3.3. Titoli nati per iniziativa del pubblico
I titoli dei libri, come abbiamo visto, subiscono spesso delle trasformazioni dovute ai
gusti o alla memoria del pubblico (dimenticanza dei sottotitoli).
Nel caso delle opere di architettura il ruolo del pubblico risulta talvolta ben più attivo:
edifici per i quali l’architetto non aveva previsto alcun nome, si ritrovano con un titolo
apposto dal pubblico. In altri casi un titolo già esistente viene modificato, e non
semplicemente abbreviato, ma cambiato radicalmente.
Operazioni del genere nascono perché il pubblico, colpito in maniera particolare da un
certo edificio (positivamente o negativamente), sente il bisogno di chiamarlo per nome,
indicarlo in qualche maniera. Il titolo ha dunque in questi casi una funzione di
designazione ma anche, come vedremo, di descrizione.
Nei casi analizzati, Cà Brütta, Flatiron, Ostrica incinta, Bonjour Tristesse, quelli che
erano semplici soprannomi, atti ad esistere solo nella comunicazione orale, si sono
trasformati col tempo in titoli veri e propri, degni di comparire su libri e riviste.
Critico: Di qui. Deve guardare di qui. Punto storico: cantonata fra via Moscova e Corso
Principe Umberto, con fermata del tram e visione della più bella casa di Milano. Eh?
Che cosa ne dice?
Qualunquista: mi lasci orizzontare. Così a colpo non si capisce se è una porcheria o un
sudiciume. E poi, davvero, non so se mi gira la testa o mi gira la casa.
Critico: se permette la introduco io. I primi due piani, con le finestrelle nel finto
travertino, simboleggiano la prigione…
Qualunquista: un presentimento dell’architetto?
Critico: mi lasci continuare. Ogni casa è una prigione. Ma per fortuna, come lei vede, al
primo piano c’è il gioco delle bocce, con la conclusione che tutti dobbiamo morire,
come dice chiaramente quella fascia nera, per poi godere della vita eterna da quelle
terrazze bianche, avendoci ancora molte nicchie disponibili per piedi-a-terra di scapolo,
qualche chiesetta rupestre attaccata fuor di finestra al terzo piano, molte gabbie da
pappagallo sfuggito, e ricchissime incrostazioni di carota anemica e massiccia, mentre
su tutto domina il reticolato, motivo villereccio graziosissimo, che ha la funzione del
codino rispetto alla mole dell’elefante. Ha capito tutto ora?34
La casa in questione, ironicamente definita “la più bella casa di Milano”, è in realtà la
famosa Cà Brütta. Non si sa chi abbia cominciato a chiamarla in questo modo, ma pare
che nell’estate del ’22 qualche squarcio nelle impalcature permise ai passanti curiosi di
scorgere i primi lineamenti della casa di via Moscova: fu subito Cà Brütta e non si può
fare a meno di rilevare che popolo, critica e commissione edilizia si trovarono d’accordo
come non mai su questo appellativo, trasformatosi in vero e proprio titolo.
Numerosi articoli di riviste, specializzate e non, furono dedicati alla Cà Brütta, e così si
chiama il libro di Fulvio Irace da cui traggo la maggior parte delle informazioni.35 Il
nome di Muzio, l’architetto che la progettò e costruì è rimasto profondamente legato a
quello della casa; Alla sua morte il Corriere della sera titolava: “Morto novantenne G.
Muzio, ideatore della Ca’Brütta”.36
Atrocità edilizie, in “Guerrin Moschino”, a XLI , n. 28, domenica 9-7-1922.
Fulvio Irace, Cà Brütta, Officina Edizioni, Roma 1982.
36
F. Minervino, Corriere della sera, 25 maggio 1982.
34
35
43
Cà Brütta è indubbiamente un
titolo di tipo descrittivo, ma la
descrizione in questo caso è un
giudizio e anche piuttosto
perentorio. Giudizio destinato
però, come vedremo, a mutare
di significato nel corso del
tempo passando da quello di
“casa
decisamente
e
irreparabilmente brutta” a
quello di “casa che esprime la
poetica dell’antigrazioso, non
priva di una certa bellezza
virile”.
Cerchiamo
di
capire
innanzitutto perché la casa di
via Moscova era stata definita
Brütta. Si trattava e si tratta,
poiché rimasto sostanzialmente
identico, di un possente edificio
che occupa l’intero isolato tra
le attuali vie Turati (ex Principe
Umberto), Moscova, Appiani e
Cavalieri. Una strada privata
attraversa l’intero lotto di
forma trapezoidale e divide
l’ampia mole in due distinti
31. Muzio, Cà Brütta a Milano, planimetria del complesso.
corpi di fabbrica, ricongiunti in
facciata da un ampio portale ad
arco. L’edificio più grande, a corte, ha la forma di un triangolo con gli spigoli
arrotondati e presenta una spettacolare curva su largo Bertani (angolo tra via Moscova e
via Filippo Turati). Quello minore invece è un edificio in linea a pianta rettangolare
parallelo alle vie Cavalieri e Mangili. Si trattava dunque di una massa piena e massiccia,
con cortine alte e compatte che all’epoca dovevano avere un certo impatto se teniamo
presente che il paesaggio urbano non era ancora sconvolto dalle successive imprese
edilizie. Alla stesura compatta delle cortine esterne corrisponde l’andamento vagamente
espressionista della corte triangolare movimentata da aggetti poligonali. Lo sfruttamento
intensivo del lotto e la necessità di guadagnare luce e spazio per gli alloggi aveva
portato alla scelta di queste forme che però non bastano a giustificare l’appellativo di
Brutta. Occorre innanzi tutto tener presente che la casa aveva già fatto discutere di sé
prima della sua costruzione perché aveva comportato la distruzione di una pregevole
area verde, occupata dalla villa e dal giardino della famiglia Borghi; e anche subito
dopo l’inizio dei lavori, per l’allarme suscitato da alcuni cedimenti strutturali. La sua
storia di sfortune era quindi già cominciata ma in quell’estate del ’22, certo si consolidò
entrando a far parte della mitologia della città.
Particolare doveva pure risultare la suddivisione in fasce orizzontali di colori e
trattamenti differenti, fasce che avevano il compito di bilanciare gli effetti della
notevole altezza dell’edificio. Nella parte inferiore un rivestimento in travertino,
dell’altezza di due oppure di tre piani, crea il riferimento a una sorta di basamento
rustico; nella zona intermedia abbiamo una fascia grigia intonacata e a forte carattere
chiaroscurale; l’ultima fascia invece, eseguita in marmorino palladiano, introduce i toni
44
del bianco, del nero e del rosa. Altra caratteristica della casa era una plastica accentuata,
che secondo Irace fa pensare a un fraseggiare per chiasmi e anacoluti: un continuo
alternarsi di rientranze e sporgenze dei paramenti, una curiosa serie di smussi e
sagomature agli angoli delle strade. Ad esempio la fascia di travertino non ha sempre la
stessa altezza, prende tre piani nelle due testate su via Turati, ma poi nella curva si
riduce di un piano; il prospetto rettilineo lungo via Moscova esibisce l’arretramento
degli ultimi due livelli; il risvolto su via Appiani è decisamente brusco, una facciata
stretta con poche file di finestre e culminante in un timpano. Su via Appiani troviamo un
pesante portico di tozze colonne che segna l’ingresso e sostiene un corpo centrale
aggettante, soluzione poi ripetuta su via Mangili.
A tutto questo c’è da aggiungere quella che fu probabilmente la ragione principale dello
scandalo: una fitta trama di elementi di dettaglio, liberamente assunti dai repertori
della grammatica classicistica dell’architettura italiana tra il XVI e il XVIII secolo.
Timpani, archi, colonne, trasformati e semplificati dalla bidimensionale restituzione
grafica, si iscrivono per l’intera superficie di rivestimento accanto ad un’inesauribile
combinatoria di oculi, nicchie, obelischi, fino a terminare in una lussureggiante
32. Muzio, Cà Brütta, prospetto su via Turati.
vegetazione architettonica di tagliafuochi, altane e balaustre. L’equiparazione, inoltre,
di elementi funzionali ed elementi solo allusivi ad una profondità virtuale (graticci, finti
archi, false finestre, trompe-l’oeil prospettici, sguinci intagliati nello spessore
dell’intonaco) deforma in una prospettiva fortemente illusionistica la percezione
immediata delle singole componenti e l’individuazione stessa della loro ascendenza
formale.37
Proprio questo originalissimo apparato decorativo fu motivo di polemiche e dissidio con
la Commissione edilizia. Quando il 9 giugno del 1922 il funzionario della Commissione
si recò in cantiere per il sopralluogo, la reazione fu minacciosa e sdegnata. Si rilevavano
gravi “squilibri nell’organismo generale delle facciate, nelle singole strutture e nei loro
rapporti proporzionali, nella decorazione, negli effetti di colore”. Solo pochi giorni dopo
su “Il secolo”, G. Maranini scriveva: mai si vide tradursi in realtà più pazza e
37
Fulvio Irace, op.cit., p. 25.
45
33. Muzio, Cà Brütta, veduta da largo Bertani.
squinternata fantasia di architetto. Pare di vedere in sogno il mostruoso sviluppo di
quegli stranissimi quadri cubisti nei quali, dopo un certo tempo, neppure l’artista ci
capisce più nulla.38
Naturalmente la Commissione non mancò di intimare l’immediata modifica delle parti
ritenute difformi rispetto ai progetti approvati; si richiedeva di abolire nicchie, timpani e
finte finestre, di usare una tinteggiatura uniforme per gli ultimi piani, di evitare
l’eccessiva articolazione e autonomia delle singole parti. Insomma le parole d’ordine
erano “unire”, “mascherare”, “ricoprire”, “attenuare i contrasti”, al fine di invertire il
rapporto tra struttura e decorazione; come si può notare si tratta di direttive che
investono una massa impressionante di questioni di dettaglio, dalla scelta dei colori alla
forma del tetto, alla eventuale presenza di altane. In realtà tutte queste richieste vennero
disattese, si fecero nuovi disegni che rilevavano lo stato di fatto e la Cà Brütta uscì
sostanzialmente indenne dalla censura della Commissione, ma continuò a far discutere.
Non ci si riusciva a spiegare la deliberata ricerca disorganicità, l’accento posto
sull’autonomia delle singole parti, l’assenza di un’impostazione gerarchica tradizionale.
Cittadini e stampa erano concordi nel rimpiangere il distrutto giardino Borghi. In
“Come si può abbellire Milano”, A. Schiavi descrive la Cà Brütta come un immane
edificio d’affitto coronato da una serie di baracche e timpani, di sporgenze di ferro, di
38
G. Maranini, “Un nuovo monumento milanese”, Il secolo, 16-6-1922, cit. in Fulvio Irace, op.cit., p. 43.
46
gabbie di legno che sono una sfida alla norma dei regolamenti, alle leggi dell’estetica,
al buon gusto dei cittadini.39
La Cà Brutta, non piaceva affatto a Savinio che, negli itinerari architettonici del suo
diario milanese scriveva: Casa torva, scontrosa, inamabile, qui non l’ Inutile ha ispirato
l’architetto, ma la Necessità […]. L’angolo è smussato per facilitare la fuga di quei
pochi che riescono ad evadere dal carcere del Bisogno.40
In realtà, considerata comunemente manifesto di quel movimento, noto come
“novecento” architettonico, la Cà Brütta, è stata oggetto di una contraddittoria fortuna
critica, con il risultato che ognuno vi ha visto quello in cui credeva.
Si doveva aspettare più tempo per accettare e comprenderne l’esuberante programma
iconologico.
C. Maltese ha visto, nel ciclo decorativo di Muzio, una via simile a quella percorsa
dagli Adam e da altri architetti inglesi della seconda metà del settecento, i quali
mescolavano Palladio e Piranesi, “grazia decorativa e dignità antica, fantasia e ragione”,
e finanche qualche soluzione alla Ledoux.41
R.Bossaglia invece nota l’influenza della pittura metafisica italiana, capace di immettere
elementi dissolutori nella grammatica consolidata, così da creare nuove, magiche
connessioni. Colonne, archi, timpani ridotti alle loro forme geometriche pure…sono
connessi tra loro da una diversa logica appunto “metafisica”, che mette ironicamente
in gioco la loro stessa consistenza […].42
Comunque la si pensi sulla Cà Brütta, è certo che essa, come giustamente osserva Irace,
ha finito col diventare una sorprendente pietra di paragone su cui misurare i
A. Schiavi, “Come si può abbellire Milano?”, Città di Milano, XXXVIII, 1922, cit. in Fulvio Irace, op.cit., p. 43.
A. Savinio, Ascolto il tuo cuore, città, Bompiani, Milano 1944, cit. in Fulvio Irace, op.cit., p. 26.
41
C. Maltese, Storia dell’arte italiana (1785-1943), Einaudi, Torino 1960, cit. in Fulvio Irace, op.cit., p. 16.
42
R. Bossaglia, Il “novecento italiano”. Storia, documenti, iconografia, Feltrinelli, Milano 1979, cit. in Fulvio Irace, op.cit.,
p. 73.
39
40
47
34. Muzio, Cà Brütta, il fronte del corpo in linea lungo la via privata.
diagrammi variabili delle macchine interpretative, nonché i grafi alternati delle
oscillazioni del gusto… Si è potuto egualmente guardare, insomma, a quella secca
trascrizione di stilemi grafici come a una compromissoria vocazione di un passato
decoro o al contrario, come a un’inedita testimonianza di una componente
espressionistica […].43
Sebbene sia stata colpita da una persistente marginalità critica, certo non si può dire che
sia stato un oggetto privo di commento.
La chiave per comprendere la Cà Brütta sta, secondo Irace, proprio nel singolare
svolgimento decorativo. Che la decorazione tradizionalmente intesa fosse respinta, è
provato dal fatto che la Cà Brütta denuncia chiaramente di essere un complesso di case
d’affitto e non cerca di nascondersi dietro le parvenze di palazzo nobiliare, il quale
certo, per essere credibile, avrebbe avuto bisogno di tutte le referenze di un ornato
classico. La deliberata rinuncia a ogni gerarchia consolidata nel trattamento delle
facciate sta ad indicare evidentemente il rifiuto di un recupero esclusivamente filologico
del “classico” e dimostra come, solo attraverso l’esasperazione e la forzatura, potesse
35. Muzio, Cà Brütta, portico su via Appiani.
tornare a rivivere. Del resto questo è il significato del particolare classicismo cui Muzio
aderiva, ed è lui stesso a chiarire questo rapporto così importante eppure così
controverso.
Gli schemi essenziali e gli elementi universali e necessari dell’architettura dei periodi
classici sono sempre veri, e la riprova sta nella loro continua sopravvivenza in
espressioni stilistiche di volta in volta diverse, da Roma antica fino a noi. Bene inteso,
nessuna pedissequa copia o elaborazione contaminata, ma libera scelta d’ispirazione, e
43
Fulvio Irace, op. cit., p. 16.
48
direi quasi che questo classicismo non fu che la pietra di paragone alla quale misurare
le proprie fatiche, perché ogni elemento suoni giusto e il sapore risulti schietto.44
Infatti l’aspirazione al classico del giovane Muzio, non coincide con la trascrizione
dell’antico, ridotto a piatto stereotipo.
Perciò, nella casa di Via Moscova, Irace vede la realizzazione di un ben altro
programma, l’ardito programma bontempelliano che consisteva nel reimparare l’arte di
costruire per inventare i miti freschi onde possa scaturire la nuova atmosfera di cui
abbiamo bisogno per respirare.45
Così quelle che sono state ritenute le “indecenti”articolazioni della Cà Brütta,
realizzano in pieno, secondo Irace, la “poetica dell’antigrazioso” andando incontro in
questo modo a quella “bruttezza virile”che per Bontempelli era il fine del nuovo
“svolgimento dell’arte”.
Dunque reimparare l’arte del costruire d’accordo, ma facendo ricorso non solo alla
memoria, anche e soprattutto all’immaginazione e guardare al passato con
immaginazione significa sviluppare la capacità di ironia. Dice infatti Irace: L’ironia
consente così alla metafisica di puntare al “classico”senza necessariamente precipitare
nel “classicismo”: ne preserva la figuratività dal richiamo del buon senso, la ricerca
dell’archetipo dallo scrupolo filologico.46
L’ironia – annotava Bontempelli – è la forma artistica del pudore al cospetto dei nostri
sentimenti, è un modo di allontanarci dal contingente, di liberarci da un’aderenza
troppo minuta con le superfici delle cose.47 Il ritorno all’antico di Muzio nella Cà Brütta
passa dunque attraverso il filtro della parodia e della deformazione, cosicché il
repertorio classico è affrontato con atteggiamento analitico e gusto combinatorio. Così,
accumulando frammenti destoricizzati, perviene a una personale interpretazione della
grammatica classica. Felice e sicuro quando riesce ad incanalare l’aspirazione
palladiana nei binari destrutturati di una contenuta ironia, egli mette a punto un
singolare lessico arheologico ed arcaicizzante, dove l’inquietudine della
rappresentazione e lo spiazzamento della citazione rispetto all’anomalo contesto,
sembra di gran lunga prevalere sul moralistico scrupolo della ricostruzione filologica.48
La “consecutio temporum”del preteso modello palladiano viene deformata in un
linguaggio incongruo e sconnesso sotto il profilo sintattico. Lo schermo-facciata è
nell’architettura di Muzio un luogo privilegiato: qui la trascrizione dei segni classici
smarrisce quasi la sua rassicurante identità ed assume la silenziosa ambiguità di
misteriosi, indecifrabili, geroglifici, spaesati riporti parimenti sottratti alla
consuetudine d’uso e al conforto della tradizione.49 Questo ritorno all’antico allora
avviene in un modo che ricorda il clima sospeso del “realismo magico”: precisione
realistica dei contorni, solidità di materia ben poggiata al suolo; e intorno
un’atmosfera di magia che faccia sentire, traverso un’inquietudine intensa, quasi
un’altra dimensione in cui la vita si proietta.50 Utilizzare il repertorio del passato certo,
ma con distacco, ironia e immaginazione sì da fargli assumere una dimensione di magia.
Il dato di partenza viene sconvolto, snervato, assumendo una fissità allucinata e inquieta
segno di una permanente condizione di stupefazione e meraviglia. Nella Cà Brütta, dice
Irace, si celebrano i paradossi dell’occhio: la pratica del tatuaggio simbolico trasforma
l’unitario rivestimento in una sorta di pergamena istoriata di bricolage infinito, di
G. Muzio, “Alcuni architetti d’oggi in Lombardia”, Dedalo, fasc. XV, ag. 1931, cit. In Fulvio Irace, op.cit., p. 48.
M. Bontempelli, “Giustificazione”, 900, sett. 1926; anche in L’Avventura novecentista, Vallecchi, Firenze, 1974, cit. in
Fulvio Irace, p. 51.
46
Fulvio Irace, op. cit. p. 62.
47
M. Bontempelli, “Fondamenti”, 900, dic. 1926, cit. in Fulvio Irace, op.cit., p. 62.
48
Fulvio Irace, op.cit., p. 62.
49
Ibidem, p. 65.
50
Massimo Bontempelli, cit., cit. in Fulvio Irace, p.65.
44
45
49
foresta di segni in cui l’occhio riesce a stento a cogliere l’immagine d’insieme delle
singole parti. Distribuendo su scarne superfici e aperture regolari grafemi e stilemi di
un inesauribile repertorio figurativo, Muzio sembra voler sfidare la catalogazione,
incasellando e ritagliando un’interminabile disposizione compositiva, lungo le cui
tracce il magico offre la sua ultima provocazione al reale.51
Altro soprannome divenuto titolo, è Flatiron di New York. Si tratta di un grattacielo di
circa 95 metri che si trova al centro dell’incrocio tra la Fifth Avenue e la Broadway; fu
costruito da Daniel H. Burnham, uno dei maggiori protagonisti della Chicago School,
nel 1902. L’insolita sagoma triangolare ha fatto sì che i newyorchesi lo chiamassero
affettuosamente Flatiron, ferro da stiro, sebbene il nome originario fosse Fuller
Building, dal nome della compagnia, la Fuller Construction che doveva avervi sede. Il
Flatiron all’epoca della sua costruzione era il più alto edificio di New York e detenne il
36. D.H. Burnham, Flatiron a New York, pianta del pianterreno (a sinistra) e del
piano tipo.
51
Fulvio Irace, op. cit., p. 65.
50
primato fino al 1909 quando venne superato dalla Metropolitan Life Tower. Tutto ciò,
insieme alla sua insolita forma, fece sì che la sua fama oltrepassasse le frontiere
nazionali e così esso divenne, a inizio secolo, un simbolo di New York, oltre che un
soggetto particolarmente ricercato da artisti e fotografi.
Si tratta dunque di un titolo attribuito dal pubblico, un titolo che semplicemente descrive
la forma, un titolo che certo non è particolarmente originale, tant’è che ci sono altri
edifici con questo stesso nome (ad esempio una casa a Lubiana costruita da Jože Plečnik
tra il 1932 e il 1934), però non possiamo fare a meno di notare che, per quanto fosse
partito come semplice soprannome, oggi Flatiron appare scritto proprio all’ingresso
come si conviene a un vero titolo.
La costruzione del Flatiron fu seguita con molta partecipazione da parte dei
newyorchesi, e questo spiega la necessità di trovare un nome, ma il motivo di questa
partecipazione merita forse qualche chiarimento.
Infatti, dire che l’interesse del Flatiron stava solo nella forma triangolare è forse un po’
riduttivo. Ci sono anche altri aspetti che rendono quest’edificio completamente diverso
dai grattacieli costruiti fino ad allora. Innanzi tutto un legame più stretto con la città.
37. D.H.Burnham, Flatiron.
51
Infatti mentre gli edifici precedenti costituivano, più che altro, espressioni autonome e
individuali, volumi puri sostanzialmente estranei alle indicazioni planimetriche, il
Flatiron appare invece modellato secondo precise direttrici urbanistiche, con le sue
nette quinte murarie proiettanti nel cielo angoli ed intersezioni del lotto triangolare. È
stato osservato che Burnham avrebbe tentato, pur senza rinunciare all’altezza, un
discorso più legato al contesto urbano. In questo senso il Flatiron è collegabile con la di
poco precedente proposta urbanistica di Julius Harder che nel 1898, ipotizzando la
creazione di un sistema di radiali irradiantisi dalla Union Square a collegamento più
rapido ed efficiente con il vasto “hinterland”circostante, aveva tentato di creare un
“core” nella parte Sud della città sovrapponendo la tipica soluzione stellare
dell’urbanistica francese al rigido “gridiron” di Manhattan. Di questi tentativi, che
indubbiamente erano nell’aria nella New York dei primi del secolo XX, di modificare i
cannocchiali prospettici obbligati della griglia ortogonale con un gioco più variato di
52
38. D.H. Burnham, Flatiron, veduta da sud-est.
visuali oblique e di direttrici multiple, il “Flatiron”, con il suo deciso volume
prismatico tagliato dalle direttrici dinamiche delle strade, rappresenta la proposta
metodologica più convincente […].52
C’è poi un’altra ragione che spiega l’interesse per il Flatiron. Esso si colloca in un
momento particolare della storia del grattacielo, un momento di passaggio, di
transizione, dal modello di palazzo a quello di campanile. Infatti la possibilità di
aumentare il numero dei piani grazie alle strutture a telaio controventate impose di
rivedere il modello di riferimento e di ispirazione: il modello del palazzo è sostituito dal
modello del campanile che, trasformando il rapporto tra il piede e l’elevazione
dell’edificio, introduce una differente immagine di riferimento nell’ambiente urbano e
una carica simbolica e connotativa completamente diversa. Il palazzo rappresenta
un’idea di architettura ordinata […] il campanile, con la sua forma slanciata, indica la
singolarità dell’episodio […] l’individualità delle emergenze.53 Quello che rimane nel
52
53
Romano Jodice, L’architettura del ferro. Gli Stati Uniti (1893-1914), Bulzoni Editore, 1980, p. 250.
Marino Panizza, Mister Grattacielo, Laterza, Bari 1987, p. 39.
53
passaggio da un modello a un altro è la tripartizione della facciata. In coerenza con la
definizione morfologica di Sullivan, rimangono gli elementi che compongono la
colonna: la base, il fusto e il capitello.54 Ebbene il Flatiron è un po’ a metà strada tra
palazzo e campanile-colonna; anzi si può dire che consiste proprio in questa doppia
immagine. Grazie alla forma del lotto, se osservato sull’angolo più chiuso, è una
purissima colonna, un monoblocco che si eleva con eleganza; se osservato su uno dei
lati maggiori, è un palazzo alto dove il basamento, il fusto e il coronamento sono
dilatati fino a ricomporre un’immagine dalle proporzioni sapientemente equilibrate.55
Rappresentando quindi una novità, il Flatiron era visto anche con una buona dose di
scetticismo. […] riferiscono le cronache del tempo che lo scheletro dell’angolo offriva
un’immagine insieme aggressiva e insicura. Impressionava la determinazione con cui
cresceva verso l’alto, ma, contemporaneamente, preoccupava la leggerezza delle
strutture alle quali era affidato il sostegno di un impianto così alto. Solo il successivo
rivestimento avrebbe restituito sicurezza all’immagine offrendo all’edificio il senso
della solidità e della pesantezza.56 Ma oramai l’edificio era entrato nella fantasia
popolare e l’idea che un vento appena un po’ più forte del solito l’avrebbe distrutto
alimentava le cronache cittadine. Particolarmente significativo sembra a questo
proposito questo brano dell’“American Architect and Buiding News” del 10 ottobre
1903, che fa capire il particolare clima nel quale venivano realizzandosi le torri di
Manhattan ad ossatura in acciaio: Vi sono segni molteplici che il tipo di costruzione a
scheletro d’acciaio, per quanto illogico possa essere, è in grado, nelle mani di un
architetto competente, di essere fatto solido e durevole.
Alcuni giorni fa la città di New York è stata investita da un vento violento, avente una
velocità di 57 miglia all’ora. È stato spesso predetto che il nuovo Fuller, o Flatiron
Building, situato all’incrocio della 5° Avenue con Broadway, che è molto stretto ed alto
e si erge isolato in un quartiere particolarmente ventoso della città, si sarebbe
polverizzato al primo violento temporale, e la sua condotta in quello che è stato quasi
un uragano è stata osservava con molto interesse. Dopo di che, quando capitò a
qualcuno di indagare sulla verità di questi fatti, fu accertato che, sebbene alcune
finestre si fossero realmente infrante, come d’altronde fu il caso di molti altri edifici, la
struttura resistette al vento con grande fermezza ed i locatari, ben lungi dal prendere
rifugio in strada, rimasero nei loro uffici congratulandosi fra di loro per la
rimarchevole assenza di vibrazioni dell’edificio.57
Altra attribuzione nata per iniziativa del pubblico: a Berlino il Kongresshalle, contributo
degli USA all’Interbau58del 1957, e che avrebbe dovuto chiamarsi Benjamin Franklin
Memorial, è stato in realtà soprannominato Ostrica incinta [die schwangere Auster] e
così è comunemente conosciuto e indicato anche sulle guide della città. Proseguendo
un’azione che li aveva portati a erigere diversi edifici culturali in Germania, gli
americani avevano deciso di offrire a Berlino una sede per congressi, abilitata a ospitare
tutte le manifestazioni artistiche, scientifiche, economiche e politiche. L’AIA affidò il
progetto a Hugh Stubbins. L’opera doveva rispondere, oltre che a requisiti funzionali,
anche a una concezione simbolica, riassunta nella frase: “libertà di pensiero e di
espressione”. L’edificio fu costruito in soli quindici mesi. Venne realizzata una vasta
54
Ibidem, p. 40.
Ibidem, p. 42.
56
Ibidem.
57
Mario Panizza, op.cit., p. 258.
58
Nel 1957 il Senato di Berlino (Ovest) promuove l’Interbau, Esposizione internazionale della costruzione, scegliendo come
sede il quartiere “Hansa” che si trova ai bordi del grande parco Tiergarten. Il programma prevedeva la realizzazione del
nuovo quartiere residenziale “Hansa”, poiché quello esistente era stato irrimediabilmente danneggiato dalla guerra.
55
54
piattaforma di m 92 x 96, la cui superficie libera si collega al giardino zoologico tramite
una scala scoperta; su questa piattaforma, si imposta la sala vera e propria, una sorta di
39. H. Stubbins, Ostrica incinta a Berlino, sezioni.
“scultura strutturale”.
La sensazione è stata tanto ricercata che alcune spazialità ne sembrano rimaste
assoggettate e compresse. La notevole freddezza che accompagna talune destinazioni
secondarie, rispetto al fatto eclatante della sala come volume costruito più per
l’esterno, ne è conferma.59
Secondo G. Klaus Koenig, come tutte le
costruzioni dell’Interbau, anche l’Ostrica
incinta non è mai riuscita a legarsi
all’ambiente berlinese. Il nomignolo di
Ostrica incinta subito affibbiato alla
costruzione dai berlinesi, non solo è
perfetto, ma dimostra anche la scarsa
considerazione in cui i berlinesi tengono
questo inutile tour de force.60
40. H. Stubbins, Ostrica incinta.
Nel 1980 parte del padiglione ha ceduto
per lo stress dei materiali impiegati; è
stato ricostruito, con materiali più
resistenti, in occasione del 750° della fondazione della città nel 1987. Attualmente
l’edificio funge da Haus der Kulturen der Welt, la “casa delle culture del mondo”.
Passiamo a Bonjour Tristesse, di Alvaro Siza, a Berlino. L’edificio d’angolo di 7 piani,
destinato alle residenze, adotta diffusamente una sintassi loosiana, accoppiata a una
curvatura espressionista nell’angolo, un “omaggio” alla poetica organica
rappresentato da un’“onda” che distorce il ritmo regolare delle aperture rettangolari.61
L’edificio si trova nel quartiere Kreuzberg ed è la prima opera di Alvaro Siza all’estero.
Risultato vincitore del concorso indetto nel 1980 in occasione dell’IBA, il progetto
doveva riqualificare attraverso una serie di ricuciture, un’intera area degradata
prevalentemente abitata da immigrati turchi le cui abitudini avevano prodotto già
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Giorgio Trebbi, La ricostruzione di una città: Berlino 1945-1975, Mazzotta 1978, p. 92.
G. Klaus Koenig, Architettura tedesca del secondo dopoguerra, Cappelli 1965, p. 103.
61
Kenneth Frampton, Alvaro Siza, tutte le opere, Electa, Milano 1999, p. 34.
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profonde trasformazioni nel tessuto urbano preesistente. A questo proposito, Siza dice
di essere stato invitato all’estero perché, per una sorta di equivoco, è ritenuto quasi uno
specialista in quartieri difficili, in special modo se abitati da popolazioni del Sud o del
Nord Africa. Seguendo le condizioni imposte dal concorso, Siza aumenta la densità
edilizia, ma al tempo stesso cerca di rispettare le modificazioni introdotte dalla nuova
popolazione e quelle che potevano essere le esigenze specifiche della loro vita
domestica. Da quando un giorno, qualcuno, presumibilmente un abitante del quartiere, è
salito in cima e ha scritto, proprio all’altezza dell’“occhio” di coronamento dell’angolo,
con mano tremolante Bonjour Tristesse, l’edificio ha cominciato ad essere chiamato
così e non solo dai berlinesi.
Così lo indicano le numerose monografie su Siza (qualcuna sceglie quest’edificio, con
la scritta ben in evidenza proprio come copertina), le guide di Berlino, e con questo
nome lo si può anche trovare nel Web. Ma non si tratta solo di una comodità di
designazione; il fatto che appaia proprio in facciata e anzi sul motivo dominante della
facciata, l’angolo curvo, gli dà vera forza di titolo proprio come l’avrebbe il titolo di un
romanzo su una copertina. Per altro Bonjour Tristesse è proprio il titolo di un famoso
romanzo scritto da Francoise Sagan e pubblicato per la prima volta nel 1935. In epigrafe
si potevano leggere questi versi:
Adieu tristesse
Bonjour tristesse
Tu es inscrite dans les lignes du plafond
Tu es inscrite dans les yeux que j’aime
Tu n’es pas tout à fait misère
Car les lèvres les plus pauvres te dénoncent
Par un sourire
Bonjour tristesse
Amour des corps aimables
Puissance de l’amour
Dont l’amabilité surgit
Comme un monstre sans corps
Tête désappointée
Tristesse beau visage.
P. Eluard
(La vie immédiate)
41. Alvaro Siza, Bonjour Tristesse a Berlino, veduta d’angolo.
Appunto da essi la Sagan aveva tratto il suo titolo. Nel 1957 esce un film di Otto
Preminger, intitolato Bonjour Tristesse e ispirato al romanzo della Sagan. Ora, che
l’anonimo autore della nostra scritta avesse in mente il romanzo o il film o direttamente
i versi di Eluard, non è dato sapere, ma non è poi così importante. Quello che importa è
che ha dimostrato, come vedremo, una certa intuizione e ha fatto compiere
all’espressione Bonjour Tristesse un’altra tappa del viaggio che l’ha vista passare da una
poesia a un romanzo a un film per finire sulla sommità di un edificio e confermare così
il suo fascino.
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Per usare i termini di Genette, Bonjour Tristesse è dunque un titolo-citazione che si
avvale di un prestigio già consolidato. Non mi risulta, almeno stando alle monografie
consultate, che nessun critico si sia preoccupato di approfondire la questione, né di
interrogare Siza in merito; eppure non succede tutti i giorni che una scritta messa da uno
sconosciuto qualunque passi con tanta disinvoltura da una facciata alle pagine dei libri;
in fondo non sarebbe stato difficile eliminarla se solo si fosse voluto; ma la verità è che
è piaciuta, e che qualche critico ha pure usato l’espressione per descrivere il significato
non solo dell’edificio in questione, ma addirittura dell’intera opera di Siza, ammettendo
implicitamente che l’anonimo designatore aveva avuto una certa intuizione. Negli
schizzi, nei disegni di progetto e, infine, nelle costruzioni, Siza esprime un
atteggiamento selettivo, originato anche dall’inappagato e inappagabile desiderio di
solitudine che segna la sua poetica. Questa aspirazione si traduce nel tono mesto,
controllato, curioso e disponibile che egli adotta, nel confrontarsi con situazioni e cose,
rassegnato, nel prendere melanconicamente atto che il desiderio di “costruire nel
deserto” di cui parla, non ha alcuna speranza di venire appagato, poiché nella terra
degli architetti, “en esta tierra non hay disiertos”. Soffrendo il mondo, Siza si ingegna
42. Alvaro Siza, Bonjour Tristesse a Berlino, veduta d’angolo.
di fronteggiare l’inospitale volgarità, la formicolante rapidità, l’inutile fretta,
l’arrogante bisogno di conclusioni. Le sue costruzioni richiedono tempo e attenzione,
sorprendono con i conflitti che esibiscono…Enunciando sommessamente aspirazioni
impossibili, con l’eleganza che solo l’arte del sottrarre assicura all’architettura, le
opere di Siza, sembra osservino il mondo e ne accolgano ogni giorno il risveglio con le
stesse parole che, scritte con grafia incerta, campeggiano sull’angolo arrotondato
dell’edificio di Schlesisches Tor a Berlino: “Bonjour Tristesse”.62
Altri hanno visto nella scritta la conferma dell’accettazione dell’opera da parte della
gente del quartiere: L’ironica scritta anonima a spray “Bonjour Tristesse”comparsa
62
Francesco Dal Co, prefazione a Kenneth Frampton, op. cit., p. 11.
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all’altezza dell’“occhio” di coronamento dell’angolo, rimane benevolmente a
testimoniare l’approvazione dell’edificio da parte della popolazione locale.63
Così Dario Menichetti sul sito archiworld: …in Germania la dimensione eroica del
razionalismo poetico è occasione di rilettura della nostalghia tedesca, sintetizzata
acutamente nell’anonimo graffito metropolitano “bonjour tristesse”, volutamente non
coperto come simbolo ironico della ri-appropriazione popolare dello spazio urbano e
domestico.64
Dello stesso parere è Pierre-Alain Croset che ritiene gli edifici di Siza a Berlino
perfettamente assorbiti nel paesaggio urbano, come se fossero lì da sempre.65
Quanto ad Alvaro Siza, nei suoi scritti di architettura, non fa esplicito riferimento al
significato del titolo Bonjour Tristesse. Forse vi allude quando, rispondendo a quanti
hanno criticato l’edificio berlinese per il fatto di non avere nulla in comune con i suoi
delicati lavori in legno dei progetti anteriori, dice: Da parte mia trovo strano che a
pochi interessi ciò che è venuto dalle mani provenienti da altre terre, l’incanto di mille
grigi di intonaco, o del mattone brunastro, dei grandi muri senza finestre, o degli infissi
in legno dalla sezione pesante; dei ritmi invariati delle finestre, che si rompono
solamente, esplodendo, nel girare l’angolo o dove qualcosa d’estraneo all’architettura
accade.66 Che quel “qualcosa di estraneo all’architettura” sia proprio il titolo? In ogni
caso possiamo presumere che il Bonjour Tristesse non sia affatto dispiaciuto a Siza,
almeno a giudicare da quello che dice sulla poesia: Per me l’esempio, nel pensare
all’Architettura, è sempre venuto dagli scrittori, e tra di loro, i poeti, artefici
competentissimi del regesto e del sogno, abitanti della solitudine.67
63
Pedro de Llano e Carlos Castanheira (a cura di), Alvaro Siza, opere e progetti, Electa, Milano 1995, p. 90.
www.li.archiworld.it/A_SIZA.
65
Pierre Alain Croset, Alvaro Siza, scultura architettura, Skira, Milano 1999, p. 14.
66
Alvaro Siza, Scritti di architettura, a cura di Antonio Angelillo, Skira, Milano 1997, p. 202.
67
Ibidem, p. 15.
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