Gli OGM
Renato D’Ovidio e Emilio Mendoza
Gli Organismi Geneticamente Modificati (OGM) sono organismi viventi (animali, piante o microorganismi) il
cui patrimonio genetico è stato modificato artificialmente utilizzando le tecniche dell’ingegneria genetica.
Facendo particolare riferimento agli OGM vegetali, quindi Piante Geneticamente Modificate (PGM), uno o più
geni presi da altri organismi, anche filogeneticamente lontani, sono introdotti nel genoma della pianta che si
vuole modificare. Questa modificazione si realizza allo scopo di ottenere un miglioramento nelle caratteristiche
della pianta per renderla più utile all’uomo. Da ciò ne consegue che le PGM non sono altro che il risultato
dell’applicazione delle attuali conoscenze nel settore del Miglioramento genetico delle piante.
Prima di fornire alcuni cenni sulle metodologie, risultati e risvolti concernenti le PGM, riteniamo
opportuno fornire alcuni informazioni di carattere generale sulle Biotecnologie.
Nel senso più ampio possibile, con il termine Biotecnologia si intende qualsiasi processo produttivo che
preveda l’utilizzo di agenti biologici, cellule o parti di essi. Le Biotecnologie attuali rappresentano il settore
applicativo della biologia ed in essa confluiscono numerose discipline tra cui la microbiologia, la biologia
molecolare, la chimica, la biochimica, la genetica, l’immunologia, la biologia cellulare, la fisiologia vegetale e
le discipline che si occupano delle tecnologie dei bioprocessi.
Cenni Storici
Sulla base della definizione sopraddetta, risulta chiaro che le biotecnologie hanno origini molto antiche:
gli antichi egizi, ad esempio, pur senza conoscere l’esistenza dei microrganismi, effettuavano la fermentazione
sui cereali per produrre birra e pane. Nel settore più strettamente agricolo, l’uomo modifica le piante coltivate
da almeno 10.000 anni al fine di renderle sempre più adatte alle proprie esigenze. Le specie coltivate nel sistema
agricolo sono infatti il risultato, inizialmente inconsapevole, della selezione empirica operata dall’uomo su
genotipi di specie selvatiche, ovvero su varianti o mutanti naturali, che mostravano un migliore adattamento
alle condizioni di coltivazione e raccolta o possedevano migliori caratteristiche alimentari (es. organolettiche e
di digeribilità). L’acquisizione della consapevolezza da parte dell’uomo di interferire con il processo di
selezione naturale ha determinato la selezione di tutta una serie di genotipi naturali che presentavano delle
caratteristiche utili per l’uomo, dando inizio al processo di domesticazione delle piante, riguardanti sia il ciclo di
sviluppo della pianta che le caratteristiche dei semi e frutti. In questo processo, la selezione intenzionale
(selezione artificiale) operata dall’uomo ha indirizzato e accelerato il processo evolutivo che ha portato nel
corso del tempo a profonde differenze fra le piante coltivate e i loro progenitori (Figura 1).
Figura 1. Un chiaro esempio dell’azione delle selezione (con metodologie classiche) operata dall’uomo sulle
piante selvatiche. Frumento selvatico (a sinistra) e frumento coltivato (a destra).
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Dopo una lunga fase in cui l’uomo ha operato come semplice selezionatore della variabilità naturale,
intorno al XVII-XVIII secolo, l’interesse per la conoscenza dei meccanismi di riproduzione delle piante
condusse le ricerche verso la produzione controllata di ibridi, anche inter-specifici. Queste ricerche di base
trovarono un forte impulso applicativo nel settore agrario del miglioramento genetico delle varietà coltivate
dopo la riscoperta dei risultati di Mendel sulla teoria dell’ereditarietà. La continua richiesta di variabilità
genetica su cui operare la selezione di caratteri utili portò gli ibridatori del XVIII-XX secolo a produrre tutta
una serie di incroci intra- ed inter-specifici, forzando artificialmente, in quest’ultimo caso, il sistema genetico
che presiede all’integrità della ‘specie’.
La produzione di genotipi con caratteristiche desiderate dall’uomo ha avuto un ulteriore forte impulso
con la scoperta nel 1953 da parte di James Watson e Francis Crick della struttura a doppia elica del DNA, la
molecola dell’eredità. Sulla base di queste conoscenze si sono concentrati gli sforzi a livello del DNA
sviluppando metodologie in grado di alterare più o meno drasticamente la ‘naturale’ organizzazione del genoma
delle specie nell’intento di produrre delle variazioni genomiche la cui manifestazione fenotipica risultasse utile
ai fini conoscitivi e/o applicativi. La mutagenesi, sia chimica che fisica, rappresenta forse la metodologia più
‘drastica’ usata per alterare l’organizzazione del genoma, in quanto completamente empirica e capace di causare
mutazioni multipli e casuali. L’applicazione di queste metodologie determinò un radicale cambiamento nel
settore del Miglioramento genetico, fin dagli anni ‘50-‘60, dove la continua ricerca di nuova variabilità da cui
selezionare caratteri utili favorì notevolmente l’applicazione delle tecniche di mutagenesi. Da semplice
selezionatore e successivamente ‘combinatore’ della variabilità naturale, l’uomo diventa ‘creatore’ di nuova
variabilità su cui operare per la selezione di caratteri utili. Circa 2000 varietà coltivate sono state ottenute con
questa metodologia (http://www.agbios.com/dbase.php?action=Synopsis). La creazione di variabilità combinata
con efficienti sistemi di selezione ha portato allo sviluppo di colture di alto rendimento che insieme a un
allevamento intensivo hanno contribuito all’enorme crescita della produttività agricola conosciuta come
rivoluzione verde, registrata principalmente nei Paesi in via di sviluppo tra gli anni ‘60 e ‘80.
Simultaneamente al periodo della rivoluzione verde, si aprì un decennio molto importante per la biologia
molecolare in cui si riuscirono a comprendere i processi base e le molecole coinvolte nella replicazione ed
espressione genetica, che poi diedero impulso allo sviluppo delle tecniche del DNA ricombinante.e quindi alla
Biotecnologia moderna. In questo periodo, le conoscenze, soprattutto sui fitormoni, portarono allo sviluppo di
metodologie di Miglioramento genetico che utilizzano colture cellulari o di tessuti, comprendenti la
micropropagazione, la variazione somaclonale, le colture aploidi, l’ibridazione somatica. La combinazione di
queste conoscenze con quelle del DNA ricombinante consentirono lo sviluppo delle metodologie di
trasformazione genetica, ovvero il trasferimento di informazione genetica da un organismo ad un altro senza
necessità di fecondazione. L’inserzione di un gene ben caratterizzato in cellule vegetali e la successiva
rigenerazione di piante fertili con un transgene integrato nel suo genoma permise l’ottenimento delle prime
piante trasgeniche.
Dal 1996 ad oggi si è avuto un progressivo aumento di piante GM sia nei Paesi industrializzati che in
quelli in via di sviluppo e che esso è dovuto principalmente alla coltivazione di piante GM di soia, mais, colza e
cotone (Figura 2). Da sole infatti queste piante coprono quasi il 100% delle piante GM attualmente coltivate,
mentre la minima parte restante è rappresentata da altre 8 specie coltivate (patata, zucchine, papaya, pomodoro,
barbabietola, riso, lino e radicchio) alcune delle quali ritirate dal commercio principalmente per le
preoccupazioni delle ditte produttrici e dei coltivatori relative alla loro commercializzazione. Alcuni prodotti
GM sono stati legalmente autorizzati sul mercato europeo e comprendono 12 varietà di mais, 6 di colza, 5 di
cotone e una di soia. Questi prodotti sono soggetti alle norme di etichettatura e tracciabilità cui sono sottoposti
tutti i prodotti GM dall’entrata in vigore della nuova normativa UE (normativa N. 1829/2003 della
Commissione europea).
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AREA GLOBALE DELLE COLTURE TRANSGENICHE
Milioni di ettari (dal 1996 al 2011
Totale
29 Paesi con colture transgeniche
Paesi industrializzati
Paesi in via di sviluppo
Incremento dell’8%, 12 milioni di ettari tra il 2010 e il 2011
Figura 2. Andamento globale nel tempo delle colture transgeniche utilizzate nei diversi Paesi.
Come si ottiene una pianta geneticamente modificata
Per l’ottenimento delle PGM si devono seguire diversi passaggi di preparazione utilizzando le tecniche
del DNA ricombinante. Questi passaggi consentono di ottenere un costrutto genico composto, oltre che dal gene
di interesse, da un promotore e un terminatore per la sua corretta espressione nei tessuti trasformati. Lo stesso
costrutto genico o in un altro con le stesse caratteristiche, deve contenere un gene il cui prodotto consenta la
selezione delle cellule trasformate (gene marcatore; ad esempio un gene che codifica per una proteina che
conferisce la resistenza ad un antibiotico - molto utilizzato quello per la resistenza alla canamicina. Un altro
gene marcatore molto utilizzato è quello che codifica per una proteina che conferisce resistenza ad un erbicida
– molto utilizzato il gene bar che codifica per la fosfinotricina acetil transferasi (PAT) che conferisce resistenza
all’erbicida Bastar). A questo punto il gene di interesse è pronto per essere trasferito nel genoma del tessuto o
cellula ricevente, mediante uno dei procedimenti di trasformazione genetica.
Le tecniche di transformazione genetica delle piante si basano su un prerequisito molto importante che è
quello di avere la possibilità di rigenerare un individuo completo a partire da una cellula o un tessuto coltivati in
vitro. Tuttavia, ogni specie o tessuto risponde in modo diverso ed è, quindi, necessario la messa a punto di
protocolli specifici per la rigenerazione della pianta intera. Diverse procedure consentono l’integrazione di
DNA esogeno nelle cellule vegetali, tuttavia solo due di questi sono i più diffusi: il metodo cosiddetto
biologico, che utilizza i batteri del genere Agrobacterium come vettori ed il metodo fisico o biolistico (Figura
3).
Il metodo biologico
La tecnologia mediata da Agrobacterium utilizza come vettore un microorganismo presente
comunemente nel suolo, l’Agrobacterium tumefaciens. Per sopravvivere in natura, questo batterio sfrutta le
piante nelle quali si insedia, modificandone il genoma delle cellule infette trasformandole in cellule tumorali
dalle quali ricava nutrienti. L’Agrobacterium possiede un solo cromosoma e normalmente dà alloggio anche ad
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un frammento di DNA circolare chiamato plasmide Ti (dall’inglese Tumour inducing), il quale è il responsabile
diretto della trasformazione delle cellule sane in cellule tumorali. Al momento dell’infezione, il batterio aderisce
alla cellula vegetale introducendo un frammento del plasmide Ti. Questo frammento, denominato T-DNA
(DNA di trasferimento) si accoppia perfettamente al DNA delle cellule infettate diventando, da quel momento,
parte integrante del loro patrimonio genetico. L’informazione genetica contenuta nel T-DNA consente un
dedifferenziamento delle cellule vegetali e la loro proliferazione (in quanto contiene i geni per i fitormoni,
auxina e citochinina), nonché la produzione di particolari sostanze, le opine, utilizzate dal patogeno come fonte
selettiva di nutrimento.
L’ingegneria genetica sfrutta questo processo naturale per trasferire uno o più geni alla pianta a cui si
desidera conferire una certa caratteristica. Essenzialmente è stato scoperto che l’unica parte del T-DNA
indispensabile per il suo trasferimento alla cellula vegetale, è rappresentato da delle brevi sequenze di DNA
(circa 25 basi) poste alle sue estremità. . Sulla base di questa conoscenza, il sistema è stato sfruttato rimuovendo
tutti i geni contenuti nel T-DNA, lasciando essenzialmente le estremità destra e sinistra all’interno delle quali
vengono inserite le sequenze geniche che controllano il carattere che si desidera conferire alla pianta. La
procedura classica di trasformazione genetica tramite Agrobacterium è semplice. Si prelevano dei frammenti di
tessuto vegetale (es. dischi fogliari) e si infettano con i batteri ingegnerizzati contenenti il frammento di DNA di
interesse. Durante il contatto con le cellule, i batteri trasferiscono il DNA ricombinante costituito dalle
terminazioni del T-DNA, il promotore, terminatore e il gene o geni di interesse che si desiderano trasferire.
Dopo alcune ore di co-coltivazione, il batterio si elimina utilizzando degli antibiotici (es. ampicillina) che non
danneggiano le cellule vegetali. Anche se l’efficienza di Agrobacterium è relativamente alta, non tutto il tessuto
vegetale sottoposto a trasformazione verrà effettivamente trasformato. Per ovviare a questa limitazione,
insieme al gene di interesse viene trasferito anche un cosidetto gene marcatore, il cui prodotto conferisce alle
cellule vegetali riceventi una qualche caratteristica selezionabile. Classicamente sono stati utilizzati geni i cui
prodotti conferiscono resistenza agli antibiotici o agli erbicidi. Grazie a questo accorgimento, ponendo il tessuto
sottoposto a trasformazione in un terreno di coltura contenente l’agente selezionante (es. l’antibiotico
canamicina), si consentirà la crescita soltanto dei germogli che hanno acquisito il gene marcatore, ed il gene di
interesse ad esso associato nel costrutto genico, mentre gli altri muoino in presenza dell’antibiotico.
Nelle prime PGM sviluppate, questi geni marcatori rimanevano per sempre nel DNA della pianta ma, con i
continui progressi della tecnologia, oggi è possibile eliminarli al termine del processo di selezione.
L’integrazione del T-DNA è un processo relativamente preciso ed il segmento di DNA trasferito si inserisce
intatto nel genoma della pianta. Tuttavia, talvolta il segmento di DNA trasferito subisce dei riarrangiameti che
determinano la mancata esoressione del transgene.
I caratteri introdotti nelle piante con questa tecnica hanno mostrato di essere stabili nel corso delle generazioni e
ciò rappresenta una caratteristica molto importante per la commercializzazione delle piante transgeniche.
Il metodo fisico o biolistico
Il metodo di trasformazione biolistico è l’alternativa al sistema dell’Agrobacterium per molte specie
vegetali, soprattutto per le monocotiledoni che presentano una bassa suscettibilità all’infezione del batterio. Con
questo metodo è anche possibile inserire DNA esogeni all’interno degli organelli cellulare come i cloroplasti
(transplantomica). Il metodo biolistico prevede l’introduzione di DNA esogeno direttamente nel genoma della
cellule vegetali, utilizzando come vettore di trasporto delle particelle di metallo inerte come l’oro e il tungsteno.
Queste particelle, che hanno un diametro approssimativo di 0,4 - 2 μm, vengono ricoperte con il costrutto
genico contenente il gene di interesse, corredato di promotore e terminatore. L’adesione del costrutto genico
sulle particelle avviene grazie ad una procedura che favorisce la precipitazione del DNA sulle particelle stesse.
Le particelle così rivestite vengono letteralmente sparate sul tessuto vegetale, ad una velocità che può
raggiungere i 400 m/s. La velocità impressa alle particelle è tale da consentirne il passaggio attraverso la parete
cellulare e raggiungere il nucleo. Molte delle cellule colpite perdono di vitalità, mentre altre subiscono
l’ingresso delle particelle senza essere danneggiate. Tra queste ultime, alcune incorporeranno il DNA esogeno
nel loro genoma, risultando così trasformate con il transgene utilizzato. Il mezzo di propulsione delle particelle
è un dispositivo speciale che consente l’instaurarsi di una elevata pressione, tramite l’utilizzo di un gas inerte
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come l’elio, che in seguito ad un suo repentino rilascio imprime una notevole velocità ai microproiettili che
vengono cosi veicolati sul tessuto vegetale da trasformare.
I tessuti utilizzati in questa procedura possono essere pezzi di foglia, cotiledoni, calli, embrioni immaturi, in
alcuni casi persino polline. Come nella pocedura che utilizza Agrobacterium, anche nel metodo biolistico si
utlilizza un gene marcatore, per la resistenza agli antibiotici o agli erbicidi, che consente la selezione delle
cellule trasformate. Nonostante questa tecnica sia stata perfezionata nel tempo, presenta diversi svantaggi tra
cui,l’integrazione di molte copie del transgene che può anche provocare il silenziamento genico, ma soprattutto
la sua bassa efficienza,. Uno dei vantaggi che invece offre questo metodo, è la possibilità di evitare
completamente l’uso di DNA esogeno per veicolare il transgene (come ad esempio il bordo destro e sinistro nel
sistema Agrobacterium) che è alla base della produzione delle piante cis-geniche (vedi oltre).
•Metodo Biologico
•Metodo Fisico
Figura 3. Metodi per la trasformazione genetica delle piante.
La finalità dell’uso delle Piante Geneticamente Modificate (PGM)
Il principio delle biotecnologie moderne nell’agricoltura consiste nel cercare di non adattare l’ambiente
alle piante, come si fa attualmente, ma adattare le piante all’ambiente. Con questo proposito lavora la ricerca
genetica che ha come primo traguardo la riduzione dell’uso di ‘correttori dei difetti ambientali’. L’ottenimento
di risultati in questa direzione è già cominciato da qualche anno con la diffusione commerciale di diverse
colture transgeniche, come ad esempio il mais Bt o la soia Roundup ready, resistenti all’erbicida glifosato.
Queste piante, anche conosciute come piante GM di prima generazione, sono le più diffuse al momento. In
questo caso, il coltivatore è stato il primo beneficiario della loro introduzione, dal momento che l’utilizzo di
queste piante ha permesso la riduzione dei costi di produzione, grazie alla diminuzione dell’uso di erbicidi e
pesticidi ed alla semplificazione del lavoro di controllo della coltura. In futuro non solo si otterranno altre piante
resistenti a fattori biotici (insetti, funghi, nematodi, virus, ecc.), ma anche tolleranti a molte avversità abiotiche
come siccità, gelate, eccesso d’acqua, salinità o metalli pesanti presenti nel suolo, ecc. Si potranno avere piante
in grado di fissare l’azoto atmosferico sfruttando associazioni simbiotiche, oppure più efficienti nel processo
fotosintetico. Con queste piante si potranno utilizzare nuovi terreni di coltivazione, con lo sfruttamento delle
zone aride e di ambienti marginati; si potranno valorizzare piante che adesso non hanno alcun valore
agronomico e di moltissime altre piante non ancora destinate all’uso alimentare.
Mentre le piante GM di prima generazione sono una chiara realtà produttiva, con le piante GM di
seconda generazione si pretende di migliorare la composizione del prodotto o il suo valore nutritivo cercando di
aumentare il loro contenuto in vitamine, favorire le eventuali proprietà medicinali, eliminare gli allergeni
naturali, modificare il contenuto o il tipo di proteine e acidi grassi, migliorare le caratteristiche organolettiche
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(colore, sapore, tessitura), ecc. Caratteristiche che offriranno dei vantaggi direttamente al consumatore. Alcune
di queste piante sono già in commercio o in via di commercializzazione, come ad esempio i pomodori a
maturazione controllata, il riso dorato, arricchito con precursori della vitamina A, grano con maggior contenuto
in fibra, patate con più amido, ecc.
Mentre la ricerca attuale si sta orientando verso la seconda generazione di PGM, le piante GM di terza
generazione stanno diventando una concreta opportunità. Si tratta di piante che saranno in grado di produrre
composti ad alto valore aggiunto da utilizzarsi nell’industria chimica o farmaceutica. Diventeranno biofabbriche per la produzione di sostanze di interesse medico ed industriale approffitando del minore costo e della
maggiore resa che esse presentano, rispetto agli attuali sistemi produttivi. Uno dei primi obiettivi sarà la
produzione di medicinali, come ad esempio, insulina, vaccini, vitamine, anticorpi, ecc. Dato l’ampio spettro di
applicazioni potenziali che queste piante offrono, è possibile anche un loro intenso sfruttamento per la
produzione di prodotti di interesse industriale, come ad esempio la produzione di enzimi per essere usati nei
detersivi, nei prodotti industriali (esempio la patata Amflora che contiene amido composto solo da amilopectina,
l’altro componente, l’amilosio, è assente) o nella produzione di alimenti. Altri eventuali prodotti industriali
derivati da tessuti vegetali includono le proteine strutturali come l’elastina e il collageno, plastiche
biodegradabili, che potrebbero essere un’alternativa alla produzione di polimeri derivati dal petrolio, tossine
contro parassiti delle piante, zuccheri alternativi (trealosio), ecc. Di particolare interesse risultano le colture
trasgeniche con caratteristiche che faciliteranno la produzione di bio-energia, come ad esmpio una particolare
composizione o proprietà della parete cellulare. Esiste la possibilità che le PGM di terza generazione possano
intervenire anche sulle patologie della nostra società moderna, proponendo sul mercato, oltre che prodotti
nutrizionali, anche alimenti dietetici e più bilanciati.
Recentemente è stata proposta una nuova tecnica di breeding come alternativa alla lenta e lunga
procedura del breeding tradizionale: la cisgenesi. Questa tecnica utilizza la tecnologia della trasformazione
genetica ma dovrebbe suscitare minori critiche nell’opinione pubblica. La cisgenesi è una via di mezzo tra il
breeding tradizionale e la transgenesi eliminando gli svantaggi dell’uno e le critiche dell’altra. Infatti, alla base
della produzione delle piante cisgeniche vi è l’utilizzo esclusivo di geni proveniente da specie sessualmente
compatibili. Questà peculiarità dovrebbe consentire di sfruttare al meglio le tecniche di trasformazione genetica,
per velocizzare i tempi per il trasferimento di nuovi caratteri, piuttosto lunghi nel breeding classico, senza però
incorrere nelle critiche, essenzialmente di natura ambientalista, che esse suscitano quando utilizzate per
produrre le piante transgeniche. In quest’ultima procedura, infatti, i geni potendo provenire da qualsiasi
organismo (batteri, virus, animali, ecc.), data la natura comune della molecola del DNA, crea delle critiche per
il mancato rispetto delle barriere naturali di specie. Le piante cisgeniche, pur essendo prodotte con le
metodologie della trasformazione genetica, rispettano la barriera naturale di specie e quindi sono assimilabili
alle piante prodotte per incrocio nell’ambito delle procedure classiche di miglioramento genetico.
Per quanto specificato, le piante cisgeniche non dovrebbero essere considerate nel gruppo delle piante GM e i
prodotti alimentari derivati da esse non dovrebbero essere etichettati come GM visto che non presentano i
potenziali rischi di salute ed ambientali che vengono associati alla coltivazione di piante GM. Su questa base,
recentemente è stata proposta la modificazione della direttiva 2001/18/CE affinchè le piante cisgeniche siano
anche escluse dalla normativa che riguarda gli OGM e siano regolamentate come quelle prodotte dal breeding
tradizionale. Visto l’elevato potenziale che la cisgenesi offre per sveltire i processi di miglioramento delle
piante, questa decisione aumenterebbe enormemente le prospettive economiche ed ambientali dell’agricoltura.
Problemi connessi all’uso delle PGM
Le Biotecnologie molecolari sono state applicate anche nel settore agrario dove hanno prodotto notevoli
benefici nel settore diagnostico molecolare, come, ad esempio, nella selezione assistita mediante marcatori
molecolari (Marked Assisted Selection, MAS), ma anche enormi contrasti, quando queste tecnologie sono state
utilizzate, insieme alle metodologie delle colture in vitro di cellule e tessuti vegetali, per produrre PGM. Questi
contrasti non riguardano quindi tutte le biotecnologie molecolari, ma sono limitati all’uso delle PGM e nascono
principalmente dal fatto che queste, a differenza dei microrganismi geneticamente modificati, prodotti e
utilizzati nel sistema industriale, crescono in un ambiente non confinato e quindi a contatto con tutti gli altri
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elementi che caratterizzano il sistema agrario. Infatti, limitando le considerazioni sul piano scientifico, ed
escludendo quelle etiche e socio-economiche, le critiche all’uso delle PGM nel sistema agrario sono
essenzialmente di due tipi: ambientale e per la salute dell’uomo.
La critica relativa alla salute umana è stata ampiamente vagliata, senza tuttavia riscontrare alcuna
differenza tra le PGM e le varietà di piante sviluppate con le tecniche classiche. Ciò ha contribuito a sviluppare
il concetto di ‘sostanzialmente equivalente’, che consiste nel fatto che, se le PGM superano i controlli
predisposti per l’iscrizione al registro varietale, devono essere considerare sostanzialmente equivalenti alle
piante sviluppate per via classica e quindi, in alcuni Paesi, come gli Stati Uniti, i prodotti da esse derivati non
necessitano di etichettature. Anche in Europa questo concetto è essenzialmente accettato, tuttavia, per una scelta
più consapevole da parte del consumatore, si preferisce etichettare il prodotto derivato dalle PGM se questo
supera il limite dello 0,9% (Direttiva 49/2000/CE; Regolamento 1830/2003/CE)).
Per quanto riguarda la critica ambientale, essa è essenzialmente correlata alla capacità di questa tecnologia di
effettuare trasferimenti genici tra i più differenti organismi, animali compresi, in quanto necessita del solo DNA
come ‘mezzo di scambio’. Come conseguenza di ciò le PGM potrebbero trasferire il proprio transgene a
microrganismi del suolo o a specie di piante affini (fenomeno noto come “trasferimento genico orizzontale”).
Secondo i sostenitori di questa critica, questa capacità, peraltro non nuova in natura, costituisce un fatto di
grande rilievo perché possiede le potenzialità di ‘alterare’ o ‘accelerare’ l’evoluzione di una specie.
Per superare queste critiche i ricercatori stanno cercando di migliorare alcuni aspetti delle metodologie
di trasformazione genetica. Tra queste è importante ricordare la transplastomica (trasformazione genetica dei
cloroplasti) per evitare l’eventuale trasferimento genico orizzontale tramite il polline delle piante GM (i
cloroplasti vengono ereditati per via materna, per cui sono assenti nel polline), l’uso di procedure di selezione
delle piante GM prive di marcatori di selezione (in particolare quelli basati sulla resistenza ad antibiotici) ed
infine l’espressione del transgene limitatamente ai tessuti dove è necessario l’effetto del prodotto proteico da
essi codificato (es. espressione del transgene soltanto nelle radici per il controllo di un patogeno radicale).
L’apice di questo sforzo è culminato con lo sviluppo delle piante cisgeniche descritte precedentemente.
Infine, una critica che spesso viene associata all’uso delle PGM è l’incremento dell’industrializzazione
dell’agricoltura. E’ importante rimarcare che l’attuale sistema agrario, anche senza le piante GM, è basato quasi
esclusivamente sulle monocolture e prevede un uso massiccio di pesticidi, diserbanti ed irrigazione per
consentire le attuali elevate rese delle specie coltivate, anche in ambienti non vocati. Questo tipo di agricoltura
industrializzata si è sviluppato durante la rivoluzione verde negli anni 1950-1970 ed è noto che esso ha
contribuito fortemente alla degradazione dell’ambiente. Il miglioramento genetico tramite le biotecnologie ha le
potenzialità per offrire delle possibili soluzioni agli attuali problemi ambientali e quindi può essere utile
valutarne, anche caso per caso, la sua applicazione e i conseguenti risvolti. Soltanto cosi facendo potremmo
mettere a frutto le attuali conoscenze, cosi come è stato sempre fatto nel corso dell’evoluzione dell’uomo.
L’impegno degli addetti ai lavori nel settore agricolo dovrebbe quindi essere volto ad un ritorno verso
un’agricoltura sostenibile basata su un’attenta considerazione del sistema agricolo nella sua globalità e
adattamento alle specifiche condizioni ambientali utilizzando tutte le conoscenze disponibili per raggiungere
l’obiettivo di adattare le piante all’ambiente e non di adattare l’ambiente alle piante.
Alcuni indirizzi utili
http://www.isaaa.org
http://www.isprambiente.gov.it/site/it-it/Temi/Natura_e_Biodiversit%C3%A0/OGM/Normativa_UE/
http://ec.europa.eu/food/food/biotechnology/index_en.htm
http://www.efsa.europa.eu/it/topics/topic/gmo.htm
http://cera-gmc.org/index.php?action=gm_crop_database
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