena distrettuale, dai
soggetti a monte del processo produttivo ai fornitori intermedi, i quali di fronte alla pressioni
competitive indotte dalla competizione internazionale, hanno spostato parte o intere produzioni
manifatturiere oltre i confini (e i costi) dei territori di origine.
Quanto detto è estremamente importante ai fini della comprensione della specificità delle strategie
di investimento estero delle PMI italiane. I processi di delocalizzazione infatti non si esauriscono in
unico modello organizzativo ma al suo interno convivono diverse soluzioni. Nel caso
dell’interscambio Italia-Romania questo modello ha preso la forma dell’appalto e del sub-appalto,
soprattutto nella prima fase di presenza produttiva italiana. Solo in seguito sono stati avviati
investimenti diretti tesi a prendere il controllo di interi siti produttivi.
C’è un ulteriore passaggio da considerare. Dalla fornitura e sub-fornitura, alla gestione diretta, la
terza fattispecie prende le mosse da processi di auto-imprenditorialità attivatisi nelle stesse aree di
delocalizzazione. Spesso è successo infatti che al seguito degli investimenti siano arrivati sul posto
anche tecnici italiani con il compito di seguire la produzione e tenere i rapporti con i responsabili
delle unità produttive locali: ex fabbriche di Stato riconvertite al mercato ma nella maggior parte dei
casi gestite ancora dai vecchi responsabili. In un arco di tempo relativamente breve molti di questi
tecnici, di fronte alla facilità di reperimento di manodopera a basso costo e alla legislazione
favorevole in materia di investimenti, hanno intrapreso essi stessi la strada del lavoro autonomo.
Solo per limitarsi ad alcune di queste condizioni di vantaggio, si tenga presente che non solo i
salari, almeno per tutti gli anni Novanta, sono rimasti inferiori di almeno quindici volte rispetto a
quelli italiani. Ma anche la legislazione di sostegno è stata per lungo tempo tra le più vantaggiose
d’Europa: nessuna imposizione fiscale per i i primi cinque anni di investimento, esonero dal
pagamento dei dazi di importazione su macchinari, impianti e attrezzature, nessuna limitazione sul
trasferimento dei capitali verso l’Italia, concessioni edilizie per i fabbricati gratuite per Novanta
anni. Non è dunque un caso che in questo periodo (siamo ancora tra la seconda metà degli anni
Novanta e l’inizio degli anni Duemila) la presenza di imprenditori italiani direttamente presenti in
loco aumenta. C’è anche l’effetto di salti imprenditoriali tentati da ex tecnici divenuti responsabili
di piccole imprese.
L’elemento di maggiore novità è probabilmente però un altro. Nello stesso arco di tempo, infatti,
non sono solo ex tecnici italiani a scegliere la via del lavoro autonomo; sono molti ex-operai romeni
che dal lavoro alle dipendenze tentano la via dell’auto-imprenditorialità. Si tratta di passaggi spesso
favoriti da molti degli imprenditori italiani, i quali in questo modo possono esternalizzare altre parti
della produzione direttamente sul luogo, riducendo l’esposizione diretta e ricreando intorno alla
impresa “madre” impiantata in Romania una nuova catena della fornitura e sub-fornitura. In termini
organizzativi è una articolazione delle funzioni produttive che va ben oltre la classica forma di
delocalizzazione per piccola impresa. E’ una nuova filiera che integra al proprio interno anche
soggetti autoctoni, spinti a mettersi in proprio, replicando le tipiche forme dello sviluppo per piccola
impresa dall’Italia alle nuove aree di insediamento produttivo, con tutto quello che ne consegue in
termini di coinvolgimento delle risorse familiari e partecipazione comunitaria al processo. Come è
stato rilevato da indagini ad hoc [Ciarini 2003] il coinvolgimento familiare della comunità di
riferimento è uno degli elementi che ritroviamo sia nei territori della piccola impresa italiana - in
particolare nelle prime fasi, quando si tenta il salto verso il lavoro autonomo - sia in queste aree
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della Romania verso cui gli investimenti della piccole imprese italiane si sono diretti. E’ in questo
quadro che possiamo collocare quel processo di ricostituzione dei distretti in questo paese secondo i
tratti tipici del modello a economia diffusa italiano.
In tutto questo sono cambiate anche le modalità di investimento italiano. Se quanto detto in
precedenza rimanda alle forme di integrazione produttiva in una logica di distretto e ristrutturazione
dei costi, da qualche anno a questa parte la Romania non è solo terra di delocalizzazione. Anche
perché i vantaggi di costo in termini di salari sono via via diminuiti, in particolare in settori come il
tessile e le calzature dove l’asse produttivo si è progressivamente spostato verso Est. Ma non per
questo sembra essere venuta meno l’attrattività di questo Paese. Da un lato la logica del distretto ha
conosciuto una ulteriore evoluzione e non solo per l’integrazione nella filiera produttiva di
componenti autoctone. E’ l’intera specializzazione produttiva che è andata rinnovandosi,
impiantando produzioni a più alto tasso di valore aggiunto, in parallelo a quanto avviene in Italia
all’interno dei confini originari dei distretti. La ricerca di una maggiore qualità e soprattutto di una
specializzazione produttiva più al riparo dalla competizione dei Paesi dell’Est asiatico ha spinto i
distretti italiani e i territori che ne fanno parte a ricercare nuove strade per l’internazionalizzazione e
lo sviluppo competitivo. Di tutto questo le aree della Romania che più hanno attratto investimenti
italiani continuano a essere parte. Senza contare che questo paese sta diventando strategico per una
penetrazione più generale dei mercati dell’Est Europa. E questo è un cambiamento di prospettiva
rilevante rispetto al passato, quando era la ricerca di minori costi di produzione a spingere le
imprese a trasferire produzioni o parti di produzioni fuori dei vecchi confini. Adesso si tratta di una
delocalizzazione che guarda a questi paesi anche come mercati di sbocco.
Ad oggi secondo stime non ufficiali gli italiani in Romania ammonterebbero a circa ventimila unità,
per la maggior parte arrivati in questo paese negli ultimi venti anni (spesso tecnici e imprenditori) al
seguito dei flussi d’investimento. Già messa in questi termini l’emigrazione italiana in Romania ha
caratteri interessanti. Ma questo non è tutto, o meglio non spiega per intero i rapporti di
interscambio tra questi due paesi. Rapporti che non si limitano solo alle merci, né ai tecnici e agli
imprenditori arrivati in questo ultimo decennio o poco più. In realtà la questione è più complessa,
perché quella italiana in Romania è una presenza di lunga data. Pochi oggi ne sono effettivamente a
conoscenza, ma gli italiani andavano in Romania già agli inizi del secolo scorso, quando dalle zone
meno ricche dell’impero austroungarico (tra le quali parti importanti dell’attuale Triveneto e Friuli)
si migrava verso quelle regioni (tra cui l’attuale Romania) che richiedevano manodopera, in
particolare nei settori dell’estrazione mineraria, delle ferrovie, dell’edilizia. Sembrano molto lontani
con gli occhi dell’oggi questi processi. La storia non è però mai lineare, né le tensioni evolutive
seguono direzioni unilineari. E questo vale tanto più se si guarda al rapporto di lungo periodo tra
l’Italia e la Romania.
4. L’emigrazione italiana in Romania tra XIX e XX secolo. Una storia poco nota.
La storia degli italiani in Romania non è un fatto solo recente come abbiamo già detto. Secondo una
stima di Scagno [2003] si calcola che circa 130.000 italiani a cavallo dei due secoli si spostarono
verso la Romania. Per la Romania si partiva soprattutto dalle terre dell’attuale Nord-Est e dal
versante adriatico per colmare le carenze locali di manodopera nei settori del legno, dell’estrazione
mineraria, dell’edilizia, delle infrastrutture. Lo stesso impero austroungarico tendeva a favorire
queste migrazioni interne, dalle regioni povere e di confine. I flussi, tuttavia, come sottolinea Ricci
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[2008] sono continuati anche oltre l’unificazione italiana. Secondo stime dello stesso autore circa il
10-15% dell’emigrazione veneta si sarebbe diretta verso la Romania, segno questo di una certa
attrattività che è sembrata durare almeno per un certo periodo. D’altra parte se questo paese
appariva tra le mete d’immigrazione italiane preferite, le stesse autorità rumene hanno a lungo
favorito questo flusso, per una comunanza anche culturale da contrapporre allora al panslavismo
dominante dei paesi limitrofi [ivi].
Questa emigrazione non era però fatta solo di singoli individui. Importante è stato anche il flusso di
imprenditori e artigiani che partivano alla ricerche di commesse.
Secondo i dati riportati dal Ministero dell’Agricoltura, industria e commercio nel 1906 su un totale
di 473 le imprese friulane attive in Europa, 19 erano dislocate in Romania, segno di una presenza
già antecedente all’Unità. Per tipo di specializzazione la maggior parte delle imprese operanti in
questo paese risultavano attive nel settore edile e nell’artigianato. L’arrivo di imprese italiane al
seguito delle grandi infrastrutture, ferrovie su tutte , è successivo. Anche in questo caso si registra
una discreta presenza italiana.
Sulla base del Censimento degli italiani all’estero del 1928 è possibile fornire una stima delle
presenza italiana in Romania a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Dagli 830 del 1871 si
passa in breve tempo alle 5.300 presenze del 1891, fino a 12.246 nel 1927. Una presenza dunque
consistente e in esponenziale crescita che né la prima guerra mondiale, né il regime fascista
sembrano avere arrestato.
Questi dati ci restituiscono una immagine interessante dell’interscambio tra Italia e Romania. Per
quanto spesso di natura temporanea l’emigrazione italiana in Romania conosce in questo periodo
una certa stabilizzazione, nonostante il collasso dell’impero austroungarico e l’annessione al Regno
d’Italia di quello che oggi è Friuli Venezia Giulia e il Trentino Alto Adige. Lo stesso vale per gli
anni Venti e Trenta, nonostante la politica restrittiva del regime e il venire meno dei flussi verso gli
Stati Uniti. Tutto ciò molto probabilmente in ragione di due condizioni. In primo luogo per l’essere
la Romania tra le due guerre un Paese alleato dell’Italia. In secondo luogo per il processo di
industrializzazione che andava decollando. Secondo stime di Ricci [2008] si può presumere al di là
delle statistiche ufficiali che siano arrivati a circa 60.000 gli italiani a vario titolo presenti in
Romania tra le due guerre.
Le vicende del secondo conflitto mondiale hanno cambiato radicalmente il contesto entro cui si
collocava il flusso migratorio dall’Italia verso questo Paese dell’Est Europa. Con la fine della guerra
di fatto la Romania entra nella sfera di influenza dei Paesi socialisti e dell’Unione Sovietica. Mentre
l’Italia si avvia sulla strada dello sviluppo e dell’industrializzazione, all’interno di una collocazione
del mondo occidentale.
In questo quadro se molti degli emigranti che si erano diretti in Romania tornano in patria, non
mutano le condizioni di un Paese, l’Italia, che continua, sebbene avviato sulla strada
dell’industrializzazione a essere per un lungo periodo Paese d’emigrazione. Cambiano semmai dal
secondo dopoguerra le mete e le destinazioni, verso l’Europa continentale e di nuovo oltreoceano.
Per gli italiani in Romania, per coloro che hanno scelto di rimanere, inizia un lungo periodo in cui
presenze e sorti sembrano quasi dileguarsi sotto traccia. Piano piano questa comunità sembra quasi
scomparire tra gli orizzonti degli equilibri internazionali. Eppure la presenza italiana non perisce,
tanto dall’essere riconosciuta all’indomani della ratifica della nuova Costituzione nel 1991, come
minoranza con il diritto di eleggere propri rappresentanti (uno) alla Camera dei Deputati.
Siamo di fronte dunque a una realtà che ha un suo radicamento, parte integrante della storia recente
di questo Paese dell’Est Europa. Questa presenza ha attraversato diverse fasi, momenti di crescita
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esponenziale e fasi di caduta, partenze e ritorni, eclissi e riprese, come quella degli ultimi anni. Per
ragioni diverse sono in molti gli italiani che oggi partono per la Romania. Non molti lo sanno o ne
hanno sentito parlare ma il loro arrivo non costituisce un fatto nuovo per questo Paese. Ad oggi gli
italiani si concentrano soprattutto nella zone di Timisoara e nella Transilvania, ma gruppi e
discendenti di quella antica emigrazione si trovano un po’ in tutta la Romania. Sono peraltro attive
nel Paese associazioni e organizzazioni di rappresentanza, come l’Associazione degli italiani in
Romania (Ro.As.It), che raggruppano e rappresentano gli interessi della vecchia comunità italiana.
In sintesi quella italiana è una presenza ben radicata in Romania. Discendenti di nostri connazionali
partiti alla ricerca del lavoro vivono in questo Paese come parte integrante della comunità
nazionale, sia pur mantenendo uno status di minoranza.
Più recente è l’altra emigrazione italiana, quella seguita all’allargamento e alla penetrazione, prima
produttiva, oggi anche commerciale delle aziende piccole e medie.
Rimane una complessità che certamente fa di questo Paese uno di quelli dai più antichi legami con
l’Italia, non fosse altro per questa presenza di lungo periodo. Essa tuttavia non ci parla solo di ieri.
E’ un fenomeno ben radicato anche nella contemporaneità, che dovrebbe aiutare a riflettere sul
senso delle partenze e dei ritorni, non solo quelli che vedono coinvolti gli italiani, ma anche quelli,
anzi soprattutto quelli dei tanti rumeni che arrivano in Italia, in un rapporto che rispetto a un secolo
fa è oggi ribaltato ma che per molti versi presenta le stesse difficoltà e fatiche di quando a partire
“eravamo noi”.
Riferimenti bibliografici
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