Quadri storici e culturali: l’età medievale Il Mediterraneo diviso La rottura dell’unità mediterranea Lo scenario entro il quale si svolge la storia medievale segna una profonda discontinuità rispetto al mondo antico. Esso, infatti, è caratterizzato dalla rottura dell’unità mediterranea e dalla frantumazione del vasto spazio economico e politico che il dominio romano aveva costruito. Al centro di gravità unificante prima rappresentato da Roma si sostituirono, nell’arco di tempo compreso fra il VI e il X secolo, tre “centri”: l’impero bizantino, a oriente; l’area islamica nel vasto arco meridionale del bacino mediterraneo, dalla Spagna all’Asia; l’impero carolingio, che, attraverso una complessa dinamica storica, costituì il nucleo fondante dell’Europa. Il mondo medievale fu attraversato, per tutta la sua storia, da queste frontiere interne (politiche, ma anche economiche e religiose) e gran parte delle vicende che lo caratterizzarono sono interpretabili alla luce del rapporto (di conflitto ma anche di scambio) fra questi tre “mondi”. La penisola italiana, per la sua collocazione geografica e per la sua storia, si trovava al centro di queste complesse relazioni. L’Italia era stata il punto di partenza della poderosa spinta all’unificazione dell’area mediterranea e il fulcro dello spazio imperiale romano. Nella divisione politica dell’Italia, che maturò nel VI-VII secolo a seguito dell’invasione longobarda, possiamo scorgere la manifestazione più evidente e quasi il simbolo della rottura dell’unità mediterranea. L’impero romano di Bisanzio Quello che la storiografia moderna chiama “impero bizantino”, per i contemporanei non era invece nient’altro che l’impero romano, un organismo economicamente e politicamente vivo. Bisanzio rappresentava una profonda continuità con Roma, innanzitutto sotto l’aspetto politico-istituzionale: mentre l’Occidente si disgregava politicamente, in Oriente fioriva uno stato accentrato, fondato su una forte struttura burocratico-amministrativa, capace tuttora di regolare l’economia attraverso il prelievo fiscale, di dare impulso all’artigianato e ai commerci, emettendo e regolando una forte moneta aurea: e lo spazio bizantino continuava a essere un crocevia fondamentale negli scambi fra il Mediterraneo e l’Oriente. Giustiniano aveva voluto concretizzare la continuità con la tradizione giuridica romana raccogliendo tutto il diritto di Roma in un unico insieme dileggi, il Corpus iuris civilis, base di tutta l’elaborazione giuridica posteriore. E ancora Giustiniano, muovendo alla riconquista dell’Occidente, aveva mantenuto viva l’ideologia imperiale, che vedeva nell’imperatore il signore e il protettore dell’intera ecumene, il mondo e le genti allora conosciute. Questa ideologia universalistica dovette però scontrarsi con la realtà dei fatti: tra il VI e il IX secolo lo spazio bizantino si ridusse drasticamente a opera dei longobardi in Italia, degli slavi e dei bulgari nei Balcani, e soprattutto degli arabi, la cui prodigiosa espansione ne limitò i possedimenti a poco più dell’attuale Turchia. Questo ritiro dei bizantini ebbe una conseguenza storica di grande importanza: allentandosi il legame con l’Occidente e con l’Italia, l’impero si venne sempre più “orientalizzando”: nella politica, nella cultura, nella lingua (il greco divenne dominante) e infine nella religione. L’identificazione esistente in Bisanzio fra potere politico e religioso, fra stato e Chiesa, portò con sé il progressivo allontanamento del cristianesimo orientale da quello occidentale, della Chiesa di Costantinopoli da quella di Roma, fino alla definitiva separazione (1054) tra cattolicesimo romano e cristianesimo ortodosso orientale. Veniva così sancita un’ulteriore, profonda frattura nell’unità del mondo mediterraneo. 1 L’islam La nascita e la diffusione dell’islam, tra il VII e il IX secolo, hanno il significato storico di una straordinaria rivoluzione, non solo perché sconvolsero l’assetto dell’antico mondo mediterraneo, ma perché videro il sorgere di una civiltà millenaria tuttora al centro degli equilibri mondiali, L’intreccio fra nomadismo e sedentarietà costituisce una caratteristica specifica dell’originario mondo arabo ed è un elemento importante per spiegarne la straordinaria forza di espansione, Fu Muhammad, Maometto, nato tra il 569 e il 571 alla Mecca, a riuscire nell’impresa di unificare il mondo delle tribù nomadi e quello delle famiglie di coltivatori e mercanti nel culto di un’unica divinità, Allah, e nel progetto politico di costituire un popolo unitario, la umma, la comunità dei credenti, capace di espandersi con forza travolgente. L’islamismo ha in comune con l’ebraismo e con il cristianesimo, di cui si concepisce come il definitivo superamento, il fatto di essere una religione monoteistica rivelata. Dio avrebbe affidato il suo Verbo a Maometto, il Profeta, perché lo diffondesse: il Corano, libro sacro che contiene i precetti dell’islamismo, deriva il proprio nome dall’arabo Qur’ân, che significa appunto “recitazione ad alta voce”. Maometto predicò una religione molto semplice dal punto di vista dottrinale, priva di sacerdoti e sacramenti, fondata sull’assoluta sottomissione (islam) al volere divino da parte del fedele (muslim, da cui deriva il termine “musulmano”) e su alcuni compiti rituali (i “cinque pilastri” dell’islam): la professione di fede; la preghiera giornaliera; l’elemosina ai poveri; il digiuno nel mese di Ramadan; il pellegrinaggio alla Mecca. L’espansione arabo-islamica L’islamismo diede vita a un sistema politico teocratico, legittimato dal patto fra uomo e Dio: nella “strada maestra” (shari’a, “legge”) che Allah ha indicato al suo profeta sono già presenti tutti i valori e tutte le norme, anche quelli della vita civile. Di qui una caratteristica distintiva dell’islamismo: la mancata differenziazione fra sacro e profano, fra autorità religiosa e potere politico, che invece contraddistingue la tradizione cristiano-occidentale. Anche questo fattore ebbe grande importanza nell’assicurare la forza espansiva dell’islam, perché garantiva un potere compatto e permetteva di identificare l’opera di conquista con la “guerra santa” (Jihad), combattuta per diffondere il Verbo del vero Dio, che avrebbe assicurato al combattente la beatitudine eterna. Nel breve arco di un secolo gli arabi costruirono un impero di enormi dimensioni, con circa 40-50 milioni di abitanti, che venne governato sia con un’accorta opera di organizzazione amministrativa, sia conferendogli una marcata unità economico-culturale. Grazie alla mancanza di dogane, alle efficienti vie di comunicazione, alla diffusione della lingua araba l’islam rappresentava un immenso spazio aperto allo scambio di uomini, merci, conoscenze, idee. Grandi conquistatori, gli arabi furono anche capaci di assimilare e fondere in una sintesi creativa le ricchezze culturali con le quali venivano in contatto: attraverso la traduzione in lingua araba, i classici del pensiero greco, in primo luogo Aristotele, commentati dai grandi filosofi Avicenna (980-1037) e Averroè (1126-1198), giunsero all’Occidente, costituendo la base della riflessione filosofica dell’età medievale e moderna, Gli intellettuali islamici introdussero innovazioni in molti campi del sapere: nella matematica (creazione dell’algebra e della trigonometria), nella geografia, nell’astronomia, nella medicina, nell’agronomia, nelle tecniche di coltivazione. Nel mondo islamico fu edificata così una civiltà che, per alcuni secoli, si rivelò assai più avanzata di quella europea. 2 L’Occidente altomedievale L’Occidente si ripiega su se stesso L’impero romano era una struttura economica piuttosto semplice sotto l’aspetto produttivo, giacché esso si reggeva in massima parte su una base agricola, ma assai complessa dal punto di vista organizzativo. Infatti l’equilibrio economico dell’impero dipendeva dall’integrazione fra le coste settentrionali e quelle meridionali del Mediterraneo in un unico spazio organico, integrazione garantita dall’organizzazione dello stato. Era infatti lo stato il principale organizzatore dei traffici che mettevano in circolazione, per lo più verso l’Italia, i beni non direttamente consumati nei luoghi di produzione; ed era ancora lo stato, attraverso il prelievo fiscale, a finanziare la complessa macchina amministrativa e ad alimentare le due grandi capitali, Roma e Costantinopoli. Le strutture economiche del tardo impero romano erano così legate a quelle dello stato e quando quest’ultimo venne meno, anche il sistema economico ne uscì sconvolto. Si continuò in realtà a lavorare la terra come prima, ma i grandi traffici internazionali lasciarono il posto a commerci su scala regionale o locale: un fenomeno poi accentuato dalla rottura dei residui scambi mediterranei operata dal dominio arabo. Le circa 2000 città che avevano fatto grande l’impero come centri amministrativi e commerciali persero popolazione e funzione economica (clamoroso il caso di Roma, che passò dal mezzo milione ai 25-40.000 abitanti); il vuoto di autorità politica rese insicure le comunicazioni, con il conseguente degrado del sistema stradale. La prima età medievale fu dunque più povera in Occidente di quella che l’aveva preceduta, sotto ogni punto di vista. L’Occidente si ritraeva in se stesso, mentre l’Oriente bizantino conservava forza e capacità di reazione e un nuovo protagonista, l’islam, si espandeva in quelle che fino a due secoli prima erano state regioni romane. L’economia curtense L’economia altomedievale fu agricola al pari di quella romana, ma con strutture diverse. Già prima della fine dell’impero era maturata una inarrestabile crisi dei latifondo schiavile, con l’emergere di nuove figure di piccoli coltivatori, i coloni, in stato servile o libero, che lavoravano piccoli fondi avuti in concessione e le terre dei grandi proprietari. Questo sistema divenne dominante nel l’agricoltura altomedievale, basata sulla curtis, la grande proprietà laica o ecclesiastica, che era il centro di un’economia caratterizzata da grande arretratezza tecnica e tendenzialmente autarchica. Dal punto di vista giuridico, la distinzione fondamentale (anche se non nettissima, causa i frequenti matrimoni fra membri delle due categorie) era quella tra affittuari liberi (ingenui) e non liberi (servi). I servi erano uomini del signore, in uno stato di dipendenza totale: il signore poteva perseguirli in caso di fuga, impedire loro di sposarsi al di fuori della famiglia servile, incamerare una parte dei loro beni in caso di morte, punirli senza ricorrere a tribunali pubblici. Lavoravano direttamente per il signore, sulle sue terre, oppure avevano in gestione un podere nel manso (servi casati). Pagavano in genere affitti meno alti dei liberi, ma erano tenuti a fornire prestazioni (corvées) più gravose. La posizione dei liberi era giuridicamente migliore, ma la loro situazione economica non era generalmente molto diversa: sia che lavorassero il manso, sia che avessero una loro piccola proprietà (allodio), essi vivevano al livello di sussistenza, e spesso anche al di sotto. Una cristianità “bicefala” Ha scritto il grande storico del Medioevo, Jacques Le Goff, che «la cristianità è di fatto bicefala. Ha due teste: il papa e l’imperatore». Questa citazione ci fornisce la chiave per inquadrare uno dei temi fondamentali della civiltà medievale: il rapporto fra i due grandi poteri, quello religioso e quello politico, che costituirono il cemento politico e ideologico di quell’epoca. Poteri che furono strettamente intrecciati, ma al tempo stesso in conflitto, talora molto aspro, perché entrambi si presentavano come sacri e universali, cioè come legittimati dalla volontà di Dio a dominare su tutte le genti. Fino al XII-XIII secolo, cioè fino a quando non emersero con forza nuovi protagonisti (le monarchie nazionali e i comuni) fu la dialettica fra papato e Impero ad animare la vita politica medievale. 3 La centralità della Chiesa medievale L’autorità del papato nasceva dall’assoluta importanza giocata, nella società medievale, dalla religione e dalla Chiesa. Importanza politica, innanzitutto, perché nel disordine dell’alto Medioevo la struttura organizzativa della Chiesa rimase l’unico punto di riferimento costante. A partire dal VI secolo fino a tutto l’XI, nelle città la figura dominante fu quella del vescovo. Spesso l’essere sede dell’episcopato fu per le città l’unica ragione di sopravvivenza: nella generale decadenza economica e commerciale, a salvare le città dalla scomparsa fu la loro nuova funzione di centri di amministrazione religiosa. In secondo luogo, importanza economica: la Chiesa medievale divenne una grande proprietaria terriera, a seguito delle donazioni effettuate a vescovadi e abbazie dai possidenti romani o germanici che abbracciavano il cattolicesimo. Infine, importanza culturale e Ideologica: la Chiesa, anche nei periodi più bui del Medioevo, fu costretta, per la natura stessa del suo apostolato, a mantenere un minimo di istruzione nel suo clero; ciò significava mantenere scuole, conservare l’uso della scrittura, tramandare i testi della cultura antica. Ben presto l’unica cultura disponibile fu quella conservata da chierici e monaci, che erano anche i soli capaci di insegnare a leggere e a scrivere. Nell’Alto Medioevo, tutta la cultura era nella Chiesa. Il monachesimo Il monachesimo esercitò una straordinaria forza propulsiva nell’affermazione del cristianesimo romano in gran parte d’Europa. Nel corso del VI e VII secolo una fitta rete di monasteri si diffuse nell’Europa cristiana, dall’Italia alla Francia, alla Germania, sino alla Britannia e all’Irlanda. All’intensa opera di evangelizzazione i monaci affiancarono il lavoro e lo studio, facendo del monastero un centro di produzione agricola e di attività culturale. Attorno ai monasteri si organizzavano la coltivazione dei campi, l’immagazzinamento e la conservazione dei prodotti; questa, in un’epoca di scarsi o inesistenti rapporti commerciali, era una funzione fondamentale per la sopravvivenza della popolazione. I monasteri costituivano i soli centri propulsori in un’economia statica, i soli centri di conservazione della cultura scritta in una società ritornata a comunicare per via quasi esclusivamente orale. Politica e religione: il Sacro romano impero I monaci furono anche protagonisti di un’altra opera di grande importanza storica, vale a dire la conversione al cristianesimo delle aristocrazie e delle popolazioni germaniche. Questo è particolarmente evidente e importante nel caso dei franchi, il cui re Clodoveo si era convertito al cattolicesimo alla fine del V secolo, per consolidare e legittimare il proprio potere: da quel momento, la fusione fra l’aristocrazia franca e l’apparato ecclesiastico, in particolare quello dei monasteri, proseguì senza sosta. Si verificò la convergenza fra due fenomeni: l’espansionismo del regno franco, il più solido e strutturato fra i regni romano-germanici, e la diffusione del cristianesimo. Il culmine di questo processo si ebbe nella notte di Natale dell’anno 800, a Roma, quando Carlo Magno, re dei franchi, fu incoronato imperatore dal papa Leone III, con una cerimonia di grande significato storico. L’incoronazione consentiva infatti ai franchi di porsi, almeno idealmente, nel solco della tradizione imperiale romana. Non quella pagana però, ma quella degli imperatori cristiani come Costantino e Teodosio: di qui gli appellativi di “sacro” e “romano” dati al nuovo impero, in virtù dei quali Carlo, oltre che imperatore, era anche protettore di Roma e della sua Chiesa e poteva legittimare il suo ruolo di conquistatore con la missione di evangelizzatore. La restaurazione imperiale realizzata da Carlo Magno portò all’unificazione politica di stati e popoli diversi attraverso la profonda compenetrazione di potere politico e potere religioso. Anche se fragile, la grandiosa costruzione carolingia si configurò come una res publica christiana, un impero cristiano universale che rimane un’idea guida fondamentale per tutta l’età medievale. 4 La società feudale La concezione patrimoniale del potere Quando parliamo di “re” o “imperatori”, nell’età medievale, dobbiamo sforzarci di immaginare forme di potere politico assai diverse non solo da quelle degli attuali stati, ma anche da quelle dell’età antica. Nella disgregazione politica che seguì la fine dell’impero romano, infatti, il potere del sovrano era estremamente debole, precario, legato più alla forza e al prestigio personali che all’esercizio di una riconosciuta sovranità. Il “regno” non costituiva un’unità politica, ma era considerato alla stregua di un patrimonio privato del sovrano: vigeva, in altri termini, una concezione patrimoniale del regno e del potere. La differenza fra il re e gli altri grandi signori laici stava nell’ampiezza del suo patrimonio privato e nel potere militare che gli veniva riconosciuto, Per questo fu così importante, nell’esperienza dei franchi, il sostegno del potere religioso, sin dalla conversione di Clodoveo al cristianesimo romano: vescovi e abati costituivano uno strumento per inquadrare la comunità franca, per legittimare il potere, per controllare l’aristocrazia attraverso il canale della carriera ecclesiastica. Il vassallaggio Un altro sistema utilizzato dai sovrani franchi per esercitare il potere era quello di legare a sé, attraverso un vincolo di fedeltà personale, i capi militari: a questo vincolo si dà il nome di vassallaggio. Il re era solito ricompensare con terre o altri doni i guerrieri che gli erano stati fedeli in battaglia. Questa antica usanza si perfezionò nel tempo, fino a dar luogo a una vera e propria istituzione. Nel corso di una solenne cerimonia (omaggio), un uomo libero giurava fedeltà al sovrano dichiarandosi suo uomo (vassus, vassallo, termine romano di origine celtica che originariamente significava ‘ragazzo”, “servitore”). In cambio, il vassallo otteneva la protezione del signore e il godimento vitalizio di una terra (il beneficio, più tardi chiamato feudo), che gli veniva simbolicamente trasferita con l’atto dell’investatura. Il rapporto che così si instaurava, pur non essendo paritario (perché comportava la subordinazione del vassallo al suo signore), era reciproco, prevedendo scambievoli diritti e doveri, Il vassallo si impegnava a essere fedele al signore (e solo a lui, in un primo tempo), a partecipare alle assemblee che questi convocava e ad aiutarlo sul piano militare, Il signore dava al vassallo la sua protezione e il feudo. Se il vassallo veniva meno ai suoi impegni si macchiava del delitto di fellonia, che comportava spesso la confisca del feudo; reciprocamente, il vassallo poteva togliere la sua fedeltà al signore inadempiente. Su questo rapporto si costruì, tra il IX e l’XI secolo, il feudalesimo, che dimostrò nei secoli una straordinaria vitalità. Chiamiamo feudalesimo un sistema di organizzazione sociale e politica fondato sul vincolo di dipendenza personale tra uomini liberi, appartenenti agli strati superiori della società. L’organizzazione dell’impero Per conferire al suo vasto ed eterogeneo impero un’impalcatura politico-organizzativa, Carlo Magno utilizzò e diffuse il vassallaggio. Erano suoi vassalli i conti, plenipotenziari del potere regio su un determinato territorio, e i marchesi, funzionari di governo delle marche, le aree periferiche instabili e, perciò, a forte presidio militare. Il controllo dell’operato di marchesi e conti, oltre che attraverso annuali riunioni di fronte al re, era assicurato dai missi dominici, ufficiali inviati dal potere centrale che agivano solitamente in coppia, un laico e un ecclesiastico: la gerarchia ecclesiastica offriva dunque allo stato carolingio un elemento essenziale di governo. Le leggi del regno erano contenute nei capitolati, testi divisi in capitoli (donde il nome) che il sovrano emanava e i cui contenuti venivano oralmente diffusi dai missi. Carlo, inoltre, per sottolineare la forza del potere centrale, fissò una capitale del regno, Aquisgrana (attuale Aachen, nel nord della Germania), dove tenne il palazzo, la corte e la cappella palatina, centro culturale dell’impero: qui i migliori intellettuali del tempo, per lo più ecclesiastici, lavoravano alla conservazione dei mano- 5 scritti, alla formazione del clero e all’elaborazione di una nuova scrittura, detta carolina, caratterizzata da semplicità e regolarità. La signoria feudale Sotto l’impulso dato da Carlo al vassallaggio, sempre più frequentemente conti, marchesi e missi dominici, laici ed ecclesiastici, vennero legati dal vincolo di dipendenza personale, con relativa concessione di benefici, tratti o dal patrimonio personale del sovrano o da quello di grandi enti ecclesiastici. In tal modo maturò un fenomeno di portata storica: la progressiva sovrapposizione del sistema di fedeltà personale alla rete degli uffici pubblici. Inoltre, la pratica del vassallaggio venne diffondendosi “a catena”, perché i vassalli del re iniziarono a legare a sé uomini liberi di rango inferiore e così via (il cosiddetto fenomeno del retrovassallaggio). A ogni omaggio corrispondeva una concessione beneficiaria e, spesso, il beneficio era coperto dal privilegio dell’immunità, che vietava a funzionari pubblici di accedervi ed esercitarvi funzioni pubbliche. L’immunità divenne, con la tarda età carolingia, la condizione giuridica su cui si fondò l’autorità politica esercitata dal feudatario sulle terre avute in beneficio. Con la frantumazione dell’impero seguita alla morte di Carlo Magno e sotto la pressione dell’ondata di invasioni ungare e normanne che si scatenò nel IX-X secolo, si rafforzò la fisionomia locale del potere e crebbe il prestigio dei signori, la cui autorità si fondava sempre meno sull’investitura regia e sempre più sulla reale capacità di governo e di difesa in aree circoscritte. Contemporaneamente aveva luogo un’altra trasformazione fondamentale: la tendenza, da parte dei feudatari di ogni rango, a considerare il feudo come una proprietà, e non più come un bene in usufrutto, cioè revocabile, quale era stato all’inizio. L’esito finale di questo processo fu la frammentazione del potere in una pluralità di centri, spesso coperti da immunità, dal piccolo feudo locale, alla contea, al regno: fenomeno che va usualmente sotto il nome di particolarismo feudale. Venne così consolidandosi la fondamentale struttura economica, sociale e politica del Medioevo: la signoria, cioè il potere che consentiva a un uomo più potente e ricco di altri (dominus o senior, da cui “signore”) di obbligare altri uomini a determinate prestazioni economiche o di esercitare su di essi l’autorità politica in luogo del potere dello stato. La signoria feudale solitamente assommava in sé la signoria fondiaria, cioè l’insieme di prerogative che spettavano al signore per il fatto di essere proprietario di terre e si esercitavano solo sui coltivatori di queste ultime, e la signoria territoriale o di banno che consisteva invece nell’esercizio di poteri giurisdizionali (cioè di amministrazione della giustizia), fiscali e militari, cioè di poteri normalmente propri dello stato. 6 L’Europa nel Basso Medioevo La ripresa dopo il Mille Tra il X e il XIV secolo il paesaggio e la vita materiale dell’Europa medievale furono profondamente modificati da una crescita demografica ed economica senza precedenti: si può ipotizzare un aumento della popolazione europea dai circa 22 milioni di abitanti del 950 ai 54 del 1300, con un triplicarsi del numero degli uomini nelle aree meno romanizzate, e quindi a più basso popolamento iniziale. Contemporaneamente, si verificò un impetuoso processo di crescita della produzione agricola, sia estensiva sia intensiva, grazie alla messa a coltura di nuove terre e all’introduzione di importanti innovazioni tecniche, quali la rotazione triennale delle colture, l’aratro con versoio, la ferratura del cavallo etc. Con l’incremento della popolazione e della produzione agricola si ridusse anche la tendenza all’autoconsumo e all’autosufficienza caratteristica dell’economia curtense. Le attività artigianali crebbero di volume e si differenziarono progressivamente, anche come collocazione spaziale, da quelle agricole. Aumentò la domanda di materie prime non organiche (sale, metalli) e di manufatti; si registrò una ripresa dei commerci anche a media-lunga distanza. Il ritorno al mercato e allo scambio portò con sé una ripresa della circolazione monetaria, mai del tutto scomparsa, ma certo estremamente ridotta nell’Alto Medioevo. La nuova funzione economica della città La conseguenza di maggiore portata storica della ripresa economica e demografica dopo l’anno Mille fu il ritorno della città a un ruolo economicamente e politicamente dominante, tanto che da allora quella europea si caratterizzò essenzialmente come civiltà urbana. A partire dall’XI secolo assistiamo a una rapida e rigogliosa rinascita: si fondano nuovi borghi e città, si costruiscono nuove cinte di mura per contenere una popolazione in continuo aumento. Ciò che mosse la rinascita della città fu innanzitutto la nuova funzione economica che le veniva assegnata dallo sviluppo dell’agricoltura e dell’artigianato, in quanto centro di consumo delle risorse alimentari delle campagne, centro di scambio e di produzione di manufatti: all’economia chiusa della curtis si sostituiva così l’economia aperta della città, basata sulla divisione del lavoro fra città e campagna. Si trattò di una grande rivoluzione anche nel modo di pensare, nella mentalità collettiva: il mercante, fino ad allora disprezzato dalla cultura dominante, divenne gradualmente una figura di primo piano; una nuova classe sociale, la borghesia, e i suoi valori incominciarono a far breccia nel mondo feudale. Un nuovo soggetto politico: il comune Anche dal punto di vista politico la città rappresentò un grande fattore di novità: dentro le sue mura presero a valere regole e leggi diverse da quelle di fuori, I servi fuggitivi vi cercavano rifugio, sapendo che, trascorso un certo periodo (generalmente un anno), sarebbero stati liberi: «l’aria di città rende liberi» affermava un proverbio tedesco. Tutto ciò fu possibile perché molte città, a partire dall’XI secolo, costituirono nuove strutture politiche, autonome dai poteri feudali e, talora, anche da quello regale o imperiale. A queste strutture politiche si dà il nome generale di comune, che riunisce esperienze anche molto diverse tra loro. Vi erano infatti grandi differenze fra le città comunali delle Fiandre (Gand, Bruges, Anversa, Bruxelles), le città libere tedesche della Germania del Nord (Lubecca e Amburgo erano le principali) e i comuni italiani: le accomunava tuttavia un assetto istituzionale fondato sull’auto-governo o, nelle forme più deboli, sull’autonomia amministrativa. Universalismi in conflitto La vita politica dell’Occidente medievale si giocò, in particolare tra l’XI e il XIII secolo, intorno al rapporto spesso conflittuale tra due grandi poteri, l’impero e il papato, entrambi animati da ambizioni universalistiche, cioè interessati ad affermare il proprio dominio sull’intera cristianità. L’imperatore legittimava tale ambizione in quanto erede della grande tradizione imperiale romana, consacrata dall’investitura divina; il papa, richiamandosi al primato spirituale derivante dall’essere il capo della cristianità. Sebbene fossero alleati contro chiunque minacciasse l’ordine costituito e 7 mettesse a rischio il principio di autorità (come nel caso della repressione delle eresie), i due poteri vivevano un endemico conflitto che aveva come posta l’affermazione del primato ideologico e politico e, più concretamente, il controllo dello spazio italiano. Proprio il fatto che la penisola, fino alla metà del Duecento, fosse il terreno privilegiato dello scontro consentì ai comuni italiani di inserirsi vantaggiosamente in esso, ricavandone un rafforzamento della propria autonomia. La crisi della Chiesa Il conflitto tra il papa e l’imperatore si manifestò con forza nell’XI e XII secolo, intorno al problema di quale delle due autorità avesse il diritto di nominare i vescovi a capo delle diocesi. Dal punto di vista religioso, questo potere sarebbe spettato al papa; ma poiché il vescovo diveniva contemporaneamente titolare di un feudo, l’investitura coinvolgeva direttamente la massima autorità laica, l’imperatore, da cui discendeva il potere feudale. Per l’imperatore la questione era di fondamentale importanza, perché significava il controllo delle gerarchie ecclesiastiche, che esercitavano autorità spirituale ma anche politica. Per il papa, d’altro canto, si trattava di un’affermazione politica necessaria a superare una grave fase di crisi e di decadenza della Chiesa. Il clero era in gran parte ignorante e corrotto, i papi (l’elezione dei quali vedeva azzuffarsi le potenti famiglie romane) avevano perso la loro autorità, anche morale. La gerarchia ecclesiastica aveva subito un processo di marcata feudalizzazione: i vescovi- conti, nominati a discrezione dell’imperatore, erano praticamente al suo servizio e si occupavano quasi esclusivamente dei loro affari materiali. L’imperatore, oltre a controllare buona parte dell’alto clero italiano e tedesco, era arrivato a imporre che l’elezione del papa fosse sottoposta alla sua approvazione. Cluny e la riforma della Chiesa Un grande movimento di riforma percorse allora (a Chiesa: la diffusione di un nuovo ordine monastico, colto, il cluniacense (dall’abbazia di Cluny, in Francia) e l’azione energica di Gregorio VII, papa dal 1073 al 1085, restituirono alla Chiesa parte del prestigio perduto. Fu compiuta un’opera di moralizzazione dei costumi del clero e fu proibita la simonia, la compravendita delle cariche ecclesiastiche. Ma soprattutto si cercò di riaffermare l’autorità del papa nei confronti dell’imperatore. Nel 1059 il Concilio lateranense stabilì che il pontefice doveva essere eletto dai cardinali (i titolari dei principali vescovati) senza interferenze da parte dell’imperatore. Nel 1075 un editto di Gregorio VII proibì ai vescovi di ricevere l’investitura laica. Ebbe così inizio la vera e propria lotta delle investiture, combattuta senza esclusione di colpi da entrambe le parti. Gregorio VII spinse i principi tedeschi a ribellarsi all’imperatore Enrico IV, cosa che provocò una lunga guerra civile e un ulteriore indebolimento del potere imperiale. L’imperatore, a sua volta, prese con le armi Roma e costrinse il papa a fuggire. Il conflitto si concluse nel 1122 con un compromesso stipulato tra il papa Callisto II e l’imperatore Enrico V (concordato di Worms): in Italia, il vescovo doveva ricevere l’investitura dal papa, e solo in seguito poteva ricevere una carica politica dalle mani dell’imperatore; in Germania, accadeva il contrario. La monarchia feudale Oltre all’impero, al papato e ai comuni, il Medioevo conobbe un altro grande soggetto politico, che venne sempre più emergendo a partire dal XII secolo: la monarchia feudale. Abbiamo già visto che nell’Occidente feudale il potere sovrano era indissolubilmente legato al possesso di un vasto patrimonio fondiario (concezione patrimoniale del potere) e lo stesso principio di stabilità dinastica (cioè l’ereditarietà del titolo e dei possedimenti), caratteristico di ogni monarchia, era comune ai re come a tutti i signori. Ciò che progressivamente differenziò il potere monarchico dagli altri poteri feudali fu la capacità delle dinastie di affermare la loro autorità sino a rendere indipendenti il titolo, la sovranità e il patrimonio dalla persona che li deteneva, facendone attributi della corona, cioè dello stato. In ciò giocarono fattori militari e politici (la capacità dei re di garantire pace, difesa, giustizia) accanto a fattori ideologici (la monarchia venne progressivamente ritenuta sacra). È importante comprendere che le monarchie - in primo luogo la francese e l’inglese - non si affermarono, almeno sino al XV-XVI secolo, combattendo il particolarismo feudale, ma piuttosto assumendo un ruolo di coordinamento, di garanzia e di tutela e utilizzando il vassallaggio come strumento di controllo e 8 di legame fra il sovrano e i poteri feudali. Per questi motivi si parla, per l’età medievale, di monarchia feudale. Vennero comunque edificandosi le prime istituzioni del potere monarchico (cioè di un potere che ambiva a porsi come centrale) ed elaborandosi i primi strumenti giuridicocostituzionali: l’esempio più famoso in proposito è la Magna Charta libertatum (“Grande carta delle libertà”), un documento che stabiliva una serie di “libertà” e di garanzie per gli uomini liberi d’Inghilterra, in particolare il diritto per i grandi del regno di valutare le richieste fiscali del sovrano. La Chiesa di fronte alla nuova realtà La crescita economica duecentesca (che modificò valori e stili di vita), lo sviluppo delle città, l’affermazione di nuovi soggetti politici, quali le monarchie e i comuni, obbligarono anche la Chiesa a confrontarsi con nuove realtà e a rinnovarsi. La Chiesa del Duecento dimostrò grandi capacità di reazione e di adattamento, muovendosi su due binari: la rigida definizione dell’ortodossia, della dottrina professata dalla Chiesa come l’unica giusta e santa, accompagnata dalla più assoluta riaffermazione del primato di Roma; l’elaborazione di nuovi strumenti culturali, in grado di confrontarsi con una società in evoluzione.Fu il papa Innocenzo III (1198-1216) ad affermare nel modo più netto, all’inizio del Duecento, il programma teocratico: il potere politico, come ogni potere, viene da Dio, dunque i sovrani devono sottomettersi al papa, rappresentante di Dio in terra. Si trattava di una ripresa del progetto di Gregorio VII, e anche in questo caso (com’era accaduto con la lotta delle investiture) esso sfociò in un conflitto aperto con il potere imperiale di Federico II. Lotta alle eresie… La volontà di Innocenzo III di riaffermare la piena autorità del pontefice non era però rivolta solo all’esterno della Chiesa: si trattava anche di fronteggiare i fermenti che attraversavano il corpo della cristianità, in primo luogo i movimenti ereticali, che talora non si limitavano a reclamare il ritorno alla purezza del cristianesimo delle origini, ma mettevano in discussione i riti, i sacramenti, l’autorità stessa della Chiesa, e su tali basi spiegavano il Vangelo al popolo. Per combattere le eresie la Chiesa organizzò un sistema repressivo che trovò il suo strumento principale nel Tribunale dell’inquisizione, fondato nel 1231. Contro i catari (i “puri”, chiamati anche “albigesi” da Albi, città della Provenza da cui si irradiò l’eresia) Innocenzo III promosse una vera e propria crociata (1208), chiamando i principi francesi alla sanguinosa repressione degli eretici. … e ordini mendicanti Non furono queste, però, le uniche forme di reazione ai nuovi fermenti della società urbana; dal corpo stesso della Chiesa scaturirono nuove forze, in primo luogo gli ordini mendicanti. Nel 1216 nacque l’ordine domenicano, fondato da Domenico di Guzman (1170-1228); l’ordine francescano, fondato da Francesco d’Assisi (1182-1228), fu ufficialmente riconosciuto nel 1223. Espressione della tensione spirituale che attraversava la cristianità nel Duecento, francescani e domenicani si proponevano il comune obiettivo di combattere l’eresia con le sue stesse armi, la predicazione e l’esempio della povertà. Essi svolsero un ruolo di grande importanza nella vita cittadina: furono il mezzo con il quale la Chiesa seppe confrontarsi con la nuova realtà della cultura urbana, i suoi problemi e i suoi protagonisti: non solo gli eretici, ma anche gli studenti, i maestri, i borghesi, le Università. Crociate ed espansione dell’Europa La straordinaria presenza e influenza della Chiesa nel mondo medievale è testimoniata anche dal complesso fenomeno delle crociate (i “pellegrinaggi armati” promossi per strappare agli arabi il controllo della Terra Santa) che attraversò il XII e il XIII secolo. Alla base di questa ondata di spedizioni stavano certamente diversi fattori: la volontà di rendere sicuri luoghi come Gerusalemme e Santiago de Compostela, che erano meta tradizionale di pellegrinaggi; l’intensa religiosità popolare medievale, esaltata dalla prospettiva di una “guerra santa” contro gli infedeli; l’irrequietezza e la fame di conquista della nobiltà, specialmente quella sprovvista di feudo; la volontà del papato di affermarsi come guida della cristianità e difensore della pace, offrendo uno sfogo alla turbolenta ca- 9 valleria medievale. Certamente le crociate vanno inquadrate all’interno della forte tendenza all’espansione che caratterizzò il mondo occidentale dopo il Mille: espansione demografica, economica e commerciale, oltre che territoriale. Nello stesso periodo le frontiere della cristianità si ampliavano anche verso nord-est, con la colonizzazione di ampie zone dell’Europa orientale a opera di feudatari tedeschi, contadini e missionari. 10 Il tramonto del Medioevo La crisi del Trecento Gli storici considerano il Trecento un momento di crisi profonda e di rottura degli equilibri raggiunti dall’Occidente medievale nel corso del secolo precedente. La cosiddetta “crisi del Trecento” è un punto di svolta: da qui inizia quella fase di declino o “autunno” del Medioevo (cioè dei caratteri specifici della vita, della cultura e della società medievali) nella quale presero forma i tratti salienti del mondo moderno. Il XIV secolo fu dunque un periodo di decadenza ma anche un’epoca di transizione, in cui la società medievale mostrò di aver raggiunto i suoi limiti e si prepararono nuove forme di vita sociale. Due furono i piani sui quali il fenomeno si manifestò con più forza: quello economico, con il brusco arresto del ciclo di espansione economica e demografica iniziato nell’XI secolo e con la grande epidemia di peste di metà Trecento, che rivelarono come si fosse rotto l’equilibrio fra popolazione e risorse che aveva alimentato la crescita; quello ideologico-politico, con la crisi delle ambizioni universalistiche dei due grandi poteri medievali, l’impero e il papato. La fine dell’universalismo politico e religioso Per quanto riguarda l’impero, esso si trovava, già dalla metà del XIII secolo, in una fase di grande debolezza: ormai quasi del tutto nominale, l’autorità imperiale non poteva imporsi né sui principi e sui grandi feudatari, né sulle fiorenti città commerciali della Germania dei Nord. L’impero rinunciò dunque di fatto alle sue pretese di dominio universale, allentando il suo legame con l’Italia e con il papato (nel 1338 la conferma papale dell’elezione imperiale venne giudicata non necessaria) e avviandosi a costituire un organismo politico essenzialmente tedesco. Il papato, dal canto suo, che pure celebrò con il grande giubileo voluto da Bonifacio VIII (1294-1303) nel 1300 un momento di apparente potenza temporale e spirituale, rivelò la sua crisi profonda quando il re di Francia Filippo il Bello pretese di sottomettere anche i vescovi francesi al fisco della corona. Ne seguì il duro periodo avignonese (1309-1377), che vide la Chiesa subordinata alla politica dei sovrani francesi e preda di corruzione e di perdita di spiritualità. Scismi ed eresie Ripresero allora vigore fermenti e movimenti che mettevano in discussione non soltanto il malcostume ecclesiastico, ma anche alcuni dogmi e l’autorità stessa del pontefice, come quelli capeggiati in Boemia da Giovanni Hus e in Inghilterra da John Wycliffe, un teologo che predicava la necessità di un ritorno della Chiesa alla povertà evangelica e nello stesso tempo negava l’autorità del pontefice e della gerarchia ecclesiastica, oltre che la validità di alcuni sacramenti come la confessione. Ma il momento più grave della crisi che la Chiesa attraversò nel XIV secolo si ebbe con il Grande scisma, che divise la cristianità dal 1378 al 1409, con la presenza di due papi, uno italiano e uno francese. Le Chiese nazionali, i sovrani, i principi si schierarono con l’uno o con l’altro secondo convenienze puramente politiche, senza che lo scisma avesse alcun senso religioso o spirituale, Il papato sembrava ridotto a puro e semplice strumento per contese politiche. Solo alla metà del Quattrocento lo scisma fu ricomposto: ma le esigenze di riforma rimasero insoddisfatte e nuovi problemi e lacerazioni, insieme a nuove strade, si aprirono nel mondo cristiano. 11