DOPO FREUD “La psicoanalisi ha avuto una diffusione enorme. Termini coniati o usati da Freud e da altri analisti sono entrati nel linguaggio comune («inconscio», «complesso», «fase orale», «libido», «lapsus»), spesso usati a sproposito. I concetti e le teorie psicoanalitiche hanno aperto nuove prospettive nelle scienze umane, nell’arte e nella letteratura. Artisti e scrittori sono stati stimolati a riscoprire l’importanza del sogno e delle fantasie sessuali, a sperimentare forme espressive servendosi dei materiali delle loro visioni e dell’irrazionale: basti pensare a certe espressioni del surrealismo, alla letteratura del flusso di coscienza o del monologo interiore. Rivalutando l’importanza degli elementi autobiografici, la psicoanalisi ha influenzato il modo di interpretare i testi letterari e le opere d’arte. La psicoanalisi insegna che quello che facciamo, diciamo o scriviamo contiene non solo un significato evidente, ma molti altri livelli di significato. Dietro gli scopi consapevoli di un individuo, possono celarsi desideri infantili dimenticati; dietro i suoi atti esteriori vi è un mondo interiore e profondo in cui quegli atti rispondono a motivazioni diverse da quelle evidenti. Non solo nella nevrosi e nella letteratura, ma anche nella normalità, le vicende che si dipanano davanti a noi sono anche la messa in scena di qualcosa che in un certo senso è già avvenuto, nella realtà o nella fantasia della persona. Insomma, facciamo una cosa ma, senza saperlo, ne facciamo anche un’altra. Si capisce subito quale campo enorme questa prospettiva apra all’analisi dei testi letterari, nei quali un autore inevitabilmente proietta esperienze personali e quello che si suole chiamare il suo "vissuto interiore". Del resto noi tutti viviamo in un universo di simboli, e i simboli svolgono la funzione di ponte fra il mondo interiore e quello esterno; danno un significato affettivo agli oggetti reali anche nella vita dell’adulto più razionale, così come per il bambino l’orsacchiotto rappresenta la madre. Freud disse più volte che gli artisti esprimono nelle loro visioni verità psicologiche fondamentali che il pensiero razionale riconosce solo a fatica e molto tempo dopo. Non per nulla, nei suoi scritti, le citazioni letterarie sono più frequenti e importanti di quelle da scienziati e filosofi. Particolare influenza la psicoanalisi ha esercitato su un campo di studi all’incrocio fra la storia delle religioni, l’antropologia, la filosofia e la letteratura che ha per oggetto il mito. In questo settore all’influenza di Freud si è aggiunta, e spesso sostituita, quella di Carl Gustav Jung (1875-1961), lo psichiatra e psicoanalista svizzero che si staccò da Freud nel 1913 e seguì un percorso personale molto diverso. Infatti Freud dovette affrontare ben presto tensioni e contrasti all’interno del movimento a cui aveva dato inizio, e che cercò di tenere - bisogna dirlo - sotto un controllo ferreo. Molti suoi seguaci finirono col prendere strade diverse, modificando aspetti della teoria e della pratica psicoanalitica. Non pochi giunsero alla rottura. Il paradigma unitario iniziale si è così frammentato in una pluralità di prospettive, sia teoriche sia terapeutiche.” 1 Anticipiamo sinteticamente i temi che caratterizzano la “psicologia analitica” di Jung e che la separano nettamente dalle teorie di Freud: 1) Jung rifiuta l’idea freudiana che la libido sia di origine sessuale: la sessualità è solo una delle manifestazioni di un’energia fondamentale indifferenziata, “suscettibile di comunicarsi a una sfera qualsiasi di attività – potenza, fame, odio, sessualità, religione ecc. – senza che sia un impulso specifico” . Anche altri psicoanalisti hanno rifiutato il “pansessualismo” di Freud, per esempio la tesi che il carattere sia determinato principalmente dallo sviluppo sessuale del bambino. 2) Jung afferma che esiste un inconscio collettivo (comune a tutti gli uomini) che costituisce il sostrato della psiche individuale; Per Freud invece l’inconscio era solo individuale. 3) Per Freud l’inconscio individuale, inteso come prodotto della rimozione di esperienze infantili, era l’origine delle nevrosi, e la guarigione era conseguente alla conquista della consapevolezza razionale; al contrario per Jung l’inconscio è una sorgente di energie vitali e positive, e la malattia psichica deriva da una rottura dell’equilibrio tra la dimensione conscia dell’Io e l’inconscio; la terapia proposta da Jung consiste quindi nella riattivazione del rapporto tra l’Io cosciente e l’inconscio e nel ristabilimento dell’equilibrio compromesso. 4) Freud considerava illusione e nevrosi la religione (e in generale tutta la dimensione spirituale, mitologica e simbolica della cultura umana), al contrario Jung attribuisce grande importanza (anche terapeutica) alla religione e a tutto il patrimonio spirituale dell’umanità, che affonda le sue radici appunto nell’inconscio collettivo. Esaminiamo ora, in modo più analitico e sistematico, la vita, l’opera, il pensiero di Carl Gustav Jung. 1 La Vergata / Trabattoni: Filosofia cultura cittadinanza La Nuova Italia vol. 3 pp. 373-374 1 CARL GUSTAV JUNG La vita e le opere 2 “Carl Gustav Jung nasce a Kesswill, in Svizzera, nel 1875. Conseguita la laurea in psichiatria nel 1900, si trasferisce a Zurigo, nella clinica psichiatrica Burghòlzli. In contrasto con l’indirizzo fisiologico che dominava la psichiatria del suo tempo, Jung appare subito orientato a trattare i problemi della psichiatria dal punto di vista psicologico e trova un apporto decisivo in questo senso nella psicoanalisi di Freud, che introduce con successo nelle attività terapeutiche della clinica. Tra il 1904 e il 1907 scrive e pubblica Ricerche sperimentali e La psicologia della dementia praecox dove illustra le applicazioni della psicoanalisi di Freud alla terapia delle psicosi. Freud aveva intanto letto con grande interesse il saggio sulla demenza precoce e aveva quindi invitato il giovane studioso a raggiungerlo a Vienna. Ha scritto Jung nelle sue memorie: «Mi invitò lui e il nostro primo incontro ebbe luogo a Vienna nel febbraio 1907. Conversammo, quasi senza sosta, per tredici ore. Freud era il primo uomo veramente notevole che avessi mai incontrato. In lui non v’era nulla che fosse banale: lo trovai d’un’intelligenza fuori dal comune, acuto, notevole sotto ogni aspetto». Inizia così la collaborazione tra Freud e Jung, che diventa il discepolo prediletto del fondatore della psicoanalisi. Ma ben presto l’amicizia e la collaborazione si interruppero: le riserve espresse sull’eccessiva importanza assegnata da Freud alle pulsioni sessuali a scapito delle forme più propriamente spirituali dell’energia psichica costituiscono il motivo principale che indusse Jung ad allontanarsi dalla psicoanalisi nel 1913 e a formulare una propria "psicologia analitica", i cui fondamenti sono esposti nei saggi Simboli e trasformazioni della libido (1912), La psicologia dei processi inconsci (1917) e Tipi psicologici (1921). A partire dal 1921, Jung compie una lunga serie di viaggi per studiare dal vivo l’immenso patrimonio di riti arcaici, leggende mitologiche, credenze religiose, pratiche esoteriche e immagini simboliche che aveva posto a base delle sue indagini teoriche su quello che definiva l'inconscio collettivo dell'umanità. Dopo un lungo soggiorno in Africa settentrionale e nelle oasi del deserto sahariano, tra il 1924 e il 1925 Jung studia le abitudini degli indiani d’America in Arizona e nel Nuovo Messico. Nel 1926 compie un altro viaggio in Africa al seguito di una spedizione scientifica diretta in Kenya e in Uganda.Verso la fine degli anni Venti i suoi interessi si rivolgono alla filosofia e alle religioni dell'Estremo Oriente. Tra il 1933 e il 1938, Jung dirige la Società internazionale di psicoterapia. Nel 1944 si trasferisce a Basilea, dove occupa la cattedra di Psicologia medica da lui stesso istituita. Negli anni Quaranta e Cinquanta pubblica un gran numero di saggi, fra cui ricordiamo Psicologia e religione (1938-1940), Psicologia e alchimia (1944), Gli archetipi dell’inconscio collettivo (1954) e Mysterium coniunctionis (1956). Jung muore a Kùsnacht il 26 giugno 1961. L'approccio simbolico alla dimensione dell'inconscio La dottrina dell’inconscio collettivo II modello di psiche a cui si ispira l’indagine di Jung è costituito da una totalità compiuta, universale e onnicomprensiva di cui la coscienza individuale dell’uomo rappresenta solo una parte. Jung ha definito questo modello di totalità: "inconscio collettivo", distinto dall’Io, cioè dalla singola unità di coscienza. In quanto noi facciamo parte di questa totalità e ne siamo interamente e internamente compresi, possiamo perciò riferirci ad essa solo in modo indiretto, allusivo o, appunto, simbolico. Ma occorre precisare: si potrebbe pensare che l'espressione "inconscio collettivo" sia un simbolo nel senso razionale del termine, cioè una rappresentazione astratta riferita per convenzione a un oggetto specifico già noto; invece quando Jung parla di comprensione simbolica della psiche allude a un tipo di conoscenza non razionale, ma piuttosto emozionale e intuitiva, che si riferisce o rimanda a una realtà relativamente sconosciuta: sconosciuta in quanto situata al di là della nostra esperienza individuale; relativamente in quanto tale realtà accade e si esprime nella coscienza individuale mediante forme sue proprie: le emozioni e le immagini, in particolare, costituiscono le unità primordiali del funzionamento psichico, le forme in cui l’inconscio collettivo si manifesta anzitutto nella coscienza individuale. L'origine collettiva della psiche individuale Ma che cosa intende Jung quando parla di "immagini"? E quale significato simbolico può anzitutto attribuirsi a ciò che egli chiama "Inconscio collettivo"? Secondo le tradizionali concezioni psicologiche, il funzionamento della psiche è un fenomeno sostanzialmente individuale, relativo all’attività dell’Io singolo e significativo solo nei limiti di questo. Lo stesso inconscio freudiano è concepito come un ricettacolo di pulsioni caotiche, rimosse dall’Io in quanto incompatibili con le esigenze ambientali e con i princìpi etici assimilati nel corso del suo sviluppo. Ma l’esperienza e la stessa natura indefinibile dell’inconscio non ci consentono di avere un’idea dei limiti entro cui esso è circoscritto. Concepirlo esclusivamente in funzione della psiche individuale risulta quindi un’operazione arbitraria, tanto più che i contenuti che siamo soliti definire inconsci (emozioni, immagini, simboli, sogni) non si presentano come creazioni personali uniche e irripetibili, ma evidenziano un legame intrinseco con formazioni presenti fin dalla più remota 2 Questa presentazione del pensiero di Jung è tratta dal testo di Sini / Mocchi, Leggere i filosofi, vol. 3C, Principato editore 2 antichità nei miti, nei riti e nelle leggende dei più diversi popoli della terra. Alla sfera delle pulsioni soggettive, dei desideri sessuali inespressi, delle aspirazioni irrealizzate ecc. (sfera che Jung chiama inconscio soggettivo personale) è quindi necessario connettere un inconscio di natura collettiva che, rispetto alla psiche individuale, sta nello stesso rapporto del tutto con la parte. Senza questo riferimento essenziale a una totalità psichica che la comprende, non si capirebbe infatti da dove la psiche individuale deriverebbe l’energia per esplicare le proprie funzioni e dare forma ai propri vissuti, la cui dinamica ha infatti tutti i caratteri di ciò che "giunge dall'esterno", indipendentemente dalle intenzioni dell'Io e dalle sue capacità di comprensione e di controllo dell’esperienza. Le emozioni, come saggiamente si esprime il linguaggio comune, ci "prendono" o ci "afferrano"; le immagini e i pensieri ci "vengono in mente"; i sogni si fanno, cioè scaturiscono autonomamente dalle profondità della psiche senza nessun concorso di fantasia o di volontà da parte nostra. La funzione costruttiva e compensativa dell'inconscio Per dare un senso a tutte queste formazioni non c'è quindi altro mezzo che concepirle simbolicamente come attività dell’inconscio collettivo, di cui le nostre emozioni, le nostre immagini e i nostri sogni costituiscono una manifestazione individualizzata: derivata, cioè, da un processo di individuazione della psiche collettiva in quella soggettiva, la quale modifica quell’originario materiale inconscio sulla base della sua vicenda personale e dei condizionamenti a cui è andata soggetta nel corso del suo sviluppo. A differenza dell’inconscio freudiano, a cui sono state attribuite solo tendenze distruttive e destabilizzanti, l’inconscio collettivo concepito da Jung ha dunque un carattere essenzialmente costruttivo e svolge un fondamentale ruolo di compensazione degli atteggiamenti unilaterali e schematici propri della coscienza. Dalla sfera inconscia collettiva provengono infatti sia l’intero patrimonio delle nostre immagini e delle nostre emozioni (a cominciare da quelle legate alla rappresentazione di Dio, inteso come fondamento a cui rimanda la nostra intera esperienza di vita) sia il sistema complessivo delle nostre funzioni psichiche. E poiché la coscienza, conformemente ai propri scopi di natura "economica", opera una radicale selezione entro questo materiale ereditario, privilegiando i pensieri e le funzioni intellettive a scapito delle immagini e delle funzioni intuitive, ecco che l’inconscio collettivo interviene a compensare questo atteggiamento unilaterale incrementando la carica emotiva delle immagini, dei sogni e delle fantasie in misura proporzionale alla forza che le ha rimosse. L'immagine come organismo vivente Gli aspetti più validi e affascinanti dell’opera di Jung stanno in questa valorizzazione della fantasia produttiva e nella concezione dell’immagine come organismo vivente: non cioè come prodotto individuale della psiche, relegato dal pensiero intellettivo nell’ambito dell’irrazionale, ma come creazione di origine cosmica e collettiva che rimanda alle esperienze primordiali dell’umanità, all’incontro originario dell’uomo con le forze della natura e, per questo tramite, con ciò che Jung definisce il numinoso, cioè l’avvertimento in tutte le cose e i fenomeni del mondo della presenza di un numen, di una potenza divina che opera e governa. È infatti proprio questa potenza originaria che anima e rende vive le immagini che si presentano nella nostra psiche: le immagini e i sogni racchiudono l’enigma della nostra origine, il patrimonio d’esperienza comune all’intera umanità, con la sua infinita ricchezza di temi e di motivi conservati nel corso dei millenni. Assecondare la forza vivente delle immagini, corrispondere alla loro spinta espressiva che chiede urgentemente di essere interpretata, dotata di un significato simbolico, equivale dunque ad accogliere dentro di sé, insieme all’esperienza del sacro, ciò che più intimamente ci appartiene in quanto uomini, ciò che ci spinge a realizzare la parte più profonda, migliore e soprattutto sana di noi stessi. La nevrosi come sofferenza dell’anima Ciò che distingue la concezione junghiana dell’inconscio collettivo dall’inconscio freudiano è dunque il fatto che quest’ultimo viene concepito come la fonte di tutte le perturbazioni nevrotiche che affliggono la psiche umana, mentre l’inconscio collettivo ne costituisce la componente più intimamente creativa, costruttiva e compensativa. Secondo Jung, le angosce, le nevrosi e in generale tutti i disturbi della personalità non hanno origine nell’inconscio, ma nella resistenza mediante cui l’Io si oppone alle sue istanze espressive, nella rinuncia a dare significato e quindi a comprendere ciò che appartiene alla nostra natura più profonda. Se è infatti la vita stessa del mondo che chiede di essere significata dentro di noi, non c'è sofferenza peggiore della mancanza di comprensione. «La nevrosi - ha osservato Jung con una bella immagine - è la sofferenza di un’anima che non ha scoperto il proprio significato». Questo, d’altro canto, è anche lo scopo terapeutico della psicologia analitica: realizzare un’opera di trasformazione della coscienza da un atteggiamento astrattamente razionalistico, passivo e unilaterale a un atteggiamento concretamente simbolico, attivo e composito, volto cioè a integrare contenuti consci e vissuti inconsci, conoscenze intellettive e immagini emotive, funzioni del giudizio e frutti della percezione. Questo è inoltre il motivo per cui Jung, a differenza di Freud, assegna al sentimento religioso una funzione altamente positiva, scorgendovi non già un sintomo delle pulsioni rimosse, ma un simbolo che rimanda alla parte più autentica e sana della nostra psiche. La teoria dei complessi psichici e dei tipi psicologici. II problema dell’individuazione, cioè del processo mediante cui le formazioni inconsce della psiche oggettiva si "individuano" nella vicenda personale della psiche soggettiva, riveste un’importanza centrale nella riflessione di Jung. Allo sviluppo di tale questione sono legate due importanti dottrine: quella dei complessi (termine che, sulla scorta dell’opera di Jung, è stato assimilato stabilmente dal linguaggio e dalla mentalità dell’uomo contemporaneo) e quella non meno celebre dei tipi psicologici, cioè dei caratteri o modelli di comportamento che accomunano 3 alcune grandi classi di individui (Jung, come vedremo tra breve, ne individua fondamentalmente due: gli estroversi e gli introversi). Con il termine "complesso", già utilizzato da Freud per designare l’esperienza edipica e i relativi vissuti di angoscia (come il "complesso di castrazione"), Jung è solito indicare l’insieme strutturato di rappresentazioni inconsce ed emotivamente cariche a cui danno luogo gli archetipi quando "irrompono" nella vita psichica degli individui: il complesso, in altre parole, rappresenta il cardine del processo di individuazione, il punto di contatto e di mediazione tra l'inconscio collettivo e la psiche soggettiva. Le rappresentazioni, i pensieri o i ricordi che lo costituiscono appaiono generalmente strutturati intorno a una situazione emotiva fondamentale, che ha carattere archetipico (cioè riproduce un modello attivo nella psiche di tutti gli uomini) e si riferisce alle esperienze vissute durante la prima infanzia. Poiché scaturisce dall’energia positiva degli archetipi prodotti dall’inconscio collettivo, il complesso, a differenza che in Freud, non ha una valenza patologica, ma rappresenta la componente più sana e vitale della nostra psiche. E’ quindi il modo più o meno equilibrato in cui nella prima infanzia vengono messi in atto i potenziali presenti nell’archetipo che determina la natura sana o patologica del complesso. Gli archetipi del Padre e della Madre. Prendiamo ad esempio il rapporto fondamentale che si instaura tra il bambino e i genitori, le cui figure costituiscono i primi due archetipi (e quindi le prime due fonti di complessi) che ci è dato di incontrare nella nostra esistenza. Considerando il padre e la madre sotto il profilo simbolico (cioè come parti singole che rimandano a una totalità individuata nelle loro persone), essi appaiono, rispettivamente, come l’incarnazione del Logos (archetipo che comprende in sé tutto quanto è relativo allo spirito, all’ordine, all’autorità, alle attitudini analitiche e alle capacità creative) e dell’Eros (archetipo a cui fa capo tutto ciò che concerne la vita, le emozioni, la natura, le attitudini relazionali e la capacità ricettiva). I nostri primi rapporti con i genitori costituiscono quindi l’incontro con queste primordiali formazioni della psiche collettiva e lo sviluppo più o meno equilibrato di tali rapporti pone le basi di tutte le nostre future certezze, come anche delle nostre personali carenze, insicurezze e nevrosi. Se l’archetipo paterno, per esempio, si è individuato nella forma esclusiva del despota onnipotente, ciò sarà all’origine dei nostri "complessi di inferiorità" nei confronti di ogni manifestazione o espressione di tipo autoritario. Se invece nella nostra formazione è risultato dominante l’archetipo materno (magari per la scomparsa o il venir meno del padre), la nostra personalità futura potrà rivelare eccessi, talora patologici, di sensibilità o di coinvolgimento emotivo. L'Anima e l'Animus. Va tuttavia ricordata, a questo proposito, la fondamentale funzione compensativa esercitata dagli archetipi dell’inconscio collettivo presenti allo stato rimosso nella nostra psiche. Se infatti ci è soggettivamente toccato in sorte un padre troppo dispotico o una madre eccessivamente protettiva, le formazioni archetipiche del Logos e dell’Eros che fanno parte del nostro inconscio personale (come di quello di ogni altro uomo) tenderanno a indirizzare il nostro sviluppo psichico in modo da compensare gli squilibri della personalità: fenomeno che spiega, per esempio, l’attrazione per le figure autoritarie da parte di chi ha sofferto l’assenza della figura paterna o lo sviluppo tendenziale della socievolezza e della vitalità da parte di chi ha subito un’educazione troppo rigida. A condizionare la natura del nostro carattere non interviene uno solo dei due modelli originariamente rappresentati dal padre e dalla madre, ma entrambi: in ciascuno di noi è quindi presente a livello potenziale (cioè archetipico) tanto il complesso dei caratteri maschili quanto quello dei caratteri femminili. Jung ha designato con il termine Anima la componente femminile presente nella psiche oggettiva e con il termine Animus la componente maschile. Non solo tutti gli individui umani, ma tutto quanto ha concreta manifestazione nel mondo partecipa in proporzioni differenti tanto dell'Anima quanto dell'Animus. Una donna, per esempio, manifesterà in misura prevalente (o dominante) le caratteristiche proprie dell'Anima, ma ciò non toglie che possa anche sviluppare in forma secondaria (o recessiva) i caratteri e le attitudini che sono invece prerogativa dell'Animus, cioè della sua componente maschile. Nell’uomo evidentemente varrà il caso contrario: si avrà una componente maschile dominante e una femminile recessiva. Per illustrare questa coppia di opposti, Jung ha fatto ricorso alle due categorie fondamentali della filosofia cinese, denominate yin e yang: l’ambito dell'esperienza yin comprende il mondo della natura, della vita, della materia, delle emozioni ed è simboleggiato dalle figure della Madre, della Vergine, dell’Amazzone e della Medium; l’ambito dell’esperienza yang è invece relativo al mondo dello spirito, dell’astrazione, dell’ordine, dell’azione e può incarnarsi nei modelli archetipici del Padre, del Saggio, dell’Eroe e del Compagno. Le infinite combinazioni possibili tra le coppie archetipiche Madre-Padre, Eros-Logos, Femmina-Maschio, Anima-Animus costituiscono quelli che Jung definisce tipi psicologici, cioè i modelli preordinati di comportamento a cui sottostanno gli individui nei loro rapporti con il mondo e con gli altri. Nel classificare lo sviluppo psichico relativo a questi rapporti Jung individua due fondamentali tipi psicologici: il tipo estroverso (rivolto di preferenza verso il mondo esterno, alle cui regole e novità si adegua senza problemi) e quello introverso (rivolto di preferenza a se stesso, conservatore e poco propenso ad adattarsi a regole comuni e novità). Come tutte le funzioni psichiche, estroversione e introversione sono entrambe presenti in ogni individuo e tendono a compensarsi reciprocamente. Le caratteristiche della terapia junghiana. Restano da fornire, a questo punto, alcune indicazioni sul tipo di terapia a cui danno luogo i princìpi della psicologia analitica. Come si è già osservato, Jung stabilisce un tipo di approccio alla dimensione inconscia sensibilmente diverso da quello freudiano e su questa differenza si fonda il diverso tipo di analisi terapeutica da lui praticata. La legge fondamentale che regola il rapporto tra conscio e inconscio stabilisce infatti che il grado di salute psichica di un 4 individuo va commisurato alla sua capacità di interagire positivamente con il patrimonio delle proprie pulsioni, che rimandano alle esperienze più valide e profonde dell’intera umanità. Divenire gradualmente consapevoli di questo potenziale primitivo, riportare alla sfera della coscienza le proprie capacità di crescita, di integrazione, di relazione e di sviluppo costituisce quindi lo scopo ultimo della terapia. Poiché inoltre il potenziale archetipico dell’analista è identico a quello del paziente, il primo si metterà fin dall’inizio sullo stesso piano del secondo, in modo da porre l’energia della propria consapevolezza al servizio delle più deboli forze del paziente. Questa originaria equivalenza, unita alla necessità di far interagire le pulsioni costruttive dell’analista e quelle mortificate o rimosse del paziente, modifica essenzialmente, rispetto a quella stabilita da Freud, la stessa "scena terapeutica" dell’analisi junghiana: niente più penombre o lettini dietro cui l’analista si colloca in posizione defilata, ma due poltrone collocate in piena luce l’una di fronte all’altra; niente più atteggiamenti di riserbo professionale e di distacco "oggettivo", ma una ricerca costante e reiterata del coinvolgimento psichico e della partecipazione emotiva; niente più analisi controllata e graduale dei ricordi prodotti dal paziente, ma un dialogo costante e interattivo affidato al governo spontaneo delle pulsioni inconsce, sulle cui capacità costruttive Jung ripone, come sappiamo, la massima fiducia. L’energia a cui queste capacità possono attingere proviene del resto dall’inesauribile fonte dell’inconscio collettivo e non è quindi "merito" del paziente né dell’analista se la guarigione infine si produce, ma di quella "personalità superiore" rappresentata dall’inconscio collettivo: potenza numinosa e provvidenziale che solo nel momento in cui viene accolta e assecondata consente non solo ai pazienti nevrotici, ma a ciascuno di noi di trovare il senso autentico della propria esistenza terrena. LETTURA: Carl Gustav Jung L’inconscio collettivo e gli archetipi L’inconscio razionalmente comprensibile, che consiste per così dire di materiali artificialmente inconsci, è solo uno strato superficiale, e [...] sotto di questo vi è ancora un inconscio assoluto, che non ha nulla a che fare con la nostra personale esperienza, che dunque sarebbe un’attività psichica autonoma, opposta alla psiche conscia e perfino agli strati superiori dell’inconscio, non tocca – e forse non toccabile – dall’esperienza personale, una specie di attività psichica superindividuale, un inconscio collettivo, come io l’ho chiamato, in contrapposizione a un inconscio superficiale, relativo o personale. [...] Ma finora non ho ancora recato alcuna prova, tale da soddisfare ad ogni esigenza, che quest’attività psichica superindividuale esista. Vorrei farlo ancora sotto forma d’esempio. Si tratta di un malato di mente sulla trentina, affetto da una forma paranoide di dementia praecox. Si era ammalato poco dopo i vent’anni. Era sempre stato uno strano misto d’intelligenza, stravaganza e fantasticheria. Era un modesto impiegato e faceva lo scritturale presso un consolato. Evidentemente, a compensazione della sua modestissima esistenza, si ammalò di delirio di grandezza e credette di essere il Redentore. Soffriva di parecchie allucinazioni e talora era assai agitato. Nei periodi tranquilli poteva passeggiare liberamente nel corridoio. Lo trovai qui una volta affacciato alla finestra mentre guardava il sole movendo stranamente il capo. Mi prese subito per un braccio e disse di volermi mostrare una cosa: strizzando gli occhi verso il sole, disse, avrei visto il pene del sole. Movendo poi il capo in qua e in là, avrei visto anche muoversi il pene del sole, e questa era l’origine del vento. Feci questa osservazione nel 1906. Nel corso dell’anno 1910, mentre mi occupavo di studi mitologici, mi capitò fra le mani un libro di Dieterich dedicato allo studio di una parte del cosiddetto papiro magico di Parigi.. Dieterich ritiene che il pezzo da lui studiato sia una liturgia del culto di Mitra . Esso consta di una serie di prescrizioni, invocazioni e visioni. Una di queste visioni è descritta letteralmente nella seguente maniera: «Similmente sarà visibile anche la cosiddetta canna, l’origine del benefico vento. Tu vedrai infatti come una canna che pende dal disco del sole. E verso le regioni occidentali, come se fosse un infinito vento dell’oriente. Ma se la sorte tocca all’altro vento, verso le regioni orientali, vedrai in simil guisa che la visione si svolge verso oriente». La parola greca aulòs, qui usata per canna, indica uno strumento a fiato, e aulòs pachys; vuol dire, in Omero, “grosso fiume di sangue”. Evidentemente il sole soffia la corrente del vento attraverso la canna. La visione del mio paziente risale al 1906, il testo greco fu edito nel 1910; si tratta quindi di fatti abbastanza lontani da escludere il sospetto tanto di una criptomnesia da parte del paziente quanto di una trasmissione di pensiero da parte mia. Non si può negare il palese parallelismo delle due visioni, ma si potrebbe sostenere trattarsi d’una somiglianza puramente casuale. In questo caso non dovremmo attenderci né legami con analoghe rappresentazioni né un intimo senso della visione. Ma così non è perché l’arte medievale ha perfino raffigurato queste canne in certi quadri, come una specie di tubo che nell’Annunciazione scende dal cielo per andare a finire sotto le vesti di Maria. In esso vola giù lo Spirito Santo sotto forma di colomba per fecondare la Vergine. Nella rappresentazione più antica, come sappiamo dal miracolo della Pentecoste, lo Spirito Santo è un vento violento, il pnêuma: «il vento soffia dove vuole, to pnêuma pnêi hòpou thèlei». Animo descensus per orbem solis tribuitur: dello spirito si dice che discenda per il disco del sole; quest’idea è patrimonio comune di tutta la filosofia del tardo classicismo e del Medioevo. Non posso quindi scorgere in queste visioni nulla di accidentale, ma soltanto il ravvivarsi delle possibilità rappresentative presenti fin dall’antichità, che possono venire riscoperte dalle più varie persone e in tempi diversi, e non sono dunque rappresentazioni tramandate. 5 Sono entrato apposta nei particolari di questo caso per darvi un’idea concreta di quella più profonda attività psichica inconscia che ho chiamato inconscio collettivo. Riassumendo vorrei dunque osservare che dobbiamo distinguere nella psiche tre strati: 1) la coscienza; 2) l’inconscio personale, che consiste di tutti quei contenuti che sono divenuti inconsci o perché hanno perduto la loro intensità e quindi sono caduti in dimenticanza, o perché la coscienza si è ritirata da loro (rimozione), e di quei contenuti, in parte percezioni sensoriali, che per la loro troppo scarsa intensità non hanno mai raggiunto la coscienza eppure sono penetrati in qualche maniera nella psiche; 3) l’inconscio collettivo, che è un patrimonio ereditario di possibilità rappresentative non individuale, ma comune a tutti gli uomini e forse a tutti gli animali, e costituisce la vera e propria base della psiche individuale. [...] L’inconscio collettivo – se possiamo permetterci un giudizio in proposito – sembra consistere di motivi e immagini mitologici, e perciò i miti dei popoli sono gli autentici esponenti dell’inconscio collettivo. Tutta la mitologia sarebbe una specie di proiezione dell’inconscio collettivo. Lo vediamo chiarissimamente nel cielo stellato, le cui caotiche forme furono ordinate mediante proiezione d’immagini. Così si spiegano le influenze stellari sostenute dagli astrologi; esse non sono altro che percezioni introspettive incoscienti dell’attività dell’inconscio collettivo. Come le immagini delle costellazioni furono proiettate nel cielo, così figure simili e differenti furono proiettate in leggende o in favole o su personaggi storici. Possiamo quindi studiare l’inconscio collettivo in due maniere, o nella mitologia o nell’analisi dell’individuo. [...] L’inconscio, come insieme di tutti gli archetipi, è il deposito di tutte le esperienze umane fino ai più oscuri primordi, non un deposito morto né un desolato campo di ruderi, ma un sistema vivo e pronto a reagire, che per vie invisibili e appunto perciò attivissime regola la vita individuale. Non è soltanto un gigantesco pregiudizio storico, ma è in pari tempo la sorgente degli istinti, perché gli archetipi non sono altro che le forme di manifestazione degli istinti. Dalla sorgente vitale degli istinti fluisce tutto ciò che è creativo, cosicché l’inconscio non è solo condizionamento storico, ma genera in pari tempo l’impulso creatore, come la natura, che è enormemente conservatrice e nei suoi atti creatori neutralizza il proprio condizionamento storico. [...] L’inconscio collettivo è la poderosa massa ereditaria spirituale dello sviluppo umano, che rinasce in ogni struttura cerebrale individuale. La coscienza invece è un fenomeno effimero, che serve agli adattamenti e orientamenti momentanei; perciò la sua funzione può essere paragonata a quella dell’orientamento nello spazio. L’inconscio contiene la sorgente delle forze motrici spirituali e le forme o categorie che le regolano, cioè gli archetipi. Tutte le più forti idee e rappresentazioni dell’umanità risalgono ad archetipi. Specialmente chiaro è ciò nelle idee religiose. Ma neppure i concetti centrali della scienza, della filosofia e della morale fanno eccezione. Nella loro forma presente esse sono varianti, sorte per applicazione e adattamento coscienti, delle rappresentazioni originarie, poiché la funzione della coscienza non è soltanto quella di accogliere e riconoscere il mondo esterno attraverso la porta dei sensi, ma anche quella di tradurre il mondo interiore all’esterno sotto forma creativa. [C.G. Jung, , La struttura della psiche , in Il problema dell’inconscio nella psicologia Moderna (trad. it. di A. Vita e G. Bollea), in C.G. Jung, Opere , vol. 8, Torino, Bollati Boringhieri ] 6