Intervista Incontro con Dennis Linder Psicodermatologia La terapia parte dall’ascolto di Elena Perani ASCOLTARE IL PAZIENTE E SAPER ACCOGLIERE LA SUA INTERPRETAZIONE DELLA MALATTIA STA ALLA BASE DI UN CORRETTO RAPPORTO MEDICO-PAZIENTE, IL PUNTO DI PARTENZA PER CREARE L’ALLEANZA TERAPEUTICA CHE CURA LA PATOLOGIA DERMATOLOGICA E AFFRONTA DISAGIO PSICOLOGICO A ESSA LEGATO Dennis Linder insegna presso la Scuola di specializzazione in dermatologia dell’Università di Padova e presso la Clinica di psicologia medica e psicoterapia dell’Università di Graz 8 Dermakos t giugno 2011 L e malattie della cute presentano spesso una componente psicologica rilevante, che non sempre lo specialista si sente in grado di affrontare. Questo avviene da un lato per l’abitudine acquisita durante la formazione e i successivi anni di pratica clinica a un approccio squisitamente “tecnico” alla diagnosi e alla terapia, e, dall’altro, per i limiti di tempo imposti alla visita medica, specialmente in ambito pubblico-istituzionale, limiti che ben poco spazio lasciano all’ascolto del paziente. Dell’importanza del rapporto medico-paziente in relazione alla patologia dermatologica e del ruolo del dermatologo rispetto al disagio psicologico discutiamo con Dennis Linder, docente di psicodermatologia presso la Scuola di specializzazione in dermatologia dell’Università di Padova e di psicologia medica presso l’Università di Graz. Su quali aspetti si focalizza l’approccio della psicodermatologia? Anzitutto è importante ribadire che in psicodermatologia non si cerca di stabilire una presunta relazione lineare “causa-effetto” tra eventi psicologici e malattie della cute (“ho un eczema perché sono sotto stress”). Si tratta invece di impostare in modo corretto il rapporto medico-paziente, affinché la malattia venga affrontata adeguatamente sul piano psicologico. Inoltre è importante tenere nella dovuta considerazione la multifattorialità delle malattie cutanee e le implicazioni anche di tipo sociale per il paziente. Vi sono aspetti importantissimi nel rapporto medico-paziente (struttura del colloquio, tecniche di ascolto, modalità nel porre le domande, comunicazione della diagnosi, condivisione delle scelte di terapia con il paziente ed eventualmente con i familiari) che purtroppo sono sempre trascurati in una medicina sempre più veloce e al contempo burocratizzata, dove tutte le procedure sono standard e dove il lavoro del medico è costretto entro limiti definiti soprattutto in base a fattori Se tra paziente è medico non vi è alcuna condivisione dell’interpretazione della malattia, il paziente tenderà a non collaborare con la strategia terapeutica proposta dal medico e per il medico diventerà più difficile avere la necessaria fiducia per poterlo gestire economici. Per esempio, è altrettanto importante prescrivere la terapia corretta quanto far sì che il paziente la segua effettivamente: questo avverrà tanto più facilmente se il medico terrà conto anche dell’interpretazione che il paziente stesso dà della malattia. La terapia, inoltre, non si limita alla prescrizione di farmaci. Per molte dermatosi infiammatorie croniche, ad esempio, l’adozione di comportamenti corretti (indossare tessuti non irritanti, lavarsi con detergenti appropriati ecc..) è essenziale per ottenere una buona risposta ai farmaci. Dedicare a questo proposito qualche minuto in più al paziente abbrevierà il decorso della malattia e risulterà più vantaggioso anche in termini economici. Quali sono gli aspetti delicati nella gestione del rapporto medico-paziente? Ascoltare il paziente per capire quali siano le sue aspettative verso la malattia e come la vive è un punto chiave. Essenziale è, lo ripetiamo, l’interpretazione della malattia: la prima domanda che il paziente fa al medico sulla malattia non è “come la curo” ma è “perché mi è venuta”. Al paziente serve una spiegazione, serve dare un senso alla malattia che lo ha colpito, inquadrarla e definire il nuovo mondo che gli si presenta. In questa ricerca, succede spesso che il paziente si crei una propria convinzione che, per quanto scorretta o bizzarra possa essere, il medico dovrebbe sforzarsi di condividere almeno in parte. Dovrebbe cercare di non entrare fortemente in opposizione sull’interpretazione della malattia data dal paziente, ma accompagnarlo verso spiegazioni più corrette attraverso un percorso: infatti, se tra paziente è medico non vi è alcuna condivisione dell’interpretazione della malattia, il paziente tenderà a non collaborare con la strategia terapeutica proposta dal medico e per il medico diventerà più difficile avere la necessaria fiducia per poterlo gestire. Nel parlare con il paziente, inoltre, il medico dovrà evitare di “tenere una lezione”, utilizzando un linguaggio troppo tecnico o troppo complesso, perché il paziente sarà troppo intimidito per seguirlo. È infine opportuno che il medico sappia ammettere, anche con il paziente, che esistono casi in cui le possibilità di azione sono limitate, evitando deliri di onnipotenza che illudono il paziente e finiscono per peggiorare l’alleanza terapeutica. Quali malattie dermatologiche necessitano una maggiore attenzione agli aspetti psicologici da parte del medico? La mia personale esperienza mi suggerirebbe di dire: non necessariamente le patologie più gravi. Per esempio ho visto pazienti con melanoma che non sempre sentivano in modo particolare il bisogno di affrontare gli aspetti psicologici posti dal tumore; ho incontrato molti pazienti “fattivi”, orientati a discutere essenzialmente le terapie disponibili. Le malattie infiammatorie croniche invece, oltre che implicare ovviamente un rapporto con il medico di lunga durata, tendono ad avere solitamente un vissuto più problematico: il paziente psoriasico ha spesso bisogno di essere ascoltato. Chi è Dennis Linder Consegue la laurea in medicina e chirurgia e la specializzazione in dermatologia presso l’Università di Innsbruck nel 1996, dopo la prima laurea in matematica e due anni da assistente presso il Politecnico di Zurigo. Tra il 1983 e il 1989 deve occuparsi anche dell’azienda del padre Erich (improvvisamente e prematuramente scomparso), l’Agenzia Letteraria Internazionale, a suo tempo una delle maggiori società al mondo attive nel campo dell’intermediazione del diritto d’autore. Dal 2002 vive ed esercita a Venezia, prima presso l’Ospedale Civile SS Giovanni e Paolo e l’Ospedale Umberto I di Mestre, fino al 2006, occupandosi soprattutto di neoplasie della cute e organizzando un ambulatorio per la terapia fotodinamica, in seguito nel proprio ambulatorio privato. Insegna, inoltre, presso la Scuola di specializzazione in dermatologia dell’Università di Padova, dove collabora con la Clinica dermatologica, e presso la Clinica universitaria di psicologia medica e psicoterapia medica dell’Università di Graz. I suoi interessi scientifici spaziano dalla dermatologia clinica, in particolare l’oncologia, la fotodermatologia e la psoriasi, alla psicodermatologia, con pubblicazioni sulle principali riviste internazionali. È presidente eletto della European Society of Dermatology and Psychiatry (ESDaP) e segretario della Società italiana di Dermatologia psicosomatica. Inoltre è socio fondatore e vicepresidente della International Society for Biopsychosocial Medicine. Le malattie croniche modificano addirittura il corso della vita dei pazienti... Abbiamo recentemente pubblicato sul Journal of the European Academy of giugno 2011 t Dermakos 9 Intervista Incontro con Dennis Linder Dermatology and Venereology un articolo in cui si ipotizza, sulla base dei dati esistenti, che i pazienti psoriasici rischino di “non vivere la vita che avrebbero potuto vivere se avessero ricevuto le terapie adeguate”. Depressione, malattie associate all’infiammazione cronica come malattie cardiovascolari, costi e disagi causati dalla malattia possono portare a scelte di vita e a eventi negativi (perdita del lavoro, divorzi ecc..) che si riveleranno determinanti per l’intero corso della vita. Su questo argomento stiamo ancora lavorando. In che modo il dermatologo può migliorare la propria capacità di gestire il rapporto medico-paziente? È certamente necessario affinare le proprie capacità di ascolto e ottimizzare l’uso del (poco) tempo che dedichiamo ai pazienti. Serve molta empatia, ma senza che questa diventi coinvolgimento eccessivo e porti a suscitare aspettative che fatalmente prima o poi saranno deluse. Questo equilibrio credo si possa raggiungere, al di là della predisposizione personale, solo attraverso il contatto con i pazienti. Le molte attenzioni ad aspetti che esulano dalla pratica clinica, ad esempio le pressioni per tenere sotto controllo la spesa sanitaria, e l’organizzazione dell’assistenza spesso ostacolano da parte del medico una più completa presa in carico del paziente, creando atteggiamenti frettolosi e difensivi. Qualunque medico, poi, dovrebbe cercare di conoscere se stesso e comprendere i propri punti critici nel rapporto con il paziente, per evitare sempre e in ogni caso di riversare le proprie tensioni sui malati. Partecipare a gruppi di tipo “Balint” dove, sotto opportuna supervisione, i medici possono discutere con i colleghi i pazienti “difficili” è senz’altro utilissimo. Ma nulla può sostituire la lunga pratica clinica nell’insegnare a gestire il ruolo del medico rispetto al paziente e ai suoi familiari. Dove si dovrebbe spingere il ruolo del dermatologo rispetto al disagio psicologico? Se una malattia presenta una componente psicologica importante e il paziente si rivolge al dermatologo significa che – per lo meno in quel momento – il paziente non tollera che venga affrontato esplicitamente l’aspetto psicologico della malattia. Il disagio psicologico è tuttavia presente e il dermatologo dovrebbe prestarvi attenzione, facendosene implicitamente carico, almeno nelle fasi iniziali. Dennis Linder (al centro) con Alessia e Andrei Lvov, dermatologo e psichiatra a Mosca 10 Dermakos t giugno 2011 Se il disturbo non è grave, il semplice ascolto da parte del medico può dare grande giovamento. Una prescrizione, se “richiesta”, che può limitarsi a un semplice emolliente, e il vedere il paziente una volta in più può essere sufficiente a far superare un momento difficile e risparmiare terapie più impegnative sul piano psicologico, che diventerebbero necessarie se il disagio venisse trascurato. Infine credo che sarebbe utile anche per il dermatologo imparare a conoscere e maneggiare alcuni antidepressivi, che possono rivelarsi un valido supporto in alcuni casi. Considerando le sue esperienze di pratica e di ricerca all’estero, ci sono modelli assistenziali che considera di particolare interesse? Pensando alle modalità di assistenza in Italia, mi sembra che ci sia una ridondanza di passaggi che coinvolgono soprattutto il medico di base. Troppo spesso, per i pazienti ambulatoriali, prescrizioni di farmaci o di accertamenti devono passare da questa figura: mi sembra una complicazione, che fa perdere tempo al paziente, ritarda la diagnosi e svuota di significato la figura del medico di base che, a mio parere, dovrebbe fare il medico e non il trascrittore di ricette. In Austria, negli ospedali, esami e piccoli interventi sono decisi e praticati sul momento dallo stesso specialista che ha effettuato la visita. Quante volte mi è capitato di asportare un nevo sospetto o di effettuare una biopsia cutanea pochi minuti dopo aver esaminato il paziente. Le lungaggini organizzative e una medicina praticata su base “difensiva” penalizzano la dermatologia italiana, che invece è molto vivace sia per l’eccellenza dei suoi clinici sia per la mole e qualità della produzione scientifica: basti pensare, solo per fare un esempio, al contributo italiano alle tecniche di diagnosi precoce del melanoma o al progetto Psocare, che ha permesso di raccogliere dati epidemiologici preziosi sulle terapie sistemiche della psoriasi. ■ © RIPRODUZIONE RISERVATA