Trieste, l febbraio 2016 Matteo Landi Quinta C ~ Olimpiadi di Filosofia 2017 Fase d'Istituto L'ente di qualsivoglia ambito noi possiamo sempre con facilità raffigurarcelo e rappresentarcelo. Possiamo, come si suol dire, farcene un'idea. Orbene, come stanno le cose con l'oggetto della filosofia? Possiamo rappresentarci qualcosa come l'essere? Non ci colgono le vertigini in questo tentativo? All'inizio, in effetti, siamo confusi e brancoliamo nel buio. L'ente - è ben qualcosa, iltavolo, la sedia, l'albero, il cielo, il corpo, la parola, l'azione. L'ente, va bene - ma l'essere? [... ] Quale punto di partenza della nostra trattazione dobbiamo fissare, senza illusioni o addolcimenti, il fatto che, con il termine "essere", dapprima io non posso pensar nulla. Ma, d'altra parte, è vero che noi pensiamo l'essere costantemente. Lo pensiamo ogni volta che diciamo, innumerevoli volte ogni giorno, esplicitamente e ad alta voce oppure in silenzio, "questo è così e così", "quello non è così", "questo era, sarà". Ogni volta che facciamo uso di un verbo noi abbiamo già pensato l'essere, l'abbiamo sempre, in qualche modo, già compreso. Comprendiamo immediatamente: oggi è sabato, il sole è tramontato. Comprendiamo l'''è'' che usiamo discorrendo, e d'altra parte non ne abbiamo il concetto. Il senso di questo "è" ci rimane oscuro. La comprensione dell'''è'', quindi dell'essere in generale, è così naturale che è potuto largamente prosperare in filosofia un dogma fmo ad oggi indiscusso: l'essere è il concetto più semplice e più ovvio; esso non è suscettibile di determinazione né ha bisogno di essere determinato. Ci si richiama al sano intelletto comune che è proprio dell'uomo. Ma tutte le volte che del sano intelletto comune si fa l'istanza ultima della filosofia, questa deve diffidare. [... ] Se la filosofia è la scienza dell'essere, allora sorge, quale questione iniziale, fmale e fondamentale della filosofia, la domanda: cosa significa "essere"? A partire da che cosa dev'essere compreso qualcosa come l'essere in generale? Com'è in generale possibile la comprensione dell'essere? [M. Heidegger, I problemi fondamentali dellafenomenologia (1927), 'Il melangolo', Genova 1999] eaUlJ.açcoè il verbo greco che indica l'atto del meravigliarsi, dello stupirsi, incantarsi di fronte ad una cosa mirabile; da esso deriva l'italiano 'taumaturgo', letteralmente "colui che opera miracoli". Quando Martin Heidegger, esistenzialista tedesco del XX secolo, parla della vertigine che coglie l'uomo nel momento in cui egli tenta di interrogarsi sulla possibile rappresentazione dell'essere, il filosofo evoca una sensazione non così distante dal 9aUlJ.açEtv,lo stupore, quello che lo stesso Socrate riteneva fosse il punto di partenza dell'attività filosofica: non posso interrogarrni su qualcosa e formulare le "domande ultime" di cui parla Hannah Arendt (Socrate, ed. 'Minima'), quegli interrogativi cui non sono certo di poter dare risposta, se prima non ho provato meraviglia, non mi sono sentito nulla di fronte alla mia ignoranza (è il so-di-non-sapere), annichilito al cospetto della vastità dello scibile [e non] per la mia umana razionalità, in un atteggiamento per certi versi simile alle descrizioni del sublime di Burke o Immanuel Kant. L'essere - contrapposto all'ente, quell'entità fisica (ma in alcuni casi immateriale, come la parola, o non necessariamente sensibile, come l'azione) che mi è possibile non solo raffigurarmi ma anche rappresentarmi grazie al mio intelletto - permea la vita, permea la stessa realtà ed io, soggetto-uomo, ho coscienza di ciò ma non riesco ad afferrarlo, né con la parola né col pensiero. È possibile che l'essere, oggetto della filosofia, che ha assunto ormai un valore dogmatico (si è ridotto al Cogito cartesiano, allo Spirito di Hegel, ipostatizzati), rimanga ineffabile? Come posso conoscere qualcosa che non riesco nemmeno ad esprimere a parole? Dov'è la radice di questo problema, che rischia di far entrare la filosofia in contraddizione poiché, in quanto "scienza dell' essere", non potrebbe fare affidamento su una conoscenza intuitiva ed invece necessiterebbe forse di una 'coerente deduzione'? (Evidente è che la filosofia non possa fare poggiare sul "sano intelletto comune": esso infatti è al pari della òoça, l"opinione', ed i ragionamenti formulati a partire da questa risulterebbero inevitabilmente fallaci, aristotelicamente sofistici.) c / ! Ma torniamo allo sbalordimento, al eaUJlaçEw: perché questa vertigine? Temo forse sia fallimentare il non riuscire ad esprimere (a parole rivolte agli altri, quindi a comunicare, ed ~ 'parole' rivolte a me stesso, quindi a conoscere) la caratteristica "iniziale, fln~e e f~ndam~nta1e" d~ questa natura primitiva ed eterna del reale? E se davvero non potessi mal cogliere, mal comprendere, l' essere-in-sé? .,. " Nelle sue Enneades Plotino scrive anche a proposito della Grazia; la definisce emrsouou ro Kalli1.", profusa e diffusa attorno al Bello, aura intangibile ed. indes~rivibile ch~ tu~vi~ si manifesta, forza circolante che riveste ed investe le cose belle m un Istante magico, l attimo effimero in cui tutto può accadere, rivelazione epifanica di una verità più profonda, di un senso più radicale intrinseco al Bello che spontaneamente e solo nel xmpoç, questo 'momento opportuno', si manifesta. E se l'essere non avesse caratteristiche simili? Se non fosse anch'esso attributo circolante attorno al reale, emanazione che lo connota e determina pur rimanendo sempre costituzionalmente inafferrabile? Bergson, nell' Évolution créatrice, parla del Divenire come natura stessa dell'essere, dimensione di perpetuo movimento in cui sono la vita, la realtà e l'essenza stessa Non è possibile né lecito interrompere il movimento, 'istantaneizzare' il fieri anche solo per un momento, desiderando di poterlo contemplare di sfuggita e per un solo istante: staremmo ponendo fine anche a noi stessi, avremmo interrotto la nostra propria essenza. In Uno, nessuno e centomila, quando Anna Rosa mostra a Vitangelo alcune sue fotografie (alcune sue istantanee), il protagonista subito le risponde si tratti di sue rappresentazioni morte; lei si meraviglia: non riesce a comprendere come in quelle immagini possa essere morta quando è lì, di fronte a lui, a porgli questa stessa domanda. La risposta di Vitangelo ci riporta al nostro discorso: quando Anna ha posato per quegli scatti - cosi anche come quando tutti noi ci guardiamo allo specchio - si è atteggiata, è diventata statua, ha cessato di vivere proprio perché ha osato interrompere il movimento (il fluire del reale, del vivo, dell' essere) e si è in questo modo resa morta, non-movente si, non-essente; le uniche immagini in cui avrà potuto riconoscersi saranno state quelle scattate di nascosto, senza nemmeno che lei se ne accorgesse, colta e coinvolta nel movimento dell' essere e per questo realmente viva. È allora upptç la nostra? Siamo tanto superbi da credere di poter cogliere l'essenza medesima dell'essere, generando uno iato nel suo corso che l'ha già reso evanescente? Ma se non riusciamo a definirlo né a conoscerlo, ed allo stesso tempo "è vero che noi pensiamo l'essere costantemente", stiamo veramente conducendo un ragionamento intuitivo? È davvero possibile pensare qualunque cosa senza impiegare mai una proposizione che si colleghi alla successiva per via intuitiva? Nella seconda metà del Novecento divenne celebre un esperimento di pensiero (thought experiment) che ci chiede di riflettere proprio sul ruolo dell'intuizione come strumento gnoseologico; noto come "Mary 's room", esso ci presenta questo scenario: Mary, affermata neuroscienziata e perfetta conoscitrice dei processi fisico-chimici ·del sistema nervoso umano, non ha mai lasciato la sua stanza in tutta la sua vita. Lì è cresciuta, ha studiato, è diventata adulta; Mary però non è mai entrata a contatto con il colore: non è daltonica, ma tutti i muri della sua camera, l'arredamento, i cibi, i libri, ... sono sempre stati neri, bianchi o di diverse sfumature di grigio. Grazie alle sue conoscenze mediche, Mary sa esattamente che la retina dell' occhio umano possiede vari tipi di cellule e che tra loro i coni sono deputati proprio alla percezione dei colori; l'informazione poi viaggia come impulso elettrico al cervello e lì viene interpretato per formare la rappresentazione cosciente di queste diverse sfumature. Mary sa anche cosa sia il colore: sa che tutti i corpi emettono radiazione luminosa a diversa lunghezza d'onda e che a seconda del valore n~ometrico di quest'ultima non tutte sono visibili, alcune rosse, altre verdi e così via; potremmo dire c~e Mary non solo conosca il colore ma anche la conoscenza stessa dei colori la loro percezione, no~ostante non l'abbia mai sperimentata. Il racconto si conclude lasciandoci con questa dom~da: un gI?rnO Mary, per l~ prima volta nella sua vita, entra a contatto con un'immagine a c?l?n, per la pnma volta percepisce un corpo non grigio (o nero, o bianco) ma pieno di tonalità VIVIdo e che emette tutte quelle lunghezze d'onda che a lei sono tanto ben note; ha conosciuto qualcosa di più/in più? Alla sua già apparentemente piena conoscenza del colore si è sommato qualche altro dato che prima non avrebbe mai potuto avere? Se cosi fosse vorrebbe dire che non tutto ciò che conosciamo è esprimibile a parole, né che ciò che siamo in grado di comunicare nel discorso rappresenti ogni realtà conoscibile. Possiamo dunque parlare di intuizione, di comunicazione e conoscenza che la parola non è in grado di veicolare e che tuttavia denota e connota la realtà? Esistono allora processi ed attività (in questo caso di origine fisica, ma non esclusivamente) che è possibile pensare solo per via intuitiva? Torniamo ora invece alla filosofia: siamo proprio certi che essa debba prescindere da ogni tipo di ragionamento intuitivo, se forse nulla di ciò che perviene alla nostra mente è privo dell'uso di questo genere di legame tra alcune proposizioni, anche in minima parte? Può la filosofia arrogarsi il titolo di "scienza dell'essere" se forse questo stesso essere si manifesta a noi per via intuitiva? Starebbe peccando di u~ptç lei, allora (o chi questo tipo di filosofia ha proposto)! L'onestà intellettuale della filosofia stessa dovrebbe stare nel riconoscersi limitata e non-perfetta prima di diventare vera 'E1t1aT1lJ.l1l' dell'essere, cosi come per l'uomo che esiste - che è-nel-mondo - si ha il passaggio ad autentica essenza (Sartre) quando comprende di "essere-per-la-morte" (Heidegger), di aver un limite, un terminus, una finitudine (spazio-)temporale che ne causerà la cessazione ma che proprio per questo lo costituirà come 'vivo' ed essente. Ed è proprio Heidegger il filosofo che rivaluta l'intuizione, che difende il ruolo del mito di Platone dalle critiche di irrazionalismo ed uso inappropriato dell' intuizione che gli aveva mosso Hegel; sempre lui il filosofo che riconosce il grande valore nello stile di Nietzsche per l'uso della parabola, dell' aforisma, di una narrazione a tratti ermetica e per certi versi notevolmente criptica eppure che contribuisce in modo estremamente significativo alla trasmissione del suo messaggio e della sua riflessione filosofica. L'intuizione si rivela forse allora intrinsecamente legata alla natura dell'essere, connaturata alla matrice di tutte le cose della realtà, ai riessi tra esse ed ai processi che le legano quando le pensiamo. El' essere, il pensato, non può forse che essere anche intuito, percepito nella sua fuggevolezza di aura, alone luminoso, ponendo fme alla necessità di darne una defmizione categorica ed universale: esso è contenuto in tutte le cose e fluisce tra loro, ma quanto di esso? In quale forma? Grazie a quali processi o movimenti? Forse sono queste le "domande ultime" che dovremmo porci riguardo all'essere: non "cos'è?" ma "com'è?", non "in cosa consiste?" ma "come si muove e manifesta?"; la fenomenologia riacquisterebbe allora una valenza più kantiana che metafisica, sarebbe osservazione e riflessione sulle manifestazioni (le epifanie) dell' essere ma non per questo speculazione. Abbandoneremmo probabilmente la metafisica della reductio ad unum, ma scongiureremmo anche la regressio ad infinitum a cui saremmo portati volendo risalire a tutti i significati di un essere che forse non è così univocamente determinato: se non proseguissimo su qu~sto c~ino ci smarriremmo nei meandri di un'ermeneutica che non potrà mai cogliere il senso ultimo di qualcosa che potrebbe non averne uno solo, un essere -idealizzato e statico che non ha motivo di esser-ci, di essere in una realtà fluida ed in perpetuo moto come quella del Divenire.