Claudio Widmann
Il gatto
e i suoi simboli
Il gatto e i suoi simboli
Indice
I BREVE PROFILO IDENTIFICATIVO
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Origini storico-mitologiche – Caratteristiche anatomiche e
fisiologiche – Aspetti etologici – Trasfigurazioni simboliche
II UN’IMAGO MAGNIFICATA DI NARCISISMO
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Autoreferenzialità al limite dell’alterigia – Introversione al limite dell’indifferenza – Indipendenza al limite dell’insubordinazione – Autosufficienza al limite del disadattamento
II UNA TENEBROSA FIGURA D’OMBRA
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Vitalità istintuale – Ombre di distruttività – Tossicità demonica – Animalità e mostruosità – La taverna dei ribelli
IV UNA SEDUCENTE FIGURA D’ANIMA
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Femminilità, felinità – Animali d’affezione – Sensualità femminea – Femminilità sinistre
V UN ANIMALE-GUIDA VERSO L’ALTROVE
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Il guardiano della soglia – Il soccorritore – L’iniziatore –
La guida
VI IL NOME SEGRETO DEL SÉ
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Dove andare o chi diventare? – Il mito personale – Il nome
segreto – E quindi?
Glossario
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Bibliografia
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I
BREVE PROFILO IDENTIFICATIVO
Origini storico-mitologiche
Una leggenda che descrive l’origine del mondo per opera di due creatori racconta che, al momento di formare gli
animali, Sole creò il leone e Luna creò il gatto (Valerianus,
ed. it. 1625, p. 173). Questo racconto non coglie solo la comune appartenenza dei due animali alla specie dei felini,
suggerisce anche che il gatto è un leone in piccolo, una belva di dimensioni ridotte ma dalle qualità ferine. «È la tigre
dei poveri diavoli», ironizza Teophile Gautier.
Il fulvo gatto dipinto da Ligabue appartiene alla serie
delle sue belve pittoriche e una varietà di leggende sottolinea che il gatto partecipa alla natura e all’essenza dei grandi felini. Una di questa narra che nell’arca di Noè c’erano i
topi, ma non i gatti, che ancora non erano stati inventati. I
topi si riprodussero tanto rapidamente da infestare l’imbarcazione e Dio diede l’incarico al leone di porre rimedio
alla cosa. Il leone guardò i minuscoli animali, troppo piccoli e sfuggenti per la sua mole e sternutì (forse fu lo stesso Noè a farlo starnutire, carezzandogli la testa) e dalle sue
narici uscirono due gatti, un maschio e una femmina. Anche in questa leggenda il gatto è della stessa natura del leone, ha la sua stessa vocazione e il suo stesso corredo istintuale; solo le sue dimensioni sono più ridotte. È opportuno
muovere dalla natura ferina del gatto per entrare nella logica del suo essere e per addentrarsi nella simbologia della
sua figura.
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La storia del gatto è antica. Inizia due milioni di anni fa,
quando tra i felini si differenzia il felis sylvestris, che è l’antenato diretto del gatto contemporaneo. Per un tempo
enorme questo animale rimane esclusivamente selvatico: si
avvicina agli insediamenti umani soltanto verso il 2000
a.C., nelle regioni della Nubia e dell’Egitto. Anche se testimonianze archeologiche rinvenute a Cipro dovessero arretrare gli inizi del suo inurbamento al 7000 a.C., la proporzione tra il periodo di selvatichezza e quello di vita domestica non cambierebbe di molto; la comunanza con l’uomo
rimane storicamente tardiva e il gatto resta l’animale di più
recente domesticazione.
Dopo essersi avvicinato agli insediamenti abitativi, il
gatto entra in relazione profonda con l’uomo; dopo pochi
secoli, in Egitto è già elevato al rango di divinità. Verso il
1250 a.C., difatti, un papiro recita: «Il nome del dio che veglia su di te è miw». Miw è voce onomatopeica che allude
al miagolio e, nella lingua egizia, è nome comune di gatto.
Appena un paio di secoli più tardi (verso il 1000 a.C.) il generico dio-miw prende la fisionomia precisa di una dea
chiamata Bastet. In questo processo di deificazione, il gatto assume qualità propriamente archetipiche e specializza
alcune connotazioni, tra cui l’aspetto femminile e le qualità
ferine. La dea Bastet, difatti, oltre a essere squisitamente e
graziosamente femminea, è anche sorella di Sekhmet, una
dea a testa di leonessa, frequentemente ritratta con il muso
arrossato dal sangue delle sue prede. Immagine tremenda
della Grande Madre Terribile.
Il culto di Bastet si diffuse prevalentemente nelle regioni del delta, in particolare a Bubasti (l’attuale Tell Basta, a
circa 50 km dal Cairo), ma quando questa città divenne capitale dell’Egitto (950 a.C.), la venerazione della dea-gatta
e la popolarità del gatto conobbero un evidente incremento. Ne è testimonianza il fatto che un faraone, al momento
del suo insediamento, prese il nome del gatto; si tratta del
faraone Pa-Miw, in carica dal 773 al 767 a.C.
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Il gatto e i suoi simboli
La scrittura geroglifica, sia della parola miw sia della
parola bastet, presenta caratteristiche compatibili con la fisionomia del gatto. Il geroglifico miw ( ) si compone di
un segno che rappresenta la brocca del latte, un giunco e
un pulcino di quaglia (Foulkner, 1999); talvolta al posto
del geroglifico della brocca viene impiegato quello della civetta e questo fatto è interessante, perché gatti, civette e altri tipi di gufo presentano similitudini di forma, comportamento e significato simbolico degne di approfondimento.
La brocca del latte induce a riflettere che con l’avvicinarsi
alle comunità umane il latte entra caratteristicamente nella
dieta del gatto domestico; lo storico Diodoro Siculo (ed.
1547) testimonia che il gatto veniva nutrito con pesci del
Nilo o con latte in cui si inzuppava del pane. Quasi certamente il gatto continuava a catturare autonomamente uccelli come le quaglie e altri piccoli animali: alcuni papiri lo
ritraggono in agguato nei canneti di giunco. La sua duplice natura di animale domestico e selvatico insieme risuona,
dunque, nella grafia arcaica del suo nome e si imprime ancora oggi nella sua alimentazione.
Il geroglifico bubasti ( ), la città dove si sviluppò il culto del gatto, è composto da un segno che raffigura un utensile (un trespolo) e da uno che raffigura la pagnotta, due oggetti che appartengono alla vita organizzata dell’uomo; il
geroglifico della dea-gatta bastet (
) è del tutto eguale,
ma raddoppia il segno del pane e potrebbe riconfermare la
relazione tra il gatto e le collettività umane. A distinguere
Bubasti da Bastet non è tanto la grafia, quanto il suffisso
determinativo, che la scrittura geroglifica è solita aggiungere alle parole per facilitarne la comprensione; il determinativo di Bubasti è quello dei centri abitati ( ) mentre quello
di Bastet (come quello di Miw, come quello di Sekhmet) è
un leone ( ). La natura felina e la qualità ferina del gatto
vengono, così, evidenziate sia nel suo nome sacro di divinità sia nel suo nome comune di animale. Cogliere negli antichi geroglifici la doppia relazione del gatto con la dimen-
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sione selvatica dei giunchi e delle piccole prede da un lato e
con quella domestica del latte e del pane dall’altro non è
un’interpretazione simbolica (parrebbe forzosa nel metodo
e sarebbe discutibile nei contenuti), ma è un espediente per
sottolineare che egli appartiene a entrambe le dimensioni,
quella selvatica e quella domestica.
Questo animale è detto domestico, ma in realtà non è
mai stato addomesticato; si è avvicinato all’uomo motu
proprio. Per probabili ragioni di sopravvivenza scelse autonomamente di approssimarsi agli stanziamenti umani e
vi si insediò sempre più stabilmente; non venne catturato
dall’uomo, piegato ai suoi fini e utilizzato per i suoi vantaggi. Nel processo di domesticazione del gatto manca
quell’opportunismo utilitaristico che indusse l’uomo a catturare altri animali, a costringerli alla cattività, a plasmare
il loro comportamento in modo da renderlo compatibile
con le proprie esigenze e con il proprio stile di vita. Non a
caso, inizialmente, il gatto viene ritenuto un animale inutile; la sua abilità nel catturare topi e piccoli roditori è un
«effetto collaterale» rivelatosi utile solo in un secondo momento, niente più che un vantaggio secondario della prossimità tra gatto e uomo. Il gatto in sé godeva inizialmente
di scarsa considerazione e addirittura veniva confuso con
altre bestie che frequentavano le abitazioni umane; nella
lingua dei greci, per esempio, è semplicemente un ailourus,
un «muovi-coda» che condivide questa denominazione con
animali come la donnola e ancora nel XVI secolo è indicato come «eluro» insieme a donnole, martore e non meglio
definiti «murileghi». Ne deriva che non è sempre facile stabilire se certe narrazioni, per esempio le favole di Esopo, si
riferiscano al gatto o alla donnola.
La tesi del mai avvenuto addomesticamento del gatto
viene sostenuta in biologia e narrata nelle leggende. Una di
queste racconta che, in una notte di gelo, la tigre chiese al
suo «fratello» gatto di cercare un modo per scaldarsi. Lui
andò in perlustrazione e trovò che le case dell’uomo ave-
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Il gatto e i suoi simboli
vano un focolare centrale in cui ardeva il fuoco. Ne sottrasse un tizzone e lo portò alla tigre, ma l’idea di una casa
con focolare, vicino al quale acciambellarsi, si insinuò prepotente in lui; quel giorno decise di lasciare la selvatichezza della tigre e di avvicinarsi alle case dell’uomo. R. Kipling
raccontò questo avvicinamento in una delicata storia per
bambini: Il gatto che se ne andava da solo (ed. it. 1994).
Al tempo in cui tutti gli animali erano selvaggi, il più
selvaggio di tutti era il Gatto; «egli se ne andava da solo e
tutti i luoghi erano uguali per lui» (ibidem, p. 9). Acquattato a distanza, vide prima il Cane Selvaggio e poi il Cavallo Selvaggio e infine la Mucca Selvaggia avvicinarsi alla
casa degli uomini e promettere i loro servigi alla Donna in
cambio di un osso arrosto o di erba fresca tutto l’anno.
Quando nella Caverna degli umani vide la luce del fuoco e
fiutò l’odore del latte appena munto, si avvicinò anche lui,
ma la Donna lo anticipò, dicendo che non aveva più bisogno né di servi né di amici. «Io non sono un amico e non
sono un servo», rispose lui, «io sono il Gatto che se ne va
da solo, ma desidero entrare nella Caverna» (ibidem, p.
23). Senza promettere obbedienza e senza offrire servigi,
strappò alla Donna una triplice promessa: se avesse pronunciato per tre volte parole di elogio nei suoi confronti,
lui avrebbe potuto entrare nella caverna, sedere presso il
fuoco e bere il latte tiepido tre volte al giorno «per sempre,
per sempre, e per sempre». La Donna accettò il patto, ritenendo che non si sarebbe mai trovata a doverlo onorare,
ma una prima volta il Gatto intrattenne il Bambino della
Donna, facendolo giocare mentre lei era indaffarata; una
seconda volta placò il pianto del Bambino, facendo mille
acrobazie con un piccolo arcolaio d’argilla e lo addormentò con la ninna-nanna delle sue fusa; una terza volta
catturò un topolino, «salvando» la Donna che era balzata
sullo sgabello della Caverna per il terrore. Ogni volta la
Donna ebbe per lui parole di elogio e fu costretta a mantenere una dopo l’altra le sue tre promesse, concedendo al
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Gatto di entrare nella Caverna, di avere un posto accanto
al fuoco e di ricevere una razione quotidiana di latte. Da
quella volta egli divenne il vero padrone della casa, «il solo
ad abitarla tutta quanta, dallo studio alla dispensa, dalla
cantina al tetto» (Rajberti, 1845 p. 58). Ma ad ogni concessione della Donna ogni volta ribadì: «Tuttavia io sono
ancora il Gatto che se ne va da solo e tutti i luoghi sono
uguali per me». E ancora oggi, quando si alza la luna e
scende la notte, il Gatto esce per umidi Boschi Selvaggi o
vaga sui Tetti Selvaggi della città, selvaggio e solo.
Al di là delle leggende, rimane il dato biologico che il
gatto è l’unico, tra gli animali domestici, che allo stato brado non è organizzato in modo sociale. A differenza di cavalli, pecore, mucche, maiali, cammelli, elefanti e asini, il
gatto selvatico vive solo e nel corso dei millenni affinò uno
stile di vita tendenzialmente solitario e irriducibilmente indipendente. Contemporaneamente, la convivenza con l’uomo non ha (ancora?) introdotto trasformazioni radicali nel
suo assetto genetico e non ha modificato in maniera sostanziale la sua vita emotiva, l’espressione dell’affettività e
la comunicazione con l’uomo.
La genesi della convergenza tra gatto e uomo costituisce
la premessa per comprendere una delle sue proprietà più tipiche, quella di essere una belva in miniatura, e una delle
sue caratteristiche simboliche più salienti, quella di mettere
a contatto la sofisticata civilizzazione umana con la pura
selvatichezza animale. Profondo conoscitore di gatti, Victor Hugo espresse questo concetto dicendo che Dio ha dato
all’uomo il gatto perché avesse il piacere di carezzare la tigre. Per l’uomo civilizzato, sempre più distante dalla natura e dalle sue paradossali complessità, il gatto costituisce
un’occasione immediata e tangibile per ricordare cosa significhi davvero vivere in contatto con la natura esterna e
rimanere fedeli alla propria natura interna.
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