Michele Cometa L`interpretazione della “questione

Michele Cometa
L’interpretazione della “questione mitologica” sollevata nelle
ultime righe del manoscritto hegeliano Eine Ethik, universalmente noto
con il titolo Das älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus,
ritrovato nel 1977 da Dieter Henrich, presso la Biblioteka Jagiellonska di
Cracovia, ha condizionato, sotto le mentite spoglie di un dibattito sulla
mitocritica settecentesca, l’ermeneutica del mito tardonovecentesca. Il
passo del Systemprogramm dedicato alla mitologia costituisce infatti la
sintesi più coraggiosa e lucida dell’intera Debatte mitologica della fine del
XVIII
secolo che non ha mancato di far sentire i suoi effetti per più di due
secoli: “In primo luogo parlerò qui di un’idea, alla quale, per quanto ne so,
nessuno ha ancora pensato – noi dobbiamo avere una nuova mitologia,
ma questa mitologia deve porsi al servizio delle idee, diventare una
mitologia della ragione. Prima che le idee vengano da noi trasformate in
materia estetica, cioè mitologica, nessun interesse esse suscitano nel
popolo e viceversa prima che la mitologia sia razionale il filosofo deve
vergognarsene. Alla fine dunque gli illuminati e quelli che non lo sono
devono darsi la mano, la mitologia deve farsi filosofica e il popolo
razionale, la filosofia deve farsi mitologica per rendere comprensibili i
filosofi” (Massolo 1967, p. 252).
Ben diversamente dunque dal riduzionismo illuministico che vedeva
nel mito una mera favola, o tutt’al più il residuo d’una Weltanschauung
prescientifica e prerazionale, il frammento hegeliano non solo affronta
senza pregiudizi la questione delle mitologie, ma cerca di inglobarle e di
rifunzionalizzarle all’interno del progetto egemonico della nascente
filosofia idealista proponendo la consustanzialità operativa di mito e
ragione, di religione e filosofia, nel quadro di un progresso culturale
dell’umanità e di un più ampio progetto politico.
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La questione della reciprocità pragmatica di mito e filosofia – che
costituisce la spina dorsale della mitocritica moderna – rappresenta solo
il momento apicale d’una riflessione interdisciplinare avviata, soprattutto
in Germania, già sul finire degli anni Sessanta e che risente, da un lato del
vasto dibattito teologico sulla Entmythologisierung (demitizzazione)
della religione cristiana avviato da Rudolf Bultmann, e dall’altro dalla
agguerrita riflessione estetico-poetologica sul mito in letteratura e
filosofia condotta in due antologie particolarmente fortunate: gli atti di
un colloquio organizzato dall’università di Bielefeld nel 1968 curati da
Manfred Fuhrmann, Terror und Spiel. Probleme der Mythenrezeption
(Furhmann 1971) e, dieci anni dopo, quelli del colloquio berlinese su
Philosophie und Mythos (Poser 1979) curati da Hans Poser, che
contengono tra l’altro il decisivo e fortunato saggio di Odo Marquard
intitolato Lob des Polytheismus. Über Monomythie und Polymythie, in
cui, proprio a partire da Schelling, si problematizza il rapporto tra
nostalgica revisione del monomito, originale ed originario, e progetto di
una neue Mythologie nel senso proposto dal Systemprogramm, che è,
secondo Marquard, per sua natura polimorfo e trasgressivo e trova la sua
forma politeistica non nell’Urmythos ma nelle articolazioni mitologiche
della storiografia moderna e del romanzo post-romantico.
Altra tappa fondamentale in Germania, parallela ad una riscoperta
sistematica di Ernst Cassirer, Carl Gustav Jung, Karl Jaspers e Ernst
Bloch – i quattro grandi “mitologi” di questo secolo – sono stati i
fondamentali volumi di Hans Blumenberg, Arbeit am Mythos, una sorta di
summa mythologica del Novecento e la traduzione tedesca del
penetrante saggio di Leszek Kolakowski, Die Gegenwärtigkeit des
Mythos , in cui l’autore polacco tenta l’esperimento speculativo d’una
convivenza della mitologia con la civilizzazione, della fabula con la
ragione, ai fini di una maggior coesione sociale tra gli individui.
Nel 1983 infine appare in Germania un’ampia raccolta di saggi
curata da Karl Heinz Bohrer in cui si cerca di fare il punto esplicitamente
sul potenziale estetico e filosofico del mito senza per questo procedere
ipso facto ad una sua apologia e rifunzionalizzazione sociale. Per Bohrer,
che, dissociandosi da surrettizie rivalutazioni del mito, inizia con una vera
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e propria excusatio non petita , le mitologie sono da sempre parte
costituente del pensiero, anche di quello razionale, e ne rappresentano
appunto il residuo non-risolto perturbante e terrifico. Il mito, e si badi
bene Bohrer parla improvvidamente al singolare di Mythos e non di
Mythologie, è in questa prospettiva quell’eccesso di potenziale estetico
che non si lascia governare dalla razionalità scientifica e politica ma che
trova espressione solo nell’arte. Il mito consente una visione nella verità
dell’orrore, in quel mai-stato e pure da sempre presente che in una
prospettiva radicalmente anti-blochiana, e sotto la suggestione del
nichilismo da Jünger a Schmidt e Girard, è un nucleo di violenza che oltre
la storia governa da sempre l’umanità. Consenguentemente Bohrer
finisce per proiettare le categorie del pensiero negativo (l’attimo, l’orrore
etc.) anche sulla riflessione preromantica che in un saggio, per altro
acuto, dedicato alla Rede über di Mythologie di Friedrich Schlegel viene
interpretata come lo stato aurorale del nichilismo moderno. Tuttavia nel
volume trovano spazio anche percorsi alternativi come quelli delineati da
Manfred Frank, Gert Mattenklott, Peter Bürger e soprattutto da Jürgen
Habermas con un saggio destinato a fare scuola dal titolo Die
Veschlingung von Mythos und Aufklärung. Bemerkungen zur “Dialektik
der Aufklärung” – nach einer erneuten Lektüre.
Riproposta la centralità del mito, o più esattamente delle mitologie
come discorso fondante del Moderno si è sviluppato, e non solo in
Germania, un fittissimo dibattito sul significato teoretico della
proposizione di una neue Mythologie, e in particolare di una nuova
mitologia della ragione che, se da un lato rivaluta il significato
antropologico e la necessità ontologica delle mitologie, non si riduce mai
a mero strumento di manipolazioni ideologiche unilaterali e monoteiste. È
questa la grande sfida del Moderno e del Novecento in particolare, in cui
la questione del mito e della sua funzione sociale e politica ha percorso
come un magma incandescente anche le più sobrie speculazioni (Ernst
Cassirer, Aby Warburg, Sigmund Freud) e si è incarnata, in modo
particolarmente virulento, nelle mitologie politiche delle diverse forme di
fascismo (Alfred Bäumler, Alfred Rosenberg) per le quali l’appello al mito
diveniva l’incontrollabile strumento di legittimazione di pratiche che nulla
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avevano a che fare con i fondamenti antropologici dell’umanità, ma erano
piuttosto solo il risultato della più bieca immanenza. Nelle mitologie
politiche del totalitarismo novecentesco si occultava insomma quello che
già Herder aveva invece definito il potenziale liberatorio e
intrinsecamente illuministico del mito, il suo potenziale utopico, che, per
dirla con i preromantici e con Ernst Bloch, proprio perché mai venuto alla
luce ha ancora il vantaggio di non essere corrotto ed arruginito dal
tempo (Verra 1966, Cometa 1985).
Per i più recenti interpreti della mitocritica post-illuministica il
ricorso al mito costituisce invece proprio il momento di legittimazione
pragmatico-sociale dell’utopicum tout-court che in tanto non può essere
piegato a strumentali tecnicizzazioni (Kerényi Mann 1954, Jesi 1972), in
quanto non si oppone specularmente e in modo ingenuo alla ragione, ma
si fa ragione esso stesso; certo forma di ragione completamente altra
rispetto a quella della vulgata illuministica. Queste mitologie della ragione
appartengono alla ragione proprio in quanto rappresentano il tentativo di
scoprire i percorsi della soggettività anche all’interno del discorso mitico
che altrimenti tenderebbe a dissolverla. È qui di scena la grande
contrapposizione romantica e degli interpreti del romanticismo tra
Urmythologie (mitologia originaria) e Dichtermythologie (mitologia
poetica), tra rivalutazione del mito, in quanto sostanza dell’essere e del
suo inveramento nella storia, e mitologie della ragione che, partendo
invece dal presupposto estetico di una riscrittura poetologica delle più
diverse fabulae mitologiche, tendevano a riattivarne tutto il potenziale
euristico (Herder) o la valenza comunicativo-sociale (Schlegel, Schelling)
(Frank 1982, Cometa 1989). Nella prima prospettiva, che la critica ha di
solito localizzato nella speculazione romantica e post-romantica di
Heidelberg, il mito, il monomito per dirla con Marquard, è il duro ed
irriducibile, quand’anche residuale, legame con l’essenza religiosa
dell’universo, un appello al già-stato come fonte di fondazione di ogni
accadere, anche futuro (Moretti 1984 e 1986). Nella seconda
prospettiva, dislocata nella speculazione preromantica della cerchia di
Jena (Schlegel, Schelling, Fichte, ecc.), le mitologie costituiscono invece
una sorta di utopia estetica che non s’interroga più sulle origini, ma sulla
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funzione del discorso mitico nel sociale, sulla sua funzione pragmaticolegittimante che vede nelle mitologie, nel polimito, un’occasione
d’avventura in territori non strettamente riducibili alla razionalità, e
purtuttavia – come diceva Herder, il padre di tale prospettiva –
altrettanto umani e necessari per lo sviluppo armonico dell’umanità.
In tal senso le nuove mitologie, cioè la spregiudicata
attualizzazione ermeneutica del discorso mitico a fini comunicativosociali, pur sfiorando di continuo in un’ambigua alchimia il rischio di quella
che Kerényi avrebbe chiamato la tecnicizzazione del mito, in realtà ne
costituiscono l’antidoto più forte in quanto lo salvano in una sorta di
antropologia estetica il cui primo dettato è la revocabilità e
consensualità dei suoi assunti. È probabilmente Herder l’autore che ci
permette di comprendere non solo il senso delle “rimitizzazioni” di fine
Settecento, ma anche quello della riscoperta del mito nell’era della
secolarizzazione compiuta. Fu infatti Herder a cogliere per primo e a
trasmettere ai preromantici, soprattutto quelli della cerchia degli
Schlegel, il potenziale antropologico delle mitologie, che non consiste
affatto nell’esteticizzazione dell’ontologia, della metafisica e della
politica, ma al contrario nell’affermazione che anche nel mito più
dimenticato, nel mito più marginale e sconfitto dalla storia, v’è una
scintilla d’umanità, un residuo antropologico che può essere riattivato,
riportato alla luce, essendo luce esso stesso. Per Herder ogni mitologia
ha contribuito a rivelare un momento essenziale della cultura
dell’umanità e proprio in questa chiave va riattivata come forma di
razionalità prerazionale, di riflessione prefilosofica, insomma di cultura
d e l l ’uomo (nel doppio senso del genitivo) e per ciò stesso
indimenticabile, nonostante gli occultamenti della storia. Le mitologie
sono espressione di un bisogno interamente umano, di un’esperienza
irrinunciabile dell’uomo sul cammino, per altro infinito, della sua Bildung,
della sua cultura. Questa consapevolezza non solo mette al riparo dalle
strumentalizzazioni (tecnicizzazioni) di un mito a spese d’un altro,
garantendo una tolleranza esemplare anche per i nostri giorni, non solo
non dissolve una costante antropologica nei percorsi di una soggettività
ormai alla deriva e mette in guardia la ragione strumentale dai deliri di
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onnipotenza, ma contribuisce a sancire una volta per tutte la pluralità
delle prospettive aperte dal discorso mitologico, pluralità che pur
evocando il potenziale liberatorio del mito non trascurano di confrontarsi
con il suo potenziale distruttivo (come ha spiegato la psicologia
archetipica di James Hillmann e Adolph Guggenbühl-Craig). Anche Valerio
Verra ha ricordato che non bisogna trascurare il “volto crudele ed
inesorabile di pura ciclicità senza scopo e senza senso” delle mitologie
perché anche questo fa parte del volto umano del mito (Verra 1986, p.
17).
Queste premesse herderiane costituiscono la conditio sine qua non
della più caparbia riproposizione dello studio delle nuove mitologie
romantiche, quella ricostruita da Frank in un’ampia serie di lavori teoretici
e storiografici di grande valore. A Frank si deve, proprio all’interno di una
rivalutazione ermeneutica del Systemprogramm, il più approfondito
confronto con l’eredità mitologica romantica e post-romantica e la
fondazione di una pragmatica delle mitologie che ne studia il valore di
legittimazione e di giustificazione dell’ordine sociale. Per Frank si tratta
di rileggere il dibattito romantico sulla mitologia e sulla neue Mythologie
come il primo tentativo moderno d’interrogarsi sui sistemi di
legittimazione delle pratiche sociali. Il mito, le mitologie, al di là delle loro
infinite tipologie e della loro struttura linguistica che organizza il mondo
della vita, hanno secondo Frank una fondamentale funzione
comunicativa: “dunque né il loro contenuto (ciò che raccontano), né la
loro sintassi (la forma della connessione in cui lo fanno), ma il tipo di
azione sociale che viene espresso attraverso il discorso mitico. Il
contenuto e la struttura non bastano da soli: si tratta di capire il quadro
istituzionale all’interno del quale il mito viene investito di una funzione
sociale; legittimare cioé la consistenza e la costituzione della società in
virtù d’un valore superiore. Questa si potrebbe chiamare la prestazione
pragmatica del mito. È questa che preme sullo sfondo delle mitologie
herderiane e preromantiche” (Frank 1982, p. 77). Al di là della decisa
critica delle interminabili tipologie mitiche che in realtà nascondono la
disperata domanda su che cos’è il mito e l’inutile utopia di poter risalire
ad un Urmythos fondante, e della diffidenza nei confronti di un asettico
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strutturalismo che riducendo tutto in linguaggio finisce per legittimare
ipso facto anche la barbarie mitologica, per Frank si tratta invece di
affrontare senza timore e senza pregiudizî le responsabilità sociali delle
mitologie e della critica mitologica partendo dal presupposto che su
questo terreno incerto e fragile bisogna avventurarsi per un’indagine
sull’interamente umano senza tabù ma anche senza slanci volontaristici:
“Chi tiene sveglia in sé la coscienza della ‘dialettica di demitizzazione ed
Illuminismo’ si muove necessariamente su una sottile lastra di ghiaccio. Il
pericolo di sprofondare non è comunque più mortale del non camminarci
affatto e abbandonare la pista a danzatori più scaltri” (Frank 1985, p.
26).
La prospettiva anche critico-letteraria aperta da Frank, che per
altro nelle sue lezioni sulla nuova mitologia affronta quasi due secoli di
storia delle idee europee con grande dovizia di analisi particolari, e che,
nel secondo volume di Der kommende Gott, apparso nel 1988, affronta
lo spinoso argomento delle mitologie di destra, dai cosmici al
nazionalsocialismo, ricorrendo alla consulenza di due specialisti, proprio
per evitare il rischio d’imperdonabili semplificazioni (cfr i saggi di
Kauffeldt, Plumpe in Frank 1988, pp. 131-179 e 212-256), è stata poi
ripercorsa da un folto numero di studiosi tedeschi e non tedeschi, sia sul
piano della riflessione storico-filosofica che sul piano della ricerca
letteraria. La questione del mito del resto non ha mancato di sollevare la
vexata quaestio delle mitologie di destra a cominciare da quelle
nazionalsocialiste (Lacoue-Labarthe, Nancy 1991). Oltre agli studi
pioneristici di Jesi sulle implicazioni politiche del mito si può ricorrere in
Italia agli approfondimenti di studiosi come Carlo Ginzburg e Roberto
Esposito (Ginzburg 1986, Esposito 1990, 1993).
Sulla linea della ricezione attiva del Systemprogramm, e dunque
nell’alveo di una nuova mitologia della ragione, si muove in Germania
Christoph Jamme cui si devono alcune esemplari ricostruzioni
storiografiche che complessivamente tendono sempre più ad
abbandonare lo specifico filosofico e operano fruttuose incursioni nel
campo della letteratura e delle arti più in generale (Jamme 1991 e
1997). Maggior attenzione alla diffusione romantica dell’idea di una
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nuova mitologia si può trovare nei più recenti studi sulla Frühromantik e
in particolare in quelli sul giovane Schlegel, a cominciare dai fondamentali
lavori storiografici di Hans Gockel (Gockel 1981), al quale si deve forse il
libro più sistematico sulla Debatte mitologica settecentesca, in cui si
tiene per altro conto degli esiti teorici moderni di tale controversia.
Anche in Italia, dove a dire il vero l’attenzione filosofica e letteraria
al mito non era mai caduta d’intensità grazie agli studi di Enrico Castelli,
Remo Cantoni, Rosario Assunto, Furio Jesi e Valerio Verra, sia pure in
contesti e prospettive teoriche radicalmente diverse, il riaccendersi della
polemica intorno alla mitocritica romantica ha riproposto soprattutto la
questione di un’ermeneutica concentrata più che sulle tradizioni
filosofiche sui testi letterari. Ne sono derivate però stimolanti
riformulazioni del dibattito. Da un lato, a livello storiografico, negli studi
di Michele Cometa, Luciano Zagari, Marino Freschi e Ferruccio Masini e,
sia pure in un contesto di forte reazione alla prospettive aperte dal tema
della neue Mythologie in nome d’una accentuazione onto-metafisica dei
tardi mitologemi romantici e post-romantici, negli studi di Giampiero
Moretti; dall’altro, sul piano filosofico, grazie agli studi di Gianni Carchia,
Sergio Givone, Remo Bodei e Franco Rella che incrociano la questione più
ampia della secolarizzazione e dell’individuo nell’era post-moderna.
Moretti ha inoltre curato l’importantissima antologia di scritti mitologici
di Joseph Görres, Johann Joachim Bachofen, Alfred Bäumler e Ludwig
Klages che ha il merito di aver riaperto, dopo i lavori di Jesi, il dibattito
italiano sulle mitologie tardoromantiche nel contesto di una ricostruzione
che non esita a coniugare romanticismo, nichilismo ed esiti
novecenteschi (Heidegger, ma anche Klages) del discorso sul mito
(Moretti 1984, 1988). Moretti leggendo le remitologizzazioni romantiche
nel quadro di una storia dell’essere in cui il mito irrompe nella storicità e
la rende per ciò stesso enigmatica, costituisce pertanto una via
radicalmente diversa da quella prospettata dalla riattivazione dei discorsi
sulla neue Mythologie (Cometa 1985). Per Moretti incontrare il mito
significa abbandonarsi ad un’esperienza fortemente antiumanistica nel
senso che in questo incontro (destinale) l’uomo non potrà più illudersi di
dominare con uno sguardo razionale l’evento (Moretti 1986). Al lavoro
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pioneristico di Moretti sono seguiti in Italia le sistematiche ricostruzioni
storiografiche di Leonardo Lotito e Luca Renzi che non poco hanno
contribuito ad un’interpretazione eminentemente filosofica di autori
spesso appiattiti sullo sfondo dell’apologetica tardoromantica e delle sue
manipolazioni novecentesche.
Il primo approccio interdisciplinare in Italia sulla questione della
neue Mythologie è offerto dal volume collettivo curato da Michele
Cometa, intitolato Mitologie della ragione. Letterature e miti dal
Romanticismo al Moderno dove, sulla scorta del dibattito tedesco avviato
da Frank e del rinnovato interesse per il Systemprogramm ci si interroga
non tanto sul significato o l’essenza del mito e delle mitologie, quanto
piuttosto sul loro ruolo e sulla loro valenza comunicativa nell’ambito dei
discorsi filosofici e letterari del Moderno. Le mitologie vengono perciò
intese come quel repertorio di fabulae in cui si annidano e si conservano i
sogni, le speranze e le utopie dell’umanità. Il loro senso non sta dunque
in una improponibile verità altra ma proprio nell’altro della verità, in quella
regio dissimilitudinis in cui il non-razionale convive accanto alla ragione,
in una prospettiva che proprio in Italia era stata approfondita dagli studi
di Jesi, Masini e Verra.
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