ernesto paolozzi - Fondazione Luigi Einaudi

annuncio pubblicitario
ERNESTO PAOLOZZI
Croce e il pensiero totalitario
E’ inutile dire che discorrere di Croce e il totalitarismo, o anche solo del
pensiero totalitario, importerebbe ricostruire non solo l’intero pensiero del
filosofo ma anche la storia del Novecento, della quale egli fu in gran parte
protagonista.
Preliminarmente si può, a scopo essenzialmente didascalico,
schematizzare suddividendo in tre aree la polemica antiautoritaria di Croce:
nei confronti del comunismo, del fascismo e del nazismo, e, infine, di una
parte del pensiero illuminista allorché assunse le caratteristiche che oggi
definiremmo del totalitarismo democratico. Anche se, per alcuni aspetti, si
potrebbe ipotizzare una fin troppo facile suddivisione cronologica fra le varie
fasi della polemica crociana, esse invece, per alcuni aspetti, si
sovrappongono. Una distinzione netta si può operare soltanto fra
l’opposizione al comunismo e quella, posteriore, al fascismo. Ma, a
ripercorrere l’itinerario crociano, risulta evidente che la polemica
anticomunista si riaccende prepotente nel dopofascismo ed anzi, potremmo
dire, si accentua rispetto all’inizio del secolo. Così per l’opposizione alle
derive totalitarie della democrazia nata dalla Rivoluzione francese: bisogna
considerare che essa è presente sempre, dai primi anni del Novecento, gli
anni della polemica antipositivista, al secondo dopoguerra allorché il vecchio
filosofo si confrontò aspramente con l’azionismo ed i suoi ideologi.
Nel 1900, Croce pubblica Materialismo storico ed economia marxistica
che rappresenta la prima fase dell’interpretazione crociana del marxismo.
Nella Prefazione, del luglio 1899, il giovane filosofo, così legato all’unico
maestro che riconoscerà, Antonio Labriola, espone con evidente chiarezza la
sua valutazione critica del marxismo. “Mi sembra opportuno far notare, scrive,
che i miei scritti (…) rappresentano in Italia, nella interpretazione e critica
delle dottrine marxistiche, la medesima tendenza, che si è venuta svolgendo
quasi contemporaneamente in Francia per opera del Sorel, e che procura di
liberare il nocciolo sano e realistico del pensiero del Marx dai ghirigori
metafisici e letterari del suo autore, e dalle poco caute esegesi e deduzioni di
scuola. Mi auguro che i saggi del Sorel, così importanti, vengano presto
anch’essi raccolti in volume. Avvertirò anche che, per quel che concerne la
prima fase del pensiero del Marx e la sua costruzione filosofica e metafisica
(la quale resta come strascico, e talvolta come semplice fraseologia, nei suoi
scritti posteriori), io non ho avuto occasione di farvi se non qualche accenno,
piuttosto per indicare le questioni di genesi storica e di critica teorica da
risolvere, che non per risolverle io stesso.” (1)
Ma, in cosa consiste dunque la rivisitazione del pensiero di Marx, e in
che senso essa è interessante per la critica all’autoritarismo che è l’oggetto
della nostra indagine? In parte lo si è già visto dalla lunga citazione. E’ la
critica a quello che, con linguaggio moderno potremmo anche definire
riduzionismo di Marx e che invece Croce denomina metafisica, conferendo a
questo termine, naturalmente, un significato traslato, a voler indicare un
atteggiamento generale che restringe l’infinita pluralità delle vicende umane
ad un'unica principio esplicativo. Da questo punto di vista il pensiero di Croce
non muta negli anni, tant’è che in un saggio molto posteriore, del 1947,
L’immaginario passaggio del comunismo marxistico dall’utopia alla scienza,
afferma con chiarezza: “Mi pare di aver dimostrato con la dovuta nettezza
che il Marx, se compiè un travestimento materialistico o piuttosto
economicistico dell’idea hegeliana, non recò nessuna correzione speculativa
e logica a quel sistema, del quale accettò tutt’ intera e quasi unicamente, la
parte deteriore e antiquata, in ultima analisi, di provenienza teologica.” (2) Se,
dunque, è chiara ed evidente l’individuazione dell’aspetto intrinsecamente
totalizzante e, dunque, totalitario, della filosofia marxiana e, ciò che è
rimarchevole, della derivazione hegeliana di essa, per cui si può
tranquillamente affermare che l’hegeliano Croce individua che ciò che è
morto del pensiero del grande filosofo di Stoccarda è proprio l’aspetto
totalitario, è altresì rimarchevole, e quasi a ulteriore prova, che egli salva del
pensiero di Marx il tratto che potremmo definire metodologico. Infatti, già in
quel primo volume del Novecento, nel saggio Sulla forma scientifica del
materialismo storico, scrive: “E, certo, è noto per comune proverbio che
l’interesse è fortissimo movente delle azioni degli uomini e si cela sotto le
forme più varie; ma non è men vero che a chi si faccia a studiare la storia
dopo essere passato attraverso le lezioni della critica socialistica, accade
come al miope che si sia fornito di un buon paio di occhiali: vede ben
altrimenti, e tante ombre incerte gli svelano i loro contorni precisi” (3)
E’ la ben nota interpretazione crociana secondo la quale il marxismo è
un buon canone d’interpretazione della storia, non quello assoluto, che
sarebbe appunto una idea metafisica, ma quello che, avendo in parte
riproposto e in parte svelato la forza dei rapporti economici nel promuovere la
storia, ha aperto nuovi orizzonti all’intera filosofia. Se sul terreno etico-politico
il socialismo, che in quest’epoca Croce identifica con il comunismo, ha
contribuito a creare un movimento generale di liberazione degli oppressi,
degli svantaggiati, sul piano squisitamente teoretico, come Croce ricorderà in
tantissime occasioni, ha contribuito a compiere quell’importante passo che il
filosofo napoletano identificherà nella scoperta dell’utile come valore
spirituale. Ciò che colloca Marx nella grande tradizione del cosiddetto
realismo politico che ha proprio in Italia, con Machiavelli prima e Vico poi, i
suoi padri fondatori insieme, naturalmente, al pensiero di Hobbes.
Ma a noi qui interessa fondamentalmente cercare di comprendere
quale sia l’atteggiamento generale di Croce di fronte al marxismo, o
socialismo marxista, dal punto di vista della critica al totalitarismo. E’
indubitabile, ad esempio, che il tono dei primi saggi rispetto a quelli degli anni
della maturità e della vecchiaia, è diverso: molto più comprensivo e,
vorremmo dire, disteso. Tant’è che nei primi anni del secolo non furono pochi
coloro i quali, in Italia e fuori d’Italia, vollero considerare Croce quasi un
revisionista del marxismo stesso se non un marxista ortodosso pentito,
etichetta che Croce, com’è noto, rifiuterà a più riprese.
Un primo cambiamento di rotta, per certi versi quasi una svolta, avviene
nel 1911, con la ben nota intervista sul socialismo (4). In questo vivace
scritto, come sempre sono gli scritti in forma dialogica, Croce traccia un
bilancio sia della sua esperienza personale, dai rapporti con Labriola a quelli
con Sorel, sia dell’esperienza del socialismo nelle sue due versioni
fondamentali, quella cosiddetta utopistica e quella cosiddetta scientifica di
origine marxistica. Come sempre, secondo il suo metodo, egli cerca di
sceverare fra ciò che è vivo e ciò che è morto, cogliendo i tratti positivi del
socialismo, il contributo fondamentale che ha portato alla storia della civiltà,
ma anche i suoi intrinseci limiti, per cui, come moto complessivo, è andato
sbiadendo fino a morire. Il socialismo è morto, dunque, per Croce, già nel
1911. Questa dichiarazione va, come è ovvio, immediatamente messa in
relazione all’altra, del 1938, che dà il titolo ad un saggio introduttivo per la
ristampa del saggio di Antonio Labriola In memoria del Manifesto dei
comunisti e poi ripubblicato in appendice ad una nuova edizione del volume
del 1900: Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia(1895-1900).
Ripercorre il suo fondamentale sodalizio con Labriola e, ancora una volta,
disegna il suo distacco dal marxismo sia sul versante filosofico che su quello
degli studi economici, confermando sostanzialmente l’interpretazione che
abbiamo già commentato distinguendo ancora fra la versione metodologica
del marxismo e quella metafisico-totalitaria.
E’ inutile dire che sia la certificazione di morte del socialismo dell’11
che per l’altra del marxismo teorico scatenarono una dura e ampia polemica.
E, in verità, ad una lettura superficiale, i fatti, i puri e semplici fatti,
sembravano dar torto a Croce con elementare evidenza. E proprio ciò
dovrebbe insospettire il critico perché troppo ingenuo sarebbe stato Croce a
lasciarsi sorprendere così semplicemente dalla storia. A pochi anni da quella
dichiarazione di morte, il socialismo avrebbe preso una tale forza da
diffondersi sempre più non solo nel mondo occidentale ma al punto da
arrivare al potere in uno dei più grandi paesi del mondo:la Russia. E ancora,
negli anni successivi fino al 1938 e ancor più, come è noto, alla fine della
seconda guerra mondiale, esso si sarebbe diffuso nelle democrazie liberali e
per qualche anno sarebbe stato quasi egemone proprio nel mondo della
cultura, nelle Università, nelle redazioni dei giornali, fino a diffondersi nel
cinema, nel mondo dello spettacolo, nella più varia saggistica letteraria,
filosofica e perfino scientifica. Poteva Croce non essersi accorto di tutto
questo? E negli anni successivi, fino alla sua scomparsa nel 1952, quasi non
accorgersi di ciò che gli accadeva attorno, dato che mai smentì quelle due
certificazioni di morte?
E, infatti, come già del resto affermava nell’intervista, e come si desume
da tutta la sua opera, egli intendeva certificare appunto la morte teorica del
marxismo e il capovolgimento etico-politico di una dottrina nata sulla spinta
generosa della palingenesi sociale e lentamente tramutatasi in una terribile
macchina totalitaria.
In un libro meditato e profondo, che non è un’intervista e nemmeno un
sia pure brillante scritto autobiografico, Storia d’Europa nel secolo
decimonono, Croce determina qual è il suo concetto di socialismo, per cui si
desume con tutta evidenza che egli intende per morto il socialismo illiberale
contro il quale egli si batterà, senza per questo, ovviamente, pensare
ingenuamente, quasi scioccamente che il socialismo nella sua versione
totalitaria non sia malauguratamente ben vivo e vegeto. Mentre invece esso
dovrebbe lasciar posto, semmai, al socialismo democratico e liberale. E infatti
scrive lapidariamente: “Il socialismo, ove si prescinda dalle utopie che vi
aderiscono di redenzioni o transumazioni dell’umanità mercé un rivolgimento
puramente economico e pertanto materiale o materialistico, e lo si guardi
direttamente nella sua effettuale realtà, è un moto d’ascensione o un impulso
dato all’ascensione di quegli strati sociali, di quelle moltitudini, che erano
rimaste nella vita pubblica piuttosto passive che attive; e, in quanto moto di
ascensione, è sociale e non antisociale, storico e non antistorico, e perciò né
si può reprimerlo e domarlo, quasi sia uno sfregamento beduino, col
contrassalto della violenza, né lenirlo e risanarlo con la carità e la
beneficenza, quasi un’infermità.” Ma aggiunge:”socialismo senza libertà, o
non attuato mercé la libertà, non è vero socialismo.” (5)
Per certi aspetti è più agevole tracciare il quadro dell’opposizione
crociana al totalitarismo nazifascista. A parte la questione puramente
storiografica che non impegna la posizione morale del filosofo riguardo
all’iniziale incomprensione del fenomeno fascista, è evidente ed a tutti nota la
esemplarità dell’opposizione di Croce che divenne, compassare degli anni, in
Italia e in tutto il mondo libero, un’opposizione simbolica nel senso,
naturalmente, alto e forte del termine. Il filosofo della libertà, lasciato quasi in
solitudine a combattere con le sue sole armi, quelle della critica, il regime
fascista prima e quello nazista in seguito.
Fra i tanti testi che si potrebbero citare è utile, perché si fughi ogni
equivoco, ricordare Il Manifesto degli intellettuali italiani antifascisti del 1°
maggio 1925, che è un atto pubblico solenne,indubitabile. Croce infatti fu
l’estensore di questa “protesta”, come egli dice, su richiesta di alcuni amici e,
fondamentalmente, di Giovanni Amendola, dal cui carteggio con il filosofo si
desume con evidenza quanto difficile fu raccogliere le firme di altri intellettuali
e come la figura di Croce immediatamente divenne il punto di riferimento
morale degli antifascisti italiani.
Importa di più, dunque, cercare di comprendere la natura intima,
vorremmo dire, della posizione crociana, al di là delle tante ed evidenti
posizioni politiche su singole questioni che il filosofo e senatore affrontò in
quegli anni. Non si può certo dimenticare la ferma protesta contro il
Concordato perché, in quella sede apparirà ancor più chiaro l’intento
antiautoritario di Croce che denuncerà l’accordo, in quel preciso momento
storico, fra due forze che appaiono entrambe totalitarie: la Chiesa come
organizzazione ed il regime fascista. L’opposizione di Croce, naturalmente,
non inficia la considerazione più generale che egli ebbe della civiltà cristiana
come mostra, per non citare altro, il noto saggio Perché non possiamo non
dirci cristiani.
Ma torniamo al manifesto, nel quale il filosofo, rispondendo al Manifesto
degli intellettuali fascisti del 21 aprile, scriveva: “Nella sostanza, quella
scrittura, è un imparaticcio scolaresco, nel quale ogni punto si notano
confusioni dottrinali e malfidati raziocini: come dove si prende in iscambio
l’atomismo di certe costruzioni della scienza politica del secolo decimottavo
col liberalismo del secolo decimonono, cioè l’antistorico e astratto e
matematico democratismo con la concezione sommamente storica della
libera gara e dell’avvicendarsi dei partiti al potere.”(6) Ancora Croce
polemizza con la retorica della doverosa sottomissione degli individui al Tutto.
In queste poche righe si compendia il pensiero del filosofo che nel distaccarsi
ancora una volta dal democraticismo conferma la sua inappellabile
opposizione ad ogni concezione che ponga lo Stato come sovrano assoluto,
come Stato etico. E immediatamente viene alla memoria l’ironia con la quale
Croce colpisce la posizione gentiliana da lui definita una idea “governativa”
della morale. E’ in gioco qui non solo la normale avversione politica per un
regime indesiderato ma l’idea stessa, che in qualche modo e sia pure
confusamente è a fondamento di quel regime, che è appunto quella che
modernamente definiremmo totalitaria dello Stato e della storia.
In una intervista rilasciata alla “New Republic” dell’agosto del 1937 (7),
è possibile, ancor più chiaramente data la sede, rintracciare elementi
fondamentali della posizione crociana. Il filosofo distingue, innanzitutto, fra
l’autoritarismo che potremmo dire antico e quello che invece si caratterizza ai
suoi tempi e scrive: “Ma l’autoritarismo dei nostri giorni, o quello che si profila
nell’avvenire, è irreligioso e materialistico, nonostante le finzioni retoriche e i
fanatismi e si riduce a un brutale dominio di violenza sui popoli, costretti a
non vedere e a non sapere, e a lasciarsi condurre e a obbedire.” Questa è
dunque una caratteristica peculiare, secondo Croce, dell’autoritarismo del
Novecento, che si distingue nettamente dalle forme di teocrazia o di
oligarchia del passato. Non solo dunque, come nella polemica strettamente
filosofica ha sostenuto, l’idolatria dello Stato inteso come unico universale,
ma l’irrazionale che, contraddicendo se stesso, si riduce a dominio dell’ordine
sul presunto caos. Ma, ancora più precisamente, è caratterizzato nella pagina
precedente, allorché si individua nel dominio delle cosiddette masse che tutti i
totalitarismi del Novecento chiamano in causa come a giustificare se stessi.
“Il sano senso politico, scrive, non le ha mai concepite (le masse) come
direttrici della società ma ha sempre attribuito questo ufficio direttivo a una
classe non già economica, ma politica, capace di governare. Il problema non
è dunque di masse ma di classe dirigente.” Non solo, se infatti è evidente il
richiamo crociano agli atteggiamenti che potremmo definire populisti, tipici
delle moderne dittature che legittimano i loro soprusi appellandosi di volta in
volta al consenso popolare o, come diremmo oggi, all’opinione pubblica, non
è men vero che il filosofo pensi anche alla crisi che le stesse democrazie
vivono allorché scivolano in forme di totalitarismo, sia pure mite. Dice infatti:
“Il liberalismo è, tutt’insieme, amico e avversario della democrazia (…) ma è
avversario della democrazia quando questa tende a sostituire il numero della
quantità alla qualità, perché sa che, così facendo, la democrazia prepara la
demagogia e, senza volerlo, le dittature e le tirannie, distruggendo sé
medesima.”
Qui forse Croce pensava a Tocqueville che, in verità, cita poco nei suoi
scritti. Eppure sembra di leggere una delle tante, acute descrizioni della
possibile degenerazione della democrazia americana in dittatura della
maggioranza. E non vi è, credo, che non veda un sostanziale comune sentire
con l’Ortega del 1930, l’Ortega de La ribellione delle masse. Un Croce,
insomma, che si situa, coscientemente o inconsapevolmente, a pieno titolo in
quella tradizione di liberalismo critico che da Tocqueville giunge alla Hanna
Arendt de Le origini del totalitarismo.
Ma è forse in un saggio del 1930, Antistoricismo che si può rinvenire,
tematizzata e quasi riassunta, la posizione di Croce nei confronti dei
totalitarismi; un tentativo di cogliere un fondamento comune a fenomeni che
potrebbero sembrare (e per certi aspetti sono) totalmente diversi. Sostanziale
identità dei totalitarismi in quanto totalitarismi, come sosterranno, con
argomentazioni diverse, la già ricordata Arendt e il Popper di Miseria dello
storicismo. Paradossalmente, il filosofo italiano rintraccia la radice degli
autoritarismi del Novecento nel comune antistoricismo. Il contrario di Popper,
dunque! E invece no, perché l’uso del termine storicismo nei due filosofi è
completamente diverso mentre, in fin dei conti, uguale l’intenzione filosofica
di fondo. Per Popper, infatti, storicismo è ciò che Croce denominò filosofie
della storia, ossia quella tendenza, di derivazione hegeliana e marxiana, a
costringere la storia in schemi e leggi precostituiti, ciò che appunto sia il
filosofo austriaco che quello italiano condannarono senza appello come una
forma moderna e travestita di metafisica che conduce, sul terreno politico, ad
una concezione chiusa e deterministica della società. (8)
L’antistoricismo che Croce individua è di altra natura e bisogna,
dunque, cercare di comprenderlo. Il filosofo napoletano individua due
atteggiamenti opposti che trovano un punto d’incontro nella negazione della
storia, del libero svolgimento di essa e dunque della libertà, della libera
dialettica che si esercita nel divenire storico. “Il primo, scrive, idoleggia un
futuro senza passato, un andare innanzi che è un saltare, una volontà che è
un arbitrio, un ardimento che, per servarsi impetuoso, si fa cieco; e adora la
forza per la forza, il fare per il fare, il nuovo per il nuovo, la vita per la vita, alla
quale non giova mantenere il legame col passato e inserire la sua opera
sull’opera del passato, perché non le importa di essere vita concreta e
determinata, ma vuol essere vita in astratto o mera vitalità, non il contenuto
ma la vuota forma del vivere, che si pone, essa, come se fosse un contenuto.
(…) Il secondo, continua Croce, aborre l’idea stessa della storia come il regno
del relativo e del contingente, del mobile e diverso, del vario e individuale, e
sospira e aspira e si sforza all’assoluto, al fermo, all’uno, a trarsi fuori della
storia, a superare lo storicismo, per acquistare sicurezza e pace. Rispetto alla
vita sociale, questo secondo modo pone il suo ideale in ordinamenti che
sopprimano l’intervento individuale, e con ciò la concorrenza, la gara, la lotta,
e impongano la regola…” (9)
E’ fin troppo facile riconoscere nel primo il fascismo e nel secondo il
comunismo. Croce infatti, qualche pagina più avanti, specifica che, sotto
quello che può sembrare un ragionamento puramente filosofico, si cela
l’immane tragedia politica di quegli anni. “Sono coteste, senza dubbio, e
debbono essere, formole filosofiche, ma sotto di esse stanno fatti ben
concreti e corpulenti, si muovono le dramatis personae della più moderna
lotta politica, quali l’imperialismo e nazionalismo, il socialismo marxistico, lo
statalismo che si decora del nome di etico, la ripresa cattolica e clericale, e
via enunciando.” (10)
Un antistoricismo, precisa Croce, che non ha niente a che vedere con
atteggiamenti apparentemente simili comparsi nel passato perché in esso
non si riesce a rintracciare nessun segno positivo, nessuna dialettica ragione
capace, quantomeno, di qualificare il negativo secondo una sua funzione o
necessità storica.
Scrive Croce: “ L’antistorico cristianesimo ha portato alla virtù della
caritas, l’antistorico Illuminismo si ammorbidiva di umanitarismo e di
sensiblerie; ma l’odierno antistoricismo è tutto sfrenatezza di egoismo o
durezza di comando, e par che celebri un’orgia o un culto satanico.” (11)
Dichiarazione di grande momento per un filosofo che ha sempre cercato di
cogliere il nesso dialettico fra bene e male, fra positivo e negativo. Preludio di
quelle che saranno le drammatiche pagine sulla vitalità, termine che qui già
compare, intesa come forza “cruda e verde”, necessaria (come cercherà di
dimostrare in seguito richiudendo il circolo della sua filosofia) eppure
tragicamente pericolosa (12). Val la pena di chiarire, di passaggio, che
queste ultime affermazioni crociane valgono più per l’irrazionalismo a
fondamento del fascismo e del nascente nazismo che non per il comunismo
in tutte le sue svariate forme. D’altro canto lo stesso Croce, in tanti noti scritti
elabora una critica complessa e ragionata di quel grande e sia pure tragico
movimento che è stato il socialismo, il socialismo comunista, dalla fine
dell’Ottocento agli inizi del secolo XX.
Ma un altro aspetto del pensiero antitotalitario di Croce da mettere in
grande evidenza, anche perché è senz’altro più controverso, è la polemica
anti-illuminista, per certi aspetti anti-giacobina che il filosofo condusse anche
dal punto di vista della critica alle filosofie dogmatiche e alle politiche
autoritarie. Controversa, naturalmente, perché, innanzitutto, l’Illuminismo sul
piano filosofico e culturale e il giacobinismo sul piano politico non si possono
in nessun modo collocare sullo stesso terreno dei totalitarismi del Novecento
e meno che mai in rapporto al nazifascismo. E’ controverso perché (ed anche
qui è naturale che sia così) il pensiero di Croce su questo tema è molto più
sfumato e argomentato né mai il filosofo simpatizzò con le posizioni
reazionarie dei nostalgici dell’antico regime.
Se, come abbiamo visto, Croce riconosce in varie opere (ma basterebbe
ricordale la Storia d’Europa nel secolo decimonono, e i tanti scritti, già citati,
sul marxismo) gli indubbi meriti del movimento socialista e comunista, a
maggior ragione sarebbe stato assurdo, come qualche critico superficiale ha
sostenuto, che egli non riconoscesse l’importanza storica del cosiddetto
Illuminismo, ossia di quel grande movimento di idee e di passioni che è
all’origine del moderno liberalismo, della moderna democrazia e che,
assieme al cristianesimo, costituisce l’elemento fondamentale della nostra
stessa civiltà.
L’opposizione di Croce nei confronti di alcune varianti dell’illuminismo, e
soprattutto di alcuni aspetti del pensiero di Rousseau (13), si esercita proprio
e soprattutto su quegli aspetti che si possono definire, sia pure con qualche
esagerazione, totalitari o autoritari. Sul terreno strettamente teoreticofilosofico il contrasto dello storicista Croce si esercita nei confronti
dell’antistorico Illuminismo, ossia dell’idea che una ragione astratta e
matematizzante possa costituire l’elemento fondamentale del giudizio per cui
l’intera storia, l’intera vita dell’uomo, deve essere sottoposta al tribunale della
ragione. E’ questo aspetto della mentalità illuminista, più che dei singoli
pensatori e filosofi che, a volte, furono dei grandi storici come Voltaire, che
Croce condanna come in qualche modo totalitario. Un autoritarismo
naturalmente mite, che spesso si presenta col volto della ragionevolezza, del
pedagogismo, ma che pure, in quel suo voler imporre la tirannia della ragione
puramente matematico-sillogistica, finisce con l’imbavagliare, sia pure spesso
involontariamente, la libera voce, la libera creatività dell’uomo. Ciò che sul
terreno politico si tramuta nella rousseauiana volontà generale che è
anch’essa un’astrazione e potremmo dire perfino una presunzione su cui si
fonderebbe la moderna idea di democrazia. Già Hegel per un verso e
Tocqueville per un altro avevano sottoposto a sottile e definitiva critica l’idea,
a volte ingenua ma non per questo meno pericolosa, di una democrazia
fondata sull’idea di maggioranza, ciò che appunto il grande studioso francese
icasticamente definì la tirannia della maggioranza.
E’ in questi elementi fondamentali che si deve rinvenire la sostanza
della polemica crociana che si esercitò sin dagli ultimi anni dell’Ottocento sino
alle polemiche contro il partito d’azione (14) nel secondo dopoguerra, contro
quello che potremmo definire l’atteggiamento democraticistico che finisce con
l’annullare le sue stesse ragioni che vorrebbero essere quelle della
democrazia liberale, della giustizia e dell’eguaglianza concretamente
coniugate con la libertà, ossia sempre storicamente determinate e mai
astrattamente pensate secondo codici o catechismi della democrazia che
sono, al contrario, delle forme larvate ed insidiose di pensiero totalitario.
Ma, per comprendere appieno la posizione del filosofo, non ci si può
non riferire al suo atteggiamento politico generale, alla sua sensibilità,
potremmo dire, culturale in senso ampio. Anche ciò costituisce un problema
storiografico che però va almeno posto nei suoi termini problematici. Non vi è
dubbio che, nella difficoltà che Croce incontra nell’accogliere alcune posizioni
tipiche della democrazia moderna, giochi la sua sensibilità di liberale di tipo
classico che potrebbe perfino definirsi conservatore, a patto che si giudichi
allo stesso modo il pensiero di Tocqueville, della stessa Arendt, di Ortega e di
altri pensatori affini. C’è, in fondo, in lui il sospetto che ogni liberale
individualista nutre per ogni concezione della storia che tenda a privilegiare lo
Stato, i partiti, la maggioranza e, insomma, tutte quelle categorie che tendono
a schiacciare la libera espansione individuale.
Ma nel caso specifico dell’avversione al democraticismo il ruolo
fondamentale è svolto dal realismo politico, di cui Croce si fece sempre
sostenitore, quel realismo politico che gli deriva dagli iniziali studi sul
marxismo, dal serrato confronto con Antonio Labriola e che in seguito
ritroverà nella tradizione italiana di Machiavelli e Vico. Ecco ciò che
costituisce problema storiografico: una posizione politica che affonda le radici
sia nel liberalismo classico che nel pensiero politico rivoluzionario. Potrebbe
sembrare una contraddizione, ma non lo è per il fatto stesso che questa
propensione non ha mai nuociuto, in tanti anni di speculazione e di attività
politica di Croce, alla sua interpretazione della realtà, alla costante e
intransigente difesa della libertà. Ciò vuol dire, semmai, che sarebbe il caso
di approfondire le ragioni teoretiche della filosofia politica di Croce e,
finalmente, comprendere che con essa ci troviamo di fronte ad un liberalismo
di tipo nuovo, come già si disse per Tocqueville (15), complesso ma efficace,
un liberalismo metodologico che ci fornisce gli strumenti per comprendere la
realtà politica dei nostri tempi: dopo il crollo delle ideologie e delle certezze
ottocentesche, il terzo millennio si trova a dover fronteggiare condizioni
assolutamente nuove. O ci si adatta all’idea di vivere in un mondo privo di
riferimenti di sorta oppure si compie lo sforzo di crearne di nuovi e più
soddisfacenti. Ecco perché il liberale Croce, nel 1917, nella Prefazione alla
terza edizione di Materialismo storico ed economia marxistica, ha potuto
scrivere di Marx: “E, oltre l’ammirazione, gli serberemo, -noi che allora
eravamo giovani, noi da lui ammaestrati,- altresì la nostra gratitudine, per
aver conferito a renderci insensibili alla alcinesche seduzioni (Alcina, la
decrepita maga sdentata, che mentiva le sembianze di florida giovane) della
Dea Giustizia e della Dea Umanità.” (16)
Fin qui dunque l’analisi storica, potremmo dire, dell’antitotalitarismo di
Croce. Ma il lettore esperto della filosofia crociana sa come, al di là di queste
considerazioni, è il nocciolo teoretico stesso del pensiero crociano ad essere
antitotalitario, perché egli edifica la sua filosofia sui tre concetti fondamentali
della logica della distinzione categoriale, della dialettica degli opposti, e del
giudizio come giudizio storico, ossia come “inveramento” della sintesi a priori
kantiana e dell’universale concreto hegeliano (17). La storia è dunque
sempre un divenire a cui l’uomo conferisce senso, attraverso il giudizio che è
sempre un giudizio di distinzione. Nella storia l’uomo esercita il suo compito
nella concreta e pratica quotidiana lotta per l’affermazione della libertà
sull’incalzante e imperituro negativo, in quell’eterno circolo di teoria e prassi
di cui è costituita la nostra vita (18).
Ernesto Paolozzi
Note
1) B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, Laterza, Bari,
1961, p.IX, ripubblicato in edizione critica da Bibliopolis a cura di Piero
Crateri. Si confronti inoltre B.Croce, Contributo alla critica di me stesso,
Adelphi, Milano, 1989, p.33.
2) B. Croce, L’immaginario passaggio del comunismo marxistico
dall’utopia alla scienza, in Filosofia e storiografia, Laterza, Bari, 1969, p270.
Nello stesso volume si leggano i saggi: L’ortodossia hegeliana del Marx e
Come intendevano la dialettica il Marx e l’Engels nel 1877.
3) B. Croce, Materialismo…, cit. p.15
4) B. Croce. La morte del socialismo, in Cultura e vita morale, Laterza, Bari,
1955
5) B. Croce, Storia d’Europa del secolo decimonono, Adelphi,
Milano,1993,pp.362-363.Per una valutazione complessiva del rapporto fra
Croce e il comunismo, rimane fondamentale il volume di Antonio Jannazzo,
Croce e il comunismo, ESI, Napoli, 1982.
6) Il Manifesto è leggibile nel volume antologico degli scritti di Croce, curato
dallo stesso filosofo, Filosofia poesia storia, Ricciardi, Milano-Napoli, 1951.
7) L’intervista citata è pubblicata nel volume di B. Croce, Filosofia poesia
storia, cit.
8) Ci riferiamo, naturalmente, fra i tanti scritti citabili, al classico Ciò che è
vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel del 1906, ristampato in
B.Croce, Dialogo con Hegel, ESI, Napoli, 1996 , a cura di G.Gembillo.
9)B. Croce, Ultimi saggi, Laterza, Bari, 1963,pp.252-253.
10) Ibidem, p.259
11) Ibidem, p.257
12) Si confronti il saggio Difesa della poesia del 1933, in Ultimi saggi, cit. In
questo efficacissimo scritto, Croce affronta da un altro punto di vista la crisi di
civiltà di quegli anni e scorge nella poesia, nell’arte, uno dei fattori
fondamentali di civilizzazione, di difesa, contro la vichiana barbarie ritornata.
Si confrontino anche i volumi di A.Parente, Croce per lumi sparsi, La nuova
Italia, Firenze, 1975, E.Paolozzi, Il liberalismo come metodo, Fondazione
“L.Einaudi”, Roma, 1995 e P. Bonetti, L’etica di Croce, Laterza, Roma-Bari,
1991.
13) Cfr Girolamo Cotroneo, Croce e l’Illuminismo, Giannini, Napoli, 1970
14) Sulla questione dell’avversione di Croce per il Partito d’azione, una fonte
particolarmente interessante, per il risvolto filosofico e umano, è costituita dal
carteggio con Omodeo, pubblicato a cura di Marcello Gigante dall’Istituto
Italiano per gli studi storici nel 1978.
15) Per una lettura moderna del liberalismo di Tocqueville, si confronti V. de
Caprariis, Profilo di Tocqueville, Guida, Napoli, 1996.
16) B. Croce, Materialismo…, cit, p.XIV
17) In riferimento ai fondamentali concetti della filosofia di Croce innanzitutto
Logica come scienza del concetto puro del 1909 e La storia come pensiero e
come azione del 1938 (riedito a Napoli in edizione critica da Bibliopolis nel
2002). Per il rapporto fra storicismo e liberalismo il saggio di Renata Viti
Cavaliere, Lo storicismo umanistico-liberale di Croce, in “Colloqui”, ESI,
Napoli,fasc.1-2, 2002.
18) Si confronti E.Paolozzi, Benedetto Croce. Logica del reale e il dovere
della libertà, Cassitto, Napoli, 1998.
Scarica