Quanto grande è l'insipienza e l'ignoranza di coloro i quali affermano che le città del Lazio dette pelasgiche, le cui mura megalitiche sono tanto superiori all'Opera Quadrata, sono state fabbricate dai Romani! C. DE CARA, Gli Hetei-Pelasgi NELLE PROSSIME PAGINE TROVERETE UN GLOSSARIO SULLE PRINCIPALI CITTÀ ITALIANE DI ORIGINE SABINA; GRAN PARTE DEL MATERIALE È STATO TRATTO DAL LIBRO DELL’ING. MARIO PINCHERLE: “LA CIVILTÀ MINOICA IN ITALIA – LE CITTÀ SATURNIE - ” (PACINI EDITORE, 1990), PER IL QUALE RINGRAZIAMO L’AUTORE E I FIGLI ADA E MAURIZIO PINCHERLE. Gli esempi di costruzioni in opera poligonale sono numerosi, sparsi per tutta l'Italia centromeridionale. Molte di queste mura ciclopiche ancora devono essere recuperate nel loro eccezionale valore mediante opportuni scavi archeologici. Tali avanzi imponenti si trovano specialmente nella Sabina, terra che fin dall'antichità fu considerata la culla di questo straordinario sistema costruttivo che tanto attirò l'attenzione dell'architetto di Augusto: Vitruvio Pollione. In Grecia e nell'Egeo, per merito di grandi esploratori come Schliemann, si è fatta luce sulla civiltà micenea. Alcuni studiosi hanno tentato di dimostrare l'esistenza di una civiltà a essa contemporanea sul nostro suolo, ma fin dal XIX secolo non ebbero altrettanta fortuna. L’abate francese Petit-Radel elencò più di centoventi Larisse o Larse; non è perciò possibile illustrare in quest’opera tutte le muraglie ciclopiche a blocchi poligonali esistenti nell'Italia centro-meridionale. Dovremo fermare la nostra attenzione sulle Larse più caratteristiche e più importanti1. Cominceremo dalle più famose, le città saturnie: Alatri, Anagni, Arpino, Atina e Ferentino (Aertum). Le prime quattro fanno da corona alla quinta, la città sacra a Fere (o Feronia), la grande Dea Madre, dea della fertilità, protettrice dei boschi e delle messi. Le «città Saturnie», poste ai bordi di colli scoscesi, all’epoca della costruzione erano raggiungibili dal mare. ALATRI (Aletrium) Abitata dagli Ernici nell’Età del Ferro, costituisce un meraviglioso esempio di tecnica muraria ciclopica. Ha il pregio di possedere ancora integre le mura dell'acropoli, che sono contemporanee a quelle della grande cinta della Larsa. Alatri sorge su una collina isolata su tutti i lati. Questo fattore naturale ne ha favorito la recinzione facendo sì che i blocchi poligonali venissero addossati al vivo taglio della roccia. Le mura hanno un perimetro di tre chilometri e mezzo. I lati dei monoliti sono perfettamente rettilinei per ottenere un perfetto combaciamento. Laddove sarebbe rimasto qualche vuoto, questo fu riempito con tasselli lavorati ad arte. Il volume dei monoliti è notevolissimo e le superfici in vista sono levigate. La Porta Bellona (belu+enu) si apre verso l'esterno ad imbuto e certamente doveva essere sormontata da un architrave monolitico. In questo tratto di mura si notano sculture a bassorilievo su alcuni blocchi. Rappresentano figure ormai quasi illeggibili, poste in piedi o sedute. Un vecchio appare adagiato e il suo viso è doppiamente barbuto. Queste figure furono scolpite probabilmente a scopo apotropaico e propiziatorio. G. LUGLI, La tecnica edilizia romana 1 Molte delle notizie relative alle Larse sabine sono tratte dall'opera di G. LUGLI, La tecnica edilizia romana, ed. G. Bardi, Roma 1957. La porta Bellona è ubicata sul fronte settentrionale della cinta cittadina ed è il principale innesto al sistema stradale urbano. In origine la porta era dotata di pilastri laterali in opera poligonale, un architrave monolitico, un vestibolo e una controporta. Oggi di tale struttura rimane solo qualche reminiscenza. La Porta assunse il nome di San Pietro in epoca paleocristiana, quando con tale nome fu indicato il colle verso cui guarda la porta: su di esso era sorta una chiesa dedicata all'apostolo e un convento, ma in epoca precristiana vi sorgeva un tempio dedicato alla Dea Bellona. L'ingresso, benché privo del caratteristico architrave monolitico, conserva sulle pietre terminali degli stipiti due arcaici bassorilievi (uno all’esterno della porta, uscendo sulla sx, l’altro all’interno, sulla sx entrando) notevolmente danneggiati2, uno dei quali è stato interpretato come raffigurazione della dea Bellona; l'altro è presumibilmente legato a Priapo e al culto della fertilità. La via principale della città porta all'acropoli che è posta circa ottanta metri al di sopra di essa. Lo spazio dell'acropoli è costituito da una piazza trapezoidale. Il muro di cinta è altissimo e rasenta i venti metri. I blocchi sono perfettamente lavorati e combacianti tra loro, pur essendo di forme poliedriche svariate e singolari. I piani di posa orizzontali (cubilia) sono dappertutto evitati, salvo presso gli stipiti delle porte. Le facce in vista sono levigate con cura e perfettamente a piombo. Esistono due porte di accesso all'acropoli. La «Porta di Civita», sul lato sud, è famosa per l'architrave che la ricopre, lungo m. 5,14, profondo m. 1,80 e alto m. 0,45 (peso 27 tonnellate, secondo in Europa solo alla “Porta dei Leoni” di Micene): poggia a incastro sopra gli stipiti per evitare lo slittamento. Lo stipite sinistro è formato da grandi blocchi di taglio omogeneo, mentre quello di destra è fatto con blocchi molto differenti. La luce della porta è di m. 2,79 X m. 4,50. Questa era chiusa da un cancello o da travi, come testimoniano i fori ancora presenti nell'architrave, e immette in una galleria a dolmen lunga quasi undici metri. La scalinata che conduce alla porta è parte dei rifacimenti ottocenteschi. A lato della porta si trova una cisterna, scoperta durante recenti lavori, che si ritiene sia la stessa nominata nell'epigrafe del censore Lucio Betilieno Varo tra le opere da lui fatte realizzare nel II secolo a.C.. Nel saliente che le mura formano ad occidente della Porta di Civita si aprono, ad altezza d'uomo, tre nicchie rettangolari. I blocchi delle pareti di fondo sono mobili e venivano estratti durante una festa rituale al mezzogiorno dei solstizi. I raggi del sole entranti dalle nicchie andavano a colpire un sacro Betyl posto su un altare interno3. La seconda porta si trova nel lato nord. Questa «entrata» è simile alla precedente ma più piccola, e immette in un angusto corridoio ascendente, perfettamente conservato. In alto a sinistra sono visibili delle iscrizioni in alfabeto pelasgico. Sull'architrave, esteso per 3,35 m. in lunghezza e 0,80 m. in altezza, sono scolpiti tre falli. La simbologia fallica, usata come attributo di potenza, riassume la forza vitale. In Grecia emerge nei miti di Dioniso, di Ermete, di Priapo, il quale ultimo, a Roma, acquisisce il carattere di divinità della creazione (Iuppiter). Questo simbolismo risale, in Grecia, a oltre tremila anni a.C. perché l'Ermes Itifallico (l'Ermete 2 Secondo Marianna Candidi Dionigi, il cattivo stato di conservazione dei bassorilievi sarebbe dovuto al «costume che vi è tra gli Alatrini (costume che si dice abbia avuto origine dal tempo che la Religione Cristiana si introdusse in Alatri) di portarsi il secondo giorno di Pasqua ad offendere con i scherni e colpi di sassi questi bassorilievi, che asseriscono fossero alquanto indecenti; avendo forse voluto il popolo dimostrare di aver abbandonato l'idolatria, con prendere in dispregio l'immagine di un falso Nume» (da Marianna Dionigi, Viaggi in alcune città del Lazio che diconsi fondate dal Re Saturno, Roma, 1809). 3 Informazione riferita da Vincenzo Bianchi. Trismegisto, in Copto = «tre volte potente») vi era già venerato. Questo simbolo si trova in Anatolia, nella Frigia, a Creta e nel Peloponneso, come ad Alatri, sui frontoni delle porte. Il triplice itifallo corrisponde, nella metrica sacra, alla TRIPODIA TROCAICA. I tre trochei rappresentano tre coppie di sillabe (lunga-breve; lunga-breve; lunga-breve), su cui si basavano i CANTI ERMETICI, i SATURNALI, i VERSI ITIFALLICI, esaltanti la fecondità, la CANTILENA SABAZIA (Nama! Nama! Nama!) e le SIMODIE. Lo stesso simbolo, concepito come una tripla Tau, è l’immagine più importante dell’Ordine dell’Arco Reale nella massoneria del rito di York. Le tre “T” allacciate assieme raffigurano il potere del re, del sacerdote e del profeta, conferiti all’iniziato insieme ad alcuni segreti specifici (FIGURA). Purtroppo questo simbolo, sulla porta di Alatri, è stato in parte fatto scalpellare dallo zelo religioso, all'epoca in cui la città faceva parte dello Stato della Chiesa. Lungo il pendio che si allarga al di sotto del lato a nord, si trovano i resti di un portico fatto realizzare dal censore Lucio Betilieno Varo - nella seconda metà del II secolo a.C. - per collegare l'acropoli al foro cittadino. Al centro del lato orientale la roccia sostituisce la muratura fino ad una certa altezza, poi l'opera poligonale riprende. All’angolo sud-orientale, rivolto ad est, si scorge l’altorilievo di un’aquila, la cui testa è stata mozzata, ma di cui si scorgono bene le ali e le zampe. Prima di vederlo coi nostri occhi, ci siamo affidati a numerosi testi che riportavano la presenza di un toro o di un ariete. Dopo averlo potuto ammirare da pochi centimetri, possiamo affermare con estrema sicurezza che si tratti di un’aquila o comunque di un rapace. Il livello attuale della strada fa sì che la scultura appaia al livello del suolo, mentre anticamente si sarebbe trovata a circa tre metri e mezzo di altezza. Suddetto angolo dell’acropoli poggia all’interno su uno sperone roccioso le cui sommità sono visibili salendo la scalinata di Porta Civita e girando verso destra. Su una di queste “punte” è inciso il simbolo della triplice cinta (vedi foto). Lo stesso simbolo si trova a Ferentino, scolpito su un muretto di fronte all'antico Mercato Romano4. Ancora lo si vede a Castro dei Volsci, sulla soglia in pietra dell’attuale Monastero di San Nicola5, oltre che sulle mura micenee dell’acropoli di Atene. E’ curioso che la triplice cinta fosse in uso presso i Celti per segnalare i luoghi delle riunioni druidiche. Anticamente lo spazio racchiuso dalle mura dell’acropoli era completamente piano e non presentava il lieve pendio che si innalza oggi verso la cattedrale di San Paolo, costruita nel IX secolo. Quest’ultima poggia sul lato nord sugli avanzi di un muro ciclopico che in epoca sabina sosteneva il piazzale rialzato di Saturno, raggiungibile da una scalinata rivolta ad est. I resti del muro sono alti 2 metri e si estendono in lunghezza per 32 metri, poggiati sulla viva roccia. Questi costituivano la “terza” cinta, che completava il quadro assieme alla cinta dell’acropoli e alla cinta cittadina. 4 Versioni più moderne si trovano incise, sempre a Ferentino, nel Monastero di San Nicola (VI secolo) e nella Chiesa di Santa Maria Maggiore (XIII secolo). 5 Il Monastero di San Nicola è del VI secolo, ma l’incisione, fatta sulla roccia naturale, potrebbe essere precedente. Un’altra incisione, sicuramente posteriore al monastero, si trova circa a metà della scalinata di un ingresso laterale. Ai piedi del muro troviamo una sporgenza rocciosa naturale, alta e profonda un paio di metri, spaccata in due da una netta fenditura coi bordi levigati e larga una ventina di centimetri. Il mito vuole che sia stata tagliata dal fulmine di Eracle. Al centro del piazzale c’era la cella oscura con l’altare di Saturno, nella quale, come nelle Ziggurat mesopotamiche, avveniva l’incontro con la divinità. La somiglianza con tali strutture si evince meglio nella ricostruzione in figura. Il nome “Alatri” appare su due tavolette d’argilla (ARM I.39, ARM IV.28) rinvenute negli archivi del palazzo reale di Mari, sul medio corso dell’Eufrate: risalgono al XVIII secolo a.C., quando la città era in mano agli Assiri. L’imperatore assiro Shamshi-Adad I inviò il figlio Yasmah-Adad, re di Mari, a conquistare Alatri. In una lettera inviata al padre, Yasmah-Adad scrive: “Alatri è forte, i suoi bastioni sono quelli antichi e non ne sono stati costruiti altri. E’ costruita in un’altura e i suoi bastioni sono enormi”. C’è forse un legame con l’Alatri di cui stiamo parlando? Del resto le origini dei Sabini erano mesopotamiche. Le vicende di Alatri non sono chiare. Si ignora perfino la data di fondazione della colonia romana. Nel 306 a.C. Alatri appare nel concilio dei popoli Ernici che doveva deliberare la guerra contro Roma. Nel medioevo l'acropoli divenne parte del centro abitato: al suo interno sono conservate le rovine di tale insediamento, distrutto nel 1326 dopo la cacciata dell’occupante Francesco de Ceccano. Qualche numero su Alatri… Giulio Magli, uno dei più importanti esperti di archeoastronomia in Italia, in uno dei suoi saggi scrive di Alatri: <<Alatri è stato, forse, il luogo in Italia in cui l'archeoastronomia è stata pionieristica con le ricerche di Don Giuseppe Capone agli inizi degli anni Ottanta. Ricerche poi pienamente confermate da ulteriori studi. Don Giuseppe Capone è stato il primo ad accorgersi che la città era pianificata su base radiale, cioè aveva un centro privilegiato, cosa sicuramente non comune nel mondo romano. L'allineamento principale della città era orientato verso il sorgere del sole al solstizio d'estate. Poi dopo, a ciò si sono aggiunte varie altre informazioni. Per esempio Don Giuseppe ha proposto che la disposizione dell'acropoli fosse ispirata dalla Costellazione dei Gemelli: io stesso ho trovato alcuni allineamenti verso delle stelle molto brillanti, molto significative della costellazione.>> Alcune costruzioni ad Alatri sono orientate verso stelle che non si vedono più nel nostro emisfero per effetto della precessione degli equinozi. Molte stelle si trovano ora sotto l'orizzonte, in particolare le stelle del Centauro e della Croce del Sud. Eminenti studiosi, tra cui lo stesso Professor Magli, hanno riscontrato degli allineamenti verso queste stelle, scomparse proprio nel periodo romano-repubblicano, nel cui mondo queste stelle non riscontravano alcun interesse. L'intera città di Alatri è stata costruita in base al percorso annuale del Sole, come possiamo osservare sulla cartina (Schema 01), dove vediamo le mura e l'acropoli di Alatri in centro, rappresentate in pianta. Alatri ha sette porte principali: la prima si trova nel punto E (porta S.Benedetto), la seconda nel punto I (porta del Girone), la terza nel punto Q (porta S.Pietro), la quarta nel punto L (porta Portati), la quinta nel punto H (porta S.Nicola), la sesta nel punto R (Portadini) e la settima nel punto G (porta S.Francesco). Queste porte si trovano tutte alla stessa distanza dal punto 0, che è il centro di Alatri e si trova sull'acropoli. Il solstizio d’estate, il 21 giugno, il sole sorge nel punto A; se ci mettessimo nel punto 0 e guardassimo ad est, lo vedremmo sorgere proprio sull'angolo dell'acropoli, cioè nel punto 1. Le ombre proiettate dagli alberi nel punto A convergerebbero sul punto 0. Alla sera, se ci rimettessimo nel punto 0, vedremmo tramontare il Sole nel punto E, cioè proprio su una delle porte. Anche qui le ombre proiettate dagli alberi convergerebbero di nuovo sul punto 0. Il primo vertice dell'acropoli (il punto 1) e la prima porta (il punto E) sono stati tracciati. Poi se disegniamo la perpendicolare alla retta A-B tracciata dal sorgere del Sole, cioè la retta C-D, troveremo alle estremità opposte delle mura due porte minori, chiamate "pusterle”. Alatri è stata disposta secondo i quattro angoli cardinali: se osserviamo la cartina, vediamo che l'asse M-N segna la retta nord-sud. I due lati dell'acropoli, 1-3 e 4-5, sono paralleli a tale retta. Se osserviamo dal punto 0 le ombre proiettate dal sole all'alba nei giorni degli equinozi, vedremo tracciarsi la retta F-G, che passa a metà del muro 1-3, nel punto 2, attraversa il punto 0 e va a disegnare un'altra porta di Alatri, nel punto G. All'alba del solstizio d'inverno il sole, nascendo nel punto H, traccia la retta H-I che ha ai due estremi altre due porte. Al tramonto dello stesso giorno, il sole scomparendo nel punto R, traccia la retta R-L, disegnando ancora due porte. L'ultima porta, quella nel punto Q, si trova a metà dell'angolo disegnato da M-0-L. Altro particolare stupefacente di questo fabbricato, sono le misure usate per realizzarlo. Nel mediterraneo antico, le unità di misura erano il "cubito" ed il "selil": un cubito corrispondeva a 0,5525 metri e un selil a cinque cubiti. La retta A-B misura 720 cubiti e, alla metà esatta, cioè a 360 cubiti dai rispettivi estremi, si trova il punto 0. La retta C-D, corrispondente alle due pusterle, è perpendicolare alla retta A-B e misura 1080 cubiti: 72 e 108, due numeri legati alla precessione degli equinozi che ritornano continuamente in siti come Giza ed Angkor e che non possono trovarsi qui per caso. La distanza dal punto 0 al punto 1 è di 165 cubiti: se moltiplichiamo questa misura per due pi-greco otteniamo la misura del perimetro dell'acropoli. Questo significa che il rapporto tra il “raggio” dell’acropoli ed il suo perimetro è lo stesso che si realizza in un cerchio, lo stesso meccanismo che si realizza tra l’altezza della Grande Piramide ed il suo perimetro. L'acropoli presenta due porte d'ingresso ed in entrambe il rapporto altezza/base è pari alla sezione aurea. ARPINO (Arpinum) Arpino, la patria di Caio Mario e di Cicerone, è situata su un alto colle e si presenta come uno dei maggiori centri fortificati della media Valle del Liri. Città antichissima le cui origini si perdono nella notte dei tempi, entrò definitivamente sotto il controllo di Roma negli ultimi anni del IV secolo avanti Cristo. La Larsa circondava due colli contigui, scendendo e risalendo due volte il declivio frapposto, con un percorso di 3200 metri ed una altezza che, nei tratti più conservati, supera i sette metri. Entrambi i colli sono oggi ancora abitati col nome di Civita Falconiera e di Civita Vecchia, quest'ultima più elevata. Vi si riscontrano entrambe le tecniche costruttive, cioè l'Opus Antiquum, Poligonale, e il suo «restauro» in Opus Reticulatum vel Quadratum. Le due diverse tecniche costruttive impiegano due materiali differenti, la roccia calcarea omogenea, con cui sono realizzati i blocchi poligonali dell'Opus Antiquum, e la puddinga (non omogenea, ma STRATIFICATA) che dà luogo a monoliti più piccoli già squadrati dalla natura e tendenti alla regolarità dell'Opus Quadratum. L'Opus Quadratum è molto posteriore e si riferisce ai tratti di mura che i Romani, alla fine del IV secolo a.C, ripararono e ricostruirono quando Arpino divenne una prefettura romana. Questi rifacimenti relativamente recenti sono anche testimoniati da alcune iscrizioni latine. La porta dell'arco, attraverso la quale si accede alla Civita Vecchia, è famosa per la sua bellezza e la suggestione della struttura ad ogiva. Ha forte sapore orientale e si presenta come una «porta scea6». Questa porta ogivale fa pensare alla porta dell'antica Troia. Infatti si apre come un saliente fatto in modo da obbligare l'attaccante a procedere in avanti esponendo il suo fianco destro, che non era protetto dallo scudo ma rimaneva scoperto e vulnerabile. 6 Scea (o scevola) significa “mancina”. FERENTINO (Aertum) Questa Larsa, dedicata alla Dea Madre Fere (o Feronia), è una delle perle del firmamento sabino in Italia. Era il centro più importante degli Ernici. Occupa una collina di forma ovale che scende in una valle a dolce pendio con molti terrazzamenti. Questo colle ebbe due recinzioni: la grande recinzione, a quota di 250 metri sul livello del mare, e la piccola recinzione che circonda l'acropoli e si erge a 315 metri sul livello del mare. Le poderose mura di Ferentino sono «terra-pienate» cioè poste a contatto col monte. Sono più larghe alla base. Nella grande recinzione i massi sono tondeggianti, non perfettamente rifiniti, e tra un blocco e l'altro restano degli interstizi vuoti. Solo presso le porte la rifinitura si perfeziona e i blocchi degli stipiti tendono a livellarsi orizzontalmente. Il tratto più interessante di queste mura è posto presso la famosa «Porta Sanguinaria», che volge a meridione e si innalza per sette metri di altezza e sei metri di profondità. La porta è larga 2,30 metri ed è alta 4,20 metri fino all'imposta dell'arco a tutto sesto. Quest’ultimo, costruito con piccoli conci calcarei assieme al coronamento dell'antichissimo muro, appartiene all’opera di restauro realizzata dai Romani in Opus Quadratum vel Reticulatum. Certamente in origine la Porta Sanguinaria doveva essere ricoperta da un enorme architrave monolitico, a giudicare dall'incastro che ne è rimasto. Sopra alla zona in Opus Quadratum vel Reticulatum, realizzata dai Romani, si osserva una terza zona formata da blocchetti squadrati ma irregolari, uniti con abbondante malta. È un «coronamento del coronamento» e fu realizzato nel Medioevo. Si notano dunque, in questa «Porta Sanguinaria», tre epoche distinte: l'epoca sabina, quella romana ed infine quella del rifacimento medievale. L'irregolarità del colle portò, come conseguenza, ad una pianta irregolare della città, senza cardo né decumano ma con vie tortuose. Una completa descrizione delle mura di Ferentino si trova nella preziosa monografia di Th. Ashby: Ferentinum, in Röm. Mitt., 1909, p. 1 sgg., tavv. I-IV. Il periplo completo delle mura è facilmente rilevabile, soprattutto nel lato sud-ovest. Anche le altre porte hanno perduto l'architrave primitivo. Notevoli sono un «arco cieco» o «falso arco» presso la Porta Sanguinaria e un simbolo fallico presso lo spigolo di un'altra porta, quella che conduce all'acropoli, i cui avanzi sono tutti di epoca romana e quindi realizzati in Opus Quadratum vel Reticulatum. Le fonti storiche parlano di Ferentino a cominciare dal 413 a.C. quando i Volsci, sconfitti dai Romani, vi cercarono rifugio. Le mura poligonali in parte sono eseguite addossando i blocchi al taglio vivo della roccia e in parte sono eseguiti in trincea. ATINA (Atina) Situata su un colle a più di 400 metri sul livello del mare, era città dei Volsci. Cicerone definisce «fortissimi7» i suoi abitanti. In Atina vi sono le vestigia di un tempio, chiamate «tomba di Saturno». Virgilio ci parla di Atina potens8, mentre altre fonti letterarie riferiscono ivi la presenza di antiche sacerdotesse di Cerere e di Afrodite. Le mura sono poligonali di tipo non rifinito e in esse si apre la cosiddetta porta Aurea, età però romana. ANAGNI (Anagnia) È situata a 460 metri sul livello del mare, su uno sperone che domina l'ampia valle del fiume Sacco. È sulla via tra Roma e Napoli. Dice il Lugli: Avanzi di terme (sul luogo della chiesa di S. Chiara) e un mitreo (sotto la cattedrale). Cinta da mura di blocchi squadrati, questa città era la capitale degli Ernici. Fu conquistata dai Romani nel 306 a.C. e ridotta prima a prefettura, poi a municipio, tuttavia mantenne la sua importanza per la forte posizione strategica. È descritta dall'imperatore Marco Aurelio9, che la visitò su suggerimento del suo precettore Frontone. L’imperatore notò la scritta “FLAMEN SUME SAMENTUM” sui due lati della porta cittadina. Si trattava di un avviso rivolto al sacerdote affinché si ricordasse di porre un piccolo segnale sacro sulla cima della sua mitra prima di entrare, secondo le prescrizioni del culto orientale chiamato Scekinà. 7 CICERONE, Pro Planco, VIII, 21. VIRGILIO, Eneide, VII, v. 630. 9 Marco Aurelio, Lettera all’istitutore Marco Cornelio Frontone, ritrovata dal cardinale gesuita Angelo Mai nella biblioteca Ambrosiana. Questa descrizione appare nell’opera di Mario Pincherle Il porto invisibile di Orbetello, Pacini Ed., Pisa 1989. 8 CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE SULLE LARSE SATURNIE Scrive Mario Pincherle Dall'alto di Montenero lanciavo uno sguardo verso la pianura e cercavo di ritornare con la fantasia all'epoca delle antichissime Larse. Col ritrovamento della cinta muraria di Montenero si completava l'anello formato dalle Larse. Una ventina di fortezze circondavano l'antico bacino 'saturnio' del Liri e del Sacco. Ogni Larsa era in vista delle fortezze adiacenti. Ai piedi di questi colli che sostenevano le alte mura scorrevano i due fiumi che cinquemila anni fa dovevano essere ricchi d'acqua e forse navigabili. Era possibile risalire fino lì la corrente di quei fiumi provenendo dal mare? Per rispondere a questa domanda sarebbe stato necessario effettuare 10 una verifica geologica . Pincherle supponeva che quella cerchia di venti Larse, posta su un anello di colli mediamente a trecento metri sul livello del mare, avesse potuto circondare un mare interno, in comunicazione col mare aperto che quattromila anni fa occupava la zona delle Paludi Pontine. I geologi di Bologna da lui interpellati a questo proposito (prof. Samuele Sartoni, direttore del Dipartimento, e prof. Ciabatti, geomorfologo), gli consigliarono di mettersi in contatto coi loro colleghi geomorfologi e stratigrafisti dell'Istituto di Scienze Geologiche dell'Università di Roma. Il prof. Ciabatti si mostrò comunque favorevole alla sua ipotesi del «mare interno». All'Università di Roma poté parlare col professor Odoardo Girotti e col professor Alberto Malatesta. L’ingegnere aveva fatto uno studio accurato sulle cartine dell'Istituto Geografico Militare e due esperti geologi lo avevano aiutato a controllare le isoipse. Così, dopo aver parlato coi geomorfologi di Roma, esperti delle zone «saturnie», poté formulare le seguenti conclusioni generali relative alle città sabine della Ciociaria: 1) All'epoca della fondazione di queste Larse, e cioè circa tremila e cinquecento anni fa, non esisteva un vero e proprio mare interno, tuttavia i bacini del fiume Sacco e del fiume Liri non erano stati ancora invasi da milioni di metri cubi di materiale alluvionale11. Probabilmente all’epoca questi fiumi erano navigabili dalla foce fino alle Larse. Esistevano con sicurezza due larghi e profondi 'fiordi' che, provenendo dal mare aperto, si inoltravano uno, verso la Larsa di Montecassino, e l'altro, verso le Larse di Ferentino e Alatri. L'esistenza di questi 'fiordi' è convalidata dal fatto che le quote attuali dei due bacini fluviali, in corrispondenza dei 'fiordi' ipotizzati, sono assai prossime all'attuale livello del mare. Basterebbe dragarli per una profondità di venti metri e il mare si insinuerebbe in essi raggiungendo Cassino e Priverno! L'intelligente archeologa di due secoli or sono, Marianna Candidi-Dionigi, parlava di uno di questi due 'fiordi' nella sua opera Viaggi in alcune città del Lazio. A proposito delle mura di Atina riferisce: Mi vien detto che gli agricoltori abbiano scoperto, ne' tempi andati, qualche traccia di un grande acquidotto che dalla distanza di varie miglia, traversando l'interno dì una montagna e la valle Giordana, conduceva le acqua in Atina. Questa valle Giordana, o volgarmente detta lordana, deriva dal vocabolo Firdana o Fiordana a significare una valle stretta e lunga e un bacino di mare posto tra due catene di monti laterali. 10 Mario Pincherle, La Civiltà Minoica in Italia. II livello del mare di cinquemila anni fa era circa uguale a quello attuale (Cfr. M. PINCHERLE, Il porto invisibile di Orbetello, Pacini Ed., Pisa 1989, p. 145). 11 2) Attraverso questi due 'fiordi' esisteva una comunicazione fra la zona delle Larse e il mare aperto che allora era arretrato di sedici chilometri rispetto alla riva attuale. 3) Le Larse saturnie, insieme a quella di Sora, erano arroccate in vicinanza dei due 'fiordi' navigabili e queste fortezze sabine potevano utilizzare porti situati al termine dei 'fiordi' in due zone che attualmente si trovano a quaranta metri sul livello del mare ('fiordo' dell'Amaseno) e a venti metri sul livello del mare ('fiordo' del Garigliano, col suo affluente Sacco). L'ipotesi che questi 'fiordi' fossero navigabili si basa sulla constatazione che tutte le Larse greche, egee e italiche sono poste in vicinanza del mare e che la civiltà sabina è una civiltà tipicamente marinara. Secondo Omero, anche il monte Circeo era un’isola, e anche lì troviamo una larsa sabina. SORA (Sora) È situata a 300 metri sul livello del mare, in un'ansa del fiume Liri, ai piedi del brullo monte S. Casto, presso lo sbocco del fiume in pianura. Dopo i Sabini fu abitata dai Volsci, per essere poi occupata dai Romani nel 345 a.C.. Fu contesa tra Romani e Sanniti fino al 305 a.C.. Nel 303 a.C. vi venne dedotta una colonia latina. Durante la seconda guerra punica si rifiutò di prestare aiuto ai Romani e fu quasi completamente distrutta. Vi fu quindi dedotta una seconda colonia di veterani. L'acropoli era sul monte S. Casto, ove restano brevi tratti di mura poligonali. CASSINO (Casinum) Abitata dai Volsci, divenne colonia romana durante l'impero. Notevoli le rovine della cinta muraria. L’altura di Montecassino ne fu l’acropoli. I bombardamenti della seconda guerra mondiale hanno portato alla luce tratti di mura ciclopiche appartenenti all’antica Larsa nei pressi dell’attuale abbazia. VEROLI (Verulae) È situata a 570 metri sul livello del mare, su uno sperone dei monti Ernici sul quale si arrampicano strade a forte pendenza, spesso dotate di scalinate. Fu città degli Ernici, ma non partecipò alla ribellione contro Roma verso la fine della seconda guerra sannitica (307 a.C). Rimangono notevoli tratti di poderose mura in Opus Antiquum con strutture a blocchi poligonali. CASTRO DEI VOLSCI Castro dei Volsci sorge a 385 metri sul livello del mare, sull'estremo sperone del versante settentrionale dei Monti Ausoni, arroccata sulla valle del Sacco. Si presenta come luogo ideale per una Larsa e nelle sue vicinanze sono state effettuate notevoli scoperte archeologiche. In un sopralluogo di una ventina d’anni fa, Mario Pincherle è salito su una collina in vicinanza di Castro dei Volsci. Questo piccolo monte, alto circa trecento metri, è posto in posizione strategica. Ha tutti i suoi fianchi ripidi e, come direbbe Tito Livio, assai «confragosi». In alto vi è uno spiazzo che si sarebbe assai bene adattato a sostenere le mura di cinta di una Larsa. Il fiume Sacco, con una sua ansa che forma un tornante, si avvicina al bordo di questo colle che ha il nome di «Montenero Diruto». La parola «diruto» fa pensare a delle rovine. Verso la sommità del colle «confragoso» esistono gli avanzi di una cerchia muraria in cui sono rilevabili dei blocchi di grande dimensione e forma tipicamente poligonale. Nel suo sopralluogo l’ingegnere ha potuto vedere questa cerchia di mura e fotografarne i punti più rilevanti. Esiste nella cerchia anche un’apertura di ingresso formata da blocchi di grosse dimensioni che presentano un angolo a prora di nave. ALBA FUCENSE (Alba Fucens) Il Fùcino è un altopiano della Marsica, in Provincia dell'Aquila, situato tra i 650 e i 680 metri s.l.m., contornato da rilievi montuosi, quali la Vallelonga e il gruppo Sirente-Velino. L'altopiano prende il nome dal lago carsico del Fucino, terzo d'Italia per estensione, prosciugato nel 1878 per volere del principe Alessandro Torlonia. Nell’antichità, secondo il poeta greco Licofrone, il lago era detto “Forco”, dal nome del padre di Medusa la Gorgone. Il bacino del Fucino, secondo Strabone (cfr. Lib. V, 22), era simile a un «grande mare interno» e occupava una immensa conca, tutta circondata da monti scoscesi. La vasta distesa di acque salate occupava anche le pianure poste a nord-ovest e denominate Piani Palentini e Piani d'Alba, riunite in un bacino unico, diviso in due parti dal Monte Silvano che, come uno sperone, costituisce il prolungamento verso nord della catena appenninica. Questo grande bacino anticamente doveva avere una estensione di cinquantamila ettari ed era in comunicazione con un'altro esteso bacino che oggi si è trasformato nell'altopiano di Ovindoli, in conseguenza di frane e alluvioni. Un grande terremoto aprì per tutta la sua lunghezza la catena montuosa che faceva da argine sud al vasto mare interno, formando la Valle del Liri o Valle Roveta il cui nome, dal latino «ruere», evoca il gigantesco «rovinio» avvenuto in epoca storica12. In questa vasta e lunga gola furono trascinate enormi quantità di materiale, e l’acqua si abbassò di oltre 50 metri liberando i Piani Palentini e i Piani d'Alba: così il bacino del Fucino divenne un lago. Sul bordo del bacino Fucense, ai piedi del massiccio del Monte Velino che domina l'altopiano, era un tempo ubicata l'antica città di Alba Fucens. Le sue mura furono studiate oltre un secolo fa da uno specialista della materia, Carlo Promis (Le antichità di Alba Fucense negli Equi, Roma 1836). Vi sono stati eseguiti scavi sistematici da una missione archeologica belga composta dai professori F. De Visscher, Fr. De Ruyt, J. De Lael e J. Mertens13. Nell’Età del Ferro, dopo la “diversificazione” dei Sabini, la città passò agli Equi. Secondo Strabone14, Appiano15 e Livio16, Alba Fucense fu strappata agli Equi dai Latini nel tentativo 12 Cfr. S. De Filippis, Storia del prosciugamento del Lago Fucino, 1893 Notizie degli Scavi (rivista di Archeologia), 1950, p. 248 e sgg.; L'Antiquité Classique, XX, 1951, p. 47 e sgg.; Acad. R. Belgique, Bull. Cl. Lettres, 1951, p. 408 e sgg.; La Nouvelle Clio, 1952, p. 87 e sgg.; Rendiconti dell’Accademia dei Lincei, Sc. Mor., 1953, p. 171 e sgg.; L'Antiquité Classique, XXIII, 1954, p. 63 e sgg.; XXIV, 1955, p. 331 e sgg.. 14 Strabone, pp. 238-240 15 Appiano, De bello Annibalico, 39 16 Tito Livio X, I, 1; XXVI, II, 2 13 (fallito) di porre un argine all’espansione dei Marsi. Tolomeo17, Silio Italico18 e Festo19, ne descrivono quindi la successiva appartenenza ai Marsi. Gli autori antichi parlano di questa città come di una delle meglio fortificate d'Italia e la citano specialmente a proposito delle guerre civili fra Cesare e Pompeo. In epoca romana la via Valeria attraversava la città da nord-est a sud-ovest, entrando dalla porta Fellonica cioè «del fallo» («Fallonica»), e ne costituiva il decumanus maximus; il cardo non è identificabile. Importanti scavi sono stati eseguiti nell'interno della città dalla suddetta missione archeologica belga, e illustrati nelle pubblicazioni citate (nota n° 1 a pagina 100). Nessun rapporto legava Alba Fucense ad Alba Longa, sebbene ambedue fossero ritenute città molto antiche appartenenti alla lega latina. La prima memoria storica che abbiamo di Alba Fucense è quella della deduzione di una colonia di seimila cittadini latini subito dopo la sottomissione degli Equi, avvenuta nel 303 a.C.. Esaminiamo ora la topografia generale della città. Essa è racchiusa entro un perimetro di circa 5 chilometri, all'interno del quale si trovano tre sommità dette oggi Colle d'Alba, Colle di Pettorino e Colle di S. Pietro. Le quote massime delle tre sommità sono rispettivamente di metri 1016, 995 e 990 sul livello del mare. Solo i due di S. Pietro e di Pettorino presentano avanzi di mura, mentre il terzo ne è quasi completamente privo. È probabile che le mura di questo settore siano state demolite quando fu costruito il castello degli Orsini con l'annesso borgo. Per accertare la datazione delle mura sono stati fatti alcuni saggi nel terreno di riempimento dietro di esse, in prossimità della porta Fellonica, a cura della missione belga. Vi è stata rinvenuta una notevole quantità di materiale fittile etrusco-campano. Dice il Lugli: Una particolare cura fu posta nella fortificazione delle porte; esse sono tutte del tipo «sceo», cioè fiancheggiate dal muro sul lato sinistro (all'esterno). I piedritti verticali fanno escludere la chiusura a sesto acuto, mentre la loro distanza (circa m. 4) impedisce di supporre un solo architrave monolitico. Il Promis (p. 131) pensa al metodo usato a Signia e Circei, cioè di mettere sulla linea dell’imposta due grandi massi a foggia di modiglioni sporgenti e su questi poggiare il blocco superiore che chiudeva lo spazio; in tal modo la lunghezza dell'architrave è stata ridotta di circa un terzo. Nell'insenatura fra il colle di S. Pietro e quello di Pettorino si apre nel muro un cunicolo, largo 88 centimetri e alto 1 metro e 88 centimetri, con le pareti formate da blocchi poligonali a taglio perfetto, ma di piccole dimensioni (diametro da 40 a 80 cm.). Anche il pavimento è fatto allo stesso modo: la copertura è formata da lastroni orizzontali dello spessore di 15 cm. Il Promis lo crede uno di quei cunicoli strategici, menzionati più volte dagli autori antichi, costruito per collegare segretamente la sorgente Fellonica, situata più a valle, con la città fortificata. 17 Tolomeo III, I, 57 Silio Italico VIII, 506 19 Sesto Pompeo Festo, De verborum significatu. L’autore si riferisce alla città come “Albesia Sciita”, nome alquanto curioso per quello che vedremo essere il legame tra Sciti e Sabini. 18 SEGNI (Signia) Fondata secondo la tradizione da Tarquinio il Superbo (Dionis., IV, 63; Liv., I, 56, 3), fu la sola, tra le città del Lazio, a coniare moneta d'argento già nel V sec. a.C. La sua valida posizione difensiva spinse i Romani a sceglierla per la custodia degli ostaggi. Segni è senza dubbio la città più saldamente fortificata di tutto il Lazio. Alla sua posizione sopra un colle, fiancheggiato da strette vallate e con accesso obbligato, si aggiunge un potente sistema di mura che la recinge quasi interamente. Qui si può osservare un livello in opera poligonale sormontato (a tratti) da un restauro in opera quadrata romana. Entrando dalla porta più a valle del lato nord-est, detta “Saracena”, si notano a destra delle mura poligonali ortogonali alla recinzione: sono i resti delle sostruzioni che un tempo fiancheggiavano la strada. La larsa risale da qui il forte pendio della collina e le sue mura poligonali sono ben conservate almeno per tutto il tratto rettilineo fino al Pianillo, rivelando alcuni massi di volume eccezionale. In cima alla salita si incontra la porta di San Pietro, dalla quale si accedeva all’acropoli, chiusa da una recinzione a forma di otre. La viabilità urbana era incentrata su un asse viario nord-sud, che collegava l’acropoli alla Porta Maggiore, posta all`ingresso meridionale aperto ai piedi del colle. Su questa strada confluivano gli altri assi viari, sorretti da terrazzamenti che avevano principalmente un andamento est-ovest. Proprio i terrazzamenti, anch’essi in opera poligonale, furono scambiati in passato per i resti di un'ulteriore cinta. Dice il Lugli: Nel loro complesso, le mura di Segni, tanto nella città, quanto nell'acropoli, sono ad una sola cortina addossata al taglio del monte e solo raramente a due cortine; i massi adoperati sono di notevole volume ma non accuratamente levigati in facciata, a differenza di Norba e di Alatri, e non combacianti con esattezza fra di loro. Hanno piuttosto l'aspetto tondeggiante, così che sono assai frequenti le zeppe di calzatura. Mancano invece i tasselli triangolari, messi in opera contemporaneamente ai blocchi. Solo sporadicamente si trovano gli pseudo-archi (vedi principalmente il terrazzamento inferiore). Le porte della fortificazione si aprono a filo del muro senza camera interna; sono coperte con architravi monolitici e, quando l’apertura è troppo ampia, gli stipiti sono inclinati verso l'interno secondo il sistema dell' “ogiva spezzata”. Sul muro non sembra essere esistito un regolare cammino di ronda né alcuna merlatura di protezione. Le porte sono sei, tutte in pietra calcarea tranne la porta Gemina, che è in opera quadrata di peperino: questi blocchi di epoca romana provengono dalle cave di pietra litoide stratificata che i Sìgnini trovarono sui Colli Albani. CORI (Cora) Questa Larsa è posta sopra un contrafforte dei Monti Lepini che guarda verso ponente e degrada a terrazzamenti. Gli antichi costruttori hanno recintato con una serie di muri sia l'acropoli che la città, dette rispettivamente «Cori a monte» e «Cori a valle». Tra la città bassa e la città alta vi è un notevole distacco formato da piccoli terrazzamenti. Purtroppo molte parti della cinta muraria, nel corso dei secoli, sono state utilizzate come materiale da costruzione, perciò riesce difficile collegare tra loro i tronconi sparsi delle mura in opera poligonale. Si crede che Cori avesse tre linee di mura nella parte inferiore: la più antica formata da massi enormi di pietra calcarea non rifiniti, la seconda formata da massi poliedrici tagliati con arte e ben rifiniti nella faccia esterna, la terza formata da massi poliedrici perfettamente «segati» e rifiniti tanto nelle facce a vista quanto in quelle di contatto tra loro. Le origini di questa Larsa si perdono nel mito. Si dice che fu fondata da Dardano20, il fondatore di Troia, oppure da un guerriero Argèo che si chiamava Koraf. Durante l'Impero decadde, perché fuori mano e con scarso territorio da coltivare. Dice il Lugli: Tutta la città è chiusa dentro un anello di blocchi poligonali che circonda il colle alla base. Nel recinto si aprono tre porte: la Romana, la Signina e la Ninfina. Nessuna traccia si nota delle loro coperture originali. Nell'interno della città si distinguono tre terrazzamenti. La prima «precinzione», così viene chiamata comunemente (cominciando dal basso), corre a fianco della via Pelasga, di tracciato antichissimo. La seconda «precinzione» forma un avancorpo e poco più in alto si trova la terza «precinzione» che recinge l'acropoli. L'antico architetto volle dare a questi speroni aguzzi un carattere di robustezza e di potenza difensiva. Si notano qualche «arco rovescio» e molti «archi ciechi». SEZZE (Setia) È situata sulla stessa corona dei monti Lepini sulla quale sorgono Cori e Norba, con la veduta principale sulla Palude Pontina. Una via lunga cinque miglia, proveniente dalla stazione di Forum Appii sulla via Appia, (miglio XLIII), le dava la comunicazione con Roma da una parte e con Terracina dall'altra. Di questa via Setina (Aul. Geli., Noct. Att., XVI, 9) si vedono notevoli avanzi nella pianura. Il perimetro della città moderna corre quasi interamente lungo l'antica cerchia di mura. Nel lato meridionale sembra esistesse un terrazzamento interno e più antico, dinanzi al quale passava la via che congiungeva la Porta Romana con la Porta Signina. Particolarmente interessante è il grande triangolo che formano le mura verso ponente: il lato nord di esso, più scosceso, segue tutte le anfrattuosità del terreno, senza rettificare spigoli e curve, mentre il lato sud, a pendio dolce, è meno frazionato e più alto. La Porta Signina (oggi Pascibella), che si apre alla base del triangolo verso levante, è protetta sui fianchi da due muri ad imbuto. Nell'età sillana le mura furono restaurate. Due posterle, di cui una architravata, rimangono nel settore sud-occidentale. Dell'acropoli non resta traccia. Dice il Lugli: Le notizie che abbiamo della città antica ci segnalano che nel 382 a.C. vi fu condotta una colonia romana (Veli. Pat., I, 14) e ad essa si riferisce anche il passo di Livio (VI, 21, 4) dell'anno 383: «...Quinqueviri (creati sunt) Pomptino agro dividendo», in quanto buona parte dell'agro pontino apparteneva ai Setini5. È nominata da Dionigi fra le trenta città della Lega Latina (V, 61). Durante la seconda guerra punica si rifiutò di rifornire uomini e denaro a Roma, onde fu poi da questa, a guerra conclusa, severamente punita (Liv., XXVII, 9, 7; XXIX, 15, 2). Per la sua 20 LICOFRONE, V, 1126 e sgg.. Ai tempi di Virgilio era diffusa un’antica e confusa tradizione secondo la quale Dardano l’atlantideo (nipote di Atlante) sarebbe provenuto dalla Toscana o dall'Italia, per trapiantarsi in Samotracia e poi sulle spiagge dell'Asia Minore: Il re latino arringando i supplichevoli troiani dice: // Io mi ricordo, // che per vanto soleano i vecchi aurunci [toscani] // dir che Dardano vostro in quelle parti // ebbe il suo nascimento; e quinci in Ida // passò in Frigia, e ne Samotracia. // Da Tirreni e da Corito uscìa Dardano vostro // Ch'or fatto è Dio. Eneide, libro VII. posizione isolata e ben fortificata fu scelta a custodire parte degli ostaggi cartaginesi (Liv., XXXII, 26, 5). Sezze era ancora fiorente durante l'Impero, rinomata per i suoi vini molto apprezzati da Augusto, che li preferiva a tutti gli altri21. Le mura si presentano in una forma intermedia, per fattura ed arte strategica, fra Segni e Palestrina da una parte, Norba ed Alatri dall’altra. La sua priorità su Norba è evidente, anche per la sua posizione di fronte a Piperno a dominio della strada pedemontana che partiva da Velletri, passava sotto Cori, Norba e Sezze e finiva a Terracina; questa strada serviva, prima della costruzione della via Appia, alle comunicazioni tra Roma e la Campania. La fattura del muro di cinta non è omogenea per tutto il percorso. Alcuni tratti sono a forte bugnato con blocchi più irregolari, ma ben combacianti. ARTENA Occupa, in territorio volsco, la sommità di un monte calcareo omogeneo. All'imbocco della valle del Sacco, di fronte a Palestrina e a Velletri, costituisce la punta più avanzata dei monti Lepini verso settentrione. Il nome di Artena è stato dato all'attuale paese con una restituzione toponomastica recente. Le rovine della città costituiscono un complesso grandioso, articolato in una serie di terrazzamenti digradanti e impostati sulla conformazione del terreno calcareo. Le mura sono costituite da una massiccia e poderosa opera ciclopica apparentemente rozza, a grandi blocchi appena sbozzati e connessi tra loro con uso di tasselli. Tali strutture vengono a formare vasti piani urbani scendenti da settentrione alle aree più basse: dalle mura e dai terrazzamenti interni tutta la pianta urbana fa capo, articolandosi su larghe e comode strade, ad una grande terrazza superiore, su cui è da riconoscere l'acropoli religiosa della città. La città fu abbandonata durante l'ultima fase dell'età repubblicana quando, dopo le guerre sociali, queste regioni rimasero spopolate. PALESTRINA (Praeneste) La posizione della città a ridosso di un alto colle (ultima appendice degli Appennini di fronte alla valle del Sacco), senza altra difesa naturale che la pendenza del terreno, costrinse a circondare tutto il colle mediante una poderosa muraglia. Questa misurava circa quattro chilometri di lunghezza e saliva da 4,72 metri sul livello del mare fino a 763 metri. Strabone (V, 239) fissava in due stadi (372 metri) la distanza fra le due estremità, considerando l'estensione della città quale era al suo tempo; oltre l'abitato col Santuario della Fortuna Primigenia (limitato alla parte inferiore e media) si deve però considerare la piccola acropoli nella zona superiore (Castel S. Pietro). I Prenestini chiusero nella medesima cinta tanto la città quanto l'acropoli, quantunque fossero molto distanti e fra le due rimanesse una larga superficie disabitata, così da poter difendere la città da attacchi provenienti dall'alto. Era facile occupare la vetta scendendo dal monte oggi detto Guadagnolo (attraverso l'odierna Capranica Prenestina). Dice il Lugli: 21 Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XIV, 6, 8; Marco Valerio Marziale, Epigrammi, X, 36, 6, ecc. Le necropoli ci hanno rivelato una grande abbondanza di suppellettile. Particolarmente ricco è il materiale rinvenuto nelle tombe a fossa del periodo orientalizzante; armi, utensili, ori granulati, 22 vasi e talvolta anche il carro e il trono . Il materiale si distingue per la sua lussuosità: non soltanto sono adoperati a profusione l'oro, l'argento, l'avorio, l'ambra, ma il bronzo è fuso o battuto per oggetti di grandi dimensioni e di ricca decorazione. I motivi decorativi di questa varia suppellettile sono tolti dall'arte minoica, egizia, assira, micenea, greca... Per avvalorare la fondazione antichissima della città, gli storici antichi avevano raccolto varie leggende che la facevano risalire a Caeculus, figlio di Vulcano23, o a Praenestus, figlio di Latino24. Strabone (V, 238) la dice città greca e la chiama Polystephanon («ricca di terrazze»), concordando con Plinio25 che le attribuisce in origine il nome di Stephane, forse a causa delle sue fortificazioni a terrazze. Aurelio Vittore26 e Diodoro27 la dicono fondata da Latinio Silvio, re di Alba, come una colonia di questa città. Vi fu particolarmente venerata la Fortuna Primigenia. Nella grande ribellione dei popoli latini contro Roma, fra il 342 e il 340 a.C, fu sconfitta e perdette una parte del suo territorio. Tuttavia i Romani le lasciarono l'indipendenza e i Prenestini se ne dimostrarono degni, aiutandoli contro Annibale. Cinta dunque d'assedio dal generale punico, fu costretta ad arrendersi per fame e meritò la riconoscenza di Roma (Liv., XXIII, 20, 3). Silla «mise a saccheggio la città, che era una delle più ricche di Italia28, deportò tutti i cittadini e buona parte ne uccise». Ciò avvenne più volte nella storia della città di Preneste, «poiché» dice Strabone (V, 239) «coloro che tramavano cose nuove si rifugiavano a Preneste e quando erano catturati, per disgrazia della città, il territorio veniva alienato e la colpa si riversava sugli innocenti». Nella violenza della conquista, la città e il santuario riportarono danni che Silla, in omaggio alla Dea Fortuna che l'aveva protetto, si affrettò a riparare. Nell'esame delle mura poligonali dobbiamo tener presente che le mura che recingono la città erano visibili a tutti e quindi erano lavorate con maggior cura, mentre quelle che recingono l'acropoli erano visibili solo a pochi e da lontano, e pertanto meno curate. Importava solo che fossero state solide. Attorno alla spianata dell'acropoli, magnifico esempio del genere per grandiosità e mole di lavoro, ritorna la maniera più accurata dell'Opus Poligonale. Il tratto più interessante delle mura urbane è quello che comincia ad apparire presso la porta del Sole, che dimostra una notevole padronanza di mezzi tecnici, specie per il sollevamento e la messa in opera di grandi blocchi. Cicerone nel suo trattato sulla divinazione29 racconta della scoperta a Palestrina del tempio della Fortuna Primigenia: Si chiamava Suffucio. Era mezzo etrusco e mezzo romano. Era un ricchissimo abitante di Preneste. Commerciava in vini. 22 Cfr. A. DELLA SETA, Museo di Villa Giulia, Roma 1918, p. 359 e sgg. Virgilio, Eneide VII, 678 24 Gaio Giulio Solino, Polyhistor, 2, 9; Stefano di Bisanzio, Etnica, Dizionario geografico 25 Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, II, 5, 64 26 Aurelio Vittore, Origo Gentis Romanae 17, 6 27 Riportato da Eusebio, Arn., VII, 185 28 Appiano, De Bellis Civilibus I, 94 29 CICERONE, De divinatione, II, 1 e sgg.. 23 La sera, dopo i lauti banchetti, si addormentava saporitamente. Ma ecco che tutte le mattine, assai prima dell'alba, veniva svegliato da un sogno ricorrente, sempre lo stesso. Udiva una voce che sembrava provenisse dal cielo: alzava gli occhi e gli appariva una immensa figura femminile coperta da un grandissimo velo che si allargava sulle spalle, assumendo l'aspetto di due immense ali. Quella donna volante aveva gli occhi di cielo e dalla bocca dolcissima usciva un richiamo, quasi un ordine: «Suffucio, ascoltami! D'ora in avanti ti chiamerai Numerio, perché tu sarai il riscopritore dei ventidue numi («Numina»). Sali su questo colle roccioso e nel punto in cui vedrai un uccello che becca un tronco, quello sarà il segnale e lì tu dovrai scavare, fino a quando nel mio grembo profondo scoprirai il dolce forziere di ulivo con le ventidue tavolette, ciascuna delle quali è l'immagine sonora di un numen. Ricorda che lo voglio io, Afrodite, la Madre delle stelle, io, La Vertumnia, la Dea Fortuna. Farai sì che il mio Tempio, che da tanto giace in abbandono, rinasca! Tu ora lo vedi coperto di ortiche, ma fu di fulgida bellezza, specchiato sul mare che ne lambiva le muraglie i cui blocchi furono copiati dagli elementi delle bacche dei cipressi. Il mio Tempio risorgerà e dal mare, che ora è lontano, notturni naviganti trasognati lo scorgeranno, illuminato dalla grande fiamma di un faro. Lo chiamerai il Tempio della Fortuna Primigenia, perché io, assieme al mio sposo, ho creato tutte le cose. Io marmo, lui scalpello di scultore. Va', Numerio, e scava!» Il povero Suffucio era molto afflitto. Non potendo dormire la notte, di giorno rimaneva imbambolato. Si recò da un «aruspice» etrusco e seppe che non si sarebbe potuto liberare dall'incubo se non avesse adempiuto al comando della Dea. Così una squadra di molti uomini iniziò il lavoro di scavo là dove Numerio, che aveva sentito il ticchettare dell'uccello sul tronco, aveva dato il via al lavoro. A pochi metri dalla superficie del suolo fu scoperto un antico pozzo circondato da grosse pietre di forma poligonale. Man mano che lo scavo si approfondiva, ci si accorse che il pozzo si allargava fino a formare una caverna. Quando tutta la terra fu tolta, apparvero, sulle ampie volte di roccia viva, i segni di antichi scalpelli. Al centro della caverna affiorò un immenso ulivo pietrificato. Nel tronco vi era una grande nicchia entro la quale, su uno strato di miele cristallizzato, troneggiava uno scrigno pure in legno di ulivo. Con mano tremante, Numerio senza sforzo ne sollevò il coperchio e dentro vide una pila di ventidue tavolette color ambra, di legno di rovere pietrificato. Senza fatica staccò le tavolette l'una dall'altra e apparvero i numina, cioè i numeri: ventidue simboli sacri che solo l'indovino etrusco seppe riconoscere. Da quel momento la grotta delle sorti fu ripristinata e i pellegrini che da lontano giungevano per avere un responso dalla Dea, lo ottennero. Un piccolo bambino veniva incaricato di rovesciare lo scrigno per far sì che, dalle ventidue tavolette uscite a casaccio, potesse venir tratto il responso divino. Da Roma, sull'antica via di Preneste, si giunge facilmente a Palestrina per la visita di questo tempio così esteso e imponente da superare in ampiezza la Grande Piramide. È il più grande edificio sacro dell'antichità. Il palazzo Barberini ne incorpora solo una piccola parte. In esso vi è il museo che contiene pezzi veramente unici, tra cui una copia perfetta e antica del più bel mosaico del mondo. Rappresenta la piena del Nilo: coccodrilli, ippopotami, leoni, scene di caccia e cerimonie sacre e misteriose tra le acque straripanti al tramonto. La famosa Cista Prenestina è qui assieme alla grande statua acefala della Dea della Fortuna Primigenia. NORMA (Norba) È forse la più interessante delle Larse sabine. Situata sul ciglione occidentale dei Monti Lepidi, sovrastante le Paludi Pontine, fu distrutta nell'82 a.C. e mai più ricostruita, così che tutti i monumenti sono anteriori a questa data. Le mura di Norba sono tra le più accurate per il perfetto combaciamento dei blocchi e la rifinitura dei piani; vi si notano con frequenza innesti ad arco, tra cui un arco rovescio, nei quali il Gerhard vede un’anticipazione delle porte ad arco30. La fattura dell'opera megalitica è trascurata, anche all'esterno, nei luoghi dove poggiava sulla roccia a picco (lati nord e nord-ovest), mentre negli angoli e negli stipiti delle porte si nota una tendenza alle assise orizzontali (cubilia). La cinta muraria (con uno spessore da 1,80 a 2,50 metri) era doppia, come si nota soprattutto nei lati sud e ovest. Un ampliamento delle mura, con particolare efficienza difensiva, si osserva nel lato sud-est dell'acropoli, fino alla Porta Grande. La distanza fra le due cerchie varia da 3,5 a 5,5 metri, a seconda del terreno; così pure varia l'altezza, che è maggiore nei luoghi pianeggianti (lato nord-est) e minore in quelli scoscesi (lati ovest e sud). Le mura seguono la conformazione del colle con numerosi salienti e rientranze. Esistono due torri a contatto delle mura: una è quadrata ed è denominata «la Loggia»; la sua funzione fu piuttosto quella di una torre di segnalazione che non di una torre di difesa, pur essendo costruita con massi enormi e con pareti di 3,90 metri di spessore alla base. La fronte misura 12,30 metri ed è alta circa 13 metri. Nel lato rivolto verso la città si trova la porta d'ingresso, larga 1,50 metri. Le porte principali sono tre: la prima è la Porta Romana, situata a cavaliere della via che proveniva dalla via Appia presso Tre Ponti, passando per Ninfa e Sermoneta. È larga 7,90 metri ed ha gli stipiti formati da massi ad innesto. La seconda porta è la Porta Grande, nel lato sud-orientale: è larga quasi 6 metri e gli stipiti si elevano per oltre 8 metri di altezza. Sulla terza porta riferisce il Lugli: Nel lato rivolto a nord si trova la Porta Signina, detta anche Testa di Bove, «forse da qualche 31 bucranio che vi sarà esistito», come pensa il Fonteanive . Misura m. 4,35 di larghezza per m. 3,90 di altezza, tuttora conservata. Gli stipiti hanno la profondità di m. 5,50 che corrisponde allo spessore delle mura. Sui terrazzamenti accanto alle mura si notano i basamenti di alcuni templi, 32 tra cui singolare quello attribuito a Giunone Lucina ». L’acropoli si trova sulla collina, situata fra le due porte principali e contornata da un muro di cinta di notevole spessore, con strade e scale di accesso. Nei lati sud-est e sud-ovest il muro dell'acropoli si fonde con quello della città e strapiomba a picco. La diversa fattura, 30 Una descrizione riassuntiva della città e delle mura è stata data da O. GERHARD in «Ann. Inst.», 1829, p. 60 e sgg., con tre tavole nei «Mon. Ant. inediti», vol. I, tavv. I-III. La pianta della città, allegata da L. SAVIGNONI alla sua relazione sugli scavi di Norba, pubblicata negli «Atti del Congr. Inter, di Scienze Storiche» (Roma 1903, voi. V, rel. XVII, p. 255 e sgg., tav. I), la migliore che esista, è incompleta. 31 R. Fonteanive, Sui monumenti ed altre costruzioni poligonie nella provincia romana, Roma 1887, p. 145. 32 Il PETIT-RADEL («Ann. Inst.», 1832, p. 237 e «Meni. Inst.», 1832, p. 60 e sgg.), fondandosi sulla teoria degli heroa o ieroni, identificabili nei basamenti isolati della campagna, ritiene che i terrazzamenti interni di Norba, costruiti a somiglianza delle mura, fossero quasi tutti templi e cita il brano di una lettera dell'imperatore MARCO AURELIO a Frontone (Cfr. M. PINCHERLE, // porto invisibile di Orbetello, Pacini Ed., Pisa 1989, p. 79 e sgg.), a proposito di Anagni, in cui si parla di molti fana, templa et delubra (Ad Front., IV, 4). specialmente a nord-ovest, e l’originale indipendenza della piccola cinta muraria33, dimostrano un’antichità maggiore rispetto al resto della larsa. Dobbiamo quindi ritenere che la cittadella costituisse quel nucleo primitivo di cui parla Livio e che rimanesse poi inclusa nella cerchia più ampia delle mura. Il Lugli riferisce la presenza di cisterne simili a quella visibile sul sito di San Felice Circeo: Alcune cisterne d'acqua sotterranee, costruite col sistema a strati aggettanti, si vanno a poco a poco restringendo verso l'alto, fino a chiudere il vano con una sola pietra centrale, affiorante sul terreno; ve ne sono due o tre a pianta circolare e una a pianta quadrata, come quella di Tuscolo. I massi che rivestono le pareti sono per la loro funzione tagliati e allettati più regolarmente, ma non vi è dubbio che si tratti di lavoro contemporaneo alle mura poligonali. Norma ricevette una colonia latina subito dopo la conclusione della guerra fra Latini e Romani34. In questa occasione Livio parla di una «arx quae in Pomptino esset», il ché farebbe supporre che fin da allora esistesse una recinzione muraria più ristretta. Viene nominata fra le trenta città della Lega Latina35. Nell'82 a.C, avendo parteggiato ed accolto le truppe di Mario, fu presa d'assalto da Emilio Lepido, generale di Siila, e distrutta. Sembra che non sia stata più ricostruita, perché non vi si trovano edifici di età imperiale e quelli databili alla fine della Repubblica sono pochissimi. Plinio36 elenca i Norbani fra i «populi ex antiquo Latio qui interiere sine vestigiis». ALIFE (Allifae) È situala a 110 metri sul livello del mare ai piedi del Matese sull'ampia valle del Volturno. Antica città sannitica, fu conquistata dai Romani nel 310 a.C.. Vi fu dedotta una colonia (detta «Triunvirale») nel I secolo a.C.. Le sue antiche mura furono distrutte nel 1135 d.C. e ne restano solo pochi avanzi. FORMIA (Formiae) Affacciata sul Tirreno, si erge nella parte più interna del golfo di Gaeta. Città occupata degli Aurunci nell’Età del Ferro, prese parte alla guerra latina nel 338 a.C.. Vi si volle vedere la sede dei Lestrigoni dell'Odissea e vi si localizzano taluni episodi del viaggio degli Argonauti. Durante l'Impero vi fu dedotta una colonia romana. ARCE (Arx Volscorum o Arcae) L'abitato di Arce, l'antica Arx Volscorum o Arcae, è situato a circa 250 metri sul livello del mare, su un ampio colle che si eleva su una degradante serie di alture che scendono fino alla Valle del 33 Cfr. Notizie degli Scavi, 1901, p. 552 «... la piccola acropoli forse costituì il nucleo primitivo di Norba, poiché è ben chiaro che essa venne compresa entro la cinta della città, salvo verso ovest dove la cinta primitiva fu rispettata: l'attaccatura delle due cinte (formate come due perimetri compresi l'uno nell'altro, ma con un lato comune) è ben visibile a sud-ovest» (cfr. p. 559). 34 Tito Livio, II, 34, 6; cfr. Dionigi di Alicarnasso, VII, 13, 5. 35 Dionigi di Alicarnasso, V, 61, 3. Egli ne dà soltanto ventinove. 36 Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, II, 5, 64 e 68-69, dove Norba è «oppidum». Liri. In Arce non restano vestigia di mura poligonali, mentre su un picco scosceso che domina la città, a circa 500 metri sul livello del mare, è posta l'antica acropoli di Arce, oggi denominata Rocca d'Arce, in posizione protetta e adatta ad essere difesa. A Rocca d'Arce resta l’avanzo di un muro poligonale lungo circa dodici metri e alto un paio di metri; inoltre il monte, in calcare compatto, mostra di essere stato tagliato artificialmente. TARQUINIA (Tarku-Tarquinii) È situata a 149 metri sul livello del mare, su un colle che si eleva ripido sulla breve pianura costiera, a quattro chilometri dal Tirreno. Secondo la leggenda etrusca sarebbe stata fondata dall'eroe Tarconte. Le origini del centro abitato, costruito sullo sperone roccioso dell'odierno «piano della Civita», risalgono all’epoca sabina37. Divenne capitale di un potente stato etrusco che si estendeva dal mare al lago di Bolsena. La quasi totalità delle mura è formata da blocchi squadrati di tufo e il loro perimetro misura otto chilometri. TERRACINA (Anxur-Terracina o Traku) Racconta il Lugli: È una delle principali città dei Volsci. Prendeva il nome da Giove Fanciullo, la divinità protettrice venerata sul monte (oggi S. Angelo) sovrastante la città. Dionigi (II, 49) ne attribuisce la fondazione ad un gruppo di Spartiati i quali, per sottrarsi alle riforme di Licurgo, vennero in Italia e sbarcarono nella pianura Pontina, ove dedicarono un tempio a Feronia. Le origini di Terracina (l'antica Traku) sono ignote. Cominciamo a conoscere qualcosa della città volsca quando viene in contatto con Roma e ha inizio quella lotta mortale fra i due popoli che durerà un paio di secoli, finché i Volsci saranno completamente sottomessi ai Romani. Dopo una lunga serie di scontri fra i due eserciti, nel 406 a.C. i Romani espugnarono definitivamente Terracina con un complesso piano strategico. La città era potentemente difesa dalla natura collinosa38, da una robusta cinta in opera poligonale e infine dal mare, che ne impediva il completo accerchiamento. Il passo di Livio (IV, 59, 4-6) descrive la battaglia, fornendoci nello stesso tempo interessanti notizie sulla topografia di quei luoghi: Anxur si protende verso la palude. Da questa parte Fabio simulò un attacco. C. Servilio Ahala aveva occupato il colle che sovrasta la città. Da quel luogo più alto, dove non esisteva alcun presidio, con immense grida e fragore di armi assalì le mura. Stupefatti da quel chiasso, coloro che difendevano la parte inferiore della città lasciarono ai Romani un tempo sufficiente ad 37 Un breve tratto di mura poligonali era ancora visibile, qualche anno fa, dietro una casa moderna in demolizione. Vi si vedevano anche una modanatura ed una fascia ornamentale formata di cerchi concentrici, assai interessante, che dovrebbe essere studiata. 38 L. Matranga, La città di Lamo stabilita in Terracina, ecc., Roma 1852. accostare le scale; già ogni luogo era pieno di nemici e senza pietà avvenne la strage tanto di coloro che fuggivano quanto di coloro che resistevano, tanto degli armati quanto degli inermi... Il colle sovrapposto alla città e ricordato da Livio, l’odierno Monte S. Angelo, costituiva l'ultima propaggine dei Lepini verso il mare. La cinta muraria di Terracina fu ampliata tre volte con tre successive acropoli. Una poderosa fortificazione incluse tutto il monte sul quale sorgeva il tempio del giovane dio Anxur. Mario Pincherle effettuò uno studio sul Flamen di Anxur nell’ambito della ricerca del primo sacro insediamento dedicato al culto di Giove nella penisola italiana. Presso le rovine dell'antico tempio di Giove Anxur furono trovati, all'inizio del secolo scorso, numerosi ex voto rappresentanti giocattoli di piombo: nel tempio veniva adorato, sotto forma di fanciullo, il Giove Nascosto. Anche se questo edificio religioso fu realizzato al tempo della Repubblica, certamente dovette sorgere sugli avanzi di un tempio o di un luogo sacro molto più antico. Infatti nella sottostante Terracina esistono preziosi avanzi di mura ciclopiche. Non dobbiamo dimenticare che Terracina era una delle tre città più antiche della penisola, insieme con Cortona e Tarquinia (Traku, Curtu, Tarku)39. Forse la notizia più interessante su Terracina e il tempio di Giove è quella riportata su una modesta guida stampata all'inizio del secolo scorso, dove si trova la seguente annotazione: A pochi passi dal tempio sono i resti di un edificio più piccolo, a pianta quadrata (casa del Flamen), entro le cui mura è una piccola roccia a forma di cono che ha alla sua sommità un foro naturale comunicante con una profonda cavità. Talora si forma una corrente d'aria che esce dall'interno, e forse per questo gli antichi pensarono alla manifestazione di una forza occulta e 40 la rupe fu considerala un antro delle sorti . L'edificio quadrato era l'abitazione del sacerdote di Giove (dimora che gli antichi chiamavano «flaminia»). Nel suo sopralluogo, il dottor Pincherle ha perlustrato il sotterraneo del tempio ed è giunto ad un passaggio che immette in una caverna, in gran parte naturale e a forma dì tromba rovesciata. Questa caverna termina in alto con uno stretto passaggio, attualmente occluso, che finisce proprio al centro dell’edificio a pianta quadrata: il vulcanetto (la roccia a forma di cono) ha il suo piccolo cratere otturato. Un bassorilievo dell'Ara Pacis di Augusto a Roma rappresenta i sacerdoti detti «Flamini». Queste figure hanno qualcosa di stravagante, di estremamente triste ed irreale. Sono uomini giovani e anziani, dallo sguardo sofferente, resi ridicoli da copricapi assai simili a cuffie femminili legate sotto il mento da un nastrino ben teso. Su queste cuffie aderenti e di tessuto sottile sono fissati, nel punto corrispondente alla parte più alta del capo, degli stranissimi aggeggi... Già nell'antichità questo strano copricapo, che sappiamo essere stato di colore bianco, era famoso per il suo apice, costituito appunto dallo strano oggetto che lasciamo descrivere al professore: La parte inferiore di questo oggetto misterioso è una specie di dischetto piatto a forma circolare, come un cerchietto sul tipo di quello dei biberon, probabilmente realizzato in legno (se fosse stato di metallo il suo peso sarebbe stato eccessivo). Al centro di questa basettina 39 Tacito, Annales, XI, 14; Cicerone, De re publica, XIX, 20; Tito Livio, I, 34 e IV, 3; Dionigi di Alicarnasso, Antichità Romane, III, 46; Strabone, V, 2, 2; Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XXXV, 43. 40 Riportato in Mario Pincherle, La civiltà Minoica in Italia, cap. V circolare sorge una piccola asticciola, evidentemente cava: una specie di piccolo tubo che termina con una zona arrotondata in cui è praticato un foro. In corrispondenza di questo foro sono fissati due sottili nastri. Il piccolo tubo non è dritto, ma leggermente incurvato. A cosa serviva questo copricapo col suo «apice»? Il Flamine era sottoposto ad alcune rigide prescrizioni che, ai nostri occhi, appaiono incredibili. Ce le riferisce uno dei più antichi scrittori romani: Fabio Pittore. Ne parla anche Aulo Gellio, nelle «Notti Attiche41». Questo sacerdote non doveva salire su un cavallo e non poteva infilare al dito anelli di metallo pieno: poteva avere solo un anello fatto a tubo (pervius) e il cui cerchietto non fosse completamente chiuso ma spaccato (cassus). Non poteva portare nel suo abbigliamento fiocchi, stringhe o nodi; non doveva mangiare, toccare e nemmeno nominare le fave. Doveva dormire su un letto speciale i cui piedi dovevano essere sempre cosparsi di fango. Guai se si allontanava per tre notti consecutive dal suo letto, accanto al quale doveva esserci uno scrigno con alcune ostie sacre. Doveva sempre portare in testa lo strano copricapo che abbiamo descritto. Ma la cosa più straordinaria era la sua camicia da notte (tunica intima). Nessuno la doveva vedere e, quando se la cambiava, doveva farlo in luogo buio e nascosto. Se si sposava, la moglie veniva messa a parte di questo segreto. Il suo matrimonio era indissolubile. La moglie del Flamen (detta Flaminica) non poteva salire sullo strano giaciglio del marito. Tito Livio, Servio e Tacito42 riferiscono altre prescrizioni anche più severe. Da questi passi la figura del sacerdote di Giove appare di estrema antichità: addirittura si può far risalire all’epoca sabina43. In un successivo sopralluogo Pincherle esplorò meglio la caverna sotterranea e si rese conto che tutta la parte superiore era stata modificata dall'uomo, a colpi di piccone, nell'antichità. Osservando il piccolo vulcano occluso, gli vennero alla mente le parole di Fabio Pittore relative all'esigenza che il piede del letto fosse ricoperto da uno strato di fango. Vi era dunque una connessione fra il suolo, i fenomeni tellurici endogeni e il letto del Flamen? E questa stessa parola poteva venire accostata al vocabolo latino “flave” (soffiare, insufflare)? Trovò una conferma di queste supposizioni in uno studio sul Flamen del prof. Bernardo Albanese dell'Università di Palermo: l'autore era giunto alla conclusione che il Flamen doveva dormire per terra «tenuto ad un contatto fisico continuo con il suolo, perfino durante il sonno». Forse lo strano sacerdote doveva rimanere assiduamente a guardia del pertugio attraverso il quale ogni tanto si manifestava quel soffio divino che il Flamen era tenuto ad interpretare? Se il sacerdote si allontanava per un certo periodo di tempo, il fenomeno sacro non interpretato sarebbe andato perduto. La parola Anxur, nella sua etimologia greca, faceva pensare ad un Giove «nascosto», imprigionato sotto terra. Il vocabolo flamen si accordava invece con la voce indo-europea 41 Aulo Gellio, Noctes Atticae, L. X, cap. XV: «Caerimoniae impositae flamini Diali multae, item castus multiplices, quos in libris qui «De sacerdotibus publicis» compositi sunt, item in Fabii Pictoris librorum primo scriptos legimus... Pedes lecti in quo (Flamen) cubat luto tenui circumlitos esse oportet et de eo lecto «trinoctium» continuum non decubat neque in eo lecto alium fas est. Apud eius lecti fulcrum capsulam esse cum strue atque ferto oportet». 42 Tito Livio, V, 52, 13; TACITO, Annales, III, 71; Tito Livio, I, 20; Servio Mario Onorato, Commentarii in Vergilii Aeneidos libros, IV, 103. 43 Cfr. Bernardo Albanese, Il «Trinoctium» del Flamen Dialis, Roma, Pontificia Universitas Lateranensis, Studia et Documenta, XXXV, 1969. brahma il cui significato originario è appunto «soffio». Il Flamen è dunque un bramino intimamente legato a un soffio sacro. E la camicia da notte? Probabilmente era legata al fenomeno tellurico. E lo strano anello spezzato? I nodi? I fiocchi? Il Flamen doveva essere svincolato, aperto, pronto ad interpretare il fenomeno. E il tabù della «fava»? Questo baccello è il simbolo di una bocca serrata (ricordiamo il famoso verso Quisquis adest faveat 'tutti i presenti tacciano') e il Flamen non doveva tacere: sottratto ad ogni vincolo terrestre doveva essere disponibile solo per il soffio divino. Lo stesso divieto era imposto da Pitagora nella sua scuola: maestro e allievi non solo si guardavano bene dal mangiare fave, ma evitavano accuratamente ogni tipo di contatto con questa pianta. Secondo la leggenda, Pitagora stesso, inseguito dagli scherani di Cilone, preferì farsi raggiungere e uccidere piuttosto che mettersi in salvo attraverso un campo di fave. Vi è di più: soltanto la moglie del sacerdote, la Flaminica, poteva assistere alle strane cerimonie religiose, ma era tenuta al silenzio e legata al marito dal più sacro e vincolante dei tre matrimoni romani: la confarreatio, le nozze indissolubili. Il matrimonio sacro ci appare quasi come una «comunione» ante litteram. Agli sposi veniva data un'ostia sacra fatta con la farina di farro. Accanto al letto del Flamen il misterioso scrigno conteneva le ostie di farro da consacrare. Vi era un legame tra questa consacrazione e il soffio sotterraneo? Ma torniamo alla tunica intima, la misteriosa camicia da notte. Solo la Flaminica poteva conoscerne il segreto. Il Flamen era chiamato sacerdos adsiduus, era cioè tenuto a rispettare il rito della Adsiduitas. Questo antichissimo rito, che i Greci chiamavano ÌDRUSIS, consisteva nello stare sempre seduti sopra qualche cosa. Ma sopra cosa? Il nostro sacerdote doveva dunque, anche di notte, dormire accucciato nel suo letto comunicante col suolo, il cui basamento era costituito proprio da quello strano vulcanetto. Forse due vocaboli latini potranno aiutarci a risolvere il mistero del Flamen. Queste due parole sono l'aggettivo inflatus e il sostantivo inflatus: l'aggettivo si riferisce a «cosa attraverso la quale viene soffiata aria», mentre il sostantivo ha il significato di «ispirazione divina». Il soffio endogeno, che saliva dalla caverna, attraversava il piccolo vulcanetto, e poi, affinché non un alito del sacro fiato andasse perduto, veniva convogliato in un condotto reso ermetico cospargendo l'orificio del vulcanetto con fango tenero e impermeabile. Secondo Fabio Pittore tale operazione, nota come Circumlitio, serviva a mantenere una perfetta aderenza tra il piccolo cratere e qualcos’altro di ignoto. Ci dicono gli antichi scrittori che il sacerdozio del Flamen doveva essere un compito terribilmente gravoso: una vera tortura. Quando un Flamen moriva, si doveva effettuare una vera e propria captio, cioè un rapimento, per impossessarsi di un nuovo Flamen che lo sostituisse. Generalmente il rapito era un povero giovane che veniva sottratto alla patria potestà. Il disgraziato aveva una sola possibilità, oltre alla morte, per liberarsi dal terribile ufficio della sua attività sacra: ricorrere alla usurpatio, e cioè alla fuga, rimanendo assente per più di tre notti (trinoctium). La storia di Roma non è priva di esempi di Flamini che hanno cercato di sottrarsi al loro grave compito tentando fughe disperate. E veniamo ai documenti. Cosa dicevano gli antichi del Flamen Dialis e della sua misteriosa funzione sacerdotale? Gli autori44 ci fanno sapere che il Flamen era occupato a tempo pieno, senza vacanze. Plutarco ci dice che il Flamen non poteva assentarsi dalla città, fare viaggi, ne allontanarsi dalla sede sacerdotale. Livio ci fa sapere che nemmeno per una sola notte il Flamen poteva stare lontano. Pone queste parole in bocca a Furio Camillo quando questi cerca di dissuadere i Romani a lasciare la città per trasferirsi a Veio, già conquistata, dopo che Roma era stata distrutta in seguito al terribile incendio effettuato dai Galli: Quale sacrilegio enorme sarebbe compiuto se si costringesse il nostro Flamen Dialis e le nostre Vestali a divenire cittadini di Veio, anziché di Roma! La loro sede è unica e da essa mai si sono mossi. E sapete bene che il nostro Flamen non può lasciare la città nemmeno per tutta una notte! Anche Tacito parla di questo argomento a proposito del Flamen Servio Maluginese che voleva a tutti i costi trasferirsi addirittura in Asia e dichiarava (siamo nell'anno 22 d.C.) che le prescrizioni sul divieto del Flamen di allontanarsi dall'Italia erano superate dai tempi. D'altra parte i suoi colleghi, Flamini di Marte e di Quirino, ogni tanto partivano per lunghi viaggi. Inoltre egli aveva dei validi sostituti che già avevano svolto le funzioni divinatorie in sua vece. Tali Pontefici, quando il vero Flamen aveva qualche impedimento, celebravano i sacri dialia. C'era stato addirittura il suicidio di un certo Flamen Cornelio Merula45 e per tutto il periodo di «vacazione» del flaminato, in attesa che venisse trovato un nuovo Flamen (e non era facile), per ben settantacinque anni Roma era rimasta senza Flamen e il servizio sacro era stato svolto ugualmente dai sostituti. Per risolvere la questione (lasciarlo partire o no) si chiese la sententia al Pontefice Massimo, lo stesso imperatore Tiberio. Questi prese tempo per decidere e, dopo molto, si risolse a comandare a Servio di rimanere. Disse che solo «gravi motivi di salute» potevano giustificare un rifiuto al servizio sacro. Quindi il bel viaggio in Asia andava in fumo. Ci narra ancora Livio, a proposito delle origini del flaminatio (il sacerdozio del Flamen) che Numa, l'antico re, si diede da fare per affidare ad altri le funzioni sacerdotali che erano devolute alla sua persona: Soprattutto la funzione di Flamen Dialis non deve essere affidata a me o ai futuri miei successori, dato che la nostra città è bellicosa e i re devono spesso assentarsi per fare 46 guerre ... Numa creò così un sacerdote «fisso e stabile» (Flamini Jovi adsiduum sacerdotem creavit) e lo rivestì di un abito meraviglioso, che mai avrebbe dovuto togliersi, elevandolo alla «dignità del trono». Inoltre il Flamen doveva mantenere sempre il contatto «fisico» con il suolo romano e non poteva perciò servirsi neppure del cavallo. È interessante notare l'analogia tra i precetti sacri (relativi al flaminato) e i precetti giuridici (relativi al matrimonio), tra «le notti» delle spose romane e le «notti» del Flamen. Il Flamen è come se fosse sposato con la terra. Il suo letto è un luogo sacro (lectus genialis). L'assenza di una sposa per tre notti consecutive dal talamo coniugale è un fatto gravissimo e fa decadere il 44 Tito Livio, I, 20; Aulo Gellio, Noctes Atticae, L. X, cap. XV Cfr. ESPÉRANDIEU, s.v. Flamen in «Dizionario Epigrafico di De Ruggiero», III vol. (1895), p. 139 e sgg. 46 Tito Livio, I, 20. 45 vincolo matrimoniale. La stessa cosa avviene per il flaminato. Se il Flamen riesce a fuggire e a star lontano dal suo talamo per tre notti consecutive, è libero. Ecco perché occorre che porti sempre il suo simbolico copricapo, quasi sigillato dal nastro legato sotto il mento: non lo può togliere. Non può allontanarsi con quel vistoso simbolo: tutti lo riconoscerebbero, tutti vedrebbero sulla sua testa l'apex, il tubetto (in legno di ulivo) coi suoi due fili o nastrini (di lana) fissati con ceralacca. Come nasceva un Flamen? Quale era la iniziazione? L'investitura di un Flamen era un fatto straordinario e complesso che ci può aiutare a risolvere il mistero. Questa investitura ha un nome: captio, cioè «cattura o rapimento». Per avere un Flamen bisogna catturarlo, contro la sua volontà! Scrive Gellio47 (riportando un brano dell'antico scrittore Fabio Pittore): Si dice «rapimento» riguardo a una vergine. Ma questa parola si usa pure a proposito del Flamen Dialis. Si rapisce dunque un ragazzo, sottraendolo alla patria potestà. Il nuovo Flamen sarà sottratto a ogni vincolo terreno (non potrà essere vincolato, nemmeno simbolicamente, da nodi, anelli, legami). È tutto del dio, che lo possiede permanentemente. Per liberarsi dal vincolo, come una sposa scontenta, deve ricorrere all'«usurpatio trinoctii», cioè fuggire e stare lontano per tre notti consecutive dal suo talamo. Così si scrollerà di dosso il flaminato come se fosse un matrimonio troppo gravoso. Abbiamo finalmente tutti gli elementi per risolvere il nostro problema ed è facile giungere a questa conclusione: 1) Il Flamen era ispirato dal sacro soffio uscente dalle viscere della terra: soffio che era quasi un grido di Giove bambino rinchiuso, secondo il famoso mito, nella caverna sotterranea. Mito che ci fa pensare a Tagete, il bimbo canuto che gli Etruschi videro uscire dalle viscere della terra per portare la saggezza agli uomini, piccolo dio imprigionato che anela alla luce. Anche a Delfi la profetessa seduta si lasciava permeare dal sacro soffio (come dice il Graves nei suoi Miti Greci) divenendo l’interprete vivente del dio. 2) Osservando attentamente gli strani copricapo dei Flamini con quei dischetti e quei piccoli tubi, ci rendiamo conto del loro uso: i nostri clisteri, dopo tanti secoli, terminano ancora con un dispositivo che ha la forma identica a quella della parte terminale dei copricapo flaminici. 3) La missione del Flamen è quindi connessa a quella parte del suo povero corpo che gli antichi Greci chiamavano jeron osteon e i Romani os sacrimi. Essa si collega al sacro fuoco chiamato «kundalini» dagli Indiani: serpente fiammeggiante che si sprigiona da quel sacro osso. Anche il vocabolo che definisce i sacerdoti indiani (bramini) ci ricorda i Flamini. Questa voce, a sua volta, ci riconduce alla sacra fiamma. 4) Così possiamo spiegarci la ragione di quel matrimonio indissolubile che consentiva di mantenere il terribile segreto del «talamo col fulcro pervio» che fungeva da stazione ricevente di un messaggio divino, raccolto e moltiplicato dai misteriosi echi e dalle correnti sotterranee della immensa e buia caverna. Ora finalmente comprendiamo a fondo il significato della captio che, prima di oggi, era difficile da spiegare perché tutti 47 Aulo Gellio, Noctes Atticae, L. X, cap. XV. ritenevano che l'ufficio del «flaminato» non solo fosse onorifico, ma anche lucroso e invidiabile. Una cosa, però, resta da scoprire: gli antichi scrittori ci riferiscono, con molti dettagli, che Io strano apice di tenero ulivo doveva terminare con un leggero, doppio filo di lana. A cosa serviva questo filo? L’ingegnere Pincherle ha costruito uno di questi apici seguendo l'antica descrizione. Si è così accorto che la lana, comportandosi quasi come un elettroscopio, rivela al Flamen, come un prezioso detector, lo sprigionarsi del divino flatus: Naturalmente il Sacerdote di Giove, dopo essersi tolto il suo strano copricapo, doveva appoggiarne l'apex sul foro posto al centro del suo Ietto, in corrispondenza di quel tubo (reso ermetico dalla circumlitio) da cui, in certe circostanze, usciva un fiotto di fredda aria sotterranea. Allora i «nastrini» dell'apex si agitavano e il povero Flamen doveva subire il clistere di aria. Cadendo (diremmo noi) in trance, avrebbe dato «le sorti». Questo è il segreto che Anxur 48 mi ha svelato . ALFEDENA (Aufidena) È situata a 900 metri sul livello del mare, sopra l'alta valle del Sangro, a destra del fiume, presso la confluenza del torrente Torto. Centro sannita espugnato dai Romani nel 298 a.C, conserva una necropoli dell'Età del Ferro. Scarsi sono gli avanzi di mura ciclopiche. ASCOLI PICENO (Ausculum) È situata a 150 metri sul livello del mare, su una pianura alla confluenza del fiume Tronto e del torrente Castellano, alle radici del monte Pelasgo. Era l'antica capitale dei Piceni. Fu conquistata dai Romani nel 286 a.C.. Sussistono brevi tratti di mura in opera poligonale. L'acropoli era sul colle dell'Annunziata. CORTONA (Kurtu) Cortona, dall'alto degli ultimi speroni dell'Appennino Umbro, domina la Val di Chiana, ricca pianura che un tempo era lago (propaggine del Trasimeno). Come si è visto, furono i Sabini e poi gli Etruschi ad insediarsi in Kurtu (che Erodoto chiama «Crestona dei Tirreni»). Diversamente da quello che pensa la maggior parte degli appassionati, i termini “Tirreni” ed “Etruschi” non sono affatto sinonimi. Come già dimostrò Angelo Mazzoldi in Delle Origini Italiche, il termine “Tirreni” era niente più che un sinonimo di “Pelasgi”. Il suo utilizzo ad indicare le genti toscane può trovare due spiegazioni: la prima vede il riconoscimento degli Etruschi quali eredi della Vecchia Europa pelasgica, incontaminata dalle “nuove” migrazioni indo-europee. La seconda si lega alla presenza dei Sabini in Toscana che, in quanto Popoli del Mare, furono chiamati “Pelasgi” da alcuni per i motivi che leggiamo nell’appendice B. 48 Mario Pincherle, La civiltà Minoica in Italia, cap. V Cortona costituisce un enigma storico. La cinta ciclopica, di difforme assetto murario e tendente al quadratum, consta di un nucleo (l'antichissima Larsa) situato sull'alto poggio. Questa acropoli oggi è quasi completamente distrutta. FONDI (Fundi) Città devota al culto di Ercole, posta a cavallo della via Appia. Il suo nome è di origine latina e nasce forse dalla posizione della città nel fondo della valle tra i Monti Lepini e il mare. Fu probabilmente occupata dai Volsci nell’età del Ferro. Un braccio della via Appia fu deviato dal suo percorso rettilineo per attraversarla nel senso del decumano, il ché vuol dire che la città preesisteva alla costruzione della via stessa (312 a.C). Dice il Lugli: La città ha la pianta di un castro militare, cioè di un rettangolo, con gli angoli smussati. Le due vie principali (cardo e decumanus) si tagliano ad angoli retti ed escono dalla città per mezzo di quattro porte incrociate. L'opera poligonale fu usata, a preferenza dell'opera quadrata, a causa della pietra calcarea dei monti circostanti. I massi hanno un taglio assai deciso e netto, ed una adesione mirabile, dello stile ciclopico più perfetto. Vi si trovano inoltre archi rovesci. I tratti delle mura poligonali che rimangono lungo il quadrilatero, quantunque siano pochi, sono tuttavia sufficienti per riconoscere che Fondi ebbe una recinzione continua. Il più bell'avanzo si vede nel lato di nord-ovest, a destra della Porta Romana. Certamente vi fu, o durante la guerra sociale o durante le guerre civili, un importante avvenimento bellico che portò alla distruzione delle antichissime mura poligonali, di cui restano solo brevi tratti. TALAMONE (Telamon) È situata a 35 metri sul livello del mare, sopra un basso promontorio roccioso che chiude il golfo omonimo all'estremità meridionale dei monti dell'Uccellina. Scarsi sono gli avanzi di mura e tutti tendenti all'Opus Quadratum. L'antica Telamon, che per l'omonimia si disse fondata da Telamone, uno degli Argonauti, era situata sulla collina di Talamonaccio, che sorge sulla sponda orientale del golfo, presso la Via Aurelia. Questa Larsa, la cui esistenza ed importanza è sicuramente attestata da molte fonti storiche, per il lungo abbandono e per il conseguente completo interramento, non presenta tratti di mura visibili in Opus Antiquum. È stata aggiunta da Mario Pincherle all'elenco delle Larse sabine perché riteneva che future indagini archeologiche e profonde prospezioni ne avrebbero portato in vista le mura ciclopiche che attualmente non sarebbero più affioranti. Analoghe considerazioni si possono fare per le Larse di Frascati, Marsiliana ed Esperia. ANSEDONIA (Cosa) La collina di Ansedonia, sulla quale sorge l'antica città di Cosa, alla quota di 100 metri sul livello del mare, domina una larga distesa di territorio fra il mare, la laguna di Orbetello e la pianura solcata dalla Via Aurelia. Sullo sfondo verso occidente sale il promontorio Argentario, dove sorgeva il porto nell'Età Romana (portus Herculis). Il Prefetto dell’Urbe Rutilio Namaziano49 osservava nel 415 d.C. che “L’antichissima roccaforte, con le sue ciclopiche mura, ormai giace nell’abbandono”. Scrive il Lugli: Ottima era dunque la posizione strategica, molto simile a quella di Alba Fucense. Conosciamo 50 con sicurezza la data di fondazione della colonia romana, che è il 273 a.C .. Aggiunge Frank E. Brown51, il capo della missione archeologica americana che ha diretto ed illustrato le prime campagne di scavo entro il perimetro dell'antica città: Nulla è stato osservato sul sito di Cosa, nulla rinvenuto alla sua superficie che possa essere attribuito senza questione alla etrusca Cusi o Cusia. Nella porta nord-est si osserva un particolare interessante, cioè un blocco, ancora in posto, sullo stipite settentrionale, la cui faccia interna curvilinea dimostra l'inizio di un arco della luce di m. 3,58. Non vi è dubbio che il blocco sia contemporaneo al resto della porta e che quindi questa e le altre porte di Cosa fossero coperte con archi a conci radiali; su di essi poggiava la camera di manovra della saracinesca. La prova della contemporaneità dell'arco allo stipite si ha nella posterula dell'acropoli, dove restano ancora 52 ambedue le imposte dell'arco che la ricopriva e nel fianco settentrionale anche il primo concio 53 dell'armilla, profonda m. 0,59 (due piedi romani) . L'arco misurava m. 2,66 di diametro (9 54 piedi) . La città ha una pianta trapezoidale che segue l'andamento del terreno, mantenendo il più possibile l'aspetto di un castrum. Infatti la sua superficie è divisa regolarmente in cardini e decumani, intersecanti ad angoli retti nonostante le accidentalità del colle. Dice ancora il Lugli: Il muro di recinzione è assai ben conservato e si presenta uniforme per tutto il percorso (m. 1464); in alcuni punti arriva fino al coronamento originale; solo nell'arce ha sofferto alquanto per le superfetazioni medievali. È costruito in calcare grigio (ricavato, aggiungo io, dalla cava della Tagliata) a blocchi di media grandezza, congiunti con esattezza e ben levigati all'esterno. Solo sporadicamente, e in forma incompleta, si trovano i falsi archi, così frequenti altrove. È fatto generalmente con due cortine riempite a sacco con sassi. La cortina esterna è più accurata e l'interna più rozza, come in Circei, in Norba, in Palestrina. Sono frequenti i triangoli di calzatura e le zeppe; i piani orizzontali sono intenzionalmente evitati, tranne che nelle porte. In alcuni punti del perimetro, e specialmente nel lato sud-occidentale fra le due torri, si osserva, all'esterno del muro, un innalzamento della cortina fatto in epoca tarda per mezzo di filari di blocchi di colore più scuro, con disposizione ad opera quadrata. Poche notizie abbiamo di Cosa dopo la fondazione della colonia romana. Nel 217 alcune navi mercantili romane, che si recavano da Ostia in Spagna, furono catturate presso il porto cosano dalla flotta cartaginese. 49 Fuggì da Roma poiché caduto in disgrazia dopo aver consigliato all’imperatrice Galla Placidia il matrimonio col goto Ataulfo. Riportò per iscritto il suo viaggio lungo la costa maremmana. 50 VELL. PAT., I, 14, 7; Tito Livio, Periochae, XIV. 51 F.E. BROWN, Cosa I, History and Topography, in «Memoirs Americ. Acad. Rom.», XX (1951), p. 12 e sgg.. 52 Cfr. F.E. BROWN, op. cit., p. 44 e figg. 31-33. 53 Ibid., p. 48, figg. 39-41. 54 Queste ed altre misure, specialmente la larghezza delle strade, provano che l'unità di misura seguita nelle costruzioni di Cosa fu esclusivamente il piede romano. ORBETELLO La città di Orbetello sorge su una panchina collinare formata da incrostazioni sabbiose di tipo calcareo, al centro di una curiosa laguna. Quest’ultima è chiusa a ovest dall’isola dell’Argentario, a est dalla Toscana e a nord e a sud da due formazioni lunghe e strette note come “tomboli” innestate alla foce del fiume Albegna e ai piedi del picco di Ansedonia. Quassù si scoprono le mura poligonali di Cosa, per la quale Orbetello fungeva da porto. Un tempo la panchina era un’isola estesa non più di 200 metri oltre la cinta muraria, unita alla terraferma nel Medioevo dal feudatario Pietro Farnese: la sua opera trasformò l’isola in una penisola parallela ai due tomboli. Nella zona dell’odierna cattedrale appare una sopraelevazione di circa quattro metri forse sede di un faro, di una cisterna idrica55 o di un tempio56, in cui a detta di Tito Livio “esisteva un oracolo di fama pari a quello di Delfi”. Virgilio, nel libro VIII dell’Eneide, riporta la presenza di un bosco sacro sabino nella vicina Caere. La cinta muraria in stile poligonale, per Vitruvio57 era un “opera antica di incerta provenienza, realizzata con pietre segate (caementa) e con una tecnica che ormai i Romani non potevano usare perché dimenticata e non più capita”. Nel 1988, l’ingegnere Mario Pincherle seguì la trivellazione di un pozzo del diametro di 1,2 metri tangente alla struttura, mostrando come le mura scendano di oltre cinque metri sotto il livello del mare. L’antichità della costruzione è legata alla profondità della laguna al momento della posa dei blocchi poligonali, mille anni prima della fondazione di Roma, quando il fondale era più basso di tre metri rispetto la quota attuale. La cinta si presenta come un’opera megalitica le cui pietre, intagliate secondo poligoni irregolari adattati gli uni sugli altri, furono estratte da una cava ai piedi del picco di Ansedonia. La cava è nota come la Tagliata: un canale a cielo aperto dalle alte pareti verticali che si restringe inoltrandosi verso la marina e si getta infine a perpendicolo in vicinanza del tombolo sud (tombolo della Feniglia). Si possono ancora osservare, oltre alle tracce di una saracinesca, i segni dei colpi lasciati dai scalpelli in ferro meteorico. Fu costruita dopo il crollo del soffitto nello Spacco della Regina, una galleria in parte naturale allargata dalla mano dell’uomo. 55 Al centro di Orbetello sgorgava una fonte di acqua dolce, in prossimità del Duomo: si ipotizza che fosse frutto di una canalizzazione artificiale creata per rifornire i naviganti antichi. 56 Il ritrovamento di capitelli di tipo orientale lascia ipotizzare che il Duomo sia stato realizzato sopra i resti di un tempio più antico dedicato a Poseidone. Sono infatti stati ritrovati resti litici sferici recanti il suo emblema, il tridente. 57 80-23 a.C., fu ufficiale sovrintendente alle macchine da guerra sotto Giulio Cesare ed architettoingegnere sotto Augusto. In tutte le zone marittime toccate dai Popoli del Mare (Orbetello, Cadice, le coste Mediterranee di Francia, Tunisia e Libia, l’Adriatico Orientale, Mar di Marmara e Bosforo), ritroviamo le più famose tonnare dell’antichità. Le città di Cosa e Posidonia (Paestum) adoravano Poseidone, una divinità che ricalca la figura di Osiride. Secondo la tradizione avrebbe insegnato agli uomini l’arte di costruire tonnare e l’arte arcaica lo rappresentava nell’atto di uccidere un tonno col suo tridente. Solo più tardi il tonno venne sostituito con un delfino. Su alcuni reperti, emersi a Orbetello negli anni ’80 durante lo scavo per la realizzazione di nuove fognature, era visibile la chiara immagine del tridente. Messer Claudio Tolomei58 scoprì un legame tra Orbetello e l’Oriente: Sul monte Argentario [così chiamato perché lì partiva la rotta dell’argento, prima di attraccare a Tartesso in Sardegna e proseguire fino in Libano] dai tempi più antichi la mano dell’uomo ha piantato erbe notabili e rare, palme d’oriente, olivi, viti sarsine e grano 59 saraceno . Nell’epopea sargonide si legge di un porto fondato dal re degli Accadi nel “mare superiore”, il mar Mediterraneo, contrapposto ad Agadé sul “mare inferiore”, ovvero il Golfo Persico: [Sargon] Fece attraccare le navi *…+ richiamandole dagli estremi confini del mare, dalle foreste dei cedri del Libano, 60 dai monti dell’Argento . Toponomastica Betel era il nome di uno dei santuari più importanti di Israele, nonché della città che lo ospitava, in cui, secondo la tradizione, si accamparono sia Abramo che Giacobbe. In ebraico Bet-El significa “Casa di Dio”. Betel non è sempre e soltanto un toponimo ma, talvolta, è il nome di una divinità con un suo culto, conosciuto anche all’epoca pre-israelitica. Il nome si riferisce al Dio cananeo Bêt’ili (chiamato da Filone di Biblos βαίτυλος e dai classici latini Baetulus), un Dio venerato da tutti i Semiti e dal popolino ebraico fino al periodo di Elefantina; Betel, come elemento teoforico, è supportato da alcuni nomi divini, bit-ili-sezib e bit-ili-sar-usur, provenienti dall’ambiente babilonese, e da altri attestati a Elefantina, come Betel-natan, Betel-nuri, Anat-betel. Considerata la presunta fondazione accadica di Orbetello e la successiva occupazione dei Sabini - che adoravano il dio-luna Asar, connesso all’egiziano Osiride – è possibile che “Orbetello” derivi da ASAR-BETEL (lett. La casa del dio Asar). Le navi di Sargon potrebbero esser giunte fino all’Argentario, fondando Orbetello, così che i Popoli del Mare avrebbero ripreso anche in questo caso una rotta già nota agli Accadi, come accadde per le rotte dall’Anatolia alla Sardegna. Scrisse Giovanni Semerano61: Stesicoro (Strabone, lib. I) cantava le sorgenti dell’argento del fiume Tartesso. Il “periplo lunghissimo”, di cui vi è il ricordo in Avieno, attestava l’estensione del meraviglioso regno di 58 Letterato ecclesiastico senese (1492-1556). Dopo aver studiato giurisprudenza a Bologna fu tra i fondatori dell’accademia linguistica degli Intronati. Tra il 1545 e il 1547 fu presidente del Supremo Consiglio di Giustizia del Ducato di Parma e Piacenza, poi vescovo di Curzola, ambasciatore di Siena in Francia e vescovo di Tolone. 59 Riportato in Mario Pincherle, Il Porto Invisibile di Orbetello 60 Ibidem. 61 Giovanni Semerano (Ostuni, 1911 – Firenze, 20 luglio 2005) è stato un filologo italiano, studioso delle antiche lingue europee e mesopotamiche. Tartesso fino al fiume ALEBUS *l’Albegna, la cui foce è subito a nord del tombolo settentrionale+ 62 e i poeti greci vi collocarono la lotta per la conquista del giardino delle Esperidi [la Sardegna] . Dopo i terremoti del 1.200 a.C. la Sardegna divenne una terra paludosa, facile preda della malaria. Il centro nevralgico della civiltà Shardana si spostò da Tartesso a Tiro, in Fenicia. Quando il re di Babilonia Nabucodonosor conquistò la Fenicia nel 586 a.C., gli Shardana indeboliti persero il controllo su Tarsis e ne approfittarono i mercanti greci per prenderne il posto. Tartesso divenne quindi una prospera colonia greca. Da questo momento molti scrittori ellenici, geografi e naviganti scrissero di Tarsis, narrando la storia di quel regno e del re Arghentonios (o Arghentarios). Ormai la città si trovava a dieci chilometri dal mare e solo un piccolo fiume la univa all’oceano. Verso la fine del 500 a.C. i Cartaginesi vendicarono i loro progenitori Shardana-Fenici riconquistando il predominio dei mari occidentali, sconfiggendo Greci ed Etruschi. Due secoli più tardi, i Romani conquistarono la Spagna e cercarono Tartesso nell’Iberia sbagliata (lberia era l’isola di San Pietro di fronte a Nora, in Sardegna): la confusero con Cadice, l’unica città portuale che sembrava degna delle antiche leggende di splendori. L’acqua sabbiosa del Tafone in piena penetra nel bacino di decantazione e ne esce limpida portandosi, per un gioco di paratoie, sullo scivolo lungo il quale giungerà fino alla Tagliata da cui, a gran velocità, verrà “sparata” nel mare a formare la controcorrente indispensabile alla formazione del tombolo. Infatti l’acqua sabbiosa dell’Albegna in piena, stretta tra la corrente marina (che da Nord-Ovest porta a Sud-Est) e la controcorrente, viene frenata ed è costretta a depositare la sabbia lungo una striscia sottile ed arcuata che unisce la terraferma all’Argentario. Si forma così il tombolo della Giannella. La sabbia precipitata diventa fossile, cioè inamovibile. Guardiamo ora con attenzione i due lunghissimi tomboli che collegano l’isola dell’Argentario alla terraferma: si sono formati in epoca storica per decantazione della sabbia trasportata dai fiumi Albegna e Tafone, subito a nord e a sud dei tomboli. Come fa notare il geografo Edouard Gosseaume dell’Università di Parigi, “queste due forme, arcuate in senso contrario, escludono 62 Riportato in Mario Pincherle, Il Porto Invisibile di Orbetello. Secondo Diodoro (libro V, 27) nel giardino vi erano pecore d’eccezionale bellezza, di colore giallo dorato, motivo per cui i poeti le chiamavano “mele d’oro”. Così quelle mele d’oro rubate da Ercole nel Giardino delle Esperidi erano in realtà pecore; si trattò quindi di una “fatica” non dissimile al suo furto della mandria di Gerione, sempre in territorio sardo. assolutamente che i due tomboli possano aver avuto una genesi dovuta alla stessa causa63”. Se uno volesse che la sabbia, mescolata all’acqua di un fiume che penetra nel mare, precipitasse in una data zona, dovrebbe frenare in quella zona il flusso dell’acqua dolce grazie all’aiuto di una controcorrente. Per ottenere che l’acqua dell’Albegna in piena seguisse (anche nella curvatura) l’andamento del tombolo della Giannella era necessaria una controcorrente d’acqua pulita che, partendo dal promontorio roccioso di Cosa, contrastasse l’acqua fangosa. Quest’acqua pulita fu derivata dal fiume Arnine, l’attuale Fiora, attraverso il suo defluente Tafone (l’attuale Pescia). L’acqua venne fatta penetrare in un bacino di decantazione (il lago di Burano) da cui ne usciva limpida. Per aumentarne la forza cinetica era necessario diminuirne il diametro costruendo una strettoia, ovvero il canale della Tagliata. Che il gioco funzionasse non vi è dubbio, dato che intorno al 1860 una maestranza lucchese aprì nel tombolo della Giannella un canale lontano dalla foce dell’Albegna. Grazie alla distanza dalla bocca del fiume, il mare in pochi giorni fece sparire il nuovo canale sotto una duna di rena64. Il tombolo della Feniglia si forma quando l’altro tombolo è già completo. Infatti il tombolo della Giannella è indispensabile a convogliare la controcorrente provocata dall’acqua dell’Albegna in piena, resa limpida attraverso il bacino di decantazione. Così l’acqua sabbiosa del Tafone, prendendo velocità lungo lo scivolo, giunge alla Tagliata e viene sparata in mare e stretta tra la corrente marina (che giunge da Sud-Est e porta a Nord-Ovest) e la controcorrente. Così l’acqua sabbiosa è frenata e deposita la sabbia lungo una striscia arcuata e sottile. Si forma così il tombolo della Feniglia. Per ottenere il tombolo della Giannella fu necessario che l’Albegna in piena scaricasse nel mare acqua ricca di sabbia. Ciò non fu facile da ottenersi dato che, nel periodo di piena, la sabbia si deposita là dove il fiume perde la sua potenza e incontra la pianura, sotto il colle di Marsiliana Calestra. Gli antichi dovettero realizzare la rettificazione dell’alveo del fiume attraverso un canale che in linea retta ne portava l’acqua sabbiosa fino al Tirreno, canale che poteva usufruire di un fondo lastricato, molto scorrevole e di larghezza limitata per accelerare la velocità del flusso idrico. 63 64 Ibidem. Verbale del discorso tenuto dall’ingegnere Giovanni Antonelli il 28 febbraio 1870 presso il Municipio di Orbetello. Vediamo ora come andò la costruzione del tombolo della Feniglia, quando il tombolo della Giannella era già completo. L’acqua derivata dal Tafone (Pescia), giungeva fino alla Tagliata attraverso il tuttora esistente “secondo canale di scivolo della sabbia65”. Con un gioco di paratoie fu chiuso l’accesso al lago di Burano e fu aperto un canale diretto, per evitare la deposizione della sabbia. La controcorrente fu derivata dall’acqua dell’Albegna in piena, resa limpida attraverso il bacino di decantazione (l’antico lago di Osa o Nizzi, esistito fino alla fine del 1700) e deviata a sud del tombolo della Giannella. La laguna era ora nascosta, il porto invisibile. Un vascello accadico, 5.000 anni fa, incalzato dagli inseguitori puntava contro il bosco di pini che sorgeva dal tombolo della Feniglia quasi a fior dell’acqua e scompariva… Nel bosco esisteva un canale navigabile breve e stretto, aperto e chiuso da saracinesche coperte di grandi rami e frasche che le rendevano invisibili. Chi non conosceva il passaggio aggirava l’Argentario, sbigottito dalla scomparsa della nave. Un antico pozzo abbandonato – da Mario Pincherle, Il Libro di Abramo Mi trovavo, appunto, nell’isola onfalica dell’Argentario. Stavo studiando i reperti archeologici che sono conservati nel Duomo di Orbetello. Mi interessavano molto i plinti e le colonne dell’antico Tempio di Poseidone. Scesi nei Sotterranei. C’era il magazzino di una bottega di falegnameria. Si poteva scendere anche più in basso perché esisteva un antico pozzo abbandonato. Sarei potuto scendere nel pozzo che, mi dissero, comunicava con ampi, antichissimi locali completamente oscuri. Con un metro a nastro e un peso misurai la profondità del pozzo. Una cinquantina di metri! Avevo anche a disposizione una lunga scala a corda. Potevo scendere. Confesso che ebbi paura. Persi una grande occasione. Avrei potuto trovare la stele [scritta da Poseidone con lettere d’oricalco+? S. SEVERA (Pyrgi) Il castello di S. Severa, sulla costa tirrenica, a sessanta chilometri da Roma, occupa il sito di un antico recinto fortificato in forma di castro, nel quale si riconosce il porto di Cere, detto Pyrgi. Esso era celebre nell'antichità per il santuario della dea Eileithya, o Leucothea, o Mater Matuta66, fondato, secondo la tradizione, dai Pelasgi. La città è sede di un culto molto antico. La sua pianta e la sua posizione la fanno rassomigliare molto ad Ostia. Anche Pyrgi fu probabilmente in origine un porto militare. L'opera poligonale, in calcare di montagna, presenta fattura regolare con numerosi triangoli di calzatura e con qualche imperfetto pseudo-arco. Attualmente sono stati scoperti altri tratti imponenti di muro in Opus Poligonale. SPOLETO (Spoletium) La città sorgeva a 300 metri sul livello del mare, su un pendio a terrazzamenti alle pendici del monte Luco. Fu alle origini città dei Sabini e poi degli Umbri e cadde in potere dei Romani 65 Fu riscoperto in occasione dei lavori di bonifica del 1859. Se ne trova traccia nel “Rapporto a Sua Eccellenza il Governatore Generale della Toscana sulle operazioni idrauliche ed economiche eseguite negli anni 1859-60 nelle Maremme Toscane. Firenze 1860 (con carte topografiche)”. Copia del rapporto si trova nel lavoro dei professori Rodenwaldt e Lehmann del 1961, “Gli antichi emissari di Cosa-Ansedonia. Un contributo alla questione della canalizzazione in Maremma nell’epoca etrusca. 66 Strabone, p. 226; Diodoro Siculo, XV, 14; M.I. Finley, Aristotle’s Oeconomicus, The Classical Review (New Series) Vol.20, Issue 3, 1970, II, 21; Po-LYAEN., 2, 21); cfr. G. WISSOWA, Religion und Kultus der Römer, München 1912, p. 110 e sgg.. durante la terza guerra sannitica. Diventò colonia latina nel 241 a.C.. Durante la seconda guerra punica respinse l'assedio di Annibale. La rocca medioevale fu costruita sui resti dell’acropoli della città antica. Questa era cinta da mura poligonali (di cui rimangono sezioni incluse nei muri più recenti) con restauri del terzo secolo a.C.. La porta detta arco di Montenerone è opera romana del secolo terzo a.C.. POLICASTRO BUSSENTINO Policastro (SA) si trova sulla costa tirrenica, al centro del golfo omonimo presso la foce del fiume Bussento. Il centro storico di Policastro (romana Pyxous) è racchiuso da una cinta muraria medievale del periodo della dominazione normanna, databile all'epoca di Ruggero I (XI secolo), ed è dominato da un castello fortificato, già fortezza bizantina del VI-VII secolo. E' ben visibile come le mura medievali poggino su strutture più antiche in opera POLIGONALE, conservate per un'altezza che varia grosso modo da 3 a 6 metri. Le prime menzioni della città sono relative al momento della sua occupazione ad opera di Mikythos, tiranno di Rhegion67 (Reggio Calabria), avvenuta nel 471/470 d.C., sia secondo Strabone che Diodoro Siculo. Strabone racconta che la maggior parte dei coloni reggini l’abbandonarono poco dopo l’occupazione. Dopo un silenzio di quasi tre secoli, è Livio che torna nuovamente a parlarne in riferimento alla deduzione della colonia marittima romana di Buxentum, nel 194 a.C. (ulteriormente rinforzata nel 186 a.C.). In epoca imperiale la città è citata dai geografi, mentre dall'epigrafia apprendiamo che si trattava di un municipium retto da duoviri e iscritto alla tribus Pomptina, dotato di un foro e di un macellum. La città è ancora menzionata nel VI secolo d.C. da Stefano Bizantino, quand’era già una fiorente sede vescovile, della quale sono noti il vescovo Rustico (501 d.C.) e il vescovo Agnello (592 d.C.). Al termine della guerra goticobizantina la città passò sotto il dominio dei Bizantini (ai quali si deve il nuovo nome Palaiokastron) e fu munita di un fortilizio sul punto più elevato della collina68 e di una chiesa. Quest’ultima (una trichora) fu inglobata nell'attuale duomo trecentesco, il quale ha conservato fino al 1848 il nome greco di S. Maria di Odeghitria. Dopo vari secoli di silenzio (sicuramente falsa è la notizia di una distruzione saracena della città nel 915), la città compare nell’XI secolo sotto il dominio normanno ed è citata da Edrisi nel XII secolo quale fortilizio grande e popolato. Dal XIII al XV secolo la città fu alternativamente dominio feudale dei Sanseverino, dei Ruffo, dei Grimaldi, dei Petrucci, dei Carafa. Il progressivo insabbiamento del suo porto69 e le successive distruzioni cui la città fu sottoposta nel 1320 (ad opera dei genovesi di Corrado Doria), nel 1543 (ad opera del pirata Khair-el-Din, detto il Barbarossa) e nel 1552 (ad opera di Dragut pascià) sancirono la sua definitiva decadenza e riduzione a piccolo borgo. 67 Rhegion era nota anche come Erythrà (Ερυθρά, La Rossa) e rivela insediamenti a partire dal III millennio a.C.. Che Erythrà sia un appellativo riferito alle città di antica occupazione Sabina? In tal caso, esiste un legame tra Erythrà e Sardux (=rosso vivo)? 68 La datazione del fortilizio è stata recentemente confermata dal rinvenimento di monete neo-greche del VI-VII secolo in saggi esplorativi condotti all'interno del castello. 69 Si consideri che oggi la foce dei Bussento è avanzata di circa 3500 metri rispetto all'età romana. Nonostante ciò il porto pure era ancora abbastanza importante alla fine dei XIII secolo, essendo la base antiaragonese più importante durante la guerra dei Vespri. SARACENA Le origini di Saracena si perdono nella foschia del passato ed acquistano sapore di leggenda. Si vuole che discenda dall’Antica Sestio, fondata dagli Enotrii, come riferiscono Strabone e Stefano di Bisanzio. Padre Fiore nella sua “Calabria Illustrata” così parla di Saracena: Terra antichissima è la medesima che già fiorì col nome di Sestio, edificata dagli Enotrii *…+ intorno al 2256 a.C.. Abbiamo già visto che i termini “Enotrii” e “Sabini” si riferivano spesso alle stesse genti, mentre la data è compatibile con la nostra ricostruzione. Non sono state ritrovate (per ora) tracce di muratura poligonale ma l’estrema antichità della città ci sprona a maggiori indagini. Nel 900 dell’era cristiana, la città venne conquistata dai Saraceni, i quali vi fissarono la loro sede. Poco dopo l’esercito imperiale di Costantinopoli assalì e distrusse la città. In ricordo di questa leggenda troviamo un antico affresco sul frontespizio della cappella di S. Antonio e nella sacrestia di S. Maria del Gamio, nel timbro comunale e nel gonfalone di Saracena, dove è raffigurata una donna che fugge, avvolta in un lenzuolo, con intorno la scritta: “Universitas terrae Saracinae”. Il nuovo paese, sorto successivamente intorno al castello baronale, cinto di mura e fortificato di quattro porte (Porta del Vaglio, Porta S. Pietro, Porta Nuova e Porta dello Scarano), con l’arrivo dei Normanni, diventò dominio feudale. Il Feudo di Saracena, valutato quarantamila ducati, appartenne ai Duchi di S. Marco e poi ai Principi di Bisignano. Alla fine del 1600 fu acquistato all’asta pubblica, per 45.000 ducati, dal Duca Laurenzana Gaetani, il quale, intorno al 1613, lo cedette ai Signori Pescara di Diano. Dopo la morte del Duca Pescara, avvenuta nel 1515, il Feudo di Saracena passò sotto il dominio dei Principi Spinelli di Scalea, dove vi rimase fino al 1806. Il 14 Agosto di questo stesso anno, per volere di Napoleone Bonaparte, fu emanata la legge eversiva della feudalità, con la quale questa veniva abolita. I suoi feudatari abitarono il maestoso castello fino al XIII secolo. Edificato nel punto migliore del paese, abbracciava con la sua imponenza un ampio scorcio paesaggistico: le rive marine da quelle di Cerchiara fino a Capo dell’Alice, le montagne della Sila, la Valle di Cosenza e tutti i paesi che vi stanno intorno. Questo castello, originariamente era dimora di illustri personaggi, conteneva sale lussuosissime ricche di preziosi ornamenti; era bella a vedersi soprattutto la cosiddetta “ministalla”, un ampio locale per cavalli. Il castello in seguito fu soggetto a devastazione, le mura e le torri furono distrutte e per poco compenso ne furono vendute le pietre, i mattoni e le travi. Un certo Leone Rotondaro acquistò l’intero edificio che fu restaurato ed adibito ad abitazione. Un manoscritto rinvenuto all’interno dello stesso castello ci fornisce notizie dettagliate sulla storia di quest’ultimo. Il manoscritto testimonia che il castello, di antichissima costruzione, era munito di torri e di molte uscite sotterranee ed era chiamato “Castello di Sestio” perché difendeva la città. Nel X secolo d.c. la città di Sestio, occupata dai Saraceni, fu presa dai Costantinopolitani che distrussero la città. Gli abitanti che riuscirono a sfuggire all’assalto si rifugiarono ai piedi del castello e intorno ad esso costruirono case; nacque così un piccolo paese chiamato “Saracina” in onore della donna saracina che aveva tenuto le sorti della città. Questo paese fu fortificato da mura e si fecero quattro porte con le torri, simili a quelle del castello, per difendere il paese dagli assalti dei nemici. Anton Sanseverino alla fine dell’anno mille fece costruire il braccio che corrisponde all’attuale parrocchia di San Leone. TODI (Tuder) È situata a 411 metri sul livello del mare su un colle dominante la confluenza del Tevere col torrente Naia. Dopo i Sabini passò agli Umbri e dal quinto al terzo secolo fu un fiorente centro etrusco. Passata sotto l'influenza romana divenne municipio durante la guerra sociale e fu iscritta nella tribù Clustumina. In età augustea vi fu dedotta una colonia (Julia Tuder). Sulla rocca si trovavava l'acropoli antica di cui rimangono alcuni tratti delle mura di travertino in Opus Reticulatum vel Quadratum; pochi i tratti in Opus Antiquum. ESPERIA (Esperia) È situata a 370 metri sul livello del mare, alle falde settentrionali dei monti Aurunci, in vista della valle del Liri. SATURNIA È situata a 290 metri sul livello del mare, in posizione dominante la confluenza del torrente Stellata con l’Albegna. Nell'antichità il territorio appartenne a Kaletra e poi a Vulci, in epoca etrusca. Nel 280 a.C. passò a Roma e vi fu dedotta una colonia nel 183 a.C.. Restano tratti di mura a blocchi poligonali in travertino e tracce di vie antiche. MINTURNO (Minturne) È situata a 140 metri sul livello del mare, sulle pendici dei monti Aurunci, a tre chilometri dal Garigliano, a due miglia dalla foce. Divenne romana nel 314 a.C. e vi fu dedotta una colonia nel 295 a.C.. Il luogo divenne insalubre per la malaria all’epoca della colonia romana. Dice il Lugli: La via Appia costituiva l'asse principale della città antica, attraversando il Foro al suo centro per poi valicare il fiume Garigliano sul ponte detto Tirenus. Vicino alla città, lungo la riva destra del fiume, vi erano il tempio ed il bosco sacro della Dea Marica. Gli avanzi del tempio sono nella località «Le Grotte», dove i recenti scavi hanno restituito una ricca stipe votiva arcaica. Rimangono notevoli tratti dell’antichissima cinta muraria con struttura a blocchi poligonali. Le torri accanto a queste mura sono invece opera romana della prima colonia (Opus Reticulatum). S. FELICE CIRCEO (Circeii) Livio (I, 56, 3) e Dionigi (IV, 63, I) attribuiscono la fondazione di Circeì ai coloni latini inviati da Tarquinio il Superbo. Il nome di «Circeì» deriva forse dalla configurazione circolare e quasi isolata del monte, che tremila anni fa era circondato dalle acque. Così lo vedevano i naviganti greci che costeggiavano il litorale laziale, i quali vi collocarono la leggenda di Circe e di Ulisse (Cfr. Plinio, Nat. Hist, III, 9, 57). Dice il Lugli: Circeì fu colonia di diritto latino dal 393. Rimangono importanti resti della Larsa in mura poligonali sotto la cerchia medievale; si tratta di blocchi irregolari, non squadrati e non levigati, con larghi interstizi riempiti con scaglie di risulta. L'acropoli è notevolmente distante dalla Larsa, sopra una collina scoscesa verso ponente; ha la forma di un trapezio irregolare, con due porte presso gli angoli nord ed est. Le mura non sono costruite a mezza costa e quindi addossate al terrapieno, come di solito nelle Larse sabine, ma sono in vetta, isolate da ambedue i lati per la maggior parte del recinto. Si nota inoltre un doppio sistema di muratura fra l'esterno e l'interno, fatto ad arte per risparmio di tempo e di materiale. All'esterno la parete è liscia con blocchi ben squadrati e ben levigati, uniti al filo gli uni con gli altri e con incastri per maggiore solidità, mentre all'interno i blocchi sono informi ed assai vari per grandezza, con zeppe intermedie. Lo spessore della cinta è di un paio di metri. Perché fondare la Larsa a così grande distanza dall'acropoli e non farne una cosa sola? Il sito della città non ha una particolare ragione strategica, mentre quello dell'acropoli risponde totalmente ad un criterio militare; ambedue sono molto estese per considerarsi l'una come semplice supplemento dell'altra. Il muro che le congiunge è un raccordo posteriore. Vi sono inoltre differenze notevoli nelle due opere poligonali perché quella della Larsa è tutta molto rozza, mentre quella corrispondente dell'acropoli, cioè la cortina esterna, è ben rifinita. Il Lugli acutamente osserva: La mancanza di torri è un elemento che conferma la grande antichità di Circeì. Vi è una sola linea difensiva continua e adattata alla conformazione del terreno; le porte sono aperte al filo del muro, senza alcun accorgimento difensivo; la copertura di esse con architrave in piano e chiusura eseguita mediante un unico battente, fermato dall’interno con una trave orizzontale, attestano che Circeì è anteriore ad Alba Fucense, dove esistono già le Cateracta. Parlando dell’acropoli di Alatri, lo storico don Giuseppe Capone, narrò l'esistenza di un masso dove gli abitanti vollero riprodurre una planimetria d'ausilio a chi vi entrasse. Essa comprendeva il progetto e l'esecutivo: il primo era rappresentato da un complesso elaborato che permetteva di comprendere l'opera in tutte le sue peculiarità; il secondo era un prodotto più semplice, dedicato all'intesa di tutti. Forse ogni acropoli, in Italia, ebbe una pietra simile a quella di Alatri, e la stessa potrebbe essere stata da prima l'esecutivo per le maestranze dedite a realizzare la città ciclopica, poi la piantina cittadina. Questa pietra, nei Circei si trova sul lato nord della cinta muraria e colpisce per le sue dimensioni e per la conformazione (vedi schema); in particolare, la sua parte superiore risulta ben levigata e perfettamente in piano (W). Il blocco megalitico è collocato sul piano di campagna, senza l'ausilio di supporti sottostanti per sorreggerlo, e si trova nel punto esatto dove si intersecano la traiettoria del primo raggio di sole all'alba del solstizio d'estate e il lato nord dell'acropoli. Analizzando le misure del blocco, si scopre una relazione di proporzionalità con le misure della città, alla scala di 1:100. Guardiamo la rappresentazione grafica tridimensionale, dove il piano verticale (M) è definito dalle lettere ABCDEF e la profondità dai punti AL. Il lato AB è uguale a 2,44 metri, che moltiplicato per 100 da esattamente 244 metri, la lunghezza del lato nord della città. Stessa situazione si ripete per gli altri lati. Un'ipotesi tra le tante ritiene che la pietra, oltre ad essere una rappresentazione della Larsa stessa, svolgesse anche il compito di "luogo del tributo". Se così fosse stato, chiunque avesse voluto entrare nella città sarebbe dovuto passare per una via che transitava dinanzi al blocco e, in relazione al motivo per cui giungeva nell'acropoli, avrebbe dovuto lasciare in proporzione un tributo sul piano orizzontale della pietra. Un’altra ipotesi identifica questa pietra come un altare sacrificale, vista la sua relazione con il primo raggio di sole all'alba del solstizio d'estate. Purtroppo i restauri frettolosi degli anni ’90 non hanno riconosciuto l’altare e lo hanno incorporato nei corsi di muratura, così che ora non si può osservare. FRASCATI (Tusculum) È situata a 327 metri sul livello del mare, alle pendici dei Colli Albani. Si accrebbe per l'afflusso degli abitanti dell'antica Tusculum che confinava con essa. Gli avanzi di mura sono quasi tutti in Opus Reticulatum. AMELIA (Ameria) È situata a 406 metri sul livello del mare, su un colle posto sulla destra del torrente Fossogrande. Si incontrano grandiosi resti della cinta di mura sabine in opera poligonale. MARSILIANA (Albinia) È nota per la necropoli paleoetrusca della Banditala, le cui tombe a inumazione, a fossa e a circolo, restituirono la famosa tavoletta in alfabeto graffito nel senso retrogado, contenente le ventidue lettere «archetipiche» di derivazione iberica, oltre a oggetti di bronzo, d'oro, d'argento e di ferro. Le mura della Larsa, se esistono, non sono affioranti. MOIO DELLA CIVITELLA Appartiene al territorio del basso Cilento, situato alle falde nordoccidentali del Monte Sacro (1705 m), nell'alta valle del torrente Badolato, affluente di sinistra del fiume Alento. L'abitato si addossa alle pendici del monte Civitella (818 m). Sulla sommità del colle sussistono resti di mura greche e di costruzioni di Età Romana. Nel Medioevo appartenne molto probabilmente come casale a Vallo della Lucania. Nel secolo XVIII il borgo era possesso della famiglia Pepe con il titolo di baronia. Del 1928 al 1945 il comune fu aggregato a quello di Vallo della Lucania. I resti della rocca greca sono composti da grossi blocchi regolarmente squadrati, disposti sul finire del V secolo a.C. probabilmente dai Greci della vicina Elea. La fortificazione si conserva per gran parte del perimetro di circa ottocento metri. Sul lato orientale le fortificazioni assumono notevole spessore ed imponenza; sul versante meridionale, dominante i valichi montani, si distingue una porta particolarmente munita ed articolata del IV secolo a.C.. Nell'area interna si intravvedono resti di abitazioni e di una area sacra. Una cappella, probabilmente del secolo XIV-XV, è oggi completamente trasformata da costruzioni e rifacimenti del secolo scorso. Dal 1811 al 1860 il comune ha fatto parte del circondario di Vallo, appartenente all’omonimo distretto del Regno delle Due Sicilie. E’ stata segnalata la presenza di gallerie di epoca sabina. Curiosa la leggenda tradizionale che le vuole abitate da uomini-anfibio, simili allo Iohannes mesopotamico.