Amicizia o eguaglianza?

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in F. Viola (a cura di), Forme della cooperazione: pratiche, regole, valori, Il Mulino, Bologna, 2004
AMICIZIA O EGUAGLIANZA?
RIFLESSIONI SUL FONDAMENTO DELLA COMUNITÀ POLITICA
Fulvio Di Blasi1
Qual è il principio, o valore, che sta a fondamento della società politica e ne
determina in radice la sua natura, identità e giustizia? Credo che se si pone mente, da
una parte, al dibattito attuale sulla giustizia politica e, dall’altra, alla nascita dello stato
moderno, alla sua progressiva trasformazione in stato costituzionale, e allo sviluppo
del diritto internazionale contemporaneo come diritto universale fondato sui diritti
umani, la risposta, senza dubbio, debba essere “eguaglianza”.
Naturalmente, eguaglianza e giustizia, fin dal pensiero greco, si sono sempre
implicate a vicenda. Dal diciottesimo secolo, tuttavia, l’eguaglianza ha acquisito una
forza politica stupefacente e rivoluzionaria che ha dato vita ai diritti umani e ha
stravolto le concezioni classiche (organicistiche) del pensiero politico secondo cui lo
stato viene prima dell’individuo.2 Sia la rivoluzione francese che quella americana
avvengono in nome di un’eguaglianza che è anzitutto eguale libertà di tutti di fronte
alla legge e, poi, eguale tutela, rispetto e promozione dei diritti naturali o umani che
tutti, in egual misura e maniera, posseggono per il solo fatto di essere uomini. D’ora in
poi, gli stati dovranno fondarsi, non solo in teoria ma anche in pratica, sul libero ed
uguale consenso di ognuno dei loro membri.3 Nel diritto moderno l’eguaglianza
diventa generalità ed astrattezza delle leggi: diventa universalità come valore. Se si
considerano i fatti in prospettiva storica, bisogna dire che ci vollero relativamente
pochi anni perché il circolo ermeneutico del valore moderno dell’eguaglianza
giungesse ad eliminare dalla moralità positiva degli stati occidentali ogni forma di
razzismo, schiavitù e discriminazione. Il problema sarà ormai pratico, non più teorico.
L’eguaglianza sta alla base dell’etica dei diritti umani. L’etica che oggi è
ampiamente riconosciuta come l’unico fondamento sicuro e giusto delle società
politiche.4 Oggi tutti condividiamo più o meno la certezza che, una volta realizzata
storicamente la società democratica – in cui la libertà è uguale per tutti – e una volta
1
Research Associate al Jacques Maritain Center e Visiting Professor al Dipartimento di Filosofia della
University of Notre Dame, negli Stati Uniti. Email: [email protected].
Cfr., N. Bobbio, L’età dei diritti, Torino, Einaudi, 1990.
Ciò non significa che l’idea del contratto sociale non sia in sé già presente vuoi nella filosofia greca,
fin da Platone e Aristotele, vuoi nella tradizione del pensiero cristiano, inclusi Agostino e Tommaso d’Aquino.
4
Uno dei maggiori assertori dell’etica dei diritti umani è Francesco Viola. Si vedano F. Viola, Dalla
natura ai diritti. I luoghi dell’etica contemporanea (Roma-Bari, Laterza, 1997) e Etica e metaetica dei diritti
umani (Torino, Giappichelli, 2000).
2
3
Fulvio Di Blasi, Amicizia o eguaglianza?
assicurato il consenso nazionale e internazionale sui diritti umani, si sono poste le
fondamenta adeguate di una comunità politica giusta e buona.5 Certo, rimane il
problema di rendere l’eguaglianza sostanziale, “rimuovendo ostacoli” e creando “pari
opportunità”; ma il concordare su questo obiettivo e il tendervi sono già segni sicuri di
una società giusta.
Ciò nonostante, ci sono oggi tanti problemi politici che non sembra trovino
risposta – o quantomeno facile risposta – nel semplice ricorso all’eguaglianza e ai
diritti umani. Non mi riferisco semplicemente alla questione della solidarietà. Vale a
dire, al fatto che ci sono alcuni atteggiamenti etici necessari ad una sana e compiuta
vita sociale che vanno agevolati e promossi ma che non possono essere esigiti a guisa
di diritti universali.6 La solidarietà è autentica solamente quando scaturisce spontanea
dall’iniziativa personale; un’iniziativa che si rivolge a chi s’incrocia per strada e che,
come tale, non è né giusta né egualitaria. Molte azioni politiche e leggi dette “di
solidarietà” vanno meglio descritte, sotto questo profilo, come tentativi di realizzare
una più giusta eguaglianza sostanziale.
Di là dalla solidarietà, in ogni caso, c’è il problema del conflitto tra i diritti
umani, che almeno la maggior parte delle volte non pare risolvibile senza il ricorso a
tradizioni e a scelte interpretative culturalmente condizionate. E c’è il problema del
multiculturalismo, che pare richiedere la considerazione di valori e tradizioni
particolari.7 E ci sono i problemi del patriottismo e di come preservare l’identità
nazionale (o quella europea). In America, in questo momento, è molto vivo il dibattito
su consenso e tradizione come fondamenti alternativi della comunità politica.8 A tale
dibattito si collega il problema di quali valori debbano entrare a far parte della
discussione e dell’azione politica. Si pensi a Rawls, secondo cui la religione è
qualcosa di cui il potere politico non dovrebbe preoccuparsi in quanto «argomento
controverso». Per Rawls, il «citizen of faith» è un egoista che non rispetta i propri
doveri di cittadino poiché non sa mettere da parte le proprie credenze personali per
amore della società.9 Rawls è certamente uno dei moderni campioni dell’eguaglianza
Un esempio emblematico di questo credo è Bobbio. Si veda il suo L’età dei diritti, cit., pp. 17-44.
Parla invece di un diritto alla solidarietà E. Vidal Gil, Los derechos de solidaridad en el
ordenamiento jurídico español, Valencia, Tirant Lo Blanch, 2001.
7
Alcuni testi chiave per comprendere le critiche del multiculturalismo alle teorie politiche liberali sono:
A. MacIntyre, Dopo la virtù [1981], trad it. di P. Capriolo, Milano, Feltrinelli, 1988; M. Walter, Spheres of
Justice: A Defense of Pluralism and Equality, New York, Basic Books, 1983; C. Taylor, Sources of the Self:
The Making of Modern Identity, Cambridge, MA, Harvard University Press, 1989; M. J. Sandel, Liberalism and
the Limits of Justice [1982], edizione rivista e ampliata, New York, Cambridge University Press, 1989; W.
Kymlicka, Multicultural Citizenship: A Liberal Theory of Minority Rights, Oxford, Clarendon Press, 1995.
Molto utile è anche il recente volume collettaneo R. Bhargava, A. K. Bagchi e R. Sudarshan (a cura di),
Multiculturalism, Liberalism, and Democracy, Oxford, Oxford University Press, 1999.
8
“Consenso e tradizione” è un altro modo di indicare il dibattito tra liberalismo e comunitarismo.
9
Si veda, in particolare, J. Rawls, “The Idea of Public Reason Revisited”, in University of Chicago Law
Review, 64/3 (1997), pp. 780-781. Per le idee rawlsiane su ciò che rientra o no nel concetto di «ragione
pubblica», cioè su ciò di cui il dibattito politico dovrebbe legittimamente occuparsi, si vedano anche: J. Rawls,
Political Liberalism, New York, Columbia University Press, 1993; “Reply to Habermas”, in Journal of
Philosophy, 92/3 (1995), pp. 132-80. Una critica recente a Rawls sull’esclusione della religione dalla «ragione
pubblica» si trova in P. Neal, “Political Liberalism, Public Reason, and the Citizen of Faith”, in R.P. George e C.
5
6
2
Fulvio Di Blasi, Amicizia o eguaglianza?
ma è molto difficile trovare eguaglianza e universalità in questa sua presa di posizione
su ciò che va considerato “personale” o “controverso”. Di primo acchito, si direbbe
che ciò che è molto controverso e culturalmente determinato è la sua presa di
posizione contro la rilevanza della religione in politica.
Nel pensiero classico aristotelico, il principio da cui origina la società politica è
l’amicizia. L’idea dell’amicizia politica è stata quasi sempre accostata a quelle
concezioni organiciste e stataliste di cui la rivoluzione moderna ha voluto liberarsi.
Non è un caso che i diritti naturali del contrattualismo moderno sono stati fondati sulla
negazione della natura sociale (amicale) dell’uomo mediante la finzione dello stato di
natura. Oggi, i sostenitori dei diritti umani non criticherebbero mai Aristotele per le
sue affermazioni sull’amicizia. Eppure, se si riflette a fondo sulla natura dell’amicizia,
è difficile sfuggire all’impressione che amicizia ed eguaglianza siano fortemente
incompatibili.
L’amicizia guarda sempre l’altro con occhio speciale, cresce e si fa più forte
man mano che cresce la differenza tra gli altri e l’amico, e vuole essere esclusiva
(perché l’intimità esclude). L’eguaglianza, d’altra parte, sembra muoversi
irrimediabilmente nella direzione opposta: deve evitare ogni parzialità, cresce e si fa
più sostanziale man mano che la differenza tra l’amico e gli altri diminuisce, è
inclusiva piuttosto che esclusiva. Come non si potrebbe essere in disaccordo su quale
delle due debba stare a fondamento della società politica? Certo, l’amicizia implica
eguaglianza; ma eguaglianza tra amici, non con gli altri. L’eguaglianza tra amici è
disuguaglianza con gli altri. Se tutti fossero uguali, sotto questo profilo, non ci
sarebbero amici. Credo che questo paradossale contrasto tra eguaglianza e amicizia sia
anche osservabile come tendenza politica di lungo periodo. Un esempio è la famiglia.
Quando la risposta su qual è il principio cardine della società politica s’incentra
sull’amicizia, in genere si finisce col sottolineare l’importanza della famiglia per la
comunità politica; quando s’incentra sull’eguaglianza, si tende facilmente a vedere la
famiglia come un fattore di disuguaglianza, un limite sostanziale all’esistenza di pari
opportunità (si pensi alle affermazioni radicali di Rawls sull’ingiustizia della
famiglia).10 L’eguaglianza contemporanea tende alla neutralità; ma un’amicizia
neutrale è inconcepibile. Si parla a volte di “preferenza ragionevole”, ma ragionevole
rispetto a che cosa? Rispetto all’eguaglianza o rispetto all’amicizia? Il concetto di
“preferenza ragionevole” sembra in sé più una rinuncia a capire che un’adeguata
soluzione teoretica.
L’idea principale di questo articolo mi è venuta precisamente riflettendo sul
rapporto tra il principio di eguaglianza e il valore politico dell’amicizia. Mi sono
chiesto se l’impostazione aristotelica non riveli qualcosa dell’essere umano e della sua
dimensione politica cui il solo appello all’eguaglianza dei diritti umani non è in grado
di fare giustizia. Non si tratta ovviamente di negare l’etica dei diritti umani o il
principio di eguaglianza ma di integrarli, eventualmente, in una visione più ampia; di
Wolfe (a cura di), Natural Law and Public Reason, Washington, D.C., Georgetown University Press, 2000, pp.
171-201.
10
Cfr., J. Rawls, Una teoria della giustizia [1971], trad. di U. Santini, Milano, Feltrinelli, 1984.
3
Fulvio Di Blasi, Amicizia o eguaglianza?
capire se i fattori di crisi del sistema politico contemporaneo non siano in realtà indici
di un’insufficienza etica e politica del discorso sui diritti umani. Rivisitando il
pensiero aristotelico e il concetto di persona, la mia impressione è stata, in effetti, che
il linguaggio dell’amicizia parla di un significato profondo dell’essere personale che
non è di per sé presente nel linguaggio dei diritti umani e dell’eguaglianza. Se ciò è
vero, la società politica stessa, come creazione ed emanazione della persona, necessita
di un elemento aggiuntivo di significato. Questa impressione ha determinato il
percorso teoretico che ho scelto di seguire: dal concetto classico di amicizia – e dal
collegamento di esso col concetto di persona – ad alcune conseguenze per la filosofia
politica, specialmente con riguardo ad alcuni temi oggi più dibattuti.
1. Amicizia e giustizia
Per la filosofia politica classica, a partire da Aristotele, l’amicizia è ciò11 che sta
a fondamento della polis, o comunità politica. L’amicizia è «il massimo bene delle
città»,12 ciò che le tiene unite, e pare che «i legislatori si diano più preoccupazione per
essa che per la giustizia»13 perché «se gli uomini sono amici non c’è nessun bisogno
della giustizia, ma, se sono giusti, hanno inoltre bisogno dell’amicizia: e l’attitudine
che tra tutte è la più giusta è, ad avviso unanime, un’attitudine amicale».14
La critica di Aristotele al comunismo platonico, nel libro secondo della
Politica, s’incentra su due idee di fondo: [1] che esso rende impossibili i legami
amicali tra i cittadini a tutti i livelli della vita sociale; e [2] che esso tratta la comunità
politica come se fosse un’unità naturale,15 organica, simile al corpo di un individuo.
Aristotele vede il progetto platonico come il tentativo di incrementare a dismisura
l’unità dello stato, facendo condividere ai cittadini più cose possibile, e rendendoli
simili a una sola grande famiglia, o a un solo grande individuo.16
Due cose, però, spiega Aristotele, «più di ogni altra spingono gli uomini a
scegliersi un oggetto delle loro cure e del loro amore: la proprietà e l’affetto».17 C’è un
certo «piacere» – continua lo Stagirita – nel considerare qualcosa come «propria»; che
Non definisco intenzionalmente l’amicizia, almeno per adesso. Soprattutto, cerco di evitare il termine
“valore” con Aristotele perché è un termine oggi inflazionato e troppo carico di un significato moderno
immanentista.
12
Aristotele, Politica (d’ora in poi Pol.), II, 1262b7. Cito dall’edizione curata da C. A. Viano (Milano,
BUR, 2002).
13
Aristotele, Etica Nicomachea (d’ora in poi Eth. Nic.), VIII, 1155a23-25. Cito dall’edizione in due
volumi curata da M. Zanatta (Milano, BUR, 1986).
14
Eth. Nic., VIII, 1155a23-27.
15
Cfr., Pol., II, 1261b7.
16
C’è un che di tristemente attraente in quest’aspirazione di Platone a un’unità politica fondata sul
completo sacrificio dei beni e interessi individuali a vantaggio dell’utile comune; un sacrificio che deve arrivare
fino a «cacciare» i propri figli senza lasciarsi commuovere [Platone, Repubblica (d’ora in poi Rep.), IV, 415a-c.
Cito dalla traduzione di F. Gabrieli (Milano, BUR, 1981)] e a sacrificare la famiglia [Rep., V, 457d]. Si veda, a
questo proposito, il giudizio sul comunismo platonico, a mio avviso troppo indulgente, di Giovanni Reale, Storia
della filosofia antica, volume II, Milano, Vita e Pensiero, 1997, pp. 304-310.
17
Pol., II, 1262b21-23 [traduzione leggermente modificata].
11
4
Fulvio Di Blasi, Amicizia o eguaglianza?
non è il piacere egoista, derivante dal vizio, ma il piacere moralmente buono, derivante
dall’amore naturale di sé. E c’è un certo piacere nell’aiutare i propri amici e nel fargli
favori usando delle proprie cose. E ci sono alcune virtù – come «la temperanza nei
rapporti con le donne (perché è una bella azione astenersi per temperanza dalla donna
altrui) e la liberalità nell’uso delle proprietà» – che, nel sistema platonico, non
potrebbero mai essere esercitate.18 Lo stato non è «un’unità naturale», conclude
Aristotele: ci sono cose che non gli appartengono direttamente. Se si cercasse di
dargliele le si distruggerebbe; e insieme con esse si distruggerebbe anche l’unità
politica che ne dovrebbe invece derivare: allo stesso modo di «come si annulla la
sinfonia ridotta all’omofonia o il ritmo ridotto a una sola misura».19 La critica è chiara:
affinché un brano musicale possa essere eseguito con successo, ogni singola nota deve
rimanere se stessa ed esprimere al meglio la propria natura specifica. In Aristotele, il
legame politico è forte se sono forti anzitutto i legami (amicali) tra gli individui ai
livelli inferiori della vita sociale, cominciando dalla famiglia. Le comunità inferiori,
infatti, anche se meno autosufficienti,20 sono per natura anteriori e più necessarie della
comunità politica.21
Ciò su cui m’importa maggiormente soffermare l’attenzione, per adesso, non è
l’importanza politica di promuovere il bene delle comunità minori rispettandone la
natura specifica (problema della sussidiarietà), e neppure l’importanza in sé di non
danneggiare l’amicizia vissuta da ogni cittadino nella sua vita privata. La cosa più
interessante per me è invece il rapporto delineato da Aristotele tra amicizia a
giustizia.22 Tale rapporto non si limita al fatto che esse, pur restando cose differenti,
sono intrinsecamente collegate: vale a dire, al fatto che l’amicizia e il giusto hanno «le
stesse cose per oggetto e le stesse persone per soggetto»,23 e che in ogni comunità, «il
giusto aumenta per natura assieme all’amicizia; il che fa intendere che essi si
realizzano nelle stesse persone e si estendono per un ugual tratto».24 No, tale rapporto
implica anche un primato reale dell’amicizia sulla giustizia nel senso che un buon
legislatore e un buon governo, per ottenere una comunità politica giusta, devono
sempre avere un occhio di riguardo per l’amicizia rispetto alla giustizia; e questo sia al
livello delle comunità minori sia al livello del bene politico come tale. Naturalmente,
ciò non significa che la giustizia possa essere violata in favore dell’amicizia; significa
piuttosto che l’amicizia dovrebbe poter fornire in qualche modo l’orizzonte di senso
dello stesso concetto di giustizia.
Ritornerò più avanti sul problema del primato dell’amicizia sulla giustizia.
Adesso, vorrei invece puntare l’attenzione sul nesso intrinseco tra amicizia a giustizia.
18
Pol., II, 1263a40-1263b22.
Pol., II, 1263b34-35. Quando Charles Taylor si entusiasmò per l’immagine dell’orchestra di Herder
avrebbe dovuto anche pensare a quest’immagine analoga utilizzata duemila anni prima da Aristotele (si veda, C.
Taylor, “A Tension in Modern Democracy”, in A. Botwinick e W.E. Connolly, Democracy and Vision: Sheldon
Wolin and the Vicissitudes of the Political, Princeton, Princeton University Press, 2001, p. 90).
20
Pol., II, 1261b10-15.
21
Eth. Nic., VIII, 1162a17-20.
22
Assumo, almeno in questo contesto, che giustizia ed eguaglianza siano valori politici equivalenti.
23
Eth. Nic., VIII, 1159b2527.
24
Eth. Nic., VIII, 1160a7-9.
19
5
Fulvio Di Blasi, Amicizia o eguaglianza?
Di primo acchito, infatti, la cosa più sorprendente è precisamente l’idea che giustizia e
amicizia vadano insieme; ed è sorprendente perché puntare sull’amicizia significa
puntare su «la proprietà e l’affetto», che è proprio ciò che non ci si aspetterebbe mai
dalla giustizia. La giustizia, come l’eguaglianza, è imparziale.
1.2. Amicizia ed eguaglianza
Il motivo più ovvio per cui amicizia e giustizia vanno insieme nell’etica
aristotelica è che entrambe sono date da rapporti di eguaglianza. C’è giustizia tra due
persone se esiste tra esse un certo tipo di uguaglianza proprio come c’è amicizia tra
due persone se esiste tra esse un certo tipo di uguaglianza. La giustizia legale, o
universale, è l’eguaglianza di tutti i cittadini con rispetto all’utile comune; ovvero
l’eguaglianza nell’obbedire alle leggi, che a quell’utile sono ordinate. La giustizia
particolare è l’eguaglianza tra due o più soggetti con rispetto o alla distribuzione di un
certo bene comune (giustizia distributiva) o con rispetto alla proprietà, possesso e
godimento dei propri beni individuali (giustizia correttiva o commutativa).25 Qual è
l’uguaglianza dell’amicizia?
Secondo Aristotele, «l’uguale, in tutta chiarezza, non gioca nello stesso modo
in ciò che è giusto e nell’amicizia. Infatti, in ciò che è giusto, uguale in senso primario
è l’uguale proporzionato al merito e in senso secondario è l’uguale secondo quantità;
nell’amicizia, invece, l’uguale secondo quantità è uguale in senso primario, mentre
l’uguale proporzionato al merito è uguale in senso secondario».26 Di là dal concetto
aristotelico di “merito” (su cui non m’importa soffermarmi in questa sede), ciò che
Aristotele vuole dire qui è che è più conforme alla natura dell’amicizia che si dia tra i
soggetti una situazione di eguaglianza, o parità, reale tra quel che si dà e quel che si
riceve. Se a motivo della condizione morale, economica, sociale, culturale, ecc., tale
parità non si costituisce potrà magari rimanere il rispetto dei diritti ma non l’amicizia
perché l’amicizia, da entrambe le parti, «consiste nell’amare più che nell’essere
amati»,27 nel dare più che nel ricevere. Nel caso che il rapporto si presenti
oggettivamente disuguale (il padre verso il figlio, l’anziano verso il giovane, chi
comanda verso chi è comandato…), è necessario perciò che colui che riceve di più si
sforzi di amare e di onorare di più: è in questo modo che tali persone «potranno essere
amiche, giacché si renderanno uguali».28
Per Aristotele, questa eguaglianza reale (secondo quantità) che si richiede tra
gli amici è anzitutto eguaglianza nelle virtù perché la benevolenza, che è il primo
passo sul cammino dell’amicizia, non sorge dall’utile o dal piacere ma «a motivo della
virtù e una certa convenienza morale: quando ad esempio qualcuno appare a qualcun
25
Cfr., Eth. Nic., V, 1129a27-1132b20. Non mi interessa, in questa sede, entrare nei dettagli della
distinzione aristotelica dei tipi di giustizia, né della differenza tra la giustizia correttiva in Aristotele e la giustizia
commutativa in Tommaso d’Aquino.
26
Eth. Nic., VIII, 1158b29-33.
27
Eth. Nic., VIII, 1159a27-28.
28
Eth. Nic., VIII, 1159b1-2.
6
Fulvio Di Blasi, Amicizia o eguaglianza?
altro buono o coraggioso, o dotato di una qualità consimile».29 La virtù, così, è la
prima cosa che gli amici si danno l’un l’altro. Ciò per Aristotele è vero di qualunque
amicizia, anche dell’amicizia politica, o «concordia», perché la «concordia esiste tra
gli uomini dabbene»,30 e «i cittadini vogliono essere uguali e virtuosi».31
A mio avviso, l’idea aristotelica che l’amicizia richiede eguaglianza reale nelle
virtù si sposa bene con l’ethos contemporaneo che pone i diritti umani a fondamento
della comunità politica ma non con l’idea che ciò possa avvenire in maniera neutrale.
Da una parte, infatti, la virtù ha come condizione base la libertà degli agenti morali
(mi soffermerò meglio su ciò nel prossimo paragrafo) e, sotto questo aspetto,
l’incontro degli amici dovrà avvenire in un ambiente che consenta il pieno esercizio
delle loro libertà. D’altra parte, però, riconoscere e apprezzare le virtù degli amici
implica una valutazione positiva dell’esercizio concreto delle loro libertà. Avremmo
così una prima conseguenza importante del porre l’amicizia, invece della semplice
eguaglianza, a fondamento della comunità politica: l’incontro tra amici, anche al
livello politico, non può essere neutrale rispetto alla vita buona [per usare la
terminologia del dibattito liberale contemporaneo]. Ciò non significa necessariamente
che la condivisione politica dei valori della vita buona debba essere assiologicamente
forte, fino a costituire ciò che chiameremmo oggi uno stato etico. Credo anzi che ci
siano già in Aristotele risorse adeguate per tracciare differenze rilevanti tra le diverse
sfere di amicizia vissute dagli individui – fino a quella politica – in base al livello di
intimità richiesto dai relativi rapporti. In questo senso, l’amicizia politica sarebbe
senza dubbio quella che necessita di un grado di intimità minore e, conseguentemente,
del livello minore di condivisione della vita buona.
Mi sembra che questo sia un modo ragionevole di descrivere anche le comunità
politiche contemporanee, in cui una certa idea condivisa della vita buona sembra stare
alla base della stessa dialettica interpretativa dei valori fondamentali e dei diritti umani
(ritornerò su ciò più avanti). Sotto questo profilo, il linguaggio dell’amicizia
apparirebbe più appropriato di quello della semplice eguaglianza ad esprimere il
valore fondamentale della comunità politica. L’eguaglianza nelle virtù, tuttavia, anche
rispetto all’amicizia politica, non è di per sé qualcosa che distingue l’amico da altri
soggetti virtuosi. E sotto quest’altro profilo, l’amicizia apparirebbe di nuovo
coestensiva con l’universalità del valore eguaglianza. Basti aggiungere che è il valore
eguaglianza in sé che non è concepibile da un punto di osservazione neutrale.
L’amicizia, però, richiede anche eguaglianza nell’apporto; vale a dire, in ciò
che gli amici si danno l’un l’altro. E non appena l’elemento concettuale dell’apporto
entra in gioco, l’uguaglianza vissuta dagli amici nei loro rapporti reciproci si distacca
irrimediabilmente dall’uguaglianza che li accomuna con gli altri esseri umani. Ogni
apporto, a qualunque livello – morale, economico, culturale – è necessariamente
discriminatorio; così come sono discriminatori il concetto di nazione, lo spirito
patriottico e i diritti di cittadinanza. Qui l’amicizia pare entrare in un conflitto più serio
29
Eth. Nic., IX, 1166b30-1167a21.
Eth. Nic., IX, 1167b5.
31
Eth. Nic., VIII, 1161a28-29.
30
7
Fulvio Di Blasi, Amicizia o eguaglianza?
con il concetto di eguaglianza. E anche con i diritti umani, in quanto essa implica
l’adozione di un criterio selettivo con rispetto sia alla tutela delle libertà negative sia
alla sempre maggiore realizzazione di quelle positive. Ogni comunità politica deve
rivolgersi ai propri cittadini e a chi risiede nel proprio territorio o vi si trova
occasionalmente; è solo in una maniera molto indiretta e secondaria che essa si può
(pre)occupare indiscriminatamente degli esseri umani viventi nelle altre parti del
globo. 32
Anche con riguardo alle discriminazioni implicite nei concetti di territorialità e
cittadinanza, il linguaggio dell’amicizia sembra più appropriato di quello
dell’eguaglianza ad esprimere il fondamento della comunità politica; non sembra però
che ne offra ancora una giustificazione plausibile. Per ciò, bisogna approfondire
ulteriormente il concetto aristotelico di amicizia.
1.3. Lo specifico dell’amicizia
L’amicizia è l’argomento maggiormente trattato nell’Etica a Nicomaco (due
libri su dieci) eppure è uno dei pochi che non riceve una chiara collocazione teoretica.
Aristotele si mostra alquanto incerto su che cosa sia l’amicizia. Egli esordisce dicendo
che «è una virtù o quanto meno è unita alla virtù».33 Credo che il problema di quale sia
esattamente l’importanza dell’amicizia nell’etica di Aristotele sia di gran lunga più
difficile di quello sollevato da quell’esitante esordio. Ci sono ragioni per dire che
Aristotele avrebbe dovuto conferire un valore teoretico più elevato all’amicizia ma
non poté farlo. Da una parte, infatti, egli sembra percepire che il senso della morale e
della vita umana dipende essenzialmente dal senso e dall’importanza dell’alterità
personale; dall’altra, però, egli vede l’alterità – l’amicizia – come derivante dal
bisogno e dall’imperfezione: l’amicizia, come tale, non può essere divina, e non può
essere parte del fine ultimo.34 Di fronte a questo problema e alla sua interpretazione
teoretica, il collegamento tra amicizia e virtù appare notevolmente più semplice.
Tutta l’etica aristotelica s’incentra sulle virtù morali poiché esse sono le virtù
che perfezionano la parte appetitiva dell’anima, quella che determina la nostra
attrazione per il bene e per il piacevole. E, «giacché è a causa del piacere che
compiamo le cose cattive ed è a causa del dolore che ci asteniamo dalle cose
moralmente belle»,35 il problema etico fondamentale è di mettere l’anima in grado di
dominare i piaceri e di «rallegrarsi e dolersi delle cose di cui si deve».36 Aristotele
32
Ciò vale analogicamente anche per le organizzazioni (o comunità) sovra-nazionali e internazionali, in
cui la membership richiede un certo apporto e determina la selettività dell’azione dell’organizzazione. Solo gli
stati membri dell’ONU, ad esempio, hanno un diritto formale ad essere difesi dall’organizzazione in caso di
aggressione; e solo i cittadini comunitari, per fare un altro esempio, possono fare appello al tribunale di
Strasburgo per la tutela dei loro diritti umani.
33
Eth. Nic., VIII, 1155a2.
34
Per un concetto di amicizia meno limitante bisognerà aspettare in pensiero cristiano.
35
Eth. Nic., II, 1104b7-10.
36
Eth. Nic., II, 1104b12-13.
8
Fulvio Di Blasi, Amicizia o eguaglianza?
dedica pochissimo spazio alle virtù dianoetiche, come a dire che se l’appetito è retto la
ragione non avrà grosse difficoltà a trovare nelle diverse circostanze l’azione giusta da
compiere. Piuttosto, dal libro secondo fino ai libri sull’amicizia – ad eccezione di una
parte del libro terzo e di quasi tutto il libro sesto – l’attenzione è tutta per le virtù
morali, la cui caratteristica fondamentale è di perfezionare l’inclinazione dell’anima
verso il medio tra due estremi – uno in eccesso e uno in difetto – cui l’uomo tende a
causa dell’attrazione disordinata (cioè, contraria alla retta regola) per il piacere. La
virtù morale, così, è inclinazione (exis) a quel coraggio che sta tra la temerarietà e la
viltà, a quella liberalità che sta tra la prodigalità e l’avarizia, e alla magnificenza che
sta tra volgarità e meschinità, alla magnanimità che si trova tra la buffoneria e la
piccineria, alla veridicità che si dà nel mezzo tra la millanteria e la dissimulazione...
L’amicizia non può essere una virtù perché la virtù appartiene alla natura
dell’agente come inclinazione conforme alla retta ragione; e l’amicizia, com’è ovvio,
non può risiedere solamente nell’agente. È perciò che Aristotele si rimangia subito
l’affermazione che l’amicizia «è una virtù» ed elenca, come condizioni dell’amicizia,
non soltanto la benevolenza reciproca dei soggetti interessati, ma anche la conoscenza
di tale benevolenza da parte di entrambi.37 L’amicizia è una relazione che sta, in un
certo senso, tra gli amici, nel mezzo, e non soltanto nelle inclinazioni di uno di essi o
di ambedue. Essa tuttavia è simile alla virtù; non solo perché è qualcosa di essenziale
alla vita morale, ma anche perché, in qualche maniera, sembra rispondere alla stessa
logica del perfezionamento delle inclinazioni rispetto agli estremi moralmente cattivi.
I due estremi, in questo caso, sono l’amicizia fondata sul (mero) utile e l’amicizia
fondata sul (mero) piacere. La vera amicizia – il medio – è quella fondata sulla virtù:
quella in cui l’amico non è amato in maniera strumentale per l’utile o piacere che
arreca. I «buoni», infatti, «vogliono in ugual modo l’uno ciò che è bene per l’altro» e
sono «massimamente amici, giacché ciascuno lo è dell’altro per l’altro stesso e non per
accidente»;38 «gli uomini perversi», invece, «saranno amici a motivo del piacere e
dell’utile».39
Aristotele spiega che la vera amicizia, oltre ad essere la più utile e la più
piacevole, richiede comunanza di vita e intimità,40 è duratura, e conduce alla fiducia, a
piacersi l’un l’altro e a «gioire delle stesse cose»;41 essa richiede «tempo e
consuetudine di vita, giacché, secondo il proverbio, non è possibile conoscersi l’un
l’altro prima di aver consumato assieme il sale di cui esso parla».42 Per tali motivi,
«l’amicizia dei buoni è inattaccabile dalle maldicenze, giacché non è facile prestare
fede a nessuno in merito ad una persona che è stata messa alla prova da noi stessi per
lungo tempo».43
37
Eth. Nic., VIII, 1155b32-35, 1166b30-1167a21.
Eth. Nic., VIII, 1156b6-12.
39
Eth. Nic., VIII, 1157b2-4: «gli uomini perversi saranno amici a motivo del piacere e dell’utile, poiché
sotto quest’aspetto essi si assomigliano, invece i buoni saranno amici per se stessi, ossia in quanto buoni».
40
Eth. Nic., IX, 1170b20-1171a20, 1171b29-1172a15.
41
Eth. Nic., VIII, 1157b5-24.
42
Eth. Nic., VIII, 1156b26-28.
43
Eth. Nic., VIII, 1157a21-24.
38
9
Fulvio Di Blasi, Amicizia o eguaglianza?
È evidente che Aristotele non pensa l’amicizia come una sorta di rapporto
generico, in cui il tempo e la comunanza di vita sono necessari semplicemente per
poter conoscere generiche virtù dell’altro. Tale conoscenza di per sé non sarebbe
ancora sufficiente a dar vita all’amicizia. Questa, piuttosto, va vista come “rapporto
interpersonale” in almeno due sensi rilevanti: (1) che essa edifica sulla conoscenza e
l’apprezzamento dell’unicità della personalità dell’amico; e (2) che è essa stessa
emanazione unica dell’incontro tra due unicità personali. Lo specifico dell’amicizia, in
altre parole, non si fonda sulla natura, vale a dire sull’essere umano considerato
genericamente (o universalmente) uguale a tutti gli altri, ma sulla persona, vale a dire
sull’essere umano considerato come realtà unica e originale.44
1.4. Amicizia e persona
La differenza tra persona e natura è un portato della filosofia e teologia
medievale, e raggiunge probabilmente la sua maggiore raffinatezza definitoria con
Tommaso d’Aquino. La famosa definizione di persona che egli eredita da Boezio –
rationalis naturae individua substantia – s’incentra sul concetto di libertà. Le sostanze
individuali di natura razionale sono, infatti, quelle «quae habent dominium sui actus,
et non solum aguntur, sicut alia, sed per se agunt».45 Gli atti personali, per Tommaso,
sono pertanto gli atti che dipendono da un principio unico di ordine spirituale e non
solo da inclinazioni universali – necessitanti – comuni alla specie; non, cioè,
semplicemente dall’inclinazione comune a giocare, o ad accoppiarsi e formare una
famiglia (natura universale), ma dal fatto che io sono Fulvio Di Blasi e non Joseph
Kolf o Andrew Syski (persona come principio ontologico indipendente).46
Nella definizione difesa da Tommaso, la persona è libera perché conosce la
natura secondo verità. Quando si trova ad affrontare la questione se l’uomo sia libero
(se abbia il libero arbitrio), Tommaso spiega appunto che, siccome il giudizio della
ragione non proviene dall’istinto naturale, esso è un giudizio libero e, come tale, può
originare corsi di azione differenti ed opposti.47 Razionalità e libertà sono qui due
facce della stessa medaglia. Sotto questo profilo, Kant non inventerà nulla di nuovo
quando cercherà di provare a priori la libertà come condizione di necessità della
razionalità. Il suo argomento segue perfettamente le linee già tracciate dal pensiero
medievale.48
La ratio della definizione boeziana era già presente nella filosofia greca a
partire da Socrate, e sta alla base, tra le altre cose, del concetto aristotelico di amicizia.
Quando dico “lo specifico”, naturalmente, non intendo in nessun modo negare l’importanza del
generico: della natura. Intendo solo evidenziare, sotto un profilo logico, ciò che determina la specificità, e quindi
la natura propria di ciò che chiamiamo “amicizia”.
45
Cfr., Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 29 a. 1 c.
46
Cfr., Tommaso d’Aquino, Summa contra gentiles, III, cap. 113.
47
Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 83, a. 1.
48
Si vedano, ad esempio, le prime pagine della terza sezione della Fondazione della metafisica dei
costumi (Kant, Ethical Philosophy, Indianapolis, IN, Hackett, 1994, pp. 50-1).
44
10
Fulvio Di Blasi, Amicizia o eguaglianza?
La filosofia morale, infatti, fin dalle sue origini è legata all’idea di una soggettività che
trascende il regno della necessità uniformante della natura e che, per ciò stesso, è in
grado di originare scelte e azioni realmente libere. È questa l’intuizione primordiale di
Socrate: che l’uomo è l’unico essere la cui azione dipende dalla conoscenza della
verità e non dall’operare necessitante della natura (dagli istinti, dalle passioni e perfino
dai valori e dalle inclinazioni universali che fondano le scelte specificamente umane).
È ovvio che Socrate dirà che l’uomo è la sua anima, perché al regno fisico, al
corpo, appartiene invece la necessità. E si capisce perché egli incentrò la sua etica
sulla conoscenza, da una parte, e sull’autocontrollo, la libertà interiore e l’autonomia,
dall’altra. L’uomo è colui che si erge al di sopra delle forze della natura, colui che è
signore, non schiavo, che ha dominio sui propri stati di piacere e di dolore, e la cui
realizzazione morale non può dipendere da alcuna forza esteriore. Un tale essere
sperimenta e gode interiormente la propria libertà (eleutheria) nel dominare
razionalmente gli impulsi della propria natura.49 La bontà di questa esperienza morale
è radicale ed evidente. Quando Aristotele criticherà la vita dedita ai piaceri e ai
godimenti come un tipo di vita in cui non può risiedere la felicità umana, egli scriverà
soltanto che tale vita è propria delle bestie e degli schiavi.50 Tale critica potrebbe
sembrare debole e poco sviluppata solamente a chi non abbia in mente il valore
cruciale della libertà come elemento definitorio dell’essere umano che Aristotele
aveva ereditato da Socrate e da Platone. Una vita da schiavi, senza libertà, per
Aristotele non è neppure degna di speciale attenzione teoretica. Tutta l’etica di
Aristotele va vista, sotto questo profilo, come un’etica della libertà: un’etica in cui
l’agente morale, vivendo le virtù e quindi agendo non in balia delle passioni e dei
piaceri ma secondo la conoscenza veritativa della natura (cioè secondo la retta
ragione), si erge al di sopra del regno della necessità e sviluppa la propria soggettività
personale. Chi pensa che nell’etica di Aristotele non c’è spazio per la libertà ha perso
di quell’etica l’aspetto più importante e fondante.51
2. Persona, amicizia e comunità politica
La conseguenza più importante della differenza tra persona e natura – ovvero
del riporre nella libertà la caratteristica definitoria della persona – è che l’accento si
sposta subito sul particolare e contingente della libertà piuttosto che sull’universale e
necessario della natura. Osservare la libertà significa osservare qualcosa che poteva
essere diversamente ma che è stato così per via di una scelta in sé non determinata:
significa osservare qualcosa che è personale. La libertà è creativa, singolare, viene da
un principio unico e lo alimenta costantemente. Conoscere una persona non significa
conoscere la sua natura universale ma conoscere il modo in cui la sua libertà ha
49
Cfr., G. Reale, Storia della filosofia antica, volume I, Milano, Vita e Pensiero, 1996, pp. 321-6.
Eth. Nic., I, 1095b14-22.
51
Fa questo errore, ad esempio, Germain Grisez. Si veda il suo “Natural Law, God, Religion, and
Human Fulfillment”, in The American Journal of Jurisprudence, 46 (2001), p. 19.
50
11
Fulvio Di Blasi, Amicizia o eguaglianza?
modellato e modella quella natura. È solo a un livello minimale, secundum quid, che il
rispetto della persona significa rispetto per la sua natura e per il solo principio
ontologico della sua unicità personale (mi riferisco al rispetto per le persone che non
possono o non hanno ancora esercitato la loro libertà: concepiti, bambini, malati, ecc.).
A un livello più pieno, il rispetto della persona è rispetto di quell’unicità che della
libertà è il frutto. La persona è come un castello che si sarebbe potuto costruire in
mille e più modi diversi, e di cui ora si ammira e si apprezza lo stile unico e originale.
Sia nella vita privata che nella vita pubblica la persona non vuole essere conosciuta,
rispettata e apprezzata solo come essere umano ma anche, e soprattutto, come
Francesco Pansarella, Andy Kioko o Matt Currie. Tale conoscenza, rispetto e
apprezzamento è il solo modo di fargli giustizia come persona.
Sta qui il fascino del concetto di narrativa, sviluppato inizialmente da
MacIntyre nell’ambito di una rivisitazione (controversa e lacunosa ma senza dubbio
brillante e stimolante) dell’etica aristotelica.52 Chi è il personaggio di un romanzo si sa
solamente man mano che si scrive o si legge, man mano che le sue azioni vengono
all’esistenza. Tali azioni, poi, hanno significato solo se contestualizzate in un
particolare orizzonte di senso. Il primo modo per introdurre il lettore all’identità del
personaggio di una storia è appunto descrivere l’ambiente in cui la vita di tale
personaggio si svolge e s’inserisce: famiglia, educazione, amici (e nemici), scuola,
ufficio, società… Tutte queste cose vanno scritte non solo perché rivelano
accidentalmente la personalità del protagonista ma anche perché, in qualche modo, ne
fanno parte integrante. Considerare il collegamento tra individuo e società come
analogo al collegamento tra personaggio e ambientazione di una storia è davvero
interessante. Ne emerge immediatamente che la personalità (o identità) dell’individuo
e la personalità (o identità) della società sono interrelate. Nessuno è libero di costruire
la propria personalità indipendentemente dall’ambiente sociale; un ambiente che è a
sua volta il frutto contingente dell’incontro di tante libertà individuali. Sotto questo
profilo, è certamente sensato parlare di un diritto a partecipare alla configurazione
culturale della comunità politica utilizzando qualunque argomento che si reputi
rilevante per lo sviluppo della personalità propria e dei propri cari: sia quell’argomento
“il rispetto della libertà religiosa”, o “il rispetto di alcune tradizioni specifiche”, o della
“propria religione”, ecc. Negare questo diritto sarebbe una violazione
dell’eguaglianza, un atto discriminatorio.
2.1. L’atto di condivisione dell’amicizia
52
Cfr., A. MacIntyre, Dopo la virtù, cit.; P. Ricoeur, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993
[1990]. Sul concetto di narrativa si vedano anche P. M. Hall, Narrative and the Natural Law. An Interpretation
of Thomistic Ethics, Notre Dame and London, University of Notre Dame Press,1994; e R. A. Gahl, Jr.,
“Comunità, ethos e verità”, in L. Melina e J. Larrú (a cura di), Verità e libertà nella teologia morale, Roma,
Pontificia Università Lateranense, 2001, pp. 89-108.
12
Fulvio Di Blasi, Amicizia o eguaglianza?
Ma torniamo all’amicizia. Avevamo detto che l’amicizia edifica su una base di
eguaglianza nelle libertà e diritti fondamentali della persona ma che il proprium
dell’amicizia non è dato da elementi generici della natura umana quanto dal mettere in
comune e apprezzare insieme la novità dei propri atti liberi: la propria personalità. Per
questo motivo, l’amicizia nasce sempre unica e si sviluppa sul solco creativo di un atto
originario (e originale) di condivisione: una sorta di accordo, o contratto, che ha sia un
aspetto costitutivo che uno evolutivo (in fieri) e che può essere più o meno tacito o più
o meno esplicito. «L’amicizia è infatti comunione».53
Se la condivisione che ne sta alla base cessa, con essa cessa anche l’amicizia. È
così che le amicizie si rompono, con il dileguarsi dei motivi della comunanza
originaria che le aveva fatte sorgere. Ciò avviene talvolta per la semplice mancanza di
frequentazione o per la lontananza. La mancanza di contatto tra le persone attenua
sempre di più la comunanza proprio perché questa non deriva soltanto da una
conoscenza generica di valori e virtù. In tal caso, più le amicizie erano superficiali, o
non fondate su legami naturali (familiari), più velocemente il rapporto si affievolisce,
fino a scomparire. Altre volte, la rottura dell’amicizia dipende dal mutamento dei
valori da parte di uno o di entrambi gli amici; anche qui, la rottura sarà più o meno
veloce a seconda della profondità o superficialità di quei valori. In questo caso, però, il
processo avviene in modo inverso: più i valori erano forti, più velocemente l’amicizia
si rompe. Si pensi a una sopravvenuta divergenze di vedute tra due giovani fidanzati
sull’importanza dei figli o della fede, o tra due uomini politici sull’interpretazione dei
valori fondamentali del partito. La crisi in questi casi è abbastanza repentina. Come
potrebbero due persone continuare ad essere amici «se né piacciono loro le stesse cose,
né provano le stesse gioie e gli stessi dolori?».54
2.2. L’unicità del contratto politico
Tutto ciò è vero anche della comunità politica. Anche la comunità politica
edifica anzitutto sul riconoscimento delle libertà fondamentali dell’essere umano.
Anch’essa è un incontro unico tra esseri personali e nasce da un accordo originario e
originale che ha sia un aspetto costitutivo che uno evolutivo, e che si regge sulla
comunanza di certi valori e autorità.55 Negli stati contemporanei, questa comunanza
originaria è data soprattutto da vari tipi di patti costituzionali, scritti o non scritti. Essi,
come emanazione dell’incontro tra le particolari libertà individuali che li hanno
costituiti, nascono unici, individuali anch’essi, e non possono essere pienamente capiti
al di fuori del contesto culturale che li ha determinati e che li mantiene in esistenza. Da
questa angolatura, sono certamente importanti le intuizioni dell’ermeneutica giuridica
53
Eth. Nic., IX, 1171b32-33.
Eth. Nic., IX, 1165b27-29.
55
Uso qui “accordo” e “contratto” in un senso ampio che si può trovare, non solo in pensatori moderni,
ma anche in quelli classici come Aristotele, Agostino e Tommaso. Si legga, come esempio, il seguente passo di
Aristotele: «Le amicizie che uniscono i cittadini […] assomigliano all’amicizia tra i membri di una comunità,
giacché appaiono riposare su una sorta di contratto» (Eth. Nic., VIII, 1161b13-16).
54
13
Fulvio Di Blasi, Amicizia o eguaglianza?
contemporanea,56 e risulta inumana, perché impersonale, la finzione rawlsiana di una
«posizione originaria» in cui nessuno sa chi è e che cosa possiede. Di fatto, perfino
due costituzioni scritte esattamente nello stesso modo non potrebbero essere
considerate identiche perché il loro significato rimarrebbe comunque inscindibile dalla
cultura che le ha prodotte.
Dopo il patto costitutivo, la comunità cresce e si sviluppa nella misura in cui
rimane collegata dialetticamente ad esso; altrimenti bisognerà parlare di rivoluzione
sociale proprio come prima si era parlato di rottura di amicizie individuali. Il tema del
ritorno alle origini proprio della filosofia politica umanistica e rinascimentale
racchiudeva molto fascino e molta saggezza.57 Per capire chi sei, devi tornare alle tue
origini e ripercorrere il tuo passato. Questo vale per qualunque individuo e per
qualunque istituzione, specialmente nei momenti di crisi. Solo sul solco di
quest’autocoscienza storica si può pensare ragionevolmente a che cosa c’è da
cambiare al presente e a come costruire il futuro. L’idea di Machiavelli di riformare
l’Italia del millecinquecento guardando alla Roma pagana del periodo repubblicano
poteva ben essere sbagliata (Machiavelli, d’altronde, si sa, era più un ideologo che uno
storico), ma la metodologia di ricercare nel passato i valori fondanti l’unità politica di
un popolo racchiudeva un tipo di ragionamento filosofico politico da cui non bisogna
cessare di imparare.58
Will Kymlicka distingue due modelli principali di società multiculturale: quello
che segue all’incorporazione di culture preesistenti sul territorio e quello che dipende
dai processi di immigrazione.59 Nel primo caso, dal punto di vista dell’analisi che
abbiamo operato, l’atto costitutivo della società politica va inteso come inclusivo dei
termini del rapporto di convivenza pacifica instauratosi con le culture preesistenti, e
dovrà svilupparsi in relazione ad esso. Se un rapporto pacifico non è mai stato istituito
non è mai cominciata neppure la vita di una comunità politica unitaria sul territorio. I
termini originari del rapporto interculturale originario, poi, possono giustificare (cioè,
rendere giuste) alcune preferenze discriminatorie nella vita della comunità politica (è il
caso di molti diritti speciali degli indiani d’America negli Stati Uniti). Nel secondo
caso, il processo di integrazione e rispetto delle minoranze dovrà avvenire in un
contesto di costante rispetto prioritario per l’identità portante della comunità politica;
e, in caso di astratto contrasto tra diritti, andranno preferiti i valori tradizionali della
comunità accogliente. Ciò non riguarda solo le autorità della comunità accogliente.
Sono anche gli immigranti che, come atteggiamento morale giusto, dovranno sforzarsi
di comprendere, rispettare e integrarsi ragionevolmente nelle tradizioni di chi li ospita.
Se lo faranno, sarà più facile che le loro tradizioni e valori tradizionali verranno
56
Cfr., M. Jori [a cura di], Ermeneutica e filosofia analitica. Due concezioni del diritto a confronto,
Torino, Giappichelli, 1994.
57
Per una presentazione generale di questa tematica si veda, per tutti, N. Abbagnano, Storia della
filosofia. Volume terzo: La filosofia del rinascimento, Milano, TEA, 1993, pp. 3-11, 39-55.
58
Cfr., N. Machiavelli, Il Principe e le altre opere politiche, Milano, Garzanti, 1999, pp. 341-6
[Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, libro terzo, cap. 1].
59
W. Kymlicka, Multicultural Citizenship: A Liberal Theory of Minority Rights, cit., p. 10.
14
Fulvio Di Blasi, Amicizia o eguaglianza?
parimenti compresi, rispettati, e spesso accolti dalla comunità ospitante: questa è la
fase più matura del processo di integrazione.
Qualunque sia il tipo di società, essa sarà più o meno forte quanto più o meno
pressanti, intensi e profondi sono i valori originari condivisi. La religione, la libertà, i
valori morali, la difesa… sono tutti fattori di forte unità (o amicizia) politica. Il
sentimento di indipendenza dei baschi è così intenso perché si collega a forti valori
nazionali tradizionali. È facile osservare inoltre che i fenomeni di maggiore unità
politica si hanno oggi nel mondo musulmano proprio a causa dello stretto
collegamento, ivi esistente, tra religione e politica. La religione pare l’unico valore in
grado di creare una forte unità politica senza territorio: si pensi agli ebrei, e in maniera
molto diversa all’influenza della Santa Sede sulla (limitata ma rilevante) unità di credo
politico dei cattolici nel mondo. Anche tra gli stati territoriali l’unità politica appare
molto più forte dove più forte è la comune tradizione religiosa: si pensi all’Irlanda.
Negli Stati Uniti, il senso dell’unità nazionale è così forte non solo perché è tuttora
molto viva la tradizione di difesa della libertà scaturente dal loro patto originario, ma
anche perché questa tradizione si continua a intrecciare con le forti radici cristiane del
paese.
Tutti questi fattori di forte coesione politica dipendono da tradizioni particolari
di valori condivisi, ovvero dal rapporto di amicizia politica. Se la classe politica
trascura (o addirittura attacca) quei valori, si può assistere o a una brusca rottura
dell’amicizia politica o a una rottura soffusa, quasi inavvertita, dovuta al progressivo
raffreddarsi nei cittadini dei fattori di unità nazionale; questa rottura è simile alla
rottura dell’amicizia individuale per la mancanza di frequentazione e di interessi
comuni. L’essere italiano, per essere importante, deve rimanere diverso dall’essere
statunitense analogamente – anche se in maniera sostanzialmente diversa – a come
l’essere Joseph Kolf, per essere importante, deve rimanere diverso dall’essere Mattew
Currie. Una democrazia neutrale (in un senso forte del termine), anche se fosse
possibile, ucciderebbe in ogni caso l’unità politica, il senso di appartenenza e il
patriottismo. Mancanza di affluenza alle urne, sfiducia verso la classe politica,
opposizione sfrenata, litigiosità faziosa, fanatismo dei gruppi particolari… sono tutti
segni di crisi dell’unità politica e del patriottismo che dipendono dal non sentirsi parte
di un tutto importante.
2.3. Primato dell’amicizia e criteri di giustizia
Il primato dell’amicizia sull’eguaglianza con rispetto al fondamento della
comunità politica è analogo al primato della persona sulla natura con rispetto al
supposito (all’essere umano realmente esistente). Si potrebbe parlare con proprietà
della filosofia politica che s’impernia sul primato dell’amicizia in termini di
personalismo politico. La persona è più della natura che essa ha in comune con gli altri
esseri umani, proprio come la famiglia e la comunità politica sono più di ciò che rende
i loro membri e cittadini uguali ai membri e cittadini di qualunque altra famiglia e
15
Fulvio Di Blasi, Amicizia o eguaglianza?
comunità politica: questo di più viene dall’amicizia. Lo sviluppo del discorso sui diritti
umani e sull’eguaglianza ha portato la società contemporanea a capire che alla base
dei rapporti umani, a qualunque livello, dev’esserci il rispetto e la tutela di ciò che
rende tutti gli uomini formalmente uguali, cioè della loro natura.60 I rapporti umani,
però, sono rapporti personali; rapporti che nascono e crescono sulla scia di un
incontro unico tra libertà individuali: come tali, essi sono più della comunanza formale
e dell’eguaglianza dei diritti. I diritti umani sono condizione di possibilità della
comunità politica, così come la natura razionale è condizione di possibilità della
persona.61 Nessun’inclinazione comune alla specie può però generare la persona. E
nessun elemento universale come i diritti umani, la struttura democratica, ecc., nessun
elemento, cioè, che non sia in sé sufficiente a distinguere tra gli appartenenti a diverse
comunità politiche, è sufficiente a fondarle e ad alimentarle.62 È importante riflettere
ancora sul fatto che lo spirito patriottico è irriducibile a criteri di uguaglianza
universali. I diritti umani, come tali, non giustificano l’attaccamento particolare a una
data comunità politica (e neppure a una data famiglia o squadra di calcio…). Questo è
un aspetto importante dell’essere umano (personale) che non si può sottovalutare.
Parlare del rapporto politico come rapporto di amicizia ha moltissime
conseguenze. Cercherò adesso di indicarne brevemente alcune che alterano il concetto
di giustizia come emerge dalla sola considerazione del valore eguaglianza.
2.3.1. Giustizia del ricorso a un criterio selettivo
L’instaurarsi di un rapporto umano implica necessariamente il sorgere di un
criterio selettivo rispetto alla natura umana considerata genericamente. Il rapporto tra
due soggetti A e B (che possono essere marito e moglie, fratello e sorella, allenatore e
giocatore, capoufficio e impiegato, cittadino e cittadino, ecc.) significa che tutti o
alcuni degli elementi della natura che A di per sé possiede in comune con gli altri
esseri umani acquistano una posizione privilegiata agli occhi di B e viceversa.
Qualunque sia l’intensità e la natura del rapporto, sarà sempre vero che B, in qualche
maniera, si deve preoccupare del bene di A a preferenza di quello di chiunque altro; e
ciò sia (1) con rispetto ai beni umani considerati genericamente (vita, lavoro, salute,
ecc.) sia (2) con rispetto alla novità derivante dalle scelte di A (tradizioni di gioco
familiare, lingua, religione, ecc.). Tale preferenza appare un atto discriminatorio solo
60
Per semplicità linguistica e concettuale, considero il discorso contemporaneo sui diritti umani
equivalente a un discorso sul concetto di natura umana e sulla importanza etica e giuridica di essa.
61
Il rispetto dei diritti umani si può paragonare, in questo senso, al concetto di osservanza dei
comandamenti come inizio della libertà, o libertà imperfetta, che da San Agostino in poi è patrimonio esplicito
della tradizione cristiana. Cfr. Giovanni Paolo II, Veritatis Splendor (lettera enciclica sui fondamenti della
filosofia morale e della teologia morale), Roma, Libreria editrice vaticana, 1993, n. 17.
62
Non si tratta qui di sostanzializzare la comunità politica come tale, quasi a farne un essere individuale
e personale ontologicamente autonomo. Si tratta, piuttosto, di evidenziare la dipendenza di ogni comunità
politica dalle persone che la creano e la alimentano con le loro scelte personali. La comunità politica realmente
esistente, in quanto dipende dalle scelte libere dei propri membri, è contingente e non riconducibile a soli
elementi generici della natura umana.
16
Fulvio Di Blasi, Amicizia o eguaglianza?
se si dà priorità al concetto di natura su quello di persona. Ma se si considera l’unicità
dell’essere personale appare evidente che trascurare qualcuno la cui esistenza, in
qualche maniera rilevante, s’incrocia con la nostra crea un’ingiustizia nei suoi
confronti che non sussiste (o sussiste in modo più ridotto) verso chi non abbiamo mai
incontrato.
La persona è un essere che vive di rapporti, o incontri, unici e personali (questa
è una necessità universale della natura) e a cui si fa giustizia quando non lo si tratta
genericamente ma secondo la natura di quei rapporti. Il rispetto del criterio selettivo,
in altre parole, è giusto perché è rispetto della persona; e ciò precisamente perché fare
giustizia alla persona significa rispettare non solo la sua libertà (o natura) in astratto
ma anche in concreto, in riferimento all’unicità dei rapporti che essa instaura con gli
altri.
2.3.2. Criterio selettivo come punto di vista interno del diritto
L’instaurarsi di un criterio selettivo, inoltre, sembra un presupposto
epistemologico della stessa esistenza dei diritti (umani e non). Alla filosofia del diritto
contemporanea è chiaro che non si può parlare propriamente di diritti in astratto ma
solo in concreto. Perfino parlare di un diritto alla vita o alla libertà non ha valore
giuridico vero e proprio finché non vengano specificati (a) il soggetto attivo
destinatario del dovere, (b) il soggetto passivo destinatario del diritto e (c) l’azione o
omissione oggetto del dovere e del corrispettivo diritto [in che senso avrebbe diritto
alla vita una persona di cui nessuno conosce l’esistenza e che muore di fame o di
malattia in un isola deserta?]. Sotto questo profilo, si può vedere il sorgere della
comunità politica come la prima specificazione (discriminatoria, in senso universale)
di soggetti e di risorse da cui qualsiasi azione concreta di tutela dei diritti (anche
rivolta a soggetti esterni alla comunità) può partire.
Questa prima specificazione avviene secondo il punto di vista interno e
particolare di una certa comunità politica. Essa, cioè, dipende dai caratteri di fondo
propri della cultura di quella comunità: siano essi di natura religiosa, etica, economica,
militare, artistica, ecc. Non c’è motivo – né modo – di limitare a priori la lista degli
elementi rilevanti nel processo di definizione iniziale dell’identità della comunità
(ovvero, non esistono limiti a priori al contenuto della ragione pubblica). Il punto di
vista interno della comunità è ciò che guida la scoperta e interpretazione razionale
degli stessi valori fondamentali del diritto. Il processo di specificazione dei diritti, in
altre parole, nasce e si evolve diacronicamente in una dialettica, o circolarità
ermeneutica, tra la cultura particolare di un popolo e la sua comprensione degli
elementi razionali universali della giustizia. Entrambi i poli di questa circolarità vanno
quindi consapevolmente tenuti in considerazione ai fini della definizione di ciò che è
giusto. Sia l’uomo politico che il giurista, se vogliono essere giusti, devono conoscere
molto bene e trattare con rispetto la cultura in cui operano.
17
Fulvio Di Blasi, Amicizia o eguaglianza?
2.3.3. Criterio selettivo e bilanciamento
Il criterio selettivo che accompagna la nascita della comunità politica non
riguarda, dunque, solo le persone verso cui l’azione collettiva dovrà rivolgersi con
priorità ma anche il modo di intendere le gerarchie di valori esistenti nella comunità
stessa. Ciò, almeno di primo acchito, sembra conciliarsi sia con il concetto di amicizia
aristotelico sia con l’approccio oggi predominante alla questione del bilanciamento dei
diritti. Come avevamo visto nel paragrafo 1.2. (Amicizia ed eguaglianza), infatti,
l’eguaglianza del rapporto di amicizia, secondo Aristotele, non può essere neutrale, nel
senso che ogni comunità amicale nasce dalla condivisione, anche se minima, di una
certa concezione della vita buona che, in sé, può dipendere da tanti fattori di natura
religiosa, morale, culturale, tradizionale, ecc.
Ora, se è vero (non c’è bisogno qui di esprimersi in maniera definitiva su ciò)
che esistono casi di conflitti tra diritti fondamentali che non possono essere risolti
senza il ricorso ad una gerarchia soggettiva creata ad hoc da parte del giudice, è anche
vero che tale ricorso sarebbe ingiusto se il soggetto di riferimento della gerarchia
soggettiva (mi si perdoni questo gioco di parole, che però è utile) fosse lo stesso
giudice. La gerarchia soggettiva può essere giusta solo se il soggetto di riferimento è
la comunità politica che il giudice serve. La creazione della gerarchia soggettiva
dovrebbe perciò essere descrivibile come attività interpretativa della concezione della
vita buona condivisa dalla comunità politica che il giudice rappresenta. La giustizia è
sempre rispetto della libertà; in questo caso è rispetto della libertà dei cittadini
contraenti, ovvero rispetto del patto costitutivo (in fieri) del rapporto di amicizia
politica. (Non trovo difficoltà a usare, per esprimere lo stesso concetto, l’espressione
“pratica sociale”.) Credo che la dialettica – interna all’attività interpretativa – tra punto
di vista culturale e razionalità universale è ciò che determina il progresso della civiltà
giuridica nel senso del sempre maggiore rispetto dei diritti umani: ogni cultura, infatti,
tende costantemente a giustificare se stessa secondo criteri di razionalità.
2.3.4. Giustizia della rilevanza della tradizione
Segue da sé, a questo punto, la giustizia di riconoscere, onorare e rispettare,
secondo un punto di vista interno, la storia e le tradizioni della propria nazione, dando
maggiore rilevanza a ciò che per il popolo è più rilevante. Da ciò dipende sia la
stabilità e coesione interna della comunità sia la forza ed efficacia del suo continuo
progresso interpretativo dei valori universali, o diritti umani, e perfino la capacità di
accoglienza e assimilazione di nuovi valori e di nuove tradizioni (provenienti, ad
esempio, da movimenti d’immigrazione).
Il dibattito politico di una comunità è giusto verso la persona solo se avviene in
tale contesto di valorizzazione, comprensione e rispetto; ovvero, se avviene in
dialettica ermeneutica con l’identità personale della comunità politica data dal patto
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Fulvio Di Blasi, Amicizia o eguaglianza?
costitutivo (sia come atto storico sia come rapporto in fieri). Cambiamenti bruschi
vanno tendenzialmente evitati, non solo perché imprudenti in senso machiavelliano,
ma perché ingiusti. Qualsiasi cambiamento dovrebbe sempre nascere e svilupparsi nel
confronto rispettoso col sentire comune della popolazione; il contrario costituirebbe
una violenza ideologica portatrice di divisioni e lotte sociali.
I valori tradizionali e culturali da tenere in considerazione includono cultura,
storia e qualsiasi altro elemento caratterizzante la civiltà del popolo; e naturalmente
includono la religione. Da questo punto di vista, sono certamente legittime le recenti
istanze del Papa di tenere conto, nel processo di costituzione della Comunità Europea,
della tradizione cristiana, riconoscendo il collegamento tra i valori del cristianesimo e
la formazione della cultura e civiltà europee.
Mi si consenta un altro esempio. Se nell’Italia di oggi si vietasse di mettere
crocifissi nelle aule delle scuole in favore di un atteggiamento neutrale verso la
religione, ovvero di un generico diritto alla libertà religiosa, non si avrebbe solo una
presa di posizione pubblica non neutrale sulla rilevanza pubblica della religione in
genere, ma un’ingiustizia verso la comunità politica italiana, la cui storia, cultura e
sentire sono inscindibilmente legate alla religione cattolica. Questo è ovviamente un
giudizio prudenziale che potrebbe essere sbagliato. Ciò che voglio dire, però, è che la
difesa della libertà religiosa in una comunità politica non è in contrasto con alcune
preferenze accordate ad una religione specifica qualora questa sia la religione scelta in
concreto dai membri del suo popolo e che ne ha informato storicamente la stessa
cultura politica e giuridica. La libertà religiosa va rispettata anche nel suo esercizio.
Ciò non significa che il sentire religioso del popolo non possa cambiare ma che il
cambiamento non deve avvenire per un’imposizione politica indifferente ai valori e
alla cultura che informano il sentire del popolo. Secondo questo stesso ragionamento,
se in Arabia Saudita venisse oggi riconosciuto il diritto alla libertà religiosa si farebbe
comunque un’ingiustizia se si eliminasse al tempo stesso ogni privilegio pubblico per
la religione musulmana.
2.3.5. Multiculturalismo e personalismo politico
Che rapporto c’è tra quest’impostazione personalista del problema politico e il
multiculturalismo? È difficile rispondere a questa domanda perché il multiculturalismo
si presenta tuttora più come un modo di evidenziare le aporie della neutralità liberale
(a-culturale) che come una proposta filosofico politica unitaria. Alcune proposte
multiculturaliste sembrano in realtà ingenuamente compatibili con il principio di
neutralità liberale. Esse spostano semplicemente l’attenzione dal rispetto astratto delle
libertà degli individui al rispetto dell’identità di gruppi culturali minori.63 Rispetto a
tali proposte, la differenza principale con il personalismo politico è che questo
63
Si muove in questa direzione, ad esempio, Bhikhu Parekh (Rethinking Multiculturalism: Cultural
Diversity and Political Theory, Cambridge, MA, Harvard University Press, 2000), le cui conclusioni sembrano
ripresentare al livello dei gruppi culturali le stesse contraddizioni create dalla neutralità liberale.
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Fulvio Di Blasi, Amicizia o eguaglianza?
s’incentra anzitutto sull’identità del tutto politico al cui interno sia gli individui che le
comunità minori devono poter sviluppare le proprie libertà. Nell’impostazione
aristotelica è semmai implicita un’armonica circolarità nel senso che l’identità del tutto
politico va intesa come l’incontro (o accordo) originario degli atti di libertà degli
individui e gruppi minori che crea la condivisione necessaria all’azione politica e alla
vita di quel tutto. Tra la comprensione dei valori e della cultura nazionale e la
comprensione dei valori e culture degli individui e delle comunità minori dovrebbe
esserci, in questo senso, non opposizione ma interdipendenza dialettica.
Spesso il multiculturalismo si intreccia con un relativismo culturale, o
sociologico, in cui il «bene» relativo ad una certa cultura viene prima del «giusto»; in
un modello così non c’è spazio per l’affermazione di diritti universali dell’essere
umano. Questo tipo di relativismo caratterizza, ad esempio, il MacIntyre di Dopo la
virtù e tanti autori che ad esso si sono ispirati (MacIntyre, com’è noto, ha poi cambiato
profondamente le sue idee sui diritti e sulla conoscenza della natura). Rispetto a tale
relativismo culturale, il personalismo politico fondato sul concetto di amicizia si trova
agli antipodi perché la persona non può mai sviluppare le sue scelte libere (e quindi la
propria cultura) se non muovendosi nell’ambito della propria natura (ovvero, delle
inclinazioni universali comuni alla specie). Questo modello implica un constante botta
e risposta ermeneutico tra esigenze universali e astratte della razionalità e loro
esistenza e comprensione culturale.
Un esempio evidente è il dibattito intrinseco alla libertà religiosa tra
affermazione astratta del diritto e valutazione concreta di quali azioni vanno
considerate espressioni legittime di esso. Sarebbe legittimo, ad esempio, per un
poliziotto italiano che si professi ebreo di stretta osservanza non intervenire di sabato
in una situazione di immediata emergenza che lo vedesse casualmente coinvolto? E
bisognerebbe tutelare solo religioni ritenute pubbliche (magari creandone una lista
legale) o anche religioni individuali? In questo secondo caso sarebbe, ad esempio,
necessario tutelare un cittadino che per motivi religiosi personali non volesse mai
lavorare di martedì. In un personalismo politico classico, natura (cioè, riconoscimento
di libertà e diritti fondamentali) e cultura si muovono insieme perché la libertà e
creatività della cultura equivale sempre a un modo (artistico, in senso aristotelico) di
esprimere la natura. Esso, semmai, potrebbe essere paragonato al «multiculturalismo
perfezionista» di cui parla Michael Sandel.64
Più in generale, il multiculturalismo appare compatibile con il personalismo
politico classico quando accentua l’insufficienza della «repubblica procedurale» – per
dirla di nuovo con Sandel65 – e la necessità, non solo di evitare «la dinamica
dell’esclusione» in democrazia, ma anche di avere «un’identità politica» data da valori
condivisi, o «virtù civiche», e fondata su un qualche «impegno reciproco» tra i
cittadini.66 Qui il multiculturalismo non si oppone in toto al liberalismo delle
64
Si veda la sua «Prefazione alla seconda edizione» di Liberalism and the Limits of Justice, cit.
Cfr., M. Sandel, Democracy’s Discontent, Cambridge, Harvard University Press, 1996.
66
Cfr., C. Taylor, “A Tension in Modern Democracy”, cit.
65
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Fulvio Di Blasi, Amicizia o eguaglianza?
democrazie occidentali ma solamente al liberalismo neutrale e astratto che domina il
dibattito tra utilitarismo e deontologismo kantiano.
Conclusione
L’attenzione indiscussa per l’eguaglianza di tutti gli uomini e per i diritti umani
è forse la conquista più importante dei sistemi giuridici moderni e della filosofia
politica contemporanea. La tendenza odierna degli stati a guardare oltre il proprio
territorio e la ricerca di un ordine internazionale universale cosmopolita sono segni di
grande speranza per il futuro della razza umana. Questa conquista e questi segni li
dobbiamo in gran parte al modo in cui il pensiero moderno si è concentrato sulla
natura umana e ha sviluppato un discorso fortemente razionale su di essa.
Il pensiero classico greco e medievale, d’altra parte, ci continua a ricordare che
l’uomo non è solo natura ma anche, e soprattutto, persona: vale a dire, che la natura
umana vive e si esprime sempre in una cultura, in un contesto variegato e complesso
fatto di scelte individuali uniche e irripetibili. I rapporti sociali non sono solo naturali
ma interpersonali, e il valore che li fonda – l’amicizia – s’incentra non sull’essere
umano generico ma, appunto, sulla persona… su un senso molto speciale di
appartenenza reciproca che è necessariamente escludente e discriminatorio, e che, al
livello della comunità politica, si esprime soprattutto nei valori patriottici.
La comunità politica – come la famiglia e ogni altra associazione umana – è
un’opera d’arte della libertà fatta coi colori e col marmo della natura. Gli attuali
dibattiti sulla globalizzazione e sul multiculturalismo sono indici di una insufficienza
del solo riferimento ai diritti umani in politica. Negli ultimi due secoli ci siamo
concentrati soprattutto sulla razionalità della natura e sulle sue esigenze universali.
Adesso è chiaro che dobbiamo raggiungere un’ulteriore sintesi teorica e pratica che
armonizzi l’astratto e il concreto dell’esistenza umana. È sempre più evidente che il
compito delicato e inesauribile dei teorici e operatori politici è quello di cercare di
coniugare le esigenze universali della natura umana con l’identità specifica di ogni
comunità politica derivante dalle personalità di chi l’ha creata e continua ad
alimentarne i valori. Questo è un compito di giustizia che, come spero di aver
mostrato, ha molti riflessi sia diretti che indiretti nella pratica politica e giuridica.
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