Dalla ribellione alla flessibilizzazione delle

Dalla ribellione alla flessibilizzazione delle masse,
attraverso la rivolta delle élite
di Eugenio Orso
C'è un fatto che, bene o male che sia, è decisivo nella vita pubblica europea dell'ora
presente. Questo fatto è l'avvento delle masse al pieno potere sociale.
Questo scriveva molti decenni addietro il filosofo spagnolo José Ortega y Gasset nella sua
opera più nota e discussa, dal titolo La ribellione delle masse [La rebelión de las masas],
comparsa nel 1930.
L’irruzione dell’uomo medio di massa sulla scena della storia, il prevalere della quantità
sulla qualità con l’inevitabile livellamento che ciò comportava, il progresso concepito come
qualcosa di definitivamente acquisito e irreversibile, la deresponsabilizzazione e la
massificazione culturale che hanno interessato anche gli intellettuali, sono tutti elementi
posti in grande rilievo dal filosofo iberico e non soltanto nell’opera citata, quali grandi
cambiamenti culturali e sociali che avrebbero caratterizzato i primi decenni del secolo
scorso.
La così detta società di massa sarebbe sorta definitivamente dalle rovine e dai mucchi di
cadaveri della prima guerra mondiale, in cui combatterono, per conto delle oligarchie
dell’epoca, uomini fidelizzati nazionalisticamente e soggetti alla leva di massa, mandati a
morire a milioni nel furioso scontro elitistico che qualcuno ricorda come il “suicidio
dell’Europa”.
In realtà, ciò che nascondeva il presunto avvento delle masse al pieno potere sociale –
paventato da Ortega y Gasset – era l’ombra dei dominanti dell’epoca e dei loro interessi di
classe, alto-borghesi e membri della vecchia aristocrazia blasonata sopravvissuti
all’affermazione del modo di produzione capitalistico e assetati di potere, e la carneficina,
iniziata nel 1914 ma preparata nei decenni precedenti del lungo diciannovesimo secolo,
altro non era che la prova inequivocabile dell’intensità raggiunta dal conflitto fra gruppi
elitistici per il predominio.
Ma dietro il grigiore dell’uomo-massa, con la sua “manovrabilità” da parte di volontà
esterne e l’inevitabile spersonalizzazione, la questione sociale è drammaticamente emersa
attraverso la rivoluzione russa e il nuovo potere dei soviet, portando una volta e per tutte
alla ribalta della storia la classe operaia, salariata e proletaria e delineando una forte
alternativa al capitalismo anglosassone, pur sempre all’interno della famiglia capitalistica.
La questione sociale è emersa anche con la rivolta degli stessi “ceti medi di massa” e della
piccola borghesia tradizionale, rovinati dalla grande guerra, i quali hanno appoggiato in
parte significativa il fascismo e il nazional-socialismo, nonché le alternative continentali
fortemente dirigiste [anch’esse all’interno della famiglia capitalistica, come il collettivismo]
al capitalismo di matrice anglosassone, rendendo possibile il secondo conflitto mondiale e
l’affermarsi definitivo della potenza statunitense.
Nei primi decenni del novecento non si viveva, come sembrava credere Ortega y Gasset,
sotto il brutale impero di masse animate da una volontà che tutto travolgeva, immerse in
dinamiche annunciatrici di uno spengleriano declino della civiltà occidentale – nell’epoca
del colossale, del pieno – prime fautrici dell’olocausto bellico e del default finale
dell’Europa, ma bensì sotto il tallone delle élite dell’epoca, le vere responsabili dei
mutamenti sociali e politici, nonché del disastro del secondo conflitto mondiale e delle
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conseguenti sofferenze dei popoli, ma diverse per genesi culturale ed obbiettivi dai Signori
della mondializzazione che dominano il presente globalizzato.
Se per Ortega Y Gasset la società era tale solo in quanto aristocratica e cessava di esserlo in
conseguenza della “disaristocratizzazione”, la società dei primi del novecento era comunque
dominata da oligarchie alto-borghesi con la significativa presenza della vecchia aristocrazia
riciclata, alle quali era riservata la decisione politico-strategica, e non da masse che
imponevano le loro aspirazioni e i loro gusti, direttamente e senza alcuna legge, nel trionfo
annunciato di un’iperdemocrazia abbruttente e livellatrice.
L’equivoco era nel vedere l’impero della massa, che marginalizzava inesorabilmente le
minoranze aristocratiche e le individualità più creative, che umiliava i solisti fagocitandoli
nel coro, laddove l’impero – sicuramente in qualche misura brutale – era pur sempre
soggetto all’autorità e alle decisioni oligarchiche e la società era comunque caratterizzata da
una strutturazione in classi interdipendenti e antagoniste.
Il filosofo spagnolo, da buon liberale, legava con tutta evidenza il fenomeno dell’uomomassa [hombre-masa] a quello dell’affermarsi di uno Stato, onnipotente e invasivo, in grado
di ridurre e alla fine annullare ogni spazio di libertà e di potere alternativo, garantiti fino ad
allora dal vecchio liberalismo ottocentesco che ormai non era più in grado di fungere
efficacemente da “argine”, davanti allo strapotere dei detentori dei mezzi di coercizione.
Nella sua visione della modernità e del destino futuro di quella Europa della prima metà del
novecento, José Ortega y Gasset sembrava sospeso fra una visione nicciana di condanna
della così detta democrazia di massa e l’auspicio di un processo di socializzazione oltre il
“laissez faire”, nonché la speranza della costituzione degli Stati Uniti d’Europa, per riuscire
a integrare milioni di individui senza dover rinunciare alle istituzioni liberali.
Da un altro e diverso angolo visuale, forse più aderente alla realtà sociale dell’epoca, Il
novecento in sintesi estrema è stato il secolo in cui il conflitto fra le due grandi classi della
borghesia e del proletariato ha avuto la sua più ampia manifestazione, ha conosciuto il suo
apice, fino ad esaurirsi negli ultimi due decenni, e nel contempo il secolo in cui si sono nate
in quella Europa epicentro di tutti i conflitti, campo di battaglia convenzionale e sociale, le
alternative al modello capitalista anglosassone, o meglio anglo-americano, e alla democrazia
liberale sul piano politico, rappresentate in primo luogo dal comunismo sovietico, dal
nazismo e dal fascismo, destinati inesorabilmente alla sconfitta.
Nei “trenta gloriosi anni” seguiti alla fine del secondo conflitto mondiale, dentro le logiche
di un mondo bipolare e della “guerra fredda”, nel quadro della grande riorganizzazione
capitalistica in occidente e in Europa che ha fatto seguito alla conferenza di Bretton Woods,
sono comparsi sulla scena della storia i ceti medi figli del welfare.
L’espressione “ceti medi figli del welfare” è mia, e pone in rilievo che non si trattava più del
così detto ceto medio di massa fidelizzato nazionalisticamente dalle vecchie oligarchie, alle
quali ha fornito i quadri militari per le carneficine dei due conflitti mondiali, ma di una sorta
di nuova ibridazione fra l’elemento borghese e le “aristocrazie” operaie che salivano di
livello nella scala sociale e aderivano alle logiche e ai riti della “società dei consumi”.
La genesi del nuovo ceto medio è dovuta proprio all’affermarsi dei sistemi di protezione
sociale [il Welfare, con le sue enormi spese], del compromesso fordista e di una parziale ma
evidente giustizia distributiva, in quella fase in cui il capitalismo è sembrato per la prima
volta rivelare un “volto umano”, attraverso l’assunzione di una comune responsabilità, da
parte dello stato e del capitale, nei confronti della società tutta.
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Proprio in quegli anni nell’Europa occidentale e continentale si sono affermati –
particolarmente nei sistemi economici detti allora ad economia mista – nuovi equilibri fra lo
stato-imprenditore che interveniva direttamente nell’economia e il capitale privato.
I “sistemi ad economia mista” rappresentavano una sorta di compromesso, e un’alternativa
praticabile con qualche successo, rispetto ai due modelli di capitalismo antitetici in lotta per
la supremazia mondiale: quello liberista anglo-americano e quello collettivista sovietico.
La Francia, la Germania occidentale risorta come potenza economica e industriale dalle
rovine della seconda guerra mondiale, ed anche l’Italia del boom economico nel periodo
successivo alla ricostruzione [particolarmente durante il quinquennio di sviluppo 19581963] ne costituiscono una prova evidente.
In effetti, non è certo per bontà o per un rigurgito incontenibile di “responsabilità sociale”
che le oligarchie dell’epoca hanno deciso di allargare i cordoni della borsa, ridistribuendo la
ricchezza e consentendo alle amministrazioni pubbliche di finanziare le grandi spese che il
welfare in espansione comportava, con conseguente limitazione dei profitti, consentendo,
attraverso il rapido estendersi della “classe media” che ne beneficiava, un allargamento
dell’area del benessere materiale come mai era accaduto prima nell’arco di tutta la storia
umana.
In occidente la ricchezza è stata parzialmente ridistribuita, a vantaggio dei subalterni, per
generare consenso e imporre un modello di capitalismo fra i tanti possibili nel quadro di un
preciso conflitto strategico planetario, dentro le logiche di un mondo bipolare, dagli esiti
incerti e tutto da giocare nei decenni del dopoguerra con l’insidioso concorrente sovietico, il
quale rappresentava un’alternativa reale e praticabile per una parte dei subalterni –
all’interno della famiglia capitalistica – fino ad una certa epoca una sorta di potente
richiamo ideologico e un’altra, possibile, strada da seguire nel percorso che si credeva e
ancora si crede infinito dello sviluppo economico, mantenendo la proprietà pubblica del
suolo, escludendo la grande proprietà privata dei mezzi di produzione, ma soprattutto
impedendo il controllo privato della dimensione finanziaria e della moneta a puro ed
esclusivo beneficio delle oligarchie dominanti.
Il vittorioso confronto con l’Unione Sovietica e la parte del mondo a lei tributaria non è
avvenuto esclusivamente con schieramenti di truppe in Europa, con l’equilibrio del terrore e
il dislocamento di armi nucleari, attraverso i conflitti – in molti casi per “interposta persona”
e definiti ipocritamente a bassa intensità – nelle aree periferiche del mondo, “ai confini
dell’impero”, ma si è dispiegato sul piano sociale opponendo al “poco, ma garantito per
tutti” il più convincente e allettante “molto e abbondante per la maggioranza”, fino a
contagiare la stessa società sovietica, contribuendo a minarne la stabilità dall’interno con il
cavallo di troia della promessa di promozione sociale e di conseguimento dell’abbondanza
materiale, e a riscuotere per tale via consensi fra le stesse popolazioni che vivevano
dall’altra parte del muro.
I “ceti medi sovietici” dell’est Europa, nati in seguito agli effetti sociali delle politiche di
industrializzazione staliniane, hanno “tradito” ed hanno accettato idealmente il modello
occidentale di capitalismo più forte – quello anglo-americano – con tutte le sue implicazioni
sociali ed etiche, mentre il proletariato è rimasto indifferente, quasi completamente passivo
e non ha difeso quel socialismo, sempre più privo di attrattive ideologiche, che ormai
tendeva ad identificarsi con una burocrazia partitico-statuale elefantiaca, auto-referenziale e
ingessata.
In sintesi, nel ricordato trentennio hobsbawmiano la classe media, figlia di un compromesso
fra stato e mercato che oggi appartiene sempre di più alla storia passata, ha rappresentato
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almeno in parte, estendendosi a tutto l'occidente "avanzato”, la realizzazione del sogno di
una società comunque capitalista [se non del capitalismo senza capitalista],
ma caratterizzata dall’emancipazione dei lavoratori e dal progressivo prevalere dai "colletti
bianchi" – espressione di un raggiunto benessere materiale e portatori della prospettiva
futura di ulteriori miglioramenti, primi depositari delle ormai defunte aspettative crescenti –
ed ha rapidamente acquisito un’indubbia importanza, non soltanto numerica, nella società e
per gli equilibri della vita politica.
Per tale motivo, nel periodo che corrisponde grosso modo a quello della “guerra fredda” e
dell’assetto geopolitico bipolare del mondo, personalmente ritengo più corretto e aderente
alla realtà sociale di allora parlare di tripartizione Borghesia-Ceti medi figli del welfareProletariato, piuttosto che di dicotomia Borghesia-Proletariato.
Ma l’ordine sociale fondato su un numeroso ceto medio, che ha consentito all’occidente a
guida americana di reggere dinanzi alle pressioni del rivendicazionismo e di vincere il
confronto con l’Unione sovietica e agli Stati Uniti d’America di imporsi, per un periodo
breve ma caratterizzato da grandi cambiamenti economici e sociali, come unica
superpotenza rimasta, ha già mostrato di non poter sopravvivere a lungo alla fine del
bipolarismo e alla resa del comunismo sovietico.
Questo perché alla ribellione delle masse, con l’avvento dell’hombre-masa, annunciati dal
filosofo Ortega Y Gasset nella prima metà del novecento, dopo gli assetti sociali che in
occidente hanno caratterizzato il periodo della “guerra fredda”, ha fatto seguito il cruciale
fenomeno de La ribellione delle élite [The revolt of the elites and the betrayal of
democracy] mirabilmente analizzato e descritto dal grande sociologo americano Christopher
Lasch.
Questo fenomeno sociale e culturale, in atto da alcuni decenni a partire dalla società nordamericana, è intimamente legato ai processi di globalizzazione tuttora in atto ed è all’origine
dello scardinamento degli equilibri sociali che hanno retto per [quasi] tutta la seconda metà
del novecento.
La spiegazione va cercata nel cambiamento di stile di vita, di obiettivi e di prospettiva,
intervenuto anzitutto nelle élite americane già durante il periodo del confronto con l’Unione
Sovietica, esportato in Europa dalla fine degli anni settanta, con l’avvento del governo ultraliberista di Margaret Thatcher in Gran Bretagna e delle sue politiche monetariste che hanno
contribuito alla rottura degli equilibri sociali precedenti, ma evidente soprattutto dopo il
1989 con l’affermazione del modello americano, per taluni versi vincente ed evolutivo, di
“capitalismo assoluto” postborghese e postproletario destinato a dominare la prima fase
della globalizzazione.
Secondo il sociologo americano Christopher Lasch, il quale ha indagato i cambiamenti
intervenuti nella società americana nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale fino
ai primi anni novanta del novecento, essendo purtroppo scomparso nel 1994, tali mutazioni
sarebbero imputabili al declino delle ricchezze di antica data, e dell’etica della
responsabilità civica ad esse connessa, in conseguenza delle quali oggi le solidarietà locali
e regionali sono malinconicamente scemate. La mobilità del capitale e l’emergere di un
nuovo mercato globale hanno concorso allo stesso risultato.
Ecco le ragioni della genesi dei nuovi dominanti, votati alla mobilità e al cosmopolitismo,
alla manipolazione dell’informazione e della cultura, orientati ad investire in istruzione e
informazione, più che in capannoni industriali e “ferriere”, quali vettori principali del loro
successo sociale e molto meno legati alla proprietà e al prestigio nella comunità d’origine di
quanto lo erano i ricchi borghesi d’altra epoca.
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Una “singolarità” dunque si è manifestata, ad un certo punto della storia del mondo
occidentale, quasi che fosse un “salto evolutivo” [o meglio, involutivo …], ed una profonda
frattura si è prodotta alcuni decenni fa, fra l’emergente classe globale, che “imparava a
camminare da sola” staccandosi dal vecchio contesto sociale e culturale, e il resto della
società americana, destinato a restare inesorabilmente indietro.
Questo processo di mutamento del costume e degli stili di vita delle élite, a parere di Lasch
elementi più rilevanti dell’aspetto ideologico, ha prodotto la ripulsa, anzi una vera e propria
ribellione elitista contro la società rappresentata dalla limitante, retriva, ottusa Middle
America [per noi grossomodo l’America Profonda] in cui si custodisce gelosamente il sogno
americano con i suoi miti fondantivi, e in cui si riconosce ancora oggi una parte non
trascurabile del ceto medio sopravvissuto d’oltre oceano [con la classe media americana,
come fa notare il grande sociologo, ridottasi dal 65% al 58% della popolazione complessiva
già nel periodo 1970-1985].
La rivolta delle élite descritta da Lasch, definibile come una ribellione oligarchica contro il
compromesso fra stato e mercato nella precedente fase capitalistica, e l’autentica
“rivoluzione sociale, globalista e cosmopolita” che tale rivolta ha innescato, hanno inciso in
maniera determinante sul piano sociale, sconvolgendolo e preparando il terreno per una sua
riorganizzazione complessiva, in chiave neofeudale e ri-plebeizzante degli strati sociali
inferiori.
In altri termini e da un diverso punto di vista, io sostengo – essendo ormai “previano” – che
si è trattato in primo luogo di una rivolta contro l’Etica stessa, contro i doveri comunitari e
sociali, e contro una più equilibrata ripartizione delle ricchezze e del potere, ben
testimoniata dalla predilezione dei membri della Global class per un’estrema mobilità
sociale e geografica, deresponsabilizzante nei confronti della comunità d’origine e del resto
dell’umanità, dall’accettazione della società aperta e meticcia, completamente atomizzata,
come inevitabile esito del “progresso”, dall’affermazione della propria, presunta superiorità
culturale e antropologica sugli altri membri della società, specie se portatori di valori [ed
anche interessi] profondamente diversi.
E’ proprio questo recidere i legami e andare all’avventura, in completa solitudine e senza
bussola, deresponsabilizzati e mossi soltanto dall’egoismo, che trasforma la persona in
individuo isolato, e quando il contagio si diffonde anche al resto della società, alimenta La
solitudine del cittadino globale [In search of politics] – scomodando per un attimo il noto
sociologo polacco Zygmunt Bauman – diffonde un senso di sfiducia, fino a rendere tutto
possibile e accettabile, ponendo ogni cosa e ogni comportamento sullo stesso piano, che poi
diventa quello dell’indifferenza, non di rado inducendo l’individuo a varcare la soglia del
cinismo.
Lo sterile approccio autocolpevolizzante, in caso di insuccesso nell’ascesa lungo la scala
sociale, è una caratteristica americana, come ha posto bene in rilievo Lasch, esito un po’
riduttivo del “sogno americano” originario, ma, soprattutto, conseguenza concreta della
diffusione del pensiero liberal-liberista, del condizionamento che ha portato
all’affermazione [definitiva?] di una sorta di ideologia individualista e dell’assenza di una
vera coscienza sociale, riscontrabile fra gli stessi lavoratori e i subordinati in generale.
Il sogno dell’affermazione personale, la fiducia in un paese che offre possibilità illimitate, il
miraggio dell’ascesa verso l’alto – funzionale ai disegni di potere delle élite rampanti – sono
duri a morire ancor oggi nel nord-america, anche se per il futuro si prospetta una nuova e
più rigida suddivisione in classi, foriera di ingiustizie intollerabili e quindi di conflitti, con
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aspetti della nuova struttura di classe che a compimento del processo saranno decisamente
castali.
Questa autentica mistificazione a-classista, che può funzionare come un efficace “sedativo
di massa” per evitare proteste sociali legittime e diffuse, è stata esportata anche in Europa,
fin dall’era della Thatcher [seguace del Milton Friedman di Capitalismo e libertà] ma
soprattutto dopo la vittoria del modello di capitalismo americano-anglosassone su quelli
subalterni diffusisi nel vecchio continente, e ciò è accaduto anche qui, in questa Italia che è
in situazione di palese difficoltà e di assoluta dipendenza politica, economico-finanziaria e
culturale nei confronti dell’altra sponda dell’Atlantico, ben da prima dello scoppio
dell’inedita crisi nel mondo globalizzato.
L’esporatazione e l’imposizione in particolare all’Europa del modello di capitalismo ultraliberista anglo-americano, fondato sull’estensione della finanza a scapito della produzione e
del lavoro, ha caratterizzato dunque la prima fase della globalizzazione, in cui la classe
globale [i nuovi signori] ha preso coscienza della propria natura e grazie al controllo degli
organismi sopranazionali, al nomadismo dei capitali e alle delocalizzazioni ha imposto le
sue regole agli stati, ai popoli [i nuovi sudditi] e alle nazioni.
Oggi stiamo vivendo in un periodo di transizione dal vecchio ordine sociale al nuovo ordine
imposto dalle logiche del capitalismo speculativo e “neofeudale”, nonché dagli interessi
neodominanti sviluppatisi all’interno di queste logiche.
Un potere dotato di grandi risorse simboliche, di capitali fissi e mezzi finanziari ingenti, di
efficienti apparati di coercizione e repressione e di una capacità apparentemente illimitata
nel campo delle produzioni culturali, sta rapidamente e scientemente smantellando l’ordine
che caratterizzava la precedente fase storica del capitalismo, per favorire il passaggio ad un
nuovo e inedito ordine che già si delinea, nei suoi tratti essenziali, ma che non è ancora
giunto a compimento.
Le resistenze a questo processo epocale di riorganizzazione in atto da un punto di vista
culturale ed ideologico, ma anche da quello economico e della stratificazione delle società,
si sono per ora manifestate su scala locale, o al più nella dimensione regionale, in un
confronto sproporzionato, decisamente ineguale e non di rado sanguinoso fra le parti in
causa, riflettendo inevitabilmente la passata frammentazione del mondo, così come ci
appariva nel vecchio ordine.
E’ probabilmente per questa ragione [od anche per questa ragione] che tali resistenze non
sono state decisive, fino ad ora, ed anzi, hanno dato l’impressione di rappresentare semplici
“battaglie di retroguardia”, pur legittime e condivisibili, condotte con mezzi diversi ed a
diversi livelli di scontro e opposizionali da no-global, lavoratori dei paesi sviluppati e in
sviluppo, popoli occupati militarmente, non di rado votati ad una sicura sconfitta e
all’omologazione, se non all’”esitinzione”, a più lungo termine.
Non ci sono, dunque, moltitudini comparse all’improvviso dal nulla di teorie pur
accattivanti e fascinose sul piano letterario, ma completamente slegate da concreti contesti
storici, sociali ed economici.
Questi nuovi soggetti indisciplinati e “desideranti”, che cercano di conquistare un impero
“di superficie” planetario le cui strutture di potere sono quanto mai vaghe, indefinite,
semplicemente non esistono.
All’opposto, sono ancora vive soggettività legate ai vecchi contesti culturali, ideologici e
sociali e nuove soggettività stanno nascendo da quel “brodo primordiale” che la
globalizzazione ha prodotto.
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Il potere dell’epoca sta facendo tabula rasa della vecchia “coscienza infelice borghese”, che
animava la borghesia tradizionale ed anche i così detti ceti medi moderni, e nel contempo
distrugge la storica “coscienza di classe proletaria”, espressa dalla classe operaia, salariata e
proletaria, ambedue percepite come ostacoli alla sua definitiva affermazione e
all’instaurazione di un nuovo ordine sociale, ed in questa opera di “demolizione fino alle
fondamenta” non si può negare che ha già ottenuto indubbi e decisivi successi.
Il risultato finale di questa complessa azione da “nuovo demiurgo globale”, convinto di non
avere più limiti e di non incontrare più ostacoli, sarà la riduzione di molta parte della
popolazione mondiale a neoplebe, nel gran corpo di quella che io ho chiamato Pauper class.
Durante l’interregno rappresentato dal recente passato e dal presente, destinato a continuare
nel futuro più prossimo e nel medio periodo, molti, fin troppi, possono aver avuto
l’impressione [e possono averla tuttora] che le correnti della storia in cui siamo immersi ci
stanno conducendo verso un approdo definitivo.
Si è materializzato lo spettro di una nuova società globale, edificata ad immagine e
somiglianza di quella nord-americana e destinata a riprodurne all’infinito le dinamiche,
estensibile a tutto il pianeta e per la prima volta – dopo innumerevoli secoli di sviluppo delle
società classiste – “senza classi”.
In tal caso, il resto del mondo si ridurrebbe ad una sorta di periferia dell’occidente
americano, simile ad un grande e monotono “west end”.
Questa impressione è palesemente errata, non soltanto perché la prima crisi sistemica
globale sembra aver definitivamente “mandato in soffitta” il sogno neocon di un nuovo
secolo americano, imponendo alla provata superpotenza statunitense un certo
ridimensionamento degli obiettivi strategici, ma anche perché nasconde quella che è
soltanto un’illusione: l’illusione di una società senza classi come compimento destinale
della storia umana.
Il capitalismo è diventato assoluto, totalitario, speculativo nel raggiungere la sua terza età,
alla quale forse non se ne aggiungerà una quarta, ma prima di estinguersi lentamente, o di
implodere con violenza nel caso di un'improvvisa precipitazione verticale degli eventi, farà
ancora danni rilevanti al “capitale naturale” che utilizza, imponendo per ragioni di sostegno
al profitto riduzioni della biodiversità, essenziale alla vita di umani e non umani, in vaste
aree del mondo e contribuendo alla velocizzazione dei mutamenti climatici che senza
l’azione antropica richiederebbero tempi al di fuori della nostra portata.
Oltre ai disastri ambientali, inevitabili con il perdurare delle logiche che animano la Global
class da occidente ad oriente e muovono gli ingranaggi del “capitalismo assoluto”,
altrettanto gravi saranno i danni sofferti dal “capitale umano” che i globalisti vorrebbero
controllare e utilizzare come una partita di merce, rendendo “ciechi” e ricattabili miliardi di
individui, impoveriti sia dal punto di vista culturale sia dal punto di vista materiale, ed in
fondo è per tale motivo – proprio perché intendevo mettere in evidenza con una sola,
semplice e riconoscibile espressione i due volti della povertà – che ho scelto di chiamare
Pauper class la nuova classe subalterna, la cui formazione è accelerata dalla crisi sistemica
globale.
E’ proprio per plasmare il “capitale umano” da utilizzare nella produzione,
nell’accumulazione e nei futuri scontri per la supremazia, che da un paio di decenni è in
corso la “flessibilizzazione di massa”.
Il processo di flessibilizzazione delle masse in occidente, che porterà a delineare anzitutto i
contorni dei primi due strati della classe povera, da me chiamati Middle class proletariat [i
“ceti medi figli del welfare” declassati] e News Workers [la vecchia classe operaia, salariata
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e proletaria], è ovviamente molto complesso e investe ogni aspetto della vita sociale e dei
singoli, ma posso cercare di elencarne sinteticamente gli aspetti più eclatanti e gli strumenti
utilizzati per raggiungere un simile scopo:
- Aspetti ideologici e culturali [che discendono dalla diffusione del “pensiero unico”]
A) Neoliberismo inteso come ideologia a diffusione massiva, e al suo interno il nocciolo
duro mercatista.
B) Politicamente corretto, ad integrazione del neoliberismo, come descritto dal filosofo
Costanzo Preve in un suo recente saggio che ne individua con precisione gli elementi
costitutivi.
- Aspetti economici, finanziari e giuridici
1) Piena libertà di funzionamento dei meccanismi del mercato globalizzato, da concepirsi
come un efficace sistema planetario di razionamento ed esclusione, nuova divisione
internazionale del lavoro e internazionalizzazione del capitale.
2) Utilizzo della finanza internazionalizzata, del potenziale creativo in campo finanziario e
dei nuovi prodotti derivati per razziare il prodotto sociale e creare valore oltre le
“capacità” dell’economia reale.
3) Attacco ai sistemi di protezione sociale esistenti, in particolare rapida demolizione di
quelli più evoluti e più costosi [welfare europeo continentale, piuttosto che il più limitato ed
“economico” workfare di matrice anglosassone], e attacco alle conquiste e ai diritti dei
lavoratori, attraverso l’azione della politica ufficiale, tributaria della classe globale,
attraverso l’azione del sindacalismo “giallo”, disponibile a svendere con le conquiste del
lavoro la stessa pelle dei lavoratori, decostruzione e ricostruzione del diritto del lavoro [a
questo punto concepito interamente contro il lavoro] da parte dei giuslavoristi “di servizio”
e della politica sistemica.
Appare chiaro che la flessibilizzazione delle masse prima di tutto investe importanti aspetti
ideologici e culturali, originati da quella micidiale trappola globalista e ultraliberista in cui è
caduta una parte significativa dell’umanità e che si può sintetizzare con l’espressione
“pensiero unico”, dal quale si dipartono gli aspetti ideologici neoliberisti, mercatisti e del
politicamente corretto, e che tale processo epocale si inserisce nel contesto di quella quarta
guerra mondiale tuttora in corso, che ha una natura squisitamente culturale, descritta da
Costanzo Preve in un suo libro di “rilettura” complessiva della storia del novecento [La
quarta guerra mondiale, appunto].
Se da un lato si è inteso distruggere la coscienza di classe proletaria, dall’altro vi è stato
l’attacco alla coscienza infelice borghese, ancor più pericolosa per l’affermazione definitiva
del nuovo potere globalista, trattandosi di quella stessa coscienza che ha animato filosofi,
pensatori, creatori di paradigmi del calibro di Karl Marx, massima espressione negli ultimi
due secoli della coscienza infelice della borghesia in quanto classe.
La distruzione delle comunità e dello spirito comunitario ha proceduto di pari passo,
secondo un disegno di “ingegneria sociale” e di contemporanea “colonizzazione culturale”,
con l’attacco alle tradizioni, a rischio di scomparsa nei decenni a venire.
Infatti, oggi in Italia non è più possibile leggere pagine come quelle scritte all’inizio del
novecento da un filosofo come Julius Evola, in Rivolta contro il mondo moderno, che ha pur
sempre proposto una remota alternativa alla modernità, ed è semmai possibile, anzi,
consueto, leggere un Marcello Veneziani [non me ne vogliano i pochi evoliani rimasti: non
intendo assolutamente paragonare una “piccola tacca” come Veneziani a Evola!] incensato
dal sistema, ben retribuito, recensito e pubblicizzato, che ruba concetti e definizioni a grandi
pensatori alternativi silenziati evitando con cura di citarli [ad esempio a Costanzo Preve: si
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legga il recente articolo di Veneziani dal titolo “Le oligarchie che hanno potere ma non
consenso”] e li usa subdolamente per difendere il cartello elettorale attualmente al governo
nella penisola.
“Cultura di destra” e “cultura di sinistra” sono ormai puri specchietti per le allodole,
mistificazioni del vero potere dell’epoca per mantenere le neoplebi entro i recinti della
politica sistemica, almeno quanto lo è la dicotomia politica Destra/Sinistra che è ridotta ad
una scadente rappresentazione teatral-mediatica, completamente superata nella realtà
politico-sociale poiché il partito della riproduzione capitalistica è unico, compatto e sotto il
controllo elitistico-globalista.
In quella che viene da taluni chiamata la postmodernità, le nuove élite rappresentate dalla
Global class con la flessibilizzazione di massa e la ri-plebeizzazione di ceti medi e lavoro
operaio, la manipolazione ideologico-culturale e il controllo del sapere e dell’informazione,
lo spostamento ingente [ormai ultradecennale] di ricchezza dal Lavoro al Capitale che è
sotto il loro pieno controllo, non consentono la nascita e la diffusione di vere opposizioni, di
nuovi paradigmi e il formarsi di spazi autenticamente alternativi.
Se da un lato sono state recise le radici culturali per evitare una nuova, insidiosa stagione di
rivendicazionismo sociale, con la richiesta di una meno iniqua distribuzione del prodotto da
parte del lavoro operaio, dall’altro e contestualmente l’attacco è stato condotto contro la
vecchia etica borghese e le condizioni di vita dei “ceti medi figli del welfare”, perché il
capitalismo non si identifica più da tempo con la borghesia novecentesca [ma, bensì, con la
nuova classe globale] e perché non servono legioni impiegatizie di “colletti bianchi”, con
tenore di vita elevato e crescente, per far funzionare il sistema in questa fase.
Ho già approfittato fin troppo dello spazio concessomi dall’amico Luigi Tedeschi, che mi
ospita sull’ottimo bimensile Italicum, e d’altra parte le analisi della nuova struttura di classe
del capitalismo contemporaneo e del processo di flessibilizzazione delle masse sono
contenute in un libro, che ho scritto a due mani con il grande filosofo italiano Costanzo
Preve, dal titolo Nuovi signori e nuovi sudditi e attualmente in attesa di pubblicazione,
situazione dell’editoria italiana permettendo …
Concludo affermando che l’ordine sociale che conosceranno le generazioni future e in cui
saranno loro malgrado destinate a vivere per tutto il ventunesimo secolo, se non si
innescherà nei prossimi decenni un vero processo rivoluzionario, avrà le sue grandi classi,
che saranno essenzialmente due: Global class e Pauper class.
Ma questa nuova struttura classista richiamerà sempre di più per alcuni aspetti decisivi e
caratterizzanti, ancor più che la fase capitalistica iniziale sette-ottocentesca, l’oscuro mondo
dell’Evo Medio e l’organizzazione feudale della società che lo animava.
Dell’uomo-massa, dell’uomo unidimensionale che da lui deriva, dell’idealtipo borghese e
del proletario sarà spazzato via anche il ricordo e sulla faccia della terra rimarranno soltanto
i signori neofeudali e i loro nuovi sudditi.
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