Scudi per gli scafi nelle memorie del tempo

Vittorio Romairone
Scudi per gli scafi
nelle memorie del tempo
Copyright © MMIX
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
via Raffaele Garofalo, 133 A/B
00173 Roma
(06) 93781065
ISBN
978–88–548–2356–3
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: febbraio 2009
Indice
11 Premessa
13 Introduzione
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Capitolo I
Demoni, piante o animali?
33 Capitolo II
Le pratiche degli antichi naviganti
I Greci ed i Romani, p. 40; nel Medio Evo, p. 46; nel Rinascimento, p. 53
65 Capitolo III
Il rame per gli scafi di legno
85 Capitolo IV
Memorie nelle tecniche di carenaggio
93 Capitolo V
Pittura e pitture
101 Capitolo VI
Quando il ferro si cacciò negli scafi
Le pitture, p. 113; pitture o fodere metalliche? p. 123; test sulle pitture e
prove su navi militari, p. 149
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10 Indice
169 Capitolo VII
Ulteriori sviluppi delle pitture
179 Conclusioni
183 Appendice
Nomi e navi citati nel testo
187 Appendice
Glossario tecnico-storico di alcuni termini
193 Bibliografia
Premessa
Sin dalle sue origini, nel lontano 1940, l’ICMM (Istituto per lo studio della Corrosione Marina dei Metalli) di Genova, ha dedicato una
parte della propria attività di ricerca all’analisi degli organismi incrostanti e delle tecnologie adottabili per limitarne l’insediamento sulle
superfici sommerse, nel rispetto dell’ecosistema marino.
Nel corso degli anni, l’Istituto è stato un punto di riferimento in varie sedi, per approfondire da diverse angolature, i temi legati al fouling
e all’antifouling e ha mantenuto tali connotazioni anche dopo
l’accorpamento, avvenuto nel 2001 in ISMAR, Istituto di Scienze Marine del CNR.
Il volume qui presentato e curato da Vittorio Romairone, riprende,
in una certa misura, l’esperienza pregressa dell’autore, nell’ambito
dello studio degli insediamenti biologici e dell’efficacia delle pitture
antivegetative. Egli affronta l’argomento dell’«evoluzione dei sistemi
protettivi degli scafi delle navi, dall’antichità ai giorni nostri»; appare
singolare come, pur trattando una materia così specifica, egli abbia saputo proporla con un linguaggio semplice ed efficace, e fruibile compiutamente anche da una potenziale platea non propriamente di “addetti ai lavori”.
Così analizza da un punto di vista storico e tecnologico, i progressi
ottenuti nella sperimentazione dei materiali per costruire le carene e
ripercorre cronologicamente i tentativi fatti, nel corso dei secoli, per
trovare nuovi prodotti protettivi, sempre più efficaci contro le comunità del fouling e sempre meno inquinanti per l’ambiente.
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Premessa
C’è un filo conduttore che ispira il testo e raccorda perfettamente
da un lato i racconti di brani antichi, per così dire teorici e di memoria,
con i fatti concreti derivanti dalle esperienze scientifiche, imprenditoriali, di formulatori di pitture e di “pratici”, seguiti attraverso una visione evolutiva che mette in risalto l’esistenza di un background conoscitivo di quegli uomini di mare e non solo, giunto fino ai giorni nostri.
A Vittorio Romairone, con questo lavoro, va riconosciuto il merito
di aver recuperato un tema marginale e poco dibattuto tra gli stessi operatori del settore navale ma che pone tuttavia la necessità a questi
ultimi, d’intervenire fin da adesso, cercando di perfezionare quei processi produttivi eco-compatibili nel campo delle antivegetative, che
ormai non sono più rinviabili.
Ilva Trentin
CNR – ISMAR
Sezione di Genova
Introduzione
L’uomo, da sempre affascinato, ha guardato il mare. Poi decise di
percorrerlo navigando con legni, gettando l’ancora nelle insenature
della costa per conoscere nuovi luoghi, gente diversa e per concludere
affari e scambi commerciali. E ancora per secoli, sempre pronto a togliere l’ancora e riprendere il largo verso l’ignoto per nuovamente esplorare, assaporare la brezza d’altura e perdersi nelle solitudini del
mare.
Così iniziò l’arte della navigazione. Pensò, ideò, costruì varie forme di barche, scelse i legni più idonei e disponibili, il modo di lavorarli, proteggerli e conservarli, poiché si accorse ben presto che
l’acqua salina ne consumava lo scafo.
Il navigante dell’antico mare diventava anche un abile pratico costruttore; perfezionava la struttura della barca rinforzandola, adattandola alle esigenze commerciali o militari. La sapeva guidare, condurre
con sicurezza in mezzo ai flutti e soprattutto la sera «quando l’ora
volge al desio e ai naviganti intenerisce il core», tratta a riva, a secco,
imparava ad osservarne le anomalie. Poneva rimedio alle falle, sostituiva i legni crepati, deformati e incurvati, segni di probabili cedimenti, e vi notava accumuli di alghe e organismi marini e buchi nell’opera
viva.
Già allora, nella generica definizione “in antico”, il navigante non
poteva saper fare ogni cosa e chi navigava lo faceva per vivere acquisendo le conoscenze idonee all’arte della navigazione, per traghettare
in sicurezza merci preziose (anche umana) per conto proprio o di terzi.
Pertanto nella particolarità dei mestieri, necessari a soddisfare i prima-
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Introduzione
ri bisogni dell’uomo, altri si occuparono delle specifiche tecniche di
costruzione delle navi, dividendosi i compiti e le specializzazioni.
Così le maestranze e i “pratici” addetti accumularono nel tempo un
crescendo di esperienze; compresero difetti e trovarono soluzioni sulla
base dei mezzi disponibili e delle conoscenze del momento. Si accorsero anzitutto che quei buchi nello scafo di legno erano provocati da
lunghi vermi che furono chiamati foranavi (teredini). Il problema delle
teredini fu senza dubbio il primo anomalo serio pericolo che necessitava in qualche maniera una soluzione. Per evitare dunque il deperimento del legno ad opera dei voraci vermi, pensarono di proteggere
con metallo lo scafo, provando a rivestirlo con fodere di piombo. Materiale in abbondanza e facilmente malleabile, si rivelò protezione efficace come peraltro testimoniano alcuni reperti di antiche navi venute
alla luce dai fondali marini.
Non risulta ben noto in quale “preciso” momento storico, il problema delle teredini poteva creare serie preoccupazioni allo scafo delle
navi, almeno quelle più “importanti”, fino a giungere a rivestirle con
fodere di piombo, poiché il solo bitume ormai si dimostrava inefficace
protezione.
L’esperto navigante dell’antico passato si identifica per tradizione
con il popolo dei Fenici.
Essi superavano tutti i marinai del loro tempo navigando anche di
notte, orientandosi nel riconoscere infallibilmente il Nord. Possedevano mappe di navigazione e, abbandonando il cabotaggio lungo le coste, s’avventuravano in mare aperto appoggiandosi a una catena di isole (Cipro, Creta, Malta, la Sicilia, la Sardegna, le Baleari). Il miracolo
delle navigazioni fenicie si ritiene sia dovuto non solo al coraggio e
all’ingegnosità degli uomini ma, come scrive Pierre Cintas, «lo si doveva a qualcosa d’altro» e questo era il bitume «quello del Mar Morto» che avevano a portata di mano e «che si usava da sempre». Sicuramente la loro fortuna marittima dipese anche dal largo impiego del
bitume per calafatare gli scafi. Le leggere imbarcazioni venivano tirate
a riva la sera oppure in porto per controllarne costantemente lo scafo,
proteggendolo con il bitume per coprire le falle e renderlo a tenuta
stagna. L’importanza del bitume è ben sottolineata dal Braudel che titola un paragrafo I miracoli del bitume nelle sue Memorie del Mediteraneo.
Introduzione
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Sono stati studiati contratti di costruzione, esaminando con attenzione carte notarili in particolare in età Moderna, dove si precisano dati tecnici (in particolare misure e pesi) stipulati con il capomastro.
Compaiono i calafati che con l’uso di stoppa e pece impermeabilizzavano lo scafo ed erano competenti anche sulla “quantità” dei chiodi
metallici da usare (ma oserei dire, dopo questo studio, in alcuni casi
esperti anche nella scelta sulla “qualità” - in rame o ferro - dei chiodi)
e i bancalati (falegnami) impegnati in interventi relativi alla cosiddetta
“opera morta” (la parte dell’imbarcazione che sta fuori dall’acqua).
Una volta reso stagno lo scafo e contrastato il pericolo delle “foranavi” rivestendo lo scafo con fodere di piombo (evitando il rame perché già si conoscevano “in antico”, come leggeremo in queste pagine,
gli inconvenienti che provocava) non v’erano altre significative preoccupazioni fino a quando la dimensione delle navi e l’uso assiduo delle
stesse, divenne rilevante da condizionare scelte politiche, economiche
e militari.
In questo studio l’autore analizza storicamente, seppur in sintesi,
questo problema che nella storia della navigazione è stato pressoché
trascurato o trattato marginalmente e ancora considerato da molti studiosi del settore tema piuttosto insolito e curioso. L’autore, ancora,
con notevole sensibilità storica, si chiede come in passato i naviganti
si accorsero del fouling (letteralmente spazzatura) e quando effettivamente iniziò a diventare un serio problema alla navigazione.
Con dati certi alla mano una prima significativa risposta al problema risale non prima del Settecento quando iniziavano ad esser comprese reazioni chimico-fisiche (come la corrosione galvanica e la protezione catodica) per meglio perfezionarsi nell’Ottocento giungendo a
conoscenze più affinate, a risultati di laboratorio sempre più attendibili, verificati con prove pratiche e ispezioni scrupolose e sistematiche,
in questo caso, sugli scafi. D’altronde in questo secolo lo scafo in legno delle navi venne gradualmente sostituito col ferro e il problema si
ripresentava sotto una nuova veste; ora si doveva proteggere il ferro e
quindi, il “nuovo” materiale in acqua marina, richiedeva altre esperienze e conseguenti tecniche di protezione. Ormai il mare veniva
sfruttato sistematicamente in quest’epoca caratterizzata soprattutto dal
colonialismo e dagli emigranti “pendolari del mare”.
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Introduzione
V’era altresì l’esigenza di cospicue flotte militari a protezione degli
intensi traffici commerciali e per azioni di guerra. Lo scafo doveva essere protetto non solo dall’eterno fenomeno della corrosione marina (i
francesi parlano di mort du fer), ma dall’assalto degli organismi che,
ben adesi allo scafo ora di ferro, provocavano un eccessivo attrito, rallentavano la velocità allungando i tempi di permanenza in mare e la
durata dei viaggi incidendo notevolmente sui costi di gestione.
In questo periodo così significativo storicamente si concentrarono
pratici e studiosi, in parte stimolati da chi deteneva i capitali, per trovare efficaci soluzioni al problema e, guarda caso, l’Inghilterra è al
primo posto. Dopo varie incertezze e accesi dibattiti sulle diverse tecniche e sulla scelta dei materiali, si deciderà infine per le pitture anticorrosive e antivegetative.
L’autore, in questo studio prevalentemente tecnico-scientifico, descrive in parte i risultati delle sue ricerche altamente specializzate
nell’ambito delle pitture sottomarine, settore particolare di studi e sperimentazioni coltivato da oltre trent’anni. Ben documentato storicamente, oltre a descrivere alcuni fatti curiosi, elenca soprattutto dettagliate relazioni di ispezioni eseguite da tecnici ben consci del problema del fouling.
L’osservazione attenta e il rilievo di eventuali anomalie verificate
dal “semplice” calafato (o pratico o tecnico o ispettore), forte di anni
di lavoro e di solide esperienze, porta ad elaborare soluzioni e comunque a riferire sull’efficacia o inefficacia dei materiali utilizzati, al capomastro o a «chi sta sopra di lui» e poi a «quelli che sanno». Se il filo della comunicazione non viene interrotto, ciò serve a collocare il
problema, considerando la complessità dei contesti, su un piano che
sarà valutato e affrontato scientificamente. Così alle valide soluzioni
pratiche che vengono via via raggiunte – talvolta con tempi lunghi –
col provare e riprovare, si affiancano, dopo assidui studi e sperimentazioni, le spiegazioni scientifiche che permettono di stabilire, come nel
caso degli scafi delle navi, quali materiali possono stare “armoniosamente” insieme. E’ un esempio di comunicazione, non ben definita e
variabile, che continua da tempo in un binario a doppio senso tra
“pratici” e studiosi.
Quindi, in queste pagine vengono ripercorse dall’autore le principali soluzioni pratiche che hanno caratterizzato le tecniche di protezione
Introduzione
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degli scafi, dal bitume fino alle più recenti pitture, e che purtroppo
l’oblio del tempo e la corta memoria dell’uomo hanno in parte cancellato o attendono ancora approfonditi studi, considerato il conseguente
diversificarsi di materiali, di mezzi e risorse, di saperi e mestieri in
continua evoluzione.
Giovanni Ghiglione
CNR – ISEM
Sezione di Genova
Capitolo I
Demoni, piante o animali?
…Fra le piante e gli animali ci sono i Zoofiti, detti perciò da gli Antichi
piant’animali. Varie sono le spezie, come le Spugne di maniere diverse, e i Zoofiti
se moventi. Fa seguire i Crostacei ermafroditi, stabili e semoventi… AUTORI
VARI, GIORNALE DE’ LETTERATI D’ITALIA, 1724.
I materiali impiegati per costruire gli scafi delle imbarcazioni che
navigano in mare sono soggetti ad un rapido invecchiamento e degrado a causa dell’ambiente particolarmente aggressivo. La responsabilità
di tale degrado è dovuta principalmente ad alcuni elementi contenuti
nell’acqua (es. cloro, ossigeno) con elevata capacità ossidante soprattutto sui metalli. A questa azione di natura chimica che si esercita sia
in acqua sia in atmosfera marina, sulle parti immerse si somma
un’altra forma di deterioramento causata dalle incrostazioni di organismi marini dotati, buona parte di essi, di consistenti strutture calcaree.
In biologia marina queste incrostazioni organiche, che naturalmente
sono anche presenti su qualsiasi substrato naturale sommerso, vengono definite associazioni bentoniche. Il termine individua pertanto tutte
quelle categorie di animali e vegetali che, per loro natura, vivono tenacemente adese ad un substrato solido sia esso naturale (le rocce
sommerse) sia artificiale (i moli di cemento o le carene delle navi). Inoltre, gli organismi presenti sulle strutture artificiali sono meglio indicati con il termine inglese di fouling, la cui traduzione letteraria significa spazzatura.
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Capitolo I
Tale terminologia viene pertanto adottata quando si parla di accumuli di entità organiche la cui presenza provoca effetti dannosi sulle
superfici immerse ed in particolare sull’opera viva delle imbarcazioni
(aumenti di peso, aumenti di rugosità, perdita di scorrevolezza, ecc.).
Nelle più antiche citazioni storiche, per descrivere questo fenomeno che opponeva resistenza al corso delle navi, si parlava anche e soprattutto di echeneis o remore1, ossia di pesci che, grazie ad una ventosa sopra la testa, stavano appiccicati a grossi vertebrati marini o al
Fig. 1 - Nel Mediterraneo vivono due specie di remore, la Echeneis remora (25 cm
di lunghezza) e la Echeneis naucrates (65 cm di lunghezza). Questi pesci non sono
organismi parassiti ma semplicemente “amano” farsi trasportare da tutto ciò che si
muove in mare (altri pesci più grossi o scafi di navi). Si nutrono con i resti del pasto
o dei parassiti degli animali che li ospitano. Se non trovano cibo quando sono adesi
ad una carena, si staccano facilmente e, “ottimi nuotatori”, vanno altrove. Clipart
ETC n° 15940, by the University of South Florida.
fasciame degli scafi. Nella fantasia dei naviganti primitivi, assai spesso influenzata da manifestazioni scaramantiche, queste creature potevano essere dotate di uno spirito “demoniaco” così vigoroso da bloccare le imbarcazioni e condannare gli equipaggi ad una misera fine.
Successivamente lo storico Plutarco (46-127 a.C.), in una delle sue
opere, specificò meglio la natura degli altri organismi incrostanti pa1
In un antico dizionario di inglese-italiano di Joseph Baretti, pubblicato a Londra nel 1807, la
remora viene definita un pesce che arresta le navi. Inoltre, e non fu certo per caso, remora divenne anche sinonimo di ostacolo che causa ritardi.
Demoni, piante o animali?
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ragonandoli ad una sorta di sporcizia. In particolare, queste sue
osservazioni risultano quando egli descrive la raschiatura delle
“erbacce”, della “melma” e della “spazzatura” dalle carene delle navi,
operazioni considerate abituali per i naviganti onde favorire meglio la
navigazione (Autori vari 1952b).
Il fouling rappresenta quindi, un fenomeno esclusivamente biologico derivante dal benthos, ovvero specie viventi in forma singola o in
aggregazioni coloniali sedentarie strettamente vincolate a supporti solidi sommersi.
Qualitativamente, le specie del fouling individuate sono state stimate intorno a 2.000 (Autori vari 1952a) ma secondo indagini più recenti, l’elenco si allunga a 4.000-5.000 specie (Crisp 1973). La biodiversità di tali popolamenti marini in ambienti portuali con acque più segregate, si può tuttavia ridurre sensibilmente sino ad una quarantina di
specie (Relini 1980) e, quando le condizioni ambientali sono favorevoli (acque eutrofiche e/o incrementi di temperatura), questi individui,
dopo il loro insediamento, possono crescere velocemente con sviluppi
a livello esponenziale. L’ordine di grandezza raggiunto dalla biomassa
può variare da pochi centimetri a qualche decimetro di spessore. Essi
si presentano in forme variabili ed i più evidenti sono quelli a guscio
calcareo, come ad esempio i balani dalla forma tronco-conica, comunemente noti come “denti di cane”.
I balani appartengono alla classe dei crostacei e sottoclasse dei cirripedi. Il loro ciclo biologico comprende prima una serie di stadi larvali pelagici (Nauplius) che si trasformano successivamente in larve
insedianti dotate di due antenne anteriori con ghiandole adesive
(Cypris). Gli animali adulti hanno invece il corpo avvolto da un mantello protetto da piastre fortemente calcificate e saldate tra loro (muraglia). La parte superiore del guscio, opposta alla base cementata al
substrato, è dotata di orifizio attraverso il quale l’animale estromette
dei filamenti branchiali che hanno funzioni respiratorie e contemporaneamente servono a catturare il nutrimento.
In antico, come risulta dal Vocabolario Metodico Italiano di Francesco Zanotto del 1857, data la forma di questo crostaceo, si usava anche il termine di “calamaio”.
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Capitolo I
Nell’opera, l’animale viene così descritto: «Verme marino che ha il
corpo quasi cilindrico, aguzzato; una coda anticipite romboidale. Per
mezzo di tubercoli attacca le sue braccia agli scogli».
Oltre ai balani, sono molto diffusi i serpulidi, vermi a guscio tubolare, noti come “corallino bianco”.
I serpulidi sono organismi appartenenti alla classe dei policheti,
phylum degli anellidi, di natura sessile allo stadio adulto, hanno
anch’essi una vita larvale pelagica allo stadio precoce. La parte esterna
del corpo è costituita da un tubo calcareo più o meno calcificato e cementato al substrato. A seconda della specie e delle condizioni ambientali possono svilupparsi su piani paralleli o perpendicolari al
Fig. 2 - Insediamento di balani (denti di cane) e di serpulidi (corallino bianco) su
substrato inerte immerso per sei mesi nelle acque del porto di Genova. Archivio
CNR-ISMAR.
substrato. La parte interna del corpo, di natura molle, vermiforme ed
anellata (metamateria), è dotata alla sommità di branchie, cirri ed opercolo. Tale apparato ha funzioni respiratorie e di nutrimento.
Il phylum dei molluschi è ben rappresentato, in questi popolamenti,
con i bivalvi, organismi bentonici allo stadio adulto e larvale pelagico
Demoni, piante o animali?
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nella fase precoce. Essi hanno il corpo molle bilaterale simmetrico,
compresso, racchiuso in conchiglie costituite da due valve più o meno
ugualmente sviluppate. Legamenti elastici e muscoli adduttori inseriti
sulle facce interne delle conchiglie assicurano i movimenti di apertura
e chiusura delle stesse.
Nell’ambito di questa classe gli individui appartenenti al fouling
possono avere diversi sistemi per fissarsi ad un substrato solido, alcuni
emettono filamenti (bisso) che a contatto con l’acqua si induriscono e
Fig. 3 - Insediamento di mitili (bivalvi) e di macroalghe lamellari su substrato inerte
immerso nelle acque del porto di Genova. Archivio CNR-ISMAR.
legano saldamente la conchiglia al substrato, esempio i mitili. Altri invece si cementano più tenacemente con una delle due valve, esempio
le ostriche.
I briozoi (phylum) sono un altro gruppo ben rappresentato. Essi sono presenti nel fouling con organizzazione di tipo coloniale. Originate
per gemmazione da una singola larva, le colonie possono essere pre-
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Capitolo I
senti in forme ramificate o incrostanti laminari più o meno calcificate.
Il corpo di un singolo individuo, definito “zooecio”, viene distinto in
una parte comprendente la parete del corpo ed un’altra sporgente a
Fig. 4 - Insediamenti di una colonia di briozoi incrostanti a sinistra, briozoi ramificati in alto al centro ed insediamenti di corallino bianco ed alghe verdi al centro e a destra. Archivio CNR-ISMAR.
forma di polipo retrattile, attraverso un orifizio, all’interno del corpo.
Seguono altri organismi con sviluppi singoli o coloniali a guscio
chitinoso o cellulosico come gli idroidi. Questi organismi, anch’essi
animali, appartengono al phylum dei celenterati, classe idrozoi. La loro organizzazione è generalmente coloniale con sviluppi in ramificazioni (stoloni) di vario tipo e con generazione di piccoli polipi agli apici con funzioni nutritive e riproduttive. Gli stoloni sono spesso
provvisti di rivestimenti chitinosi cuticolari, talvolta calcificati.
Gli ascidiacei (classe), abbondantemente presenti, sono animali bentonici allo stadio adulto e larve pelagiche in quello precoce, appartengono al phylum dei cordati, sottophylum dei tunicati. Essi hanno un
corpo sacciforme o tubolare fissato con il polo basale al substrato
Demoni, piante o animali?
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Fig. 5 - Caratteristica colonia di briozoi, ad edificio calcareo, comunemente infestante strutture artificiali immerse. Archivio CNR-ISMAR.
Fig. 6 - Ciuffo (colonie) di idroidi insediato su altri organismi del fouling. Archivio
CNR-ISMAR.
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Capitolo I
Fig. 7 - Insediamento di ascidiacei su substrato inerte immerso nelle acque del porto
di Genova. L’individuo al centro dell’immagine appartiene al genere Styela, visibili i
sifoni sul bordo in alto. Archivio CNR-ISMAR.
solido. La loro epidermide è ricoperta da un rivestimento cutiforme
gelatinoso o cartilagineo formante la “tunica”.
Sono provvisti di un’apertura boccale ed una cloacale prolungate in
due sifoni. Gli ascidiacei si riproducono, oltre che per via sessuale,
spesso anche per gemmazione o blastogenesi, per alcuni generi, questa
porta alla formazione di colonie.
Francesco Zanotto, nel vocabolario citato in precedenza, attribuisce
agli organismi non coloniali il termine di “Carnume” e ne dà una descrizione sommaria in questi termini:
Spezie di zoofito del genere delle conchiglie, con altro nome detto uovo di
mare, ed è una razza di balani senza guscio esteriore, ma con una pelle callosa, durissima e sono a similitudine delle noci. Hanno due fori come i porci
marini e per di dietro sono rossi e si mangiano come i balani, essendo saporitissimi.
Demoni, piante o animali?
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I poriferi (phylum) o spugne sono organismi appartenenti ad un importante gruppo dello “zoobentos”, vivono anch’essi fissati al substrato dopo un periodo di vita larvale pelagica. Generalmente hanno un
corpo sacciforme costituito da un’organizzazione cellulare a tessuto
siliceo o calcareo con le pareti attraversate da tante minute aperture
(pori). Spesso essi perdono la loro simmetria originale adattando la
Fig. 8 - Insediamento di ascidiacei coloniali appartenenti al genere Botryllus e di
serpulidi su substrato inerte immerso nelle acque del porto di Genova. Archivio
CNR-ISMAR.
forma al substrato.
I gruppi presenti nel fouling sono poco consistenti, su substrato artificiale vergine non hanno caratteristiche pioniere e si possono trovare solo quando le strutture sommerse sono state abbondantemente colonizzate da altri organismi.
Nelle zone con più luce si trovano di preferenza i vegetali presenti
come micro e macroalghe verdi e brune, di forma lamellare, ramificata
o filiforme (Montanari 1988).
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Capitolo I
In passato, chi navigava su navi con scafo di legno per mari “caldi”, soprattutto lungo il Mediterraneo, bacino più frequentato e molto
conteso nell’antichità, ben conosceva il pericolo rappresentato da alcune specie di molluschi bivalvi vermiformi ossia le teredini. Questi
organismi, noti come “foranavi” o tarli marini, hanno il loro habitat
preferenziale all’interno dei manufatti di legno. La specie più comune
e diffusa nel Mediterraneo è la Teredo navalis (Riedl 1991), scoperta e
Fig. 9 - Insediamento di poriferi (spugne) sopra un tappeto di serpulidi e briozoi su
un provino inerte immerso nelle acque del porto di Genova. Archivio CNR-ISMAR.
così chiamata dal naturalista, biologo, scrittore svedese Linneo (17071778).
L’animale è dotato di piccole valve dalle quali si diparte un mantello tubolare calcareo molto fragile di lunghezza variabile tra 15 e 40
cm e di diametro da 4 a 6 mm, il corpo è prolungato posteriormente da
due sifoni. Il mollusco scava gallerie nel legno utilizzando le valve
della conchiglia con movimenti alternanti e rotatori. In tal modo i fori
praticati risultano perfettamente circolari e le gallerie potevano facil-
Demoni, piante o animali?
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mente trapassare le carene delle antiche navi con immaginabili effetti
devastanti l’integrità e l’impermeabilità del fasciame. A questa serie di
Fig. 10 - Provino in legno di pino fortemente attaccato dalle teredini e da idroidi. Il
reperto è la rimanenza di un pannello di dimensioni 20 x 10 cm fortemente disgregato dopo un’immersione annuale nelle acque del porto di Genova. Archivio CNRISMAR.
organismi, appena accennati, di dimensioni piuttosto macroscopiche,
si deve aggiungere, per completare il quadro di tutto ciò che contribuisce al degrado delle superfici immerse, un’ampia categoria di piccoli
individui quali batteri, microalghe, protozoi ed altro. Visivamente la
loro entità può raggiungere la consistenza di una patina più o meno
gelatinosa abbondantemente ispessita da particellato organico ed inorganico (sedimento). Generalmente la presenza di questi organismi è
evidenziata in una fascia temporale che precede quelle successive degli individui più macroscopici.
Per le navi con gli scafi di legno, quindi, al problema
dell’accumulo sulla superficie immersa dei vari organismi sopra descritti, si aggiungeva quello delle teredini all’interno della struttura.
Può essere pertanto facilmente immaginata quale sorte attendeva
un’imbarcazione rallentata dal maggior attrito, appesantita dalle incrostazioni esterne ed indebolita da quelle interne.
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Capitolo I
Sicuramente già i navigatori, descritti nelle più remote memorie,
non potevano ignorare tali problemi e di conseguenza attivare
l’ingegno per trovare i rimedi con i mezzi disponibili all’epoca.
In tempi recenti, tra l’altro, è stato sperimentalmente dimostrato
che pochi millimetri di spessore biologico sono sufficienti a produrre
una riduzione di circa il 10% sulla velocità media di una imbarcazione
(Loeb 1984).
Gli organismi incrostanti più macroscopici, come detto, hanno generalmente una prima forma di vita larvale fluttuante nel plancton marino che in seguito, durante la metamorfosi nella forma adulta, si
completa con l’insediamento dell’individuo su substrati solidi naturali
o artificiali. Gli insediamenti possono avvenire sulle strutture immerse
sia quando sono ferme, sia quando sono in moderato movimento. Da
Fig. 11 - Condotta sperimentale per lo studio degli insediamenti biologici, in funzione della velocità di scorrimento dell’acqua, prima dell’immersione in mare. Studio
effettuato nel 1971 dal Laboratorio Corrosioni Marine dei Metalli del CNR di Genova. Archivio CNR-ISMAR già ICMM.
Demoni, piante o animali?
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prove sperimentali, è stato verificato come le concrezioni calcaree di
natura biologica possono essere abbondanti (esposizioni di due settimane nel periodo estivo) in condotte con passaggio dell’acqua di mare
alla velocità variabile da 0,8 a 1,5 nodi, mentre il limite
all’insediamento, per alcune specie di balani, si raggiunge con velocità
di circa 2 nodi (Mollica, Trevis 1972).
Velocità superiori non bloccano la crescita degli organismi precedentemente insediati anzi, in certe situazioni, possono favorirla perché
maggiori quantità d’acqua a contatto con essi significano anche maggiori apporti di nutrimento (detriti organici e plancton).
In situazioni statiche, con acque più segregate ed eutrofiche, tipiche
di un bacino portuale in area mediterranea, la quantità d’organismi che
in un anno s’insedia sulla superficie immersa di uno scafo non protetto
da un sistema antivegetativo, può variare da 5 a 50 grammi per dm2 a
Fig. 12 - Insediamenti di serpulidi su pittura antivegetativa esausta dell’opera viva di
una nave in bacino. Prelievo e studio degli organismi bentonici effettuato nel 1970
dal Laboratorio Corrosioni Marine dei Metalli del CNR di Genova. Archivio CNRISMAR già ICMM.
32
Capitolo I
seconda del gradiente d’eutrofia delle acque. Tali valori sono stati ricavati da sperimentazioni effettuate in Liguria, rispettivamente nelle
acque di Portofino e del porto di Genova (Romairone 1994). I dati si
riferiscono al peso secco misurato dopo il prelievo degli organismi dal
substrato. In realtà i valori ponderali delle incrostazioni biologiche,
viventi, sono ben maggiori in considerazione della quantità d’acqua da
essi inglobata sia nei loro tessuti molli, sia negli interstizi interni delle
rispettive strutture morfologiche. Tale incremento sul peso secco, può
superare anche il 90%.
Tutto questo fa comprendere quanto fosse importante, soprattutto
in passato, trovare delle soluzioni a questi problemi considerando i
Fig. 13 - Insediamenti di fouling su una boa portuale. Si distinguono principalmente
gli ascidiacei sacciformi del genere Ciona. Archivio CNR-ISMAR già ICMM.
lunghi tempi di sosta delle imbarcazioni nei porti e delle lente velocità
delle navi affidate solo alla forza dei remi e a quella del vento, quando
favorevole. L’efficienza della nave non era e non è tuttora, pertanto
compatibile con la presenza di questi popolamenti biologici.